Materie: | Appunti |
Categoria: | Letteratura Latina |
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Data: | 25.11.2009 |
Numero di pagine: | 95 |
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Testo
La dinastia Giulio – Claudia
Augusto non era più un primus inter pares; ormai ci si era già arresi che chi governava era uno solo. Nel “de vita Caesarum” di Svetonio si dice che il primo imperatore fosse Cesare; infatti fu Cesare a portare Roma l’impero, anche se il primo imperatore ufficiale fu Augusto. Comunque non c’è una data precisa che indichi il passaggio di Roma dalla repubblica all’impero. Alla sua morte, Augusto voleva lasciare una dinastia. Hanno una media di 5 matrimoni e divorzi a testa.
OTTAVIANO = LIVIA = CLAUDIO OTTAVIA = MARCO ANTONIO
↓ ↓ ↓ ↓
GIULIA TIBERIO DRUSO ANTONIA
↓ ↓ ↓
GIULIA = AGRIPPA GERMANICO CLAUDIO = MESSALINA
↓ ↓ ↓ ↓
AGRIPPA AGRIPPINA OTTAVIA BRITANNICO
POSTUMO MAIOR CALIGOLA AGRIPPINA = DOMIZIO ENOBARDO
MINOR
NERONE = POPPEA
Ottaviano vedeva come suo successore ideale Druso; peccato che morì. Alla sua morte Claudio non venne considerato: era intelligente, però zoppo, balbuziente e timido. Germanico era il contrario del fratello, era apprezzato da Ottaviano, però era troppo piccolo per regnare. Tiberio era l’unico maschio, ma non voleva regnare; era offeso perché il padre non lo considerava. Si sposò per conto suo con chi voleva, ma quando Augusto per forza dovette rivolgersi a lui, lo fece divorziare e gli fece sposare Giulia. Nel testamento Ottaviano cede il posto a Tiberio, ma impone a Tiberio di non lasciare il posto al nipote, ma al nipote di Druso (Germanico). Germanico sposa Agrippina (altro raro matrimonio felice). Agrippina lo seguiva in guerra, gli diede 8 figli, assolvendo tutti i compiti di una buona donna Romana. Caligola vuole dire sandaletto: era la mascotte dell’esercito del padre. Germanico però muore con Tiberio ancora vivo (dicono che Tiberio l’abbia fatto avvelenare). Alla morte di Tiberio rimane Caligola, che regna 3 anni ma poi muore in una congiura militare. A quel punto rimane solo Claudio, che è già stato sposato 5 volte; però c’era solo più lui e sale per forza al governo, dopo essere stato risposato un’altra volta con Messalina. Agrippina minor comincia a circuire Claudio finché non elimina Messalina e si sposa Claudio; fa sposare Ottavia a suo figlio Nerone. Nerone però comincia a ribellarsi alla madre, che lo voleva far salire al potere per controllare lei il governo. Relega Ottavia da qualche parte e si sposa Poppea definita da Giuseppe Flavio θεοσεβης, nome con cui i Greci indicavano gli ebrei. Nerone si suicida e gli succedono tre generali, Galba, Otone e Vitellio, che però non durano, allora arriva Vespasiano.
Più che Giulio – Claudia la dinastia è un incrocio di Claudi e Ottavi, la parte Claudia è maggiore, Giulia però viene ricordata lo stesso.
Gli imperatori vennero trattati male dalla storiografia, che era in mano all’aristocrazia che li vedeva come una minaccia.
Tiberio, poveretto, è stranamente odiato da Tacito; in realtà fu un eccellente organizzatore dell’impero. Ebbe la sfortuna di venire dopo Augusto, che era stato eccellente nel doppio gioco per non far sentire ai Romani il passaggio da repubblica a impero e aveva potuto basarsi sulla contrapposizione delle guerre civili con la nuova pace. I Romani ora vedevano la contrapposizione tra Augusto e Tiberio, che per di più era chiuso, incompreso, non aveva capacità di comunicazione. Il senato si sveglia e capisce che un singolo ha preso il potere. Tiberio si stufa e se ne va a Capri, che sembra una scelta folle perché era un’isoletta isolata lontana da Roma. Molla tutto a Seiano, prefetto del pretorio, che però aspirava al potere; quando capì che aria tirava a Roma, Tiberio tornò, fece fuori Seiano e chi congiurava contro di lui, poi tornò a Capri.
Alla sua morte rimanevano Claudio e Caligola: venne eletto Caligola. Un po’ suonato lo era. Aveva fatto diventare senatore il suo cavallo, questo per dire che i senatori valevano quanto un cavallo, per dimostrare il suo disprezzo nei confronti del senato. Ottaviano e Marco Antonio avevano proposto due possibilità di impero:
• Marco Antonio un potere di tipo orientale (distacco tra l’imperatore e tutti gli altri) che però non era tollerato a Roma.
• Ottaviano un potere di tipo occidentale (imperatore era un primus inter pares senza troppe pretese): era accettato perché l’imperatore in questo caso assommava tutte le mansioni della repubblica, era quindi una cosa conosciuta.
Tutti gli imperatori passati per pazzi avevano cercato di instaurare un tipo di governo alla Marco Antonio, al quale Roma non era ancora pronta. Ci riuscirà solo Diocleziano nel 295, che sposta verso est la capitale per tenere insieme l’impero, a Roma non potrà farsi adorare comunque. Caligola si era solo ispirato a Marco Antonio, venne bollato come pazzo. L’ultimo anno ha davvero dato segni di squilibrio, ma prima no.
Fatto fuori anche Caligola, rimaneva solo Claudio. Aveva difetti fisici, era un grande studioso, non gliene fregava niente di regnare. Timido e zoppo, la famiglia l’aveva fatto sposare tutte le volte che aveva bisogno di un’alleanza. Fu un validissimo imperatore, continua l’organizzazione cominciata da Tiberio, e soprattutto si rende conto dell’attrito fra senato e impero. Nei suoi provvedimenti finge sempre di consultare il senato. È andato a prendere i liberti per i “ministeri”, scelta furba perché:
- Erano di origine Greca, quindi colti
- Non avevano vincoli con l’aristocrazia da cui era disprezzato, quindi sarebbero stati leali con l’imperatore perché dovevano a lui il loro potere.
Fra tutti i matrimoni che gli fecero combinare il suo unico vero amore fu Messalina, che si era scelto lui, dalla quale ebbe diversi figli. Agrippa minor la aggirò per darle la fama di puttana, riuscì a convincere Claudio e a eliminarla, quindi a sposare Claudio (che era suo zio!). Agrippina aveva un programma: portare al potere Nerone sperando di comandare Roma attraverso lui. Era intelligente e sfruttò tutte le vie traverse possibili. Seneca era un senatore aristocratico in esilio; Agrippina lo fece richiamare a Roma per avere l’appoggio del senato che odiava Claudio. Si fa educare il figlio da Seneca. Seneca accetta per poter tornare e per cercare di controllare l’impero attraverso Nerone. Agrippina spera con l’appoggio del senato di far diventare Nerone imperatore per arrivare al potere; poi avrebbe eliminato Seneca. Claudio muore, probabilmente non l’ha ucciso lei comunque ne è ben felice perché così può realizzare i suoi piani.
Nerone diventa imperatore; Nerone finora si era fatto credere malleabile per arrivare al potere; ha l’appoggio del senato. Il gioco di Agrippina però comincia a diventare troppo scoperto: continua a minacciarlo di sostituirlo con Britannico, allora Nerone fa fuori Britannico. Agrippina trama contro il figlio di Nerone, e Nerone la elimina. Nerone ha ancora bisogno del senato: non allontana Seneca, che lo sostiene, ma cerca di controllarlo. Quando poi non gli serve più, Nerone lo elimina. Nerone mira ad un impero alla Marco Antonio; è un buon poeta e con lui rifiorisce la letteratura. Ai Romani però non piace l’estetismo. Nerone è convinto di essere un grande artista e pretende di partecipare alle gare di poesia mescolato agli altri: il senato lo odiava.
Letteratura sotto Tiberio, Caligola e Claudio
Sotto Tiberio, Caligola e Claudio, la letteratura non fu produttiva, mancavano so stimolo e le idee. Ormai c’era l’impero, che non dava stimoli né incoraggiamenti. I letterati in quel periodo furono pochi:
- Manilio: si occupa di astrologia
- Germanico: traduce un’opera di Arato, I Fenomeni.
Si cercano nelle stelle le sicurezze che mancano nella crisi dei valori.
Ci furono poi tre storici conformisti:
VELLEIO PATERCOLO: fece carriera nell’esercito sotto Tiberio, apprezzava le doti di Tiberio, era il suo idolo. Scrisse una pseudo-opera storica: “Ad Marcum Vinicium Libri Duo”: storia universale. Dopo Livio, si aprì l’epoca delle epitomi storiche: riassunti. Parlano di tutto, ma nulla è approfondito. Non c’erano errori, ma le fonti erano sconosciute. Mezzo libro è dedicato alla figura di Tiberio (dilatazione nell’avvicinarsi ai tempi contemporanei, ma questa dilatazione è un po’ esagerata). In un libro e mezzo scrive la storia mondiale: è una sorta di Bignami dell’epoca che dà le linee generali dei popoli. Non ci sono spiegazioni né critica. La figura di Tiberio è l’approdo di tutto; è però poco critico e non dice tutto di Tiberio. Non accetta la teoria biologica di Seneca il Vecchio, diffusa in quel periodo, secondo cui lo sviluppo dell’uomo è applicato allo sviluppo dello stato Romano: dopo infanzia e giovinezza, l’impero rappresenta la vecchiaia. Velleio dice invece che con l’impero Roma ha trovato una seconda giovinezza. Per quanto riguarda la letteratura, Augusto era al vertice, poi non si può che scendere: è un fattore fisico, ovvio. Però Tiberio ha lottato contro la sua decadenza, non è colpa sua ma un fatto materiale inevitabile.
VALERIO MASSIMO: scrisse “Factorum et Dictorum Memorabilium libri novem”. 9 è strano come numero, qualcuno dice che fossero 10 e uno sia stato perso e il titolo non sia quello originle. Non è un’opera storica, attinge ad opere storiche e non solo a quelle. È un’opera retorica, una raccolta di detti e fatti memorabili, passione per il mirabilium. Ci sono gli exempla citati dagli oratori per fare esempi. Sono raccolti per sezioni.
CURZIO RUFO: il titolo della sua opera è controverso; parla di Alessandro Magno. Era diffuso il mito di Alessandro, e il confronto fra i due imperi era inevitabile. La storia di Alessandro Magno che scrive Curzio Rufo è abbastanza veritiera; cita anche i mirabilia (passione dei Romani). “Plura scribo quam credo”: non ci credo comunque lo scrivo lo stesso. Rientra in una storia incredibile globalmente. Presenta Alessandro sotto due diverse facce: la magnanimità e l’incapacità di dominare l’ira. Qualcuno ha avanzato l’ipotesi che l’opera sia stata scritta sotto Caligola: l’ira era influenzata dal fatto che Caligola aveva deluso le speranze che fosse come il padre. I mirabilia rientrano nel genere delle storie fantastiche; il romanzo di Alessandro fu falsamente attribuito a Callistene. La figura di Alessandro che veniva proposta in quel periodo aveva un aspetto taumaturgico, magico. Iter: iter in paradisum. La sua storia diventa un viaggio in Paradiso, man mano che si va avanti la sua figura è sempre più santificata. Curzio Rufo non ne parla così, anzi ne sottolinea il caratteraccio.
Età di Nerone
Nerone aveva la mania estetizzante. Ha molti giovani attorno a lui; creano un’Iliade il cui eroe è Paride, il bello. Di tutta la produzione di Nerone abbiamo un verso e mezzo:
“COLLA CYTERICAE SPLENDET AGITATA COLUMBAE”
“ il collo della colomba di Venere splende agitandosi”
con il commento che dice che è perfetto stilisticamente; poi
“SUB TERRIS TOLUISSE…??
Figlio di Seneca il vecchio (quello che sostiene l’evoluzione biologica, autore di un’opera di retorica), Spagnolo di Cordova, aristocratico perfettamente integrato a Roma. Entrano nel cursus honorum fino a diventare senatori. Le antiche famiglie aristocratiche si estinsero con le guerre civili, così molti elementi aristocratici in senato sono provinciali. La madre di Seneca aveva una grande cultura filosofica, eccessiva per essere una donna; Seneca arriva anche alla scuola etica dei Sestii, una scuola di comportamento. Partecipa con entusiasmo a questa scuola che predicava una vita ascetica. Questa scuola fu chiusa da Tiberio perché i partecipanti venivano guardati con sospetto. Seneca fu mandato in Egitto da sua zia che era la moglie del governatore (la famiglia era evidentemente ben inserita a Roma). Dopo la morte di Tiberio, tornò a Roma dove cominciò la carriera da avvocato; attirò la gelosia di Caligola per la sua fama, anche perché fu l’amante di una sorella di Caligola: fu esiliato in Corsica. Sentendo il problema dell’esilio. Seneca scrisse tre CONSOLATIONES:
• AD MARCIAM, figlia di uno storico e filosofo fatto fuori perché oppositore dell’impero, perse un figlio giovane; fa l’elogio al padre.
• AD HELVIAM MATREM, esprime l’indifferenza: l’esilio per un sapiens è mutatio loci.
• AD POLIBIUM, scritta sotto l’impero di Claudio, quando Polibio era potente e aveva grande influenza sull’imperatore; gli era morto il fratello. elogia Claudio perché lo richiami a Roma.
Comunque torna solo fatto chiamare da Agrippina. Seneca sta accanto a Nerone fino al 62, quando si ritira. Tacito lo odia e dice che tutti lo criticano perché ha approfittato della situazione per arricchirsi: non è un moralista come predica. Non si sa quali opere abbia scritto prima e quali dopo il ritiro, salvo il “De Otium”, che scrive proprio quando si ritira. Nel 65 venne coinvolto nella congiura dei Pisoni, che male organizzata si fece scoprire: si vantavano di quello che stavano facendo. Denunciato, gli arriva l’ordine di uccidersi e lo fa.
Fra le sue opere:
• Alcuni dialoghi
• Gli viene attribuita una praetexta, OCTAVIA, che però non è sua perché parla della morte di Nerone che invece non ha visto perché è morto prima lui
• 9 tragedie, che rappresentano tutta la produzione tragica che ci è rimasta dei Romani. Fra queste è strana l’APOKOLOKUNTOSIS. Alla morte di Claudio, Nerone recita una laudatio funebris che aveva composto Seneca. Dato che in realtà a Seneca non stava tanto simpatico Claudio, che non l’aveva ascoltato quando gli aveva chiesto di tornare a Roma con “Ad Polibium”, poco dopo il funerale Seneca si vendica e scrive questa satira menippea (mescolanza di prosa e poesia). Dopo la sua morte Claudio sale all’Olimpo con tutti gli altri imperatori, ma là non ne vogliono sapere di accettarlo fra loro. Claudio vede il suo funerale sulla Terra e solo così si accorge di essere morto. Va nell’Ade e viene assegnato ad un liberto per fargli da stenografo. È di cattivo gusto perché prende in giro un morto, di cui oltretutto prima aveva fatto la laudatio, e poi è lo sfogo dell’aristocrazia perché Claudio aveva preferito affidare l’amministrazione del governo a dei liberti piuttosto che a loro. Il titolo è greco e sembra accostarsi alla parola “zucca”:
- potrebbe essere “trasformazione in zucca”: però di zucche non ce ne sono!!
- “apologia dello zuccone”: però non è detto che zuccone avesse lo stesso significato che intendiamo noi
- “apologia di uno zoppo”: prendendo un’altra radice; uno zoppo non può diventare un Dio perfetto.
Certamente quest’opera è sua.
Opere per Nerone
Illuso, spera di poter educare l’imperatore. Propone di trovare in se stesso il freno al potere; lo invita ad usare CLEMENTIA: atteggiamento amoroso nei confronti dei sudditi, come un pater verso i figli; va bene punire, però bisogna farlo per il bene del colpevole e del colpito. È una teoria utopistica perché non può essere applicata in tutti i casi; però è l’unico modo che ha di controllare l’imperatore che se no non ha limiti.
• DE BENEFICIIS: cominciavano ad affiorare i problemi per cui Nerva 30 anni dopo dovrà fare degli ospizi per i poveri: la povertà cresceva di pari passo con l’arricchimento dei più potenti. Non può imporre delle tasse, quindi invita le classi elitarie ad essere generose con chi è meno fortunato (come Cicerone nel de officiis); fa una casistica di come questa benevolenza vada applicata. Bisogna dare secondo i meriti a chi è stato colpito da sfortuna, ma non dare più di quanto il proprio patrimonio sopporti. Invita a superare le differenze economiche grazie alla generosità. Anche questo è utopistico.
• DE IRA: esprime la necessità di evitare l’ira. Seneca polemizza con Aristotele, che diceva che l’ira può diventare virtù se razionalmente guidata, l’impulso dell’ira affidato alla ragione la rende positiva. Seneca dice una cosa diversa: secondo lui l’ira è sempre negativa, è la negazione della ragione, quando c’è ira non c’è ragione, e porta ad errori grandi perché è irrazionale, incontrollata, incontrollabile. Propone una casistica su come evitare l’ira. Sembra che l’opera risenta di Caligola.
• DE VITA BEATA: poteva fare a meno di scriverla! Seneca era già ricco, era consigliere dell’imperatore. In quest’opera ci parla di arricchimento, in altre parla di relazioni con donne, sono contraddittorie con il fatto che seguiva la filosofia stoica, secondo cui avrebbe dovuto essere indifferente a tutto! Invece si preoccupa di arricchimento. Sostiene che NEMO SAPIENTIAM PAUPERTATEM DAMNAVIT: nessuno ha condannato la saggezza alla povertà, il ricco non è in contrasto con la sapienza. Poi diventa ancora più ridicolo: dice che un sapiens povero ha una sola virtus, la moderazione: la povertà permette l’esercitazione di una vitrus limitata; se invece uno è ricco, sta a lui vivere moderatamente come se fosse povero; inoltre con la ricchezza si possono esercitare anche tante altre virtutes, come la generosità ecc. (prevede più virtutes). In conclusione è meglio che la ricchezza stia con un sapiens che la usa sapendo che è data dalla fortuna e magari domani non ci sarà più; un non-sapiens invece non lo sa e si fa trascinare dalla ricchezza, ne fa uno scopo della propria vita e si dispera se viene meno. Chiude l’opera dicendo di non aver mai sostenuto di essere un sapiens! Dal punto di vista logico l’opera è perfetta e coerente, un po’ sofistica. Però è un’opera di autodifesa: non ammette le proprie contraddizioni, e poteva almeno risparmiarsi la seconda parte! La prima è un elogio della ricchezza che permette di usare meglio la sapienza: si sta difendendo dalle chiacchiere contro di lui. Il Seneca che scrive è molto diverso dal Seneca che agisce.
Scrive altre opere sulla filosofia stoica. Riprende lo stoicismo di Panezio di Rodi, secondo cui il sapiens è progrediente verso la virtus. Non accetta la teoria pura, aggiunge la sua visione tipicamente romana dell’otium e del negotium: se Zenone mentre progredisce verso la virtù può applicarla alla vita politica, in Seneca c’è addirittura la superiorità del negotium sull’otium.
• DE OTIO: il primo compito del sapiens è PRODESSE OMNIBUS, giovare agli altri. È il σοφος inserito in ambito Romano. Se però le circostanze vietano di giovare a tutti, il compito si può restringere a PRODESSE MULTIS → PRODESSE PAUCIS → PRODESSE SIBI: è previsto un progressivo restringimento. Lo stoicismo puro avrebbe preferito PRODESSE SIBI e condannato OMNIBUS. Giovare a se stessi, che era il massimo secondo Zenone, diventa scelta obbligata, ma da non fare se non necessario; giovare a molti, che non era ricercato dagli stoici, diventa il massimo per Seneca.
Affronta il problema del DOLORE;
➢ Per l’Epicureismo, la mancanza di dolore è elemento necessario per godere dell’εδονή
➢ Per lo Stoicismo, c’è totale indifferenza nei confronti dello stare bene o stare male: è una cosa che riguarda il corpo e non c’entra nulla con la morale. Il vero male è il vizio. Cleante aveva già modificato questo modello, dicendo che c’è qualcosa di preferibile e qualcosa meno nell’ambito dell’indifferenza.
➢ Seneca si chiede perhè il dolore colpisce il giusto e non il colpevole:
1. Perché non sempre ciò che sembra male è davvero male, ma ci fermiamo solo alla superficie;
2. Gli Dei regolano tutto quello che succede, sono loro a mandare il male all’innocente, e lo fanno per bontà. La virtus si indebolisce se non esercitata, una vita tranquilla rischierebbe di rovinarla se non ha un campo in cui combattere. Il dolore è un dono degli Dei agli uomini che ne saggiano la virtus per esercitarla. Il sapiens non deve mai disperarsi credendo di essere abbandonato dagli Dei.
• DE BREVITATE VITAE: anche Sallustio e Cicerone avevano detto che la vita non è breve, ma siamo noi che la rendiamo tale. Sprechiamo tempo a inseguire obiettivi sbagliati e arriviamo alla fine della vita senza in realtà aver concluso niente. Questa è la posizione di Seneca: non dice niente di nuovo, però è interessante la casistica degli “occupati”: esempi di vita sprecata non da chi non fa nulla, ma da chi spreca tempo a raggiungere obiettivi fasulli. Questi uomini finiscono col passare la vita in occupazioni inutili e non hanno tempo per pensare a obiettivi veramente validi, al proprio perfezionamento. Condanna chi è sempre in viaggio (mutamento di luogo è diverso da mutamento di animo), chi cerca cariche, chi pensa solo a farsi bello dedicandosi solo ad una vita apparente. È più ampio rispetto a Sallustio, si sofferma molto più sullo spreco del tempo che abbiamo a disposizione, sembra breve ma alla fine non ce ne rimane più per fare quello che avremmo dovuto.
• DE COSTANTIA: come nel DE PROVIDENTIA descrive il comportamento del saggio di fronte al male. Il vero male è il vizio, non la sventura; la provvidenza non è in contraddizione con se stessa dando sventure al buono, però noi non possiamo distinguere cosa sia veramente una sventura e cosa no, poi è solo una prova a cui gli Dei sottopongono l’uomo. Qualcuno in base a questo accosta Seneca al Cristianesimo: è sbagliato, non è vero, come qualcuno dice, che Seneca conoscesse Paolo di Tarso:
1. Seneca è stoico. Anche S. Paolo ha radici stoiche, ma dallo Stoicismo S. Paolo prende i termini per adattarlo al nuovo contesto, Seneca invece rimane stoico.
2. Seneca parla di esame di coscienza, ma viene dalla scuola dei Sesti, è di tipo intellettualistico, tipicamente stoico.
3. Secondo il Cristianesimo si crede perchè è contro la ragione, si crede a cose che non possono essere dimostrate dalla ragione. Seneca invece crede in un Dio con un logos, inteso come ragione.
Seneca si accosta al Cristianesimo per quanto riguarda il dolore, però è la visione di Seneca, non è la visione del Cristianesimo, semplicemente queste due visioni si assomigliano. Il greco aveva eluso il problema del male che colpisce chi non se lo merita; per il romano il Dio mette alla prova l’uomo.
• DE TRANQUILLITATE ANIMI: come nel DE OTIO, si pone il problema della scelta fra vita contemplativa e vita sociale. L’otium permette la serenità dell’animo, ma il compito del soggetto non è dedicarsi solo a se stesso, ma prima pensare agli altri. Questo turba il saggio, è più facile raggiungere la tranquillità nell’otium; però ci si può mantenere tranquilli non evitando di occuparsi degli altri, ma evitando i motivi di turbamento. Come gli eccessi, idoli non adatti o sbagliati (onori, ricchezze…). Detto da lui…!! La coscienza di aver fatto il proprio dovere dona all’animo tranquillità, serenità. Il saggio è sereno con se stesso.
Epistole
Sono 124. Le indirizza a Lucilio, non si sa se sia persona realmente esistita oppure un alter ego di Seneca. Molti pensano che sia esistito veramente. È in ogni caso un amico/allievo con cui Seneca tratta argomenti che pubblica: è un’opera scritta per la pubblicazione. Hanno la forma di lettere, ma sono piccoli trattati che riprendono i concetti delle opere morali trattandoli uno per volta, traendo spunto da un episodio della vita, o da quello che Lucilio ha detto o ha fatto. Ci sono osservazioni per cui Seneca è ricordato:
• SCHIAVI: cicerone faceva risalire il termine “servus” da servo = salvo: lo schiavo è stato salvato dal padrone; in origine gli schiavi erano prigionieri di guerra, nemici che il Romano avrebbe potuto uccidere ma che ha tenuto in vita. È sbagliato, perché deriva dalla radice di servio = servire. Seneca non si interessa dell’origine del termine, per lui lo schiavo è un uomo uguale all’uomo libero (a differenza da Aristotele, secondo cui lo schiavo aveva un logos imperfetto), che ha la sventura di finire in schiavitù. Con un rovesciamento della fortuna, anche il padrone potrebbe fare la stessa fine e finire in schiavitù. Il Romano non trattava male gli schiavi, la novità di Seneca è l’osservazione che lo schiavo è una normale persona colpita dal fato. Si contraddice perché non dice che è un essere provato dagli Dei, è solo uno sventurato come potrebbe esserlo chiunque.
• MORTE: lo spettacolo teatrale aveva ormai perso la sua funzione; Augusto ha provato a farlo rinascere per motivi politici (Orazio). C’era solo più un teatro di puro divertimento (PANTOMIME); anche “riprese” di miti, che facevano solo spettacolo. Per farli venivano utilizzati i condannati a morte: per fare spettacolo. Seneca disapprova, perché questo priva la morte della sua dignità. La morte in sé richiede dignità e non può essere usata come motivo di spettacolo. Però non coinvolge anche i gladiatori nella sua osservazione, perché quello che si apprezzava dei gladiatori non era la morte ma l’abilità tecnica di combattere. Se invece si è travestiti, la morte perde la sua dignità. Disapprova anche l’ostentazione del lusso, ma anche l’odio per quello: tutto ciò che supera un equilibrio.
Naturales questiones
Quest’oprera ci lascia stupiti: è un’”enciclopedia scientifica”. Perché un filosofo si è occupato di scienza? Ha senso perché è inserita in una questione filosofica. Non è originale, tutto quello che spiega serve per liberare l’uomo da timori, tipo come fa Epicuro, però è diverso:
- Epicuro spiega tutto, quando ha raggiunto la conoscenza ha raggiunto l’atarassia.
- Per Seneca liberarsi delle paure non è il fine ultimo, ma è propedeutico per raggiungere il proprio perfezionamento morale. Non è lo scopo ultimo ma il primo.
Seneca sostiene che la scienza vada conosciuta perché di per se stessa è neutra, non è né vizio né virtù. Tutto quello che è spiegato serve per l’applicazione materiale: per esempio, lo specchio, spiegando come funzione, non ci sono implicazioni morali, ma diventa sinonimo di vanità quando viene usato.
Non si sa quando quest’opera sia stata composta.
Tragedie
Sono 9, rappresentano tutto il teatro tragico romano. Non si sa se ne abbia scritte altre oltre a queste 9 che abbiamo. Gli argomento sono i soliti dell’antichità tragica (mito).
Nascono per essere rappresentate o lette? Si pensava che non fossero scritte per essere rappresentate; oggi la critica ha ribaltato la questione, ma non sappiamo comunque se furono rappresentate: avrebbero potuto esserlo.
Qualche anno fa un critico (Padetti) che i tre principi per cui si credeva che queste tragedie non potessero essere rappresentate in realtà non tenevano. Si diceva infatti che non potevano essere rappresentate perché:
1. Per motivi tecnici: non c’erano macchine;
2. C’erano monologhi troppo lunghi;
3. C’erano scene troppo macabre.
Questo critico dimostrò che:
1. I mezzi non è vero che non ci fossero. In epoca ellenistica la scienza venne separata dalla filosofia e si sviluppa (musei); il mondo antico ha prodotto una scienza, addirittura si dice che erano conosciute tutte le leggi scientifiche che vennero in seguito dimenticate, però non vennero applicate se non per giocattoli e macchine da guerra: non c’era interesse ad applicarle ad una tecnologia, tanto avevano gli schiavi. Però si è scoperto che alcune cose che non si sapeva cosa fossero sono in realtà pezzi di macchine per costruire altre macchine. Le parti che si sono conservate sono in metallo, il resto era in legno e non è durato. Quindi non è vero che le conoscenze scientifiche non si siano trasformate in una tecnologia!
Uno degli ambiti in cui la scienza venne applicata sono le macchine teatrali. Erano usate già dai Greci, Roma evidentemente ha applicato le scoperte teoriche altrui.
2. Per quanto riguarda le lunghe tirate, già Euripide usava dei lunghi monologhi: non è una cosa estranea al teatro tragico. Inoltre un secolo dopo Aulo Gellio ci parla degli Enneastai (uno di questi ha recitato un libro di Ennio, A. G. ha pensato che un verso fosse sbagliato e ha consultato l’opera in una biblioteca). Ennio venne oscurato da Virgilio, probabilmente ebbe una sorte di resurrezione, parecchi autori conscevano Ennio a memoria e a teatro ne recitavano un libro. Se la gente andava a teatro per sentire 700/800 versi di un poema epico, queste tirate dovevano piacergli!
3. Per quanto riguarda l’eccesso di macabro, questo non va nella tragedia greca, dove le uccisioni avvenivano fuori dalla scena, ma il Romano non ha nulla da disprezzare nel sangue (gladiatori). Poi nell’epoca di Nerone questo gusto per gli eccessi, amato in generale dal Romano, viene ripreso, quindi l’eccesso di macabro sarebbe addirittura adatto all’epoca.
Quindi le tre dimostrazioni sono false; questo però non dimostra che vennero rappresentate. Non si sa se vennero rappresentate, ma nulla vieta che lo fossero.
Si è parlato dell’OPPORTUNITA’ di queste tragedie: riguardano Medea, Tieste, argomenti che già avevano interessato Accio. Sceglie quelli più tremendi. Sono tragedie A TESI: in tutte c’è un consigliere che invita l’eroe alla moderazione. Gli eroi sono negativi: Medea, Edipo (non vuole regnare): trascferisce sulla scena la propria esperienza e anche Nerone. Nerone privo di controllo sfogherebbe i suoi vizi guidato dall’istinto; il consigliere lo invita alla moderazione. In tutte le tragedie l’eroe e il consigliere finiscono male, l’eroe però almeno ha sfogato i suoi istinti, il consigliere invece non ha ottenuto niente. Seneca quindi si è sfogato, rappresentando il fallimento dei suoi tentativi; se non furono rappresentate è per opportunità politica (Nerone aveva capito cosa volevano dire). Il tema del POTERE forse non era opportuno; però dopo la morte di Nerone può essere che fossero rappresentate.
È il nipote di Seneca, e come tutte le famiglie aristocratiche ha anche lui una visione negativa dell’impero. Segue lo stoicismo, che da filosofia del potere diventa filosofia dell’opposizione. Entra nel gruppo dei poeti attorno a Nerone. Pare che abbia collaborato alla stesura dell’“Iliade nuova”, che si basa sul riscatto del corpo di Ettore. Ha scritto:
- Poesie, che non ci sono arrivate;
- Una tragedia, Medea, che non ci è arrivata;
- Tutto quello che ci è rimasto di lui è un poema epico, “Bellum Civile”, noto come “Farsaglia”, incompleto.
Sappiamo che ad un certo punto si distaccò da Nerone, ma non si sa bene perché; le ipotesi sono:
• La gelosia di Nerone nei confronti di un poeta abile come lui l’abbia allontanato;
• Lucano si sia distaccato per un litigio;
• Non c’è un motivo personale ma politico: subito era attratto dall’imperatore poeta, ma poi ha capito di essere in contrasto con le sue ideologie. È l’ipotesi più probabile.
Comunque venne coinvolto nella congiura dei Pisoni; Tacito dice che Lucano è arrivato al punto di denunciare la madre; comunque Tacito parla malissimo dei congiurati, dice che, scoperti, denunciavano chiunque pur di salvarsi. Secondo Tacito i congiurati, obbligati ad uccidersi, muoiono tutti come sono vissuti: Lucano muore da poeta recitando la sua opera, Seneca muore da filosofo; è discutibile che sia andata veramente così perché muoiono tutti in modo troppo giusto, secondo il loro stile di vita.
Bellum Civile: poesia o retorica?
Il Bellum Civile è un poema epico? Lucano è un poeta o un esperto di retorica? La retorica diventata il criterio di giudizio della letteratura; il Romano ha la passione per seguire orazioni famose: l’oratoria è importante in quel periodo, però non ha sbocco politico: si chiude nelle scuole dove produce:
• SUASORIAE. Orazione per convincere; spesso l’argomento è mitologico, come convincere Agamennone a non uccidere Ifigenia ecc.
• CONTROVERSIAE: trattano un caso da una parte e dall’altra, in genere si riferiscono alla condanna di qualche comportamento, ad un fatto.
Sono esercitazioni fini a se stesse. Le suasoriae nascono per dimostrare la bravura per attrarre alievi, e da propaganda diventano l’unico prodotto delle scuole; non hanno tanto senso, ma l’oratoria non ha più sbocco politico, non può fare altro. Anche le controversiae nascono dalla necessità di insegnare all’allievo a difendere una posizione opposta, ma anche è tutta aria fritta: vengono usate non più come propaganda ma come spettacolo.
Seneca il vecchio è chiamato “Oratore”, ma questa definizione è sbagliata; viene dal fatto che ci è arrivata un’opera, una raccolta di controversiae e di suasoriae, e un’altra che riflette sulla tecnica degli oratori. In relatà non insegna retorica ma è l’interesse negativo.
Lucano invece è retore o poeta? La risposta più corretta è tutti e due. È un’opera adatta ai suoi tempi, è il prodotto della sua epoca. Un poema epico non avrebbe più senso nella sua epoca: mancano i valori comuni condivisi da tutti. Quando l’intellettuale si oppone all’impero, i valori sono spaccati in due. Poi racconta qualcosa del passato che riporta un valore del presente, e gli Dei sono garanti di questi valori.
Nell’epoca di Lucano
1. I valori sono spaccati
2. L’impero è visto negativamente, c’è una visione pessimistica: come fanno gli Dei a proteggere Roma?
Un poema epico non ha motivo di essere. Il “Bellum Civile ha la struttura di un poema epico, ma è diverso, manca la serenità nel modo di esprimersi, l’oggettività, il pathos. Il suo modello è l’Eneide:
• Potrebbe seguire l’Eneide, ricalcarla, assumere valori e atteggiamenti, però è impossibile per il periodo.
• Può invece assumere la visione opposta: allora il poema epico si capovolge.
Lucano segue la seconda strada.
La novità di Lucano
L’argomento è la guerra civile di Cesare e Pompeo. Si diceva che Lucano fosse rivoluzionario perché sostituiva l’argomento storico a quello mitico: è un’affermazione stupida! Nevio, Ennio, Cicerone, i Neoteroi, hanno tutti scritto poemi epici di argomento storico: non è una novità! L’argomento storico non è una novità, la novità è in un altro punto: non esalta un momento glorioso (guerra punica…) ma una guerra civile: non ha niente di bello, niente di nobile su cui far leva! Nell’introduzione dice: “BELLA PLUS QUAM CIVILIA” è certamente una forzatura, ma fa capire.
Introduzione
È stata interpretata in modi diversi.
• Secondo il Lana e altri, è un insulto a Nerone mascherato a elogio. Lucano sembra comporre lodi forzate che in realtà descrivono la situazione in Italia, esagerata, iperbolica. Non compone sullo sfondo di un’Italia prospera, ma distrutta: Nerone non ha fatto più di tanto! Non è un elogio. Per di più, quando dice che poi Nerone salirà alle stelle, “quando morirai tardi siediti al centro dell’universo, se no il suo asse ne risente il peso”, dice dolo “tardi”, non lo forza: interpretano questa frase nel senso, se muori adesso è meglio. Poi quando dice in quale Dio vuole incarnarsi, Febo, solo come Dio del Sole, non della poesia. Lucano sapeva bene che Nerone non credeva di incarnarsi, ma l’imperatore diventa una divinità dopo la morte. Nerone pensava ad Apollo dio della poesia, Lucano dice che è da escludere. Questa teoria alla Leone piace ancora ma per la critica è saltata.
• Ora la critica è tornata alla posizione tradizionale, cioè che l’introduzione è veramente un elogio a Nerone. Dato che Lucano tende sempre all’iperbole, all’esagerazione, non si è reso conto dell’assurdo di presentare l’Italia distrutta come sfondo di Nerone. Alla rovina delle guerre più che civili si contrappone, per antitesi, l’arrivo di Nerone “accettiamo anche questo pur di avere te. Secondo questa critica la scelta della divinità non sarebbe un insulto, ma nell’ambito dell’iperbole si può identificare un qualsiasi divinità, dall’alto del cielo può guardare l’impero.
Lucano muore a 26 anni, può anche darsi che abbia scritto questo quando era sotto Nerone e doveva comunque elogiarlo. Sono 10 libri, l’opera è partita quando c’era ancora intesa con Nerone. Se però è stata composta dopo, allora è una presa in giro, mascherata da elogio. Lucano comunque non ha il senso della misura, tende naturalmente all’esagerazione.
Personaggi
Ci sono due antieroi: Cesare e Pompeo; comunque il più negativo è Cesare, Lucano esprime l’odio di un senatore perché Cesare ha trasformato la repubblica in un impero. è paragonato ad un fulmine per l’iperattivismo esagerato che vuole solo distruggere: è opposto a Enea che costruisce.
Se nell’Eneide il sovrannaturale era nel Dio che dà senso alla sofferenza, in Lucano mancano gli Dei che non possono permettere la rovina di Roma, e la sofferenza non ha senso; il soprannaturale allora è
- Nella magia, ma non quella bianca, accettata dal mondo Romano: la magia nera
- Nelle virtù stoiche personificate (che comunque non riescono ad incidere).
È una visione pessimistica; diversa però dalla visione stoica ottimista secondo cui tutto nasceva dal logos e ci tornava, dove la provvidenza aveva importanza. Quella stoica però era una visione solo apparentemente ottimista: infatti predicava di cercare la sofia quando le circostanze impediscono di trovare l’aretè: se tutto è guidato da pronoia, non la realizzazione dell’aretè non dovrebbe essere impedita! Gli Stoici avevano già in sé questa contraddizione, Lucano è ancora più pessimista.
L’eroe invece è Catone, l’opera si interrompe con il suo suicidio. Vede l’impero come limitazione della libertà, e piuttosto che sopportare questa situazione, si uccide: allora non è più tanto un eroe! Tanti punti ci lasciano perplessi.
Al verso 128 compaiono gli Dei: “la causa vincitrice ebbe il sostegno degli dei, ma quella sconfitta ebbe il sostegno di Catone”. Il verso definisce l’ideologia di Catone.
Esamina Pompeo: non è destinato alla sconfitta tanto perché è vecchio, ma perché nn è più capace di combattere. dice che si regge solo sulle spoglie opine: quercia a cui si appendevano le spoglie dei nemici sconfitti. Pompeo si regge solo per tutti i trofei che ha sopra, non per le sue radici: si regge solo sul ricordo di se stesso, è considerato grande solo perché lo è stato.
Contrapposto all’inerzia di Pompeo c’è l’iperattivismo di Cesare, ma negativo: non si ferma davanti a niente, come un fulmine, che distrugge. Se Lucano mantiene Cesare negativo fino alla fine, ne è affascinato: in un mondo di gente che si adegua, nell’iperattivismo anche se volto al male c’è un po’ d’invidia.
Sono entrambe descrizioni negative; Pompeo migliora un po’ quando si chiude in famiglia ritirandosi: non fa più del male, però non fa proprio niente. Migliora perché sempre meno attivo.
Il valore e la morte
In questa guerra Lucano non si sofferma sugli eventi in sé, le battaglie non vengono descritte, l’argomento storico non è mantenuto, ci sono tanti excursus, si lascia andare a descrizioni che suscitano terrore, paura. Anche la misericordia di Cesare non è mai citata da Lucano, manca anche il valore in battaglia del singolo. È il rovesciamento del “de Bello Civile” di Cesare che tende a sottolineare il valore del singolo: in Lucano uno non muore perché l’altro è più forte, ma per cause esterne: animali velenosi ecc. La morte diventa ancora meno gloriosa. Solo in un caso descrive il grande valore di un centurione di Cesare, ma sminuisce subito aggiungendo “ma combatteva per una causa ingiusta”: l’esercito di Cesare non poteva avere persone valorose: si è lasciato andare la mano. Tende ai mirabilia: la vicenda si svolge in luoghi inusuali, sono presenti animali strani, meglio se pericolosi. Es: basilisco, piante che producono succhi velenosi a cui gli uomini assetati si attaccano. Le morti non sono mai tranquille, ma avvengono con contorcimenti, sono orrende: non sono composte, né degne, in genere non c’è neanche al sepoltura. Le morti in battaglia sono marginali, per lo più i personaggi muoiono per esseri velenosi/di sete/di insolazione: la natura collabora a eliminare le persone nella guerra civile. Secondo la Leone questo risente della peste di Atene di Lucrezio: lì quelle morti stonavano, qui invece anche chi muore non in battaglia muore in maniera orribile. La guerra civile distrugge tutti i valori tradizionali. La morte fa paura perché non è più gloriosa, ma brutta, Lucano si lascia andare con il suo gusto per l’orrido, dato dalla situazione, dalla mentalità spagnola e dall’indignazione di Lucano per la guerra civile. Descrive un mondo che si sta autodistruggendo; es. descrive la morte di un senatore a cui viene tagliata la testa: insiste nel colore del sangue rosso che si contrappone al bianco dei capelli. Un anziano non dovrebbe essere coinvolto nella guerra. è frequente l’uso di antitesi: il rosso salta fuori in antitesi con il bianco.
Attraverso allusioni va a recuperare Mario e Silla, che richiamano l’altra follia delle guerre civili, altre morti inutili.
Il sesto libro
Come nell’Eneide, il centro è il VI libro, che dà il senso a quello che succede:
• Nell’Eneide si annuncia il futuro di Roma
• Nel Bellum Civile, Sesto Pompeo, figlio di Pompeo, l’anti-enea per eccellenza, va non da una sibilla, ma da una maga della Tessaglia, che facendo risorgere un cadavere, gli predice la distruzione di Roma. Negli Inferi c’è la gioia dei delinquenti come Catilina, felici perché finalmente qualcuno riuscirà a fare quello che loro non erano riusciti a portare a termine.
Si capisce che sta capovolgendo l’Eneide.
Qui entra la magia nera, in Tessaglia, luogo magico pieno di lupi, streghe ed erbe velenose. Sesto Pompeo va per paura, a differenza di Enea che va spinto dagli Dei e per sapere cosa vogliono gli Dei. Non con riti sacri ma con riti maledetti odiati dagli dei. La maga Erittone è capace di dare una vita fasulla ad un cadavere. Vive nei cimiteri e scaccia le anime, è brutta, una maga spaventosa, con i capelli spettinati, inaridisce la terra che calpesta, riesce ad anticipare la morte ecc. nel culmine dell’opera, ad un morto sereno, Anchise, nei campi Elisi, che annuncia un futuro glorioso, si contrappone la predizione del futuro della maga. La fa dire ad un morto appena morto; un morto però è contento di essere morto perché ha trovato la pace, e non è tanto felice di essere risvegliato, quindi la maga come prima cosa gli promette che poi lo lascerà stare. Visione negativissima: è doloroso tornare alla vita lasciata. Trovato il morto che le serve, Erittone fa qualche magia, invoca gli dei degli Inferi; il morto resuscita in una nuova vita, ha l’aspetto di chi è tra la morte e la vita. Il morto parla “ mentre il pianto sgorgava”: il ritorno in vita è doloroso perché innaturale e perché la vita è terribile e la morte inutile; negli Inferi c’è tristezza, ma quiete, e la pace viene turbata da queste notizie. Descrive discordie e conflitti; come Virgilio citava i grandi del futuro, il futuro di Roma era grandioso (ricompensa di Enea), qui il passato luminoso è definitivamente morto. Racconta che tutti negli Inferi si lamentano della propria discendenza, sono contenti solo quelli che volevano la distruzione di Roma: Bruto è lieto, forse perché sa che un discendente distruggerà quello che lui avrebbe voluto distruggere, spera in un riscatto; Catilina e Mario gioiscono perché arriverà la distruzione di Roma (Lucano non li ama). Il vincitore finirà nel Tartaro dove sono già finiti i “cattivi” di Roma. Sesto Pompeo sarà anche un delinquente ma almeno appartiene alla gens di Pompeo: avrà una zona serena negli Inferi. La condanna di Pompeo diminuisce perché si sta ritirando. È un destino di morte, c’è solo da decidere dove morire. Dopo che il morto ha parlato la maga deve di nuovo fare magie per farlo morire di nuovo, perché la morte non prende la stessa persona due volte. È la visione pessimistica di un aristocratico: tutti nella sua famiglia la pensavano così Il pathos è esasperato, finisce per avere un aspetto quasi contrario: è tutto così, tutto uguale, tanto che finisce per non coinvolgere neanche più. È il contrario di un poema epico: dovrebbe avere classicità, non pathos dato da effetti teatrali. Esprime l’indignazione per una guerra che rappresenta l’inizio della fine. Roma si sta distruggendo da sola.
Un nuovo poema epico
Dunque ha senso chiamarlo “poema epico” al di là del metro e della struttura? Già Quintiliano se lo chiedeva. È discutibile. Ha la struttura al contrario: è un volontario capovolgimento o voleva scrivere un poema epico ed è venuto fuori così?
L’epoca non poteva più produrre un poema epico: questo è l’unico poema epico che poteva produrre. Vede il capovolgimento dei valori in cui credeva, non trova più qualcosa che incarna quegli ideali, è facile che questa rabbia produca pathos (manca la serenità della coscienza che il dolore è per principi ed è ricompensato). Non vede nulla di nuovo. È il capovolgimento di un poema epico ma è anche un nuovo poema epico: è il mondo ad essere capovolto.
Lo stile è asiano; Seneca usava lo stile asiano a sententiae; lo stile di Lucano è tumidus genus dicendi. Il pathos è ricercato volontariamente. Non è un poema fallito, è un poema “particolare”.
Il romanzo
Petronio è famoso per aver scritto un romanzo. Il romanzo è l’unico genere letterario di cui i dotti ellenistici non si preoccuparono minimamente e non andarono a cercare l’inventore. È strano: i Greci per la loro mentalità individualista avevano la mania di cercare “l’inventore di”, mentre invece non si curarono del romanzo. Questo perché non lo consideravano un genere letterario ma un genere d’evasione, non scritto con intento letterario ma con intento di distrazione. Abbiamo 5 romanzi interi Greci e alcuni latini. La critica moderna ha cercato di capire dove nacque e perché. Per molti anni era ritenuta valida l’ipotesi che il romanzo nascesse con la seconda sofistica, nel II secolo d.C. Ad un certo punto però saltò fuori un romanzo non completo, di Nino (marito di Semiramide) datato I sec. A.C.: 3 secoli prima! Si abbandonò quindi il legame con la seconda sofistica. Si cercarono antecedenti del romanzo: furono visti anche nella Ciropedia di Senofonte (falso!); la ricerca della datazione sembrava indispensabile per capire perché nacque. Questi studi inutili continuarono finché il Perry disse “il romanzo Greco nacque alle 3 di un giovedì pomeriggio di luglio”: non importa, non possiamo saperlo e non serve a niente! In realtà con questa frase esprimeva un’impressione diffusa fra gli studiosi, ma che non osavano dire. Cominciarono quindi a cercare di capire cos’è. Il primo antecedente del romanzo è l’Odissea: è il resoconto di un viaggio ambientato in terre sconosciute con cose che nessuno immaginava, cose anomale. Il romanzo ha come filo conduttore l’avventura, rappresenta il desiderio di evasione della classe media, che può permettersi di comprarlo, lo capisce ma non ha la capacità di capire generi più elevati. Il loro mondo è monotono: sognano posti lontani. Inoltre incrociano l’elemento avventuroso con quello amoroso: la molla è la ricerca di lui/lei a seconda di chi è sparito. L’altro viaggia, scopre che lui/lei è stato lì ma se n’è andato e ricomincia a viaggiare. Avventura PICARESCA: va avanti all’infinito, finisce quando l’autore ha finito la fantasia. Il romanzo greco risulta quindi la somma di avventure sempre nuove, al di fuori del tempo e dello spazio reale, il motore è una storia d’amore. Prima non si era mai parlato di amore fra uomo e donna, nell’Ellenismo però non c’era più vita pubblica: l’amore sostituì qualcosa che era venuto a mancare. Prima il matrimonio serviva per la prosecuzione del genos, ma soprattutto del cittadino, ora però non c’è più bisogno del cittadino! L’amore quindi prende importanza. Questi personaggi non hanno una propria connotazione psicologica, non c’è più l’eroe che si stacca dall’uomo comune ed è diverso dagli altri eroi, ma i personaggi sono uguali al lettore. Tutte queste avventure non li cambiano quello che interessa non è l’avventura in sé. Moreschini ha definito il romanzo greco l’equivalente della telenovela: non c’è un messaggio morale né un approfondimento psicologica, solo un’avventura che permette l’evasione. Il titolo era solitamente: “τά των…” , “avventure περί…”; il termine romanzo non c’era indica che non aveva dignità letteraria.
Novella: si conoscevano le favole di Aristide di Mileto, una raccolta do novelle considerate sconce: da qui deriva l’idea che la novella è oscena, il romanzo casto e puro. Questa teoria è saltata quando sono stati scoperti nuovi papiri e frammenti di romanzi che hanno la stessa “oscenità” delle novelle. In realtà la differenza fra romanzo e novella sta solo nella lunghezza, il contenuto non c’entra. La novella è concentrata attorno ad un episodio solo, mentre il romanzo narra più vicende. Non ha senso attribuire moralità ad uno e immoralità all’altro. Magari poi c’erano favole non oscene, noi abbiamo solo quelle di Aristide e non possiamo valutare. Spesso la novella era utilizzata come variazione all’interno di un romanzo, un racconto nel racconto. I tempi e gli spazi non sono mai chiari, ma molto vaghi. È interessante che non sia di argomento religioso (non fa teologia) ma parli di religione (cita preghiere e templi). È interessante soprattutto perché cita gli Dei dell’Ellenismo, in cui erano diffusi i CULTI MISTERICI che finalmente davano risposte. L’uomo si sentiva protetto, ora è isolato. Con la crisi delle città, prevale il culto misterico. C’erano già prima ma chi li seguiva seguiva anche la religione comune, la quale però non li accettava. Il culto misterico è il rapporto diretto fra il dio e l’uomo. Quando la religione normale entra in crisi, rimane solo il culto misterico. Mitra è il Dio del Bene a cui si contrappone un dio del Male. Se una persona agisce bene, aiuta il Dio del Bene nella sua lotta contro il dio del Male. Questo culto collega l’uomo e le sue azioni al trionfo del bene assoluto. Nel romanzo ci si rivolge a divinità come Iside, Mitra… l’argomento non è religioso, ma la religione è citata: ci dà un’idea delle abitudine dell’epoca. Altre citazioni invece non ci possono aiutare per datare un romanzo: per esempio se cita un re, potrebbe scrivere sotto quel re o parlare del passato.
Petronio
Il personaggio di Petronio ci viene presentato solo da Tacito, che ne descrive la morte. Viene tirato nella congiura dei Pisoni da Tigellino, prefetto del pretorio, che odia. In Tacito Petronio è particolare: è un FIGURA PARADOSSALE, non vive secondo i principi della filosofia ma dell’estetica. Quando deve agire assolve l’incarico bene: non è stupidità, ma voluttà. Non sceglie né l’adulazione né la provocazione, ma la vita estetica, al di là della morale, per esprimere il disprezzo. Non prende sul serio nulla, segue il bello e il brutto al posto che il bene e il male. Tacito lo ammira.
Satyricon
Petronio dovrebbe essere autore del Satyricon. Qualcuno diceva che non fosse suo, perché Tacito non dice che Petronio l’ha scritto; però Tacito non elenca le opere di nessuno: non è una prova. Ora la critica è unanime nell’attribuirlo a lui. È un romanzo e per l’epoca è osceno. La trasmissione del testo è faticosa proprio per questo:
- Il romanzo è un genere ignorato dai dotti ellenistici
- Se l’argomento era osceno, dato che i copisti erano per lo più nei conventi, non ebbe grande attenzione.
Il testo venne scoperto nel ‘500, noi ne abbiamo in totale 2 libri: metà del 14, tutto il 15 e metà del 16. Non possiamo sapere di quanti libri sia composta l’opera, qualcuno ipotizza 16 o 20 perché un altro romanzo che abbiamo ne ha 20 (in genere erano composti da 7/8 libri). è un insieme di avventure molto complesse, ed è diverso dal romanzo tradizionale che conosciamo: il protagonista parla in prima persona, mentre di norma il romanzo greco era in terza persona; poi alla coppia tradizionale si sostituisce una coppia omosessuale che diventa un triangolo. Il passivo sta con uno e anche con un altro. L’allontanamento e il ricongiungimento non sono di tipo fisico, ma la separazione è data dal fatto che:
- il ragazzino si dà da fare con 2 persone diverse
- l’eroe del romanzo ad una cerimonia in onore del Dio Priapo prende in giro il dio, che si vendica e lo rende impotente.
Ci sono avventure di tutti i tipi; nel 15 incontra un personaggio che aveva già incontrato. È ambientato in luoghi diversi: Marsiglia, Crotone, e altre zone che non sappiamo identificare, un po’ per terra e un po’ per mare ma sempre in zone “basse”, taverne di infimo ordine, maghe, cerimonia del dio Priapo. Qualcuno sostiene che è la parodia di un romanzo proprio perché i protagonisti sono poveri e non figli di ricchi come negli altri. Il giovane protagonista è uno studente che si è rovinato, si mette con questi e vivono in un mondo dove rubano per sopravvivere. C’è un personaggio colto, il RETOR AGAMENNONE: si chiama così perché:
- è di origine greca come la maggior parte dei retori
- le suasorie che si facevano nelle scuole di retorica spesso erano per convincere Agamennone a non uccidere Ifigenia (può anche essere la parodia di Agamennone).
È interessante come Petronio affronta il discorso della decadenza dell’oratoria: già Seneca il vecchio e Velleio Patercolo ne avevano parlato dando motivazioni di tipo politico e morale; Petronio invece parla di una decadenza di tipo tecnico. Le sue motivazioni sono infatti:
• i maestri sono poco preparati: la loro ignoranza si trasmette
• l’ambizione dei genitori: per fare l’oratore ci vuole un impegno costante e lungo nel tempo, i genitori pretendono invece che il figlio dimostri subito di saper parlare. Affrettando i tempi però non ha il tempo di consolidare e formarsi una cultura e non ottiene una buona educazione.
Questo è una chiara dimostrazione dell’atteggiamento di Petronio di fronte ad un problema: non prendere posizione di tipo morale e politico. Quello che dice è indubbiamente vero, ma deve anche esserci una motivazione morale. Lui affronta il problema solo dal punto di vista superficiale e tecnico. In realtà la decadenza dell’oratoria è dovuta alla mancanza dello sbocco principe dell’oratoria, e cioè la politica. Petronio si rifiuta di affrontare un argomento così che implicherebbe una presa di posizione.
La cena di Trimalcione
Tra le tante avventure, il pezzo più famoso è la cena di Trimalcione. Trimalcione è un liberto arricchito, espressione di una classe sociale che si sta affermando. Claudio ne aveva fatto dei burocrati e amministratori: avevano grande importanza nella vita pubblica. Questa classe si sta affermando anche perché i liberti, schiavi liberati, sono più frequenti adesso, perché lo schiavo è merce rara. Sono specializzati e hanno un rapporto particolare con il padrone, tanto che affrancati, rimangono spesso in rapporto con il padrone, spesso sono straordinari negli affari e si occupano con successo di quelli del padrone. Poi con la crisi demografica le famiglie ricche hanno magari un figlio solo (tipico dei momenti di maggiore ricchezza: non fanno figli per non dividere il patrimonio) e se questo muore spesso è il liberto a ereditare il patrimonio che ha contribuito a creare e allargare; inoltre non disdegnano di dedicarsi ad affari poco leciti. Tutto questo fa sì che si affermi una classe sociale che è una delle più ricche, e in genere non ha buon gusto nell’esibire il denaro: amano esibirlo perché per loro è simbolo di promozione sociale. Sono in tribù diverse per evitare che prendano troppo potere politico.
Trimalcione è uno di questi: armatore di navi e si occupa del commercio dei vini della Campania: si fa i soldi. Questo elemento è utile per datare l’opera: chi dice che è di un Petronio posteriore è smentito perché a partire dal II secolo c’è maggiore concorrenza dei vini della Gallia che verranno preferiti e sarà impossibile arricchirsi con il commercio di vini della Campania! Trimalcione è un riccone volgare, ha sposato Fortunata, ex-prostituta: è il massimo della volgarità e dell’immoralità. Trimalcione non viene delineato nell’immoralità ma nel buon gusto: è l’esatto contrario di Petronio. Amava esibire cibi strani, giocare sulla sorpresa, stupire con cibi che sembrano essere diversi da quello che sono. Non solo: pretendeva anche di disquisire di argomenti culturali. Tra i suoi ospiti ci sono anche un avvocato e gente trascinata lì più colta di lui: lui esprime lo stesso opinioni su qualsiasi cosa, anche stupide e banali, dandosi arie di essere colto. Arriva a pranzo con uno scheletro d’argento per dire che l’uomo è un nulla: come sta vivendo lui. Vuole esibirsi anche da morto: fa una prova del suo funerale, cosa di pessimo gusto per un Romano. Il suo monumento funebre dovrà avere un orologio e il suo ritratto, in modo che la gente per guardare l’ora veda lui. Vuole che ci sia scritto: NUMQUAM PHILOSOPHUM AUDIVIT: qui non è Trimalcione ma Petronio che attacca Seneca. Seneca predica la morale, Petronio l’estetismo, sono in contrasto presso Nerone. Petronio lotta contro il moralismo di Seneca che è per gli altri più che per se stesso. Questa frase è degna anche per se stesso.
Moreschini dice che la cena di Trimalcione è la parodia del simposio di Platone e Senofonte:
• in Platone, nella cornice del simposio si parla di argomenti morali
• in Petronio c’è la stessa cornice ma per presentare cose stupide.
Titolo
Per quanto riguarda il titolo, Satyricum:
➢ qualcuno dice che c’entra con i satiri, che quindi sarebbero nella parte che non abbiamo (ipotesi difficile)
➢ è più probabile che derivi dalla SATIRA. Qualcuno dice che è una satira menippea (prosimetro, la cui invenzione era dovuta a Menippo), quindi il titolo si riferirebbe al modo di composizione dell’opera, cioè misto di prosa e poesia, che è anche vero: la maggior parte è in prosa, ci sono però 2 inserti lunghi poetici e tante citazioni, frasi in poesia… Però la satira menippea ha un forte carattere morale; Varrone che scrive anche lui questo tipo di satira, la intende in questo senso. La critica di Petronio non è morale, non c’è approvazione né disapprovazione, ne parla dall’alto. Non è un eroe, se c’è giudizio questo è estetico (contro il cattivo gusto): potrebbe essere la parodia della satira menippea: in senso edonistico invece che in senso morale come Varrone.
Le parti in poesia sono in particolare due: l’“Incendio di Troia” e il “Bellum Civile”.
Incendio di Troia
Il protagonista va in una pinacoteca e trova un poetastro che, davanti ad un quadro che raffigurava l’ultima notte di Troia, improvvisa una poesia. La tradizione vuole che in questo punto Petronio stia facendo il verso a Nerone che voleva riscrivere l’Iliade e ha cantato durante l’incendio di Roma (o l’ha bruciata). Però:
1. questo pezzo non è un poema epico, non è in esametri, ma è la descrizione in versi di un quadro. Petronio non vuole prendere una posizione: non c’è uno scontro diretto con l’epica, non per paura ma perché non vuole prendere posizione.
2. L’esibizione è accolta da fischi e anche il protagonista dice che hanno ragione.
Il pezzo funziona tecnicamente: non è la presa in giro a Nerone, ma a tutta una tendenza, sulla scia di Nerone che partecipa a gare di poesia: tutti vogliono fare poesia. Alle gare di poesia però gli ascoltatori ci vanno di propria iniziativa, qui invece sono obbligati ad ascoltare il poetastro. È una critica all’uso del periodo di fare poesia a tutti i costi. Questo alleggerisce la satira (??).
Bellum civile
Il poetastro compone un poema epico sulle guerre civili. L’argomento è lo stesso di Lucano; non è una critica alla scelta dell’argomento ma al modo in cui viene trattato. Ci sono riferimenti all’Eneide, è trattato come il genere epico tradizionale, non c’è la magia ma tornano gli dei. Il periodo classicista ha creato l’Eneide e bisogna fare riferimento a quella. Petronio non ha attaccato il Bellum Civile di Lucano nell’opportunità di fare della guerra civile argomento di un poema epico, con due antieroi, eroi negativi, presentando un periodo non glorioso; prende invece posizione in modo volutamente superficiale: contesta le innovazioni di tipo compositivo di Lucano. Dimostra come con lo stesso argomento si possa obbedire ai canoni del poema epico tradizionale (tecnico). Non affronta il problema di eroi negativi, perché sarebbe una presa di posizione sull’argomento.
Un’opera d’evasione
Il Satyricon non è un’opera a tesi, ma di evasione. In questo senso è un romanzo, la parodia di un romanzo, una satira menippea tecnicamente, la parodia di una satira menippea; comunque è un genere d’evasione dedicato a persone colte in grado di cogliere allusioni ecc. Accanto alla povertà c’è la disonestà: presenta un mondo riprovevole dal punto di vista morale, lui però non lo critica moralmente, ma ne critica la volgarità. Mostra come vive l’altra parte del mondo. Un pubblico non colto non avrebbe colto e capito l’incendio di Troia, le citazioni dell’Eneide, le reminiscenze.
Testamento che crea sconcerto, ma poi tutti sono disposti ad accettarlo: Orazio lo guarda in modo bonario, Petronio disapprova l’estetica.
Il linguaggio
Haurabach, studioso di letteratura cristiana, sostenne che nel mondo antico non c’è realismo. Nella divisione dei generi, la vita quotidiana non è trattata nei generi più elevati, come la tragedia, ma nella commedia: è trattata in modo comico, non problematico. I vangeli descrivono un’azione quotidiana, ma con la dovuta drammaticità. Secondo Haurabach, il Satyricon è uno dei pochi esempi di realismo (romanzo e poesia pastorale sono forme intermedie). In realtà il Satyricon non è realista, ma sono reali l’ambiente e i personaggi; i personaggi non sono guardati nella loro problematicità, ma nel loro gusto. Il realismo del Satyricon sta nel linguaggio. Tradizionalmente si escludeva la paternità di Petronio del Satyricon su basi linguistiche: è scritto in un latino di un periodo posteriore, addirittura due secoli dopo. Petronio usa il realismo, diverso dal romanzo greco scritto in un coinè corretta ma piatta, con un livello costante e medio; Petronio usa latini diversi a seconda di chi parla: il retor parla un latino classico, non aulico ma corretto ed elegante, Trimalcione usa una mescolanza: è un liberto (classe sociale bassa) arricchito (volgare perché la sua ricchezza porta all’ostentazione), che cerca di elevarsi anche con il linguaggio ma non riesce per la scarsa cultura; usa parecchi grecismi (che conosce per il commercio), neologismi, citazione pseudo-dotte perché pretende di essere dotto e dare giudizi anche in ambiti che non conosce. Il resto del latino delle persone umili non è quello di due secoli dopo: dicendo così ci riferiamo al latino scritto (parlato dai colti). Quello di due secoli dopo è l’evoluzione della lingua parlata, che si evolve tanto da influenzare quella scritta; è il parlato che influisce sullo scritto. Le classi basse usavano termini gergali, una costruzione della frase meno corretta: il linguaggio di Petronio rispecchia il latino parlato dalle classi basse. Petronio non fa l’errore di far parlare i personaggi umili con un latino classico, ma parlano con un latino adatto a loro: in questo senso si parla di realismo. Rende le differenze tra i personaggi attraverso il modo diverso di lingua, ognuno parla secondo la sua provenienza culturale. È il massimo di realismo raggiunto nell’antichità. Per il resto non è realistico, l’argomento umile non è mai affrontato in modo serio per capirlo e averne pietà, ma è in chiave di lettura comica: bollato per la volgarità che diventa oggetto di riso. Non è un fattore morale, ma culturale. Per questo l’opera è riconosciuta essere di Petronio.
Qualcuno identifica gli scritti in Tacito verso Nerone come il Satyricon: ma questo ne farebbe una presa in giro di Nerone, che se c’è in Petronio, è solo nel pezzo di Troia. Il vero realismo non è mai realizzato in letteratura: anche nel nostro realismo viene trattata solo una sezione della realtà.
È uno storico. Seneca è il filosofo del compromesso: ha preferito, invece che isolarsi, cercare di influire sugli altri; ha affermato dei principi, ma pur di affermarsi, ci rinunciò. Persio invece non aveva agganci con la vita politica.
Persio morì giovane; era di buona famiglia, orfano di padre, fece solo otium letterario; fu istruito da Basso (stoico e letterato) e da Anneo Cornuto (filosofo stoico), figura da cui fu molto influenzato. È l’esponente dello stoicismo INTRTANSIGENTE seguiva uno stoicismo rigido. Piaceva di più Persio di Seneca perché rifiutava ogni compromesso, era chiuso totalmente al male e alla politica. Il Lana definisce Persio “giovane pastore luterano”: il luteranesimo è il settore più rigido del cristianesimo; è giovane e quindi ancora più rigido: la definizione si adatta alla sua personalità.
Dopo la sua morte, Cornuto pubblicò parte delle sue opere: 6 satire e un’introduzione alle satire che ha avuto grande successo. Le satire non hanno nulla di nuovo negli argomenti, che sono i soliti della diatriba stoico-cinica; affascina però il modo con cui tratta gli argomenti. È difficile da tradurre: se Orazio usa la CALLIDA IUNCTURA, Persio applica l’ASPERA IUNCTURA: è rigido anche nel modo di comporre! Usa delle espressioni difficili da capire e da interpretare (es. SALIVAM MERCURIALEM).
Per esempio si definisce “POETA PAGANUS”: può essere interpretato in diversi modi
➢ Da pagus, villaggio: non vuol dire rozzo, ma sincero, brutale, che non maschera.
➢ Non nel senso di contadino, ma poeta che torna alla natura (infatti disapprova i vizi della città)
C’è un’oscurità che non si capisce se sia voluta, o casuale, o d’impeto. Nell’introduzione, Persio disapprova la letteratura del tempo (troiae alosis) perché è gonfia, barocca, ridicola; si contrappone a questo gusto barocco della poesia prendendo espressioni basse e gergali. Un’iperbole frequente in quel periodo era: “vorrei avere 100 bocche per essere all’altezza della poesia”, e lui rispondeva ironicamente: “che razza di bocconi vuoi ingoiare con 100 bocche?!”. Dice anche che gli attori cenano con questa letteratura:
• Gli attori sopravvivono grazie al recitare queste porcherie
• Riferimento alle cene tiestee, rifugge dal macabro e dal cattivo gusto.
In realtà disapprova il barocchismo, ma non rifugge dal disgustoso. Per esempio descrive un gaudente che dopo aver mangiato va alle terme, e gli viene male: morendo vomita tutto la disapprovazione del vizio si concretizza in una descrizione anche fisica, schifosissima. Non attacca violentemente un personaggio illustre come faceva Lucilio, ma l’attacco è rivolto a tutta la società. Ci sono scene repellenti che rendono il suo schifo per un mondo di cui non approva nulla. Il Conte sostiene che in Persio c’è anche un invito a se stesso.
• Lucilio: attacca un personaggio pubblico dall’alto
• Orazio: non attacca il personaggio potente né i difetti ma i vizi, e considera sé stesso non immune da questi.
• Persio: torna all’attacco di Lucilio in un atteggiamento da giudice che condanna la società che gli fa ribrezzo.
Secondo il Conte Persio guarda anche a sé stesso, invita sé, non a correggersi, ma si rimprovera di un certo cedimento: il poeta Persio giudica l’uomo Persio anche se non è comunque parte della società.
Nerone si suicidò nel 68. Le legioni in Gallia comandate da Galba si ribellarono: fu il primo di molti casi. L’esercito infatti conosceva i vantaggi di essere a Roma, se fosse riuscito a portare il suo generale al potere si sarebbe sistemato. ANNO DEI 4 IMPERATORI: 3 durano 3 mesi. Quando Galba dimostrò che era possibile arrivare al potere con l’esercito, altri lo imitarono: Otone, Vitellio e Vespasiano.
Otone, secondo Tacito, era “degno dell’impero se non avesse regnato”: sembrava adatto all’impero. Galba aveva anticipato il principato d’adozione, ma sceglie male il suo successore. Era troppo legato al mos maiorum. Comunque venne fermato da un’altra ribellione: Otone si suicidò e salì al potere Vitellio. Questo fu il peggiore: totalmente incapace dal punto di vista politico. Si dice che al momento della morte si nascose in un posto vergognoso: era un vigliacco, anche davanti alla morte (per il romano la morte era importante perché rispecchiava la vita della persona). Prese quindi il potere Vespasiano: questo era totalmente diverso. Aveva cominciato la carriera militare già sotto Nerone, era in Oriente per sedare la rivolta giudaica. Al suo seguito c’era il figlio Tito. Sono da notare due caratteristiche di Vespasiano:
1. Non era di Roma
2. Non era di famiglia aristocratica, ma era un eques.
Era in condizioni totalmente diverse rispetto agli imperatori precedenti.
A Roma il senato, vedendo che Vitellio era una nullità, e che c’erano delle sommosse contro l’imperatore, mentre Vespasiano si stava mettendo in buona luce e l’opinione pubblica lo preferiva a Vitellio, nominò Vespasiano imperatore, e per la prima volta questo accadde mentre lui non era a Roma. Vespasiano lasciò al figlio l’incarico di portare a termine la guerra e a Roma offrì un donativo in denaro ai senatori: questo è un gesto di grande peso perché colloca il senato non in una posizione privilegiata nei confronti dell’imperatore, ma, ricompensato per la nomina, lo colloca in una posizione subordinata all’imperatore, sul piano delle altre cariche.
Vespasiano rimase dieci anni al potere e aprì la dinastia Flavia (dopo di lui regnarono Tito e Domiziano, i suoi due figli). Era di origine contadina, quindi aveva una mentalità risparmiatrice: questo fu utile perché le casse dello stato erano vuote. Era un ottimo organizzatore, aveva abitudini frugali militari. Sospese la costruzione della domus aurea: fatta costruire da Nerone, doveva essere l’apoteosi dell’eleganza; Vespasiano prese tutto il materiale prezioso che c’era nel cantiere, e doveva essere proprio tanto se Svetonio ci dice che c’era una stanza totalmente tappezzata di perle! Attuò una politica di rigido risparmio, con forti tassazioni: da qui derivano i gabinetti “vespasiani”: se uno era talmente ricco da avere dei gabinetti privati, li poteva tassare. All’indignazione del senato rispose che “il denaro è denaro”: non importa da dove arrivi: infatti in questo modo riuscì a risollevare le finanze dello stato. Cambiò la politica: se Nerone era a favore del popolino e non aveva simpatie nelle classi alte, Vespasiano e Tito restaurarono il buon rapporto con le classi alte. In arte va a riprendere Augusto, con il classicismo. In contrasto con la sua politica cominciò la costruzione dell’Anfiteatro Flavio (Colosseo): è strano che un rigido risparmiatore abbia fatto costruire un’opera così! Il materiale costava! Il figlio lo inaugurò: era ricoperto di marmi e pieno di nicchie con statue a marmi contrastanti. Lascia il ricordo della dinastia Flavia, ha sentito il bisogno di farlo anche perché non aveva una gens di antica data alle spalle; comunque resta in contraddizione con la sua politica. Il Colosseo è complicato dal punto di vista tecnico; le opere di Nerone erano sfarzose e con barocchismo esagerato; Vespasiano e i figli invece volevano colpire con il prezioso e un’ornamentazione eccessiva. Ci sono tante leggende sul Colosseo, una descrive Nerone che muore sullo sfondo del Colosseo che brucia, altre parlano di Cristiani che muoiono nel Colosseo: nessuna è vera! I marmi sparirono con le invasioni barbariche e per costruire chiese. È un’opera grandiosa, di un diverso tipo di barocchismo.
In campo letterario torna il classicismo, ma di maniera: cerca di recuperare l’età augustea e soprattutto Virgilio. Ci fu una grande produzione epica. Il punto di riferimento era Virgilio; lo era stato anche per Lucano ma lo capovolgeva. Per cancellare l’età neroniana e l’errore di Lucano ci si doveva rifare al Virgilio vero, anche a Ennio e Nevio. Però non riuscì: l’Eneide nasceva dalla condivisione di valori. Però quei tempi erano finiti! C’è ancora un accordo, ma non quanto sotto Augusto! I tre poemi nati in questo periodo sono:
• Punica
• Tebaide
• Achilleide (non completa)
(non sono in programma)
Vita
È vecchio per distinguerlo dal nipote. Intraprende la carriera militare, infatti scrisse opere sull’arte bellica. Cominciò sotto Nerone, aveva un protettore che però cadde in disgrazia cadde in disgrazia anche lui. Conobbe Vespasiano che se lo postò dietro quando salì al potere. Aveva doti di grande lavoratore: serio, meticoloso, preciso, come Vespasiano. Vespasiano lo prende come consigliere. Era un funzionario serio, frutto di questa metodicità fu la sua opera NATURALIS HISTORIAE in 46 libri: l’enciclopedia scientifica dell’antichità. Il suo metodo venne descritto da Plinio il giovane: aveva sempre degli schiavi che gli leggevano i testi (in latino o greco) e ad un altro schiavo dettava o un riassunto, o il pezzo intero. Plinio nella prefazione dice che è un’opera di consultazione (c’è un indice), non è da leggere per intero perché è troppo vasta. Nell’introduzione del primo libro ci sono notizie dell’opera di cui lui stesso parla in numero minore: parla di 20.000 voci, quando ce ne sono 34.000! è un’opera colossale. Nell’indice ci sono le fonti, per cui Plinio di vanta dell’onestà nell’indicarle: infatti nel mondo antico non c’erano diritti d’autore (anche se questo è strano per la mentalità romana che ha organizzato il diritto!).
Muore in modo adatto a lui: era un ammiraglio a capo della flotta imperiale che aveva come punto centrale Capo Miseno. In realtà Plinio era un comandante di fanteria ma per il Romano non c’era alcuna differenza perché ha portato in acqua l’esercito di terra. Cominciò l’eruzione del Vesuvio, e Plinio morì lì. Plinio il giovane in una lettera a Tacito descrive la morte dello zio: è strano perché la narrazione è particolareggiata, come se l’avesse vista da vicino, ma Plinio il giovane è sopravvissuto! Secondo il racconto di Plinio il giovane, Plinio da Miseno vide un pennacchio di fumo alzarsi dal Vesuvio (che non è quello di oggi, ma era a 100 m da quello di oggi: è crollato e da una bocca laterale si è formato quello che noi oggi conosciamo come Vesuvio) e andò a vedere. La metodologia di Plinio il vecchio è discutibile: quando aveva la possibilità di vedere direttamente qualcosa, andava, non era solo un compilatore come dicono! Comunque giunto presso il Vesuvio vide il disastro e cercò di aiutare la gente che era lì morì da ammiraglio. Ci fu un terremoto e un maremoto, e la flotta non si salvò. Non potendo più salvare nessuno decise di avvicinarsi di più per vederlo. La stanza dove dormiva si riempì di cenere, lui andò alla spiaggia, vicinissimo all’eruzione. Il suo corpo venne ritrovato tre giorni dopo. Rimane un mistero come il nipote abbia fatto a descrivere così bene gli ultimi momenti di vita di suo zio. Nel racconto Plinio il giovane sottolinea:
- L’interesse scientifico
- Il senso del dovere.
Per esempio, quando ricevette la richiesta di aiuto da parte di una signora anziana appena prima di partire per vedere il fenomeno, deviò per portare aiuto a lei e alla sua famiglia. Quando non potè più partire di lì, rimase come scienziato, a prima era lì per portare aiuto a chi aveva bisogno. La gente è morta perché per il calore il sangue si è scisso: in un attimo sono morti.
Naturalis historia
Dall’opera (nel libro dell’antropologia) si percepisce una visione contraddittoria dell’uomo; a seconda dell’argomento di cui sta trattando, si alternano le due posizioni, in continua antitesi:
♣ L’uomo è al centro
♣ L’uomo è debole di fronte alla natura.
È dovuto al fatto che ha semplicemente riportato, e non conciliato, le sue fonti.
Parlando dei metalli, fa una storia dell’arte antica (parla dei colori, come venivano ricavati…): è una miniera di notizie, però non ben integrate, inoltre mancano delle scienze (sono assenti la fisica e la matematica): si è interessato solo di alcune branche del sapere, che ha raccolto e organizzato. Spesso dà l’idea di non voler mettere in mostra il suo sapere, ma di compilare una tabella: sembra che riporti tutte le informazioni che trova, senza commentarle. Questo spiega gli errori, prende notizie già tradotte dal greco.
Gli argomenti non sono né in ordine alfabetico, né pare che ci sia alcun tipo di ordine; capiamo che non deve esserci un piano dell’opera globale che si è posto perché, fra le scienze, l’uomo non è collocato né all’inizio, né al centro, né alla fine. Anche il fatto che parli di 20.000 notizie mentre ce ne sono il doppio, indica che ne ha aggiunte molte.
Una parte deludente è quella dedicata agli animali: Aristotele aveva posto l’uomo al centro, separato dagli altri animali, secondo la visione antica (l’uomo è ζόον πολιτικόν, che viene tradotto con “animale politico”, ma in realtà viene dalla radice di ζάω, cioè vivere, quindi vuole semplicemente dire: essere vivente); inoltre Aristotele aveva un ordine globale per esaminare gli animali. Plinio li esamina secondo l’habitat, ma non dell’animale in sé, ma in rapporto a come vengono in contatto con l’uomo: li divide in
• Terrestri in rapporto all’uomo che coltiva la terra
• Aquativia in rapporto ai pescatori
• Volucres in rapporto all’uomo che li caccia.
• Per ultimi lascia gli insecta, che non hanno rapporti con l’attività umana.
Parte dall’elefante, perché è più vicino ai sensi dell’uomo cosa vuol dire??
- I sensi dell’elefante sono vicini a quelli dell’uomo? è l’uomo a rapportare tutto
- È quello che l’uomo vede di più? è abbastanza ridicolo!!
Non si capisce; la distinzione è sempre in rapporto all’uomo, ma è folle!!
Per quanto riguarda le piante, parte dall’India dove ci sono molte piante esotiche; dedica un intero settore ai mirabilia è la solita passione del romano, accentuata in epoca imperiale, quando la natura appare come spettacolo. Anche i Greci avevano il gusto per lo strano, per le cose che stupiscono. Questo deriva da una concezione filosofica, secondo la quale natura (come φύσις) è voluntas: risponde a regole di comportamento che si è auto-data. Se si comporta in modo strano, è perché ha voluto darsi regole strane, per cui queste anomalie assumono significato. La natura è qualcosa di magico e interessante; si auto-vincola secondo la sua volontà. Per questo gli antichi sentivano sempre il bisogno di spiegare i fenomeni naturali, Livio ne citava tanti, perché era la tradizione che se li portava dietro. Livio non ci credeva, e lo sottolinea, ma se ci hanno creduto i maiores, vanno ricordati perché hanno determinato le loro azioni interesse religioso. In epoca imperiale poi si aggiunge lo spettacolo, quindi viene guardato con senso ESTETICO. Se parte dall’India a parlare delle piante i motivi possono essere:
• Interesse per mirabilia piante non conosciute
• Secondo alcuni, per liberare le credenze da quelle stupide.
L’impero dei Flavi terminò con l’assassinio di Domiziano; a differenza di Vespasiano e Tito, aveva tentato di tornare ad un sistema di tipo orientaleggiante, non aveva cercato un accordo con le classi elevate, ma voleva tornare ad un sistema di tipo assolutistico (quindi passa per pazzo), anche con una forma di venerazione dell’imperatore, non ancora adatta ai tempi. Cercava l’appoggio delle classi basse con il solito sistema di panem et circensem. Morto Domiziano, il senato, che tanto ha rimpianto la res publica, ha la possibilità di resuscitarla, ma non riesce a far altro che scegliere al suo interno un altro imperatore NERVA. L’età di Nerva (80 anni) denuncia come questa scelta sia un esperimento: lo scelgono apposta perché duri poco (infatti dura solo 2 anni). Era di origine Gallica, e lo succedettero degli imperatori spagnoli; inaugurò il sistema di “adozione”: ogni imperatore sceglieva e adottava il successore ideale, quindi la successione non era più dinastica, ma adottiva. Questo periodo viene ricordato come dinastia degli Antonini, e non si sa bene perché, dato che Antonino era uno solo, e non era neanche una dinastia perché i successori venivano scelti; la definizione migliore è principato di adozione, che riassume meglio il concetto. Pose fine a questo sistema Marco Aurelio, che lasciò l’impero al suo figlio naturale Commodo, che era la cosa peggiore che potesse fare perché Commodo era proprio suonato. Il sistema avrebbe dovuto funzionare perché ridava importanza al senato, che esprimeva al suo interno un imperatore; però il senato non ebbe la forza di tornare alla repubblica. Galba aveva tentato una cosa simile (ma con le armi) però aveva scelto un successore non adatto ai tempi, uno dei Pisoni, troppo legato alla tradizione del mos maiorum. Tacito fa dire a Galba: “se potessimo rendere allo stato la repubblica, lo faremmo”: non importa se la frase sia di Galba o di Tacito, comunque indica la coscienza che la repubblica era morta. Si poteva solo dare all’impero l’imperatore migliore. Nerva anche se era un esperimento ha agito bene, e si è occupato di un problema finora trascurato: il pauperismo. Fu il primo ad organizzare orfanatrofi e case di riposo: il fatto stesso indica che la situazione era tutt’altro che allegra, c’erano tanti bambini abbandonati dalle famiglie che non riuscivano a mantenerli, tanti vecchi che non si reggevano da soli. Inoltre Galba vide un altro problema: l’Italia dipendeva dall’oriente nei rifornimenti: puntò ad utilizzare i territori italiani in modo migliore, perché l’Italia non dovesse sostenersi esclusivamente basandosi sulle colonie. È importante che abbia visto il problema e cercato una soluzione.
Lo succedette TRAIANO, un generale spagnolo, che si accorse di un altro problema che si farà sentire in tutta la sua gravità di lì ad un secolo: mancavano materie prime preziose. Il denaro, con l’oro e l’argento di cui era fatto, bastava da sé a garantire il proprio valore; ora la moneta cominciava a svalutarsi, portando al corso forzoso della moneta perché non si garantiva da sola. In Dacia c’erano delle miniere va a conquistare la Dacia. Ecco perché avevano scelto un militare: l’avevano già pensato! La Dacia era controllata dall’Armenia che era controllata dai Parti, e in quel momento una grana interna ai parti permise il buon esito della spedizione. I Romani erano illusi. Tacito elogiò sinceramente il ritorno alla libertà, vede la possibilità di scrivere la verità con Nerva e Traiano: tempi felici. Traiano però si rivelò più autoritario di quello che sembrava; il fatto che sua moglie si imponeva troppo scandalizzò i Romani. Traiano nominò suo successore un altro spagnolo, ADRIANO. Era un esteta, amante dell’arte e della cultura, eccellente amministratore. I viaggi che fece attorno all’impero servirono per rendersi conto personalmente della situazione nelle province; infatti rivoluzionò il sistema burocratico con un’organizzazione più efficiente e stabile. Fu un buon generale; in campo militare dovette affrontare la seconda rivolta giudaica, che fu talmente pesante da richiedere il personale intervento di Adriano; lo capiamo dalla lettera che mandò al senato, dove diceva “io e i soldato stiamo bene”: è la formula utilizzata nei casi di grande pericolo. Il suo successore fu ANTONINO IL PIO, che non ha fato niente né di bene né di male; poi governò MARCO AURELIO. Dovette risolvere dei problemi ai confini; e lasciò infelicemente l’impero al figlio COMMODO, che era la persona meno adatta. In questo pose fine ad un sistema che fino ad ora aveva funzionato bene, Commodo invece era sinceramente convinto di essere la reincarnazione di Ercole, era proprio suonato. Tornò al sistema di tipo orientaleggiante.
È l’ultimo autore di satire, perché l’attacco al potente non è più possibile.
Lucilio aveva potuto attaccare il singolo personaggio, nei suoi tempi.
Persio non aveva attaccato un personaggio specifico, ma l’umanità, la società.
Giovenale raggiunge una violenza che era già notevole in Persio; attacca personaggi riconoscibili, ma morti.
Tutto quello che scrisse sotto Domiziano lo pubblicò sotto Nerva, anche perché si sarebbe fatto ammazzare inutilmente. Attacca personaggi potenti, ma morti, come Domiziano e Messalina; cita qualche personaggio vivo, ma non abbastanza importante da provocargli problemi. Lui stesso nella sua introduzione ci spiega perché scrive satire: FACIT INDIGNATIO VERSUM. Sentendo cose come una donna che faceva la gladiatrice (quello che lo scandalizzava non era tanto che combattesse pubblicamente, magari combatteva in un’arena privata, ma che fosse un donna romana) era difficile non scrivere satire: i suoi versi sono il prodotto dell’indignazione, ovvia per la società. Giovenale ci riporta, nella satira contro Messalina, la notizia che la regina scappava di notte per fare la prostituta nel posto più volgare, e anche pericoloso, della città: è abbastanza incredibile!! ok, ebbe degli amanti, ma la maggior parte delle accuse erano invenzioni di Agrippina che voleva il potere.
Giovenale nelle sue satire varia gli argomenti, comunque sono tutti di carattere morale;
• La morale di Persio era stoica
• Quella di Orazio epicurea
• Giovenale non attacca la sua morale a qualcosa, ma fa appello al mos maiorum: non c’è bisogno di ricercare una filosofia greca, ma una morale è presente nel mos maiorum dei romani.
Come al solito, più ci si allontana dal mos maiorum, più viene dipinto come splendido; Giovenale si accorge che ha lasciato una traccia nei municipi italici. Giovenale considera Roma la cloaca dove sono confluiti tutti i vizi dell’Impero: non perché i romani siano corrotti, ma perché questa corruzione è portata dagli stranieri. Ha una visione negativa anche dei Greci: tutti gli stranieri indistintamente hanno contribuito alla corruzione dei costumi. Questi però si sono fatti meno sentire nei municipi italici dove parte del mos maiorum è rimasta integra. Questa visione non è dettata solo da una visione ideologica, ma anche dalla sua esperienza: infatti era un cliens per necessità; avendo bisogno di un protettore, ha cercato un patronus con il quale ha stretto un rapporto, e ha trovato la concorrenza negli stranieri venuti a Roma. Giovenale vedeva che i patroni più ricchi e potenti erano già occupati dagli stranieri da qui nasce l’avversione nei loro confronti.
La visione negativissima di Giovenale investe tutti i settori della vita: attacca l’avvocato che tuona in tribunale contro un’adultera indossando una tonaca trasparente; attacca un marito che finge di non vedere l’amante della moglie perché quello è ricco e spera di ereditare. Ritiene pessima l’educazione dei bambini, ai quali si deve il massimo rispetto REVERENTIA: rispetto per la loro innocenza. Tipo Quintiliano, disapprova l’educazione, non perché viene fornita secondo principi sbagliati, ma con il cattivo esempio dei genitori corrotti che pensano solo ad arricchirsi.
È famosa la sua frase MENS SANA IN CORPORE SANO, il cui significato viene però spesso travisato: non voleva dire che se la mente è sana, allora anche il corpo è sano o viceversa! Fa parte di una satira ad un amico, che faceva preghiere folli agli dei, i quali quindi erano coinvolti nella corruzione del personaggio; in realtà, dice Giovenale, l’unica cosa che dovrebbe essere desiderata è mens sana in corpore sano: stare bene e avere la saggezza, obiettivi non folli come quelli richiesti dal personaggio in questione.
La quarta satira è rivolta contro le donne. Attacca in modo violentissimo le donne alle quali attribuisce accuse senza rendersi conto che i vizi che riconosce alle donne non sono connaturati al loro sesso, ma sono dovuti al fatto che anche loro fanno parte di questa società. Riprende in generale Simonide, con qualche differenza: se una volta si salvava la donna-ape, qui no; inoltre aggiunge due accuse nuove: la donna saccente e quella superba. Anche la donna poteva essere colta: come la madre si Seneca (secondo Seneca, fin troppo per una donna, ma questa è una visione tradizionalista), la figlia di Ortensio sapeva parlare, la madre di Bruto teneva una corrispondenza con Cicerone. Secondo Giovenale però questa cultura in un essere negativo come la donna non è più cultura ma saccenteria è impensabile permettersi pure di correggere il marito in pubblico! Inoltre il fatto di poter vantare antenati illustri diventa una cosa negativa per una donna. Giovenale parla di questo per scoraggiare un amico a sposarsi: qualsiasi donna è una fregatura, anche se ne prendi una di una gens illustre: non farà altro che vantarsi dell’antenato illustre, si sentirà superiore e pretenderà di comandare lei. La questione della matrona immorale era già sentita da tempo (Augusto ecc.). Augusto aveva fatto una legge per cui una donna con tre figli maschi avrebbe potuto disporre del proprio patrimonio: il fatto che ci fosse la possibilità per una donna di amministrare la propria dote dimostra quanto siano cambiati i tempi. Mentre per l’uomo Giovenale intravede qualche salvezza (nel municipio italico, dove si è conservato ancora un po’ di mos), per la donna non ci sono proprio speranze.
Prende in giro Domiziano con il senato e il consiglio imperiale: racconta che a Domiziano viene regalato un pesce molto grande: come lo cuciniamo? Non ci sono padelle sufficienti! Allora riunisce il senato per discuterne. Su Domiziano avrebbe potuto dire di peggio; questa è un’accusa all’aristocrazia che si mette totalmente al servizio dei capi come dell’imperatore, anche per problemi stupidi come questo!
È sua anche un’altra espressione molto conosciuta: PANEM ET CIRCENSEM il modo di tener buono il volgo: con la pancia piena e distratti non ti daranno noia. È un caso che ben 3 frasi di Giovenale siano diventate proverbiali: questo indica la sua fortuna.
Fu maestro di Giovenale, probabilmente di Plinio il Giovane e forse anche di Tacito. Di origine spagnola, è un retore, non ci sono tracce filosofiche nelle sue opere. È esponente dell’oratoria giudiziaria (unico campo rimasto per l’oratoria). Conobbe Galba, che lo portò a Roma, dove aprì una scuola di retorica. Si sa che Vespasiano aprì delle scuole di retorica finanziate dallo stato fu sostenuto dallo stato; era onesto perché fu l’uomo di fiducia di Vespasiano, Tito e Domiziano, anche se questi avevano posizioni diverse.
Le scuole
Lo stato non si interessava delle prime fasi della scuola: né del maestro elementare, perchè non aveva implicazioni politiche, e nemmeno del grammaticus, anche se aveva già più implicazioni politiche, però non era direttamente coinvolto l’impero perché il grammaticus preparava solo ad un’istruzione più generale. L’attività del retor invece interessava lo stato: l’educazione retorica era un fatto culturale e preparava i burocrati al servizio dell’impero; con Vespasiano non diventa una scuola “statale”, però era gratuita e il retor era stipendiato dallo stato, quindi c’era un controllo dell’imperatore perché il retor, se lo stato lo pagava, non aveva nessun interesse a mettersi contro l’imperatore. L’imperatore, dal suo lato, aveva interesse a tenersi buone le persone che studiavano. Vespasiano fu il primo a capire l’importanza della faccenda.
Quintiliano era un illuso, ingenuo, apprezzato da Vespasiano che ne vide l’abilità e capì che non era pericoloso perché non si sarebbe messo contro l’imperatore. Infatti Domiziano gli affidò l’educazione dei figli, tipo Seneca (solo che Seneca era un filosofo). Fu l’ultimo ancora convinto che l’oratoria dovesse DOCERE, DELECTARE e MOVERE; se poteva ancora delectare e movere, docere era decisamente più difficile per l’epoca! Quintiliano era ancora onestamente convinto che il buon oratore avesse ancora questo titolo, che potesse ancora dare un contributo alla società (lo vedeva come tramite tra l’impero e la società). Plinio il Giovane e Dione di Prusa teorizzavano che il filosofo/uomo di cultura consigliava l’imperatore, non con l’idea di controllare l’imperatore, ma vedevano il tentativo dell’uomo di cultura di ritagliarsi uno spazio da qualche parte (non è una critica al potere assoluto, non è una visione politica!). Quintiliano non arrivò a pensare questo, non tentò un adattamento all’impero, però sapeva che l’oratore aveva ancora il compito di guida. Come faccesse, come si collocasse, questo non si capisce bene, però lui ne era convinto, tanto che scrisse un’opera, “de causis corruptae eloquentiae”, in cui afferma che l’eloquenza è il decadenza, è un argomento che hanno già affrontato in molti, lui a maggior ragione. Quintiliano per spiegarlo confonde l’effetto con la causa. Le scuole di retorica producevano solo più esercitazioni fini a se stesse, fatte per spettacolo, che si riversavano sulla scuola; Quintiliano vedeva in questa produzione la causa stessa della decadenza dell’oratoria: il chiudersi dell’oratoria nella scuola. Questo è verissimo, però è l’effetto, non certo la causa! Quintiliano avrebbe voluto che le suasorie e le controversiae fossero strumento della scuola per plasmare l’oratore che così potesse docere.
Institutio oratoria
È la sua opera più importante. Traccia il percorso che un oratore, prendendolo fin da piccolo, dovrebbe fare per diventare un buon oratore. L’educazione dei bambini era affidata a schiavi non specializzati. Ai tempi di Livio Andronico ci si scandalizzava che un bambino fosse educato da uno schiavo, poi ci si fece l’abitudine. Quintiliano riteneva che questo tipo di educazione fosse sbagliato:
• Per un fatto etico-morale uno schiavo non poteva essere un buon formatore;
• Il bambino impara imitando imparerà degli errori invece che un buon latino.
Quest’educazione in realtà è diseducazione, non è accettabile ma gravissima.
Quintiliano affronta anche un’altra questione: è meglio la scuola pubblica o privata? Nel mondo Romano non c’era una scuola pubblica intesa modernamente, ma la loro scuola pubblica corrisponde alla nostra privata: è la famiglia che paga; la scuola privata è quella a casa propria. La differenza sta nel fatto che la scuola privata si dedica ad un bambino solo, mentre nella scuola pubblica c’è un solo maestro in comune a tutti. Secondo Quintiliano è meglio la scuola pubblica: anche se la resistenza dei conservatori diceva che a contatto con gli altri bambini e con maestri non affidabili si corrompevano i costumi, secondo Quintiliano potevano essere corrotti anche in casa! Inoltre c’era un vantaggio: il bambino si abituava al confronto, mentre in casa sarebbe diventato o presuntuoso (si riteneva il meglio possibile perché non poteva confrontarsi con altri) oppure ipercritico (gli sembrava di non aver mai raggiunto il grado di accettabilità) sempre perché non aveva criteri di giudizio. Poi nella scuola privata imparava solo cose e correzioni fatte a lui, mentre nella privata ha anche la possibilità di sentire cose insegnate e corrette ad altri.
Dopo aver parlato dell’educazione di base, si pone un altro problema: la scuola deve essere accessibile a tutti? È lo stesso problema di Isocrate. Già da quando il bambino nasce, il padre deve avere le maggiori speranze in lui. Non è vero che c’è gente non in grado di imparare; ci sono diverse gradazioni di intelligenza, ma l’insegnamento produce sempre un risultato. Uno non diventa un genio se non lo è, ma può sempre migliorare. È la stessa risposta che si dà Isocrate. La pensa in modo diverso però su come la scuola aiuti e migliori lo studente. La scuola di Isocrate infatti produceva allievi marchiati, plasmati da lui, tanti isocratini, poneva se stesso come modello da imitare. Quintiliano aveva una visione più moderna: secondo lui la scuola non ha il compito di plasmare esseri tutti uguali, ma di potenziare e sviluppare le caratteristiche che ciascuno ha. I requisiti indispensabili, le caratteristiche di base necessarie per poter diventare buoni oratori sono:
• Essere un vir bonus
• Essere portato a parlare
Deve esserci una propensione naturale per diventare un oratore eccellente! Comunque natura e ars devono coesistere, in questo Quintiliano mantiene la posizione di Isocrate e Cicerone. È meglio una natura senza ars che un’ars senza natura, per chiarire cita l’esempio di Prassitele: se scolpisce un pezzo di marmo, viene una statua stupenda, ma se scolpisce un materiale da poco, allora è meglio il marmo grezzo. Ma perché è necessario in vir bonus? La scuola dà un’arma straordinaria in mano: deve essere data in mano ad uno furbo, se la dai in mano ad uno qualsiasi, questo diventa un gladiatore fatto per dare spettacolo, che diventa anche pericoloso. Problema etico (?) il vir bonus di Quintiliano è diverso dalla definizione di oratore che aveva dato Catone (dicendi peritus): per Catone era un cittadino; per Quintiliano invece è un fatto morale, si basa su principi morali, pensa che possa docere, ma è pur sempre un singolo.
XI LIBRO è una critica letteraria alla letteratura latina, e parzialmente anche greca. A lui dobbiamo numerose definizioni di “sommi” autori e di “classico” (anche se il primo in senso moderno “degno di imitazione”, e di Aulo Gellio??); per esempio è sua la definizione di Cicerone come retor maximus. Ancora sua è la definizione dello stile di Livio “lactea ubertas”, è lui che ha detto “satura tota nostra est”. Altre affermazioni su molti autori sono ancora condivisibili oggi: aveva un gusto naturale nel criticare gli autori. Ma perché scrive questo, perché un retor deve far seguire una classificazione di autori?
1. Se un oratore doveva citare un exemplum, non solo di pezzi di prosa ma anche di poesia, era necessaria la conoscenza degli autori
2. La poesia era un passatempo, una lettura piacevole a cui dedicarsi. La lettura di poeti era un modo di passare il tempo adatta all’oratore.
Perché ci devono essere dei “classici”? teoria dell’imitazione. Imitazione, per Quintiliano, è sinonimo di emulazione non può essere una semplice riproduzione, perché se no gli autori sarebbero tutti uguali; imitare un grande vuol dire mettersi in gara con lui; in questo modo però teoricamente ci sarebbe il rischio di superare il grande! L’imitazione non è una riproduzione piatta del modello, ma significa avere davanti qualcuno da “rielaborare”; peccato che il suo modello fosse Cicerone rielaborato con Seneca che Quintiliano odiava! Di Seneca ne parla per ultimo perché “falsamente sono stato creduto avversario di Seneca”. Quintiliano ha passato la vita a strappare allievi dalle mani di Seneca, che piaceva secondo Quintiliano, piaceva solo per i suoi errori, quindi chi lo prendeva a modello non ne imitava la parte migliore della cultura, sapere, insegnamenti, ma lo stile, che era scorretto, frammentario, non organico. In realtà anche lui chiude con sententiae, quindi non è immune da questa corrente che ormai aveva influenzato la lingua latina. Di Seneca elogia la dottrina, ma mentre lo fa dice che la accetta acriticamente, fidandosi di altri che l’hanno controllata. Plinio il Giovane non risente di Seneca: questo forse indica che la battaglia di Quintiliano è stata vinta. Infatti Tacito, allievo di Quintiliano, risente di Cicerone.
Nipote di Plinio il Vecchio, fu adottato dallo zio perché questo non aveva figli, e Plinio il Giovane era rimasto solo. Nacque a Como nel 60-61, fu allievo di Quintiliano, diventò un importante avvocato (l’unico sbocco ancora possibile per l’oratoria era quella giudiziaria). Ottenne una vittoria in un importante processo difendendo un accusato insieme a Tacito: Tacito era uno storico, ma la cultura era oratoria; il fatto che i due abbiano lavorato insieme indica che probabilmente si erano conosciuti a scuola, è probabile che anche Tacito sia stato allievo di Quintiliano. Plinio fece carriera politica sotto diversi imperatori: Domiziano, Nerva, Traiano; diventò l’uomo di fiducia di Traiano. Andò a fare il governatore in Bitinia; era un uomo onesto, serio, però molto indeciso. Ci lascia un epistolario nel quale, su 10 libri, 9 contengono lettere sue, il decimo contiene tutta la sua corrispondenza con Traiano: a parte una lettera sui cristiani in cui chiede aiuto per risolvere un grave problema, tutte le altre indicano o che è un uomo che non sa prendere decisioni, oppure che ha paura che le sue decisioni non piacciano all’imperatore, anche se si tratta di cose stupide. Nelle risposte Traiano è cortese, probabilmente c’era una fitta corrispondenza tra l’imperatore e tutti i governanti delle province, infatti già sotto Augusto questo aveva portato alla necessità di qualcuno che controllasse questa corrispondenza. Ci sono però momenti in cui Traiano si stufa! Comunque si vede che ci teneva ad essere informato su tutto. Non sappiamo neanche se sia tornato a Roma o sia morto in Bitinia. Il resto dell’epistolario presenta il mondo dell’epoca, però con una visione unilaterale: il punto di vista è quello di un signore altolocato, egocentrico, che vede tutto in funzione di se stesso. È orgoglioso della sua casa, che è una sorta di città per i suoi schiavi, che fa anche sposare: lo dice compiacendosi di questa pensata, che gli altri non hanno avuto, di produrre nella sua casa una piccola Roma, proporzionata agli schiavi. Era compiaciuto che la gente andasse a sentire se sue recitationes, scambiando questa moda per vivacità intellettuale. Si trasferì in campagna ritenendo Roma troppo pericolosa e disordinata. Era uno dei pochi nel mondo antico con la falsa modestia si capisce che si aspetta i complimenti. Quando scrive ad amici e conoscenti riempie le pagine di elogi: ha una visione limitata della società, ne presenta solo una piccola parte, vista dagli occhi di uno che vede tutto in funzione di se stesso. Comunque scrive bene. C’è anche la descrizione della sua tenuta di campagna infestata da fantasmi, e curiosità di questo genere.
È strano che Tacito sia tanto amico di Plinio (a parte che è Plinio che ne parla). Comunque con quasi sicurezza i due si sono conosciuti alla scuola di Quintiliano: cominciano tutti e due come avvocati e risentono dello stile ciceroniano. Probabilmente dunque c’è stato questo rapporto, e Plinio come al solito amplifica l’amicizia. La famosa lettera in cui Plinio descrive la morte del Vecchio è la risposta ad una lettera di Tacito in cui chiedeva com’era morto. Plinio amava vantarsi di quest’amicizia, non tanto perché l’altro era aristocratico e lui eques, ma perché era sinceramente convinto che l’altro lo stimasse. In realtà i due erano totalmente lontani, era Plinio che vedeva le cose come le voleva vedere.
Plinio il Giovane fece anche carriera politica, che in epoca imperiale non aveva nessuna importanza: aveva solo un titolo, un modo per distinguersi. Sia Tacito sia Plinio percorsero il cursus honorum, entrambi divennero consoli: Traiano nell’anno 100 caldeggiò presso il senato la nomina di Plinio. Plinio pronunciò di fronte al senato un discorso, noto come “panegirico”, che ci è arrivato in apertura di una raccolta di questi “panegirici” (in Grecia il panegirico era il discorso che si faceva alle olimpiadi; a Roma questo titolo indicava discorsi fatti al senato o elogiativi). Il fatto che proprio il discorso di Plinio sia il primo della raccolta potrebbe indicare che sia stato il primo discorso di ringraziamento, oppure il primo ad essere denominato così. Qualcuno pensa che fosse particolarmente significativo da aver influenzato quelli seguenti. Comunque questo discorso che abbiamo non è quello che ha effettivamente pronunciato, ma la versione scritta; elogia Traiano e anche la sorella, già che c’è. È totalmente impostato sull’antitesi fra Traiano e il suo predecessore Domiziano, anche se sotto Domiziano Plinio aveva cominciato la carriera politica: non lo nega, ma non ne parla neanche.
Punti importanti del discoso:
• “tu ci comandi di essere liberi, e noi lo saremo; tu ci comandi di parlare liberamente, e noi lo faremo” è quasi un ossimoro, ma non è una figura retorica: è l’atteggiamento delle classi più elevate che si rendono conto che dall’impero viene tutto, anche la libertà. L’espressione di Plinio indica che anche per essere liberi si aspetta un ordine dall’alto, non è proprio una forma di schiavitù, ma dall’alto viene tutto. Si rendono conto che la libertà che sentivano con Traiano in rapporto a Domiziano veniva dall’alto (c’è anche un’idea di respiro rispetto a Domiziano)
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• Tra gli elogi c’è un ringraziamento sincero perché Traiano ha voluto prendersi questo negotium, si è preso la grana del potere: è passato tanto tempo da quando avere il potere era considerato un dovere ma anche un onore! Servire Roma ora è un peso in più che uno vorrebbe non prendere, se Traiano viene ringraziato! La vita pubblica viene sentita ormai troppo lontana dal singolo. Non è più un dovere di tutti e motivo di orgoglio, ma un peso scaricato sulle spalle. Infatti le epistole a Traiano dimostrano che tutto quello che si fa lo si fa per conto dell’imperatore, non si agisce a nome di Roma, ma a nome dell’imperatore, non si è più autonomi.
Esce dal periodo dei Flavi perché nato nel 40, arrivò a Roma nel 65 e se ne andò da qui nel 99, quando Domiziano era già morto e si succedettero Nerva e Traiano: è contemporaneo di Giovenale e Plinio il Giovane. Veniva dalla Spagna, a Roma cercò e trovò protezione presso la famiglia di Seneca e Lucano, che erano spagoli; è rimasto legato alla vedova di Lucano per tutta la vita (in senso buono). Quando Seneca e Lucano caddero in disgrazia, dovette cercarsi altri protettori, sempre sotto Nerva; li trovò ma con un rapporto patronus-cliens, rapporto fortemente subordinato. Con l'80 uscì la sua prima opera “De Spectaculis”, una raccolta di epigrammi scritti in occasione dell’inaugurazione del Colosseo. Qui ebbe inizio la sua fama e la protezione dei Flavi, soprattutto di Domiziano, che lo ammise nel rango dei cavalieri (che ormai era una semplice posizione sociale) senza che ne avesse le caratteristiche. L'appartenenza ad una classe o all'altra era originariamente legata al censo, ma l’Imperatore poteva iscrivere nelle classi più alte persone anche se non avevano il censo necessario. Gli diede anche lo IUS TRIUM LIBERORUM, che era un modo per cercare di porre fine alla crisi demografica, istituito da Augusto: dopo che una persona aveva avuto 3 figli, se era donna poteva disporre della propria dote; se uomo c'erano degli sgravi fiscali.
L'ascesa sociale di Marziale e la sua fama non corrispondevano però ad un'adeguata posizione economica; in Spagna era di famiglia agiata, ma a Roma no: aveva bisogno di patroni, a cui legarsi come cliens, in posizione subordinata.
Scrisse moltissimo.
• “LIBER DE SPECTACULIS”: scritto per l’inaugurazione del Colosseo, descrive l’opera e i giochi; è encomiastico nei confronti dei Flavi. L’opera ebbe grande successo, fa gradita all’impertore, e anche al pubblico. Dato che gli epigrammi avevano successo, continuò sulla strada:
• “XENIA” e “APOFORETA”: scritti in occasione dei saturnali, perché c'era l'uso di invitare amici a pranzo offrendo un banchetto e c'era anche uno scambio di regali (probabilmente da qui nasce l'usanza di scambiarsi i regali a Natale). “Xenia” erano i regali fatti da chi arrivava, cioè dall'ospite; “Apoforeta” erano i regali che il padrone di casa offriva all'ospite quando andava via.
La struttura usata in questi epigrammi condizionerà tutti gli altri libri di epigrammi di Marziale: 1-3 versi di introduzione a cui segue un απροσδοκετον l'ultimo verso che capovolge tutto quello che ha detto prima (da qui nasce l'umorismo) e cerca la risata. Qui inaugura questo sistema, che userà per il resto della sua produzione dato che hanno un grande successo.
Pubblicò un libro all’anno, poi organizzò la sua produzione in un libro unico, secondo un ordine che ci fa arrivare a 15 libri; secondo un'altra visione si parla di 13 libri (forse escludendo xenia e apoforeta).
Con gli epigrammi Marziale voleva descrivere l'umanità di Roma della sua epoca: HOMINEM PAGINA NOSTRA SAPIT, “La mia poesia sa / ha il sapore dell'uomo” descrive l'uomo. E' una manifestazione di realismo. Nega la possibilità di usare parole roboanti e nega la funzione della poesia epica, contrappone a questa poesia artificiosa una poesia che dovrebbe descrivere la realtà. Questa realtà ha un limite: nessun realismo ha mai descritto la realtà, ma in genere tratta un solo settore della società, escludendo totalmente gli altri, con una lente deformante per evidenziare un aspetto (quindi ovviamente non può esistere il realismo, probabilmente per realismo si intende il modo in cui lo tratta; il vero verismo comunque non può esistere perché è settoriale).
Il mondo che Marziale descrive è quello della parte più bassa, che lui come cliens vedeva più frequentemente; non ci sono grandi personaggi, parla dell'uomo come feccia della società, però mai visto in senso problematico, ne vede l'aspetto grottesco. Non ci sono mai donne belle, o il poveraccio che si è rovinato, ma tutti sono brutti, sporchi; invece di evidenziare la miseria di questa gente, cerca la parte che può suscitare il riso, non la pietà. C'è sempre l'incapace, imbroglione, è un'umanità bassa che fa pena, non risale perché si adegua ed è ben inserita in questo mondo.
Il suo compito è “risum movere”. Mette in evidenza cose apparenti come difetti fisici (vecchiaia non dignitosa, bruttezza, ...) e il cattivo gusto; in genere Marziale finisce per essere noioso. Cerca il successo, è un autore alla moda, e continua con il procedimento che gli ha dato successo. Qualcuno lo descrive “giochino intellettualistico”.
Si commuove un po' di più in alcuni epigrammi funebri, ad esempio in quello per la morte di una schiavetta “Erotion”, o per la morte di un amico, però è raro. Tutto ciò che tratta in genere tende all’umorismo. In un epigramma, ringrazia un patronus per avergli regalato un poderetto, ma dice che in questo c’era meno terra che nel suo vaso di gerani c’è in Marziale la rabbia di essere famoso, piacere, e di dover fare il cliens: non ricava ricchezze dalla fama, non ricava quello che vorrebbe dal mondo.
Non parla molto di questioni d'amore, esalta i giovani belli e se parla di sé parla di donne che non l'hanno voluto, non sono venute ad appuntamenti: c'è la solita componente misogina.
Per quanto riguarda il regalo, il mondo antico aveva una visione un po' commerciale del regalo: era la prova tangibile di un rapporto esistente fra due persone, riceverlo pone in una posizione di obbligo di ricambiarlo, per confermare questo rapporto. Più volte Marziale si lamenta di aver fatto un regalo e non aver ricevuto niente in cambio, o non essere stato ricambiato adeguatamente; è qualcosa di cui ci si aspetta il ricambio.
Compaiono pochi amici, ai quali è strettamente legato: si sente abbastanza escluso da questa società, quindi cerca di ottenere il favore dei potenti. Quasi tutti i libri contengono epigrammi elogiativi: Marziale sapeva che la sua posizione era molto debole, sapeva che i vari personaggi di cui era cliens potevano cadere, quindi cercava il patronus più potente, come l'Imperatore. Fece lodi a Tito (sotto il quale aveva iniziato a scrivere); arrivato Domiziano si adattò a lui, che lo elevò al rango equestre. L'appoggio degli Imperatori andava mantenuto con l'elogio, ma probabilmente il favore di Domiziano segnò la sua fine: infatti dopo che Domiziano fu ucciso, Marziale rimase fregato. Tutti gli altri, che fecero carriera sotto Domiziano, si crearono una verginità politica: Plinio il Giovane affermò di aver corso pericoli sotto Domiziano (Nerva e Traiano fecero sì che diventasse quasi motivo di vanto aver corso pericoli sotto Domiziano); i suoi elogi però rimasero scritti, ed evidentemente era talmente compromesso che anche cercando di elogiare Nerva e Traiano non riuscì ad ottenere il loro favore (le due onorificenze della sua vita erano dovute a Domiziano). Dato che Domiziano era sempre più inviso alla classe senatoria e agli equites (che erano le classi che contavano), avere qualcuno che lo elogiava deve avergli fatto piacere; Nerva e Traiano invece avevano già l’appoggio di tutte le classi per cui non avevano interesse a farsi elogiare più di tanto: la voce di Marziale di sarebbe persa in mezzo alle altre, per di più lui aveva elogiato Domiziano!
Lo prese la nostalgia di casa, stufo della vita da cliens, comunque sempre emarginato dalla società anche se celebre: tornò in Spagna. Plinio il Giovane si premurò di dire che i soldi per il viaggio glieli diede lui.
In Spagna scrisse poesie, sembrava aver trovato la felicità; ma se i primi epigrammi indicavano che era in pace, dopo poco tempo gli mancheranno l'ammirazione e il successo che aveva a Roma, e che la pace non sapeva compensare.
Gli epigrammi scritti in Spagna hanno due connotazioni diverse:
1. i primi descrivono RUS VERUM BARBARUMQUE: c'è la felicità di essere tornato ad una campagna vera e incontaminata, accenna ad una forma di mos maiorum, la vita semplice di un contadino, caratterizzata da serenità. È la GIOIA DI ESSERE LI’: c’è l'idea di aver finalmente abbandonato Roma, con i suoi obblighi e i suoi compiti, c’è la felicità di una vita libera, autentica, accanto a qualcosa di vero: la campagna. (Non c'è l'idea del ritorno in patria!) è un luogo dove ha autonomia e contatto con una natura sfruttata bene e non usata per farci giardini, fontane, ecc… . Dopo un primo momento di gioia per l’otium, inteso anche come vero e proprio ozio, subentra il rimpianto
2. la solitudine, questo vivere anonimo gli dà noia, la città ha tutti i difetti, ma gli manca la fama, l'essere conosciuto e ammirato, anche se questo non gli aveva portato denaro. C’è l’INSODDISFAZIONE DI ESSERE LI’. Aveva l’onore di essere un eques, le sue opere erano diffuse attraverso le recitationes, quindi quando girava per Roma era riconosciuto: il successo, quella parte di Roma gli manca.
Per questo arriva a dire: “NEC TECUM NE SINE TE, VIVERE POSSUM”: è usata come frase d’amore, ma non è stata scritta con questo valore: “te” si riferisce a Roma. Rimase lì per 6 anni, ma capì di non poter trovare la felicità: prova rimpianto, senza però riuscire a tornare perché dovrebbe di nuovo vivere da cliens diventa malinconico. L’ultimo libro si stacca dagli altri, manca il procedere costante degli altri epigrammi nei quali c’era l’idea di una rapida lettura, che non coinvolgeva molto l’attenzione dell’ascoltatore se non per l’attesa dell’ultimo verso, dove la situazione sarà capovolta.
(guarda riassunto sul libro!!! : Roma, campagna).
Di lui non sappiamo proprio nulla, nemmeno il prenomen né la nascita. Forse la versione più probabile è che venga dalla Gallia, perché è amico di Plinio il Giovane hanno un carattere diverso, quello che li può avere uniti potrebbe essere la comune origine. Di lui sappiamo solo quello che lui stesso ci dice: percorse il cursus honorum, arrivò al consolato sotto Traiano, fece carriera sotto Domiziano; doveva essere di una famiglia in vista, aristocratica, se sposò la figlia di Agricola, un importante generale. Fece il governatore in Oriente, fece la vita di un aristocratico normale. Non fu un eroe ed ebbe l’onestà di dire che sopravvisse serenamente anche sotto Domiziano, non si fece passare per un martire che non è stato, ma ammise di aver proseguito la carriera. Scrisse parecchie opere:
1. DIALOGUS DE ORATORIBUS
2. GERMANIA
3. AGRICOLA
4. HISTORIAE
5. ANNALES
Dialogus de oratoribus
Opera tradizionalmente attribuita a Tacito, poi staccata per lo stile: lo stile di Tacito è personale e difficile, è uno stile da storico che si richiama a Sallustio, ma molto più complesso. Questo stile, perfezionandosi e incupendosi, lo troviamo nelle altre opere a lui attribuite; il Dialogus è diverso, ha uno stile più ciceroniano, quintilianeo. Su questa base la critica estetica nega la paternità, oggi si tende a riattribuirla a lui per questi motivi:
- Parla di oratoria: non può usare lo stile delle Historiae!
- Ha fatto l’avvocato e ha frequentato una scola di retorica: sa usare quello stile perché l’ha imparato!
L’obiezione stilistica si può tranquillamente superare indicandolo come stile che aveva all’inizio, prima di svilupparne uno proprio, necessario per un’opera storica. Quindi se si accetta il Dialogus come opera di Tacito, la si colloca come prima opera; il problema però è che la dedica del Dialogus è ad uno che viene chiamato console, e che fu console nell’anno 100: questa datazione però farebbe sì che quest’opera sia posteriore alla Germania e all’Agricola. Se è la prima opera, è Tacito che non ha ancora il suo stile, ma se la si accetta come terza, bisogna presupporre un improvviso recupero di uno stile che aveva abbandonato, dato che la Germania e l’Aricola presentano già uno stile tacitiano, anche se non ancora perfezionato: è difficile da accettare! Qualcuno suggerisce che l’opera sia stata scritta prima, e pubblicata nel 100.
Il Dialogus è importante perché tratta del problema della decadenza dell’oratoria, e si inquadra perfettamente nel pensiero di Tacito e nella sua posizione politica espressa nell’Agricola. È un dialogo (sa di Quintiliano: dialogo di Cicerone) di oratori che si trovano e si confrontano tra di loro; c’è chi sostiene la decadenza dell’oratoria perché non ha più spazio. L’oratoria è morta perché si nutre come una fiamma di materia, e questa materia è la libertà politica. Senza libertà politica l’oratoria non ha più ragion d’essere. Non è la posizione di Tacito, ma quella tradizionale mantenuta dall’aristocrazia. Espone anche la posizione di Quintiliano: fa un excursus sull’educazione, una volta si allevava il bambino in casa, e c’erano valori alla base, che sono necessari (è la visione moralistica: non si riesce a staccarsene); poi esamina il tipo di educazione del giovane che avveniva sul campo: i giovani non imparavano la teoria, ma erano affidati a personaggi della vita pubblica, imparavano dagli oratori per imitazione. Ora l’educazione si è rovinata: non c’è più l’educazione sul campo come esperienza diretta e vissuta. Qui arriva l’opinione di Tacito: un aristocratico contesta la posizione classica (che l’oratoria è in decadenza perché manca la libertà) dice infatti che prima non c’era libertà, ma era LICENTIA, cioè sfrenatezza. La situazione politica non era tranquilla, ma turbolenta, c’erano guerre civili, l’oratore viveva di persona, c’era lo strapotere di una fazione o dell’altra nella confusione chi riusciva a parlare diventava importante: l’eloquenza si nutre di disordine. Tacito ridimensiona la posizione aristocratica: afferma che quella in cui vive è MAGNA QUIES. Lui scriveva sotto Tito e Vespasiano, quando c’era davvero calma, poi arriva Domiziano e cambia idea; comunque anche nel primo periodo non sposa la tradizionale posizione dell’aristocrazia che contrasta i due periodi, ma ha preso atto di com’era la situazione, la storia si è evoluta, non ha senso sognare qualcosa di irrealizzabile vede l’impero come tranquillità, contrapposto alla sfrenatezza, si stacca dalla tradizionale posizione di schiavitù contrapposta alla libertà. Eliminata alla radice la necessità di avere fazioni, l’impero ha dato luogo alla grande pace. È una visione nuova: vede l’aspetto positivo dell’impero. Le fazioni politiche ora non hanno più ragione d’essere: ok, hanno creato l’oratoria, ma anche l’insicurezza politica. Poi non è che gli oratori del passato valessero di più, ma come in una popolazione sana non c’è bisogno di medici, in una magna quies non c’è bisogno della medicina non c’è più bisogno di oratori, ma paghiamo la magna quies con il non avere la possibilità di gloria, di mettersi in evidenza.
Chiude con: “avendo chiuso tutti ce ne andammo”: è finita qui? Ci manca il finale, ma è difficile che arrivi ad una terza posizione, l’opera è abbastanza lunga, deve mancare poco.
Il dialogus si occupa di un problema marginale, connesso con la politica ma non strettamente politico, comunque importante per delineare il pensieri di Tacito che sarà più evidente nelle opere successive.
De Vita et Moribus Agricolae
Ora Tacito si chiede quale deve essere il comportamento dei cittadini di fronte all’imperatore. È un’operetta strana, che sfugge ad un vero e proprio genere. Le ipotesi fatte sono:
• Una laudatio funebris però è diversa da una normale laudatio, ha troppa politica.
• Una biografia ma è isolata!
• Un pezzo di storia ma riguarda solo un personaggio!
• Non rientra in nessun genere: è un problema aperto, ma in realtà è un falso problema, Tacito non si è posto il problema di far rientrare la sua opera in un genere, siamo noi che cerchiamo di classificarla!
È un exemplum: propone il comportamento di Agricola come modello da imitarsi. Ma c’è qualcosa di personale:
- Agricola era suo suocero, quindi c’è un’esaltazione della famiglia
- La vita di Agricola è stata più importante di quella di Tacito: Agricola fu un valido generale, conquistò la Britannia, è un personaggio storico; comunque un po’ si assomigliano: tutti e due hanno fatto carriera militare sotto Domiziano, quindi la difesa di Agricola è un po’ anche la sua.
Uno dei pezzi più importanti dell’Agricola è, prima della battaglia di Agricola contro i barbari in Britannia, la contrapposizione dei discorsi dei generali, Calcago e Agricola. Il discorso di Calcago è un’accusa ai Romani: ok, è un nemico che sta per rischiare la vita nella battaglia decisiva, ma l’accusa nei confronti della pessima amministrazione delle province mostra come Roma potesse essere vista dai Barbari. Nell’esercito c’erano mercenari, anche ex barbari, nelle zone periferiche il Romano era diventato barbarico, prendeva le caratteristiche del luogo, e così l’esercito: Calcago vede l’esercito come un’accozzaglia di gente straniera l’una all’altra, tenuta insieme, per ora, solo dalla vittoria. È un’accusa che risponde ad un’esigenza oratoria, ma Calcago non rinfaccia ai Romani le loro colpe morali, ma li mette in guardia da come gli altri li vedono: l’impero rischia di saltare in aria.
A questo è contrapposto il discorso di Agricola, che dovrebbe essere speculare a quello di Calcago; invece Agricola fa un discorso tradizionale, alla Virgilio: Roma ha il dovere di governare tutto il mondo, ed è l’unica in grado di poterlo fare. Agricola è colui che crede ancora nella missione di Roma, considerata da Tacito estremamente valida. Il discorso di Calcago non è un tradimento a Roma, ma la denuncia dell’atteggiamento di Roma: Tacito ama Roma e non vuole che si ripetano questi errori; è un monito ai Romani. Per questo il discorso di Agricola non è una risposta, non corrisponde a quello di Calcago, ma delinea il regere imperio, il compito dei romani indicato da Virgilio. Non nel senso che ricalca Virgilio, ma Virgilio scriveva quello che i Romani pensavano, non è una sua invenzione! Se Agricola avesse dato una visione idilliaca, sarebbe stata una risposta, invece è un richiamo a Roma per ricordarsi di una missione che ha.
Nella storia: Agricola era un eroe, aveva un successo strepitoso fra i soldati e i Romani, quindi andò incontro all’invidia di Domiziano che lo richiamò a Roma, per staccarlo dall’esercito. A Roma era un pesce fuor d’acqua: una carriera politica era solo un’onorificenza. La morte improvvisa di Agricola provocò la diffusione della voce che fosse stato fatto avvelenare dall’imperatore. Tacito è l’unico che potrebbe portare certezza nella faccenda, però non dice nulla a proposito: perché?
1. Per prudenza? No perché il de vita venne pubblicato sotto Nerva, quando tutti parlavano male di Domiziano per attirarsi la simpatia del nuovo imperatore. Se avesse avuto la minima prova l’avrebbe tirata fuori per dire che non si è mai al sicuro.
2. Probabilmente sapeva che le voci erano infondate: ne parla in toni vaghi.
Tacito chiude l’opera dicendo che Agricola è morto prima di vedere la possibile rovina di Roma che Tacito comincia a vedere. “all’ultimo momento gli occhi cercavano qualcosa” è l’ultimo sguardo gettato alla vita; “NOVISSIMA IN LUCE ALIQUID DESIDERAVISSE OCULOS”: c’è l’idea di qualcuno che vuole dare un significato alla vita fino in fondo.
L’Agricola rappresenta la posizione politica di partenza, che si andrà incupendo di una concezione tutta sua. L’impero non è un male in sé, dipende dall’imperatore, se è buono è un bene. Per tutta la vita disapprova due atteggiamenti: LIBIDO ADSENTANDI e LIBIDO MORIENDI.
- ADSENTOR = adulare: è quasi un ossimoro, la gente si piega ad adulare e prova piacere in questo abbrutimento.
- Tacito disapprova anche l’atteggiamento opposto; non usa mai l’espressione “libido moriendi”, che è un’intuizione del Lana, ma disapprova l’atteggiamento politicamente sbagliato di chi provoca l’imperatore, gli va contro fino a farsi ammazzare, va in cerca del martirio per mettersi in mostra (libido = esibizione). È un atteggiamento che priva Roma di forze valide: uno spreco di coraggio per sacrificare sé stessi. Questa forza va sacrificata a Roma. Cerca di conciliare l’impero all’idea tradizionale di Roma: anche l’imperatore peggiore non deve essere occasione di dimostrazione di sé facendosi ammazzare, ma deve essere occasione di dimostrazione del valore di Roma. È comunque più dignitosa della libido adsentandi!
Il proemio fa pensare a questa come un’opera storica; è un proemio all’opera: c’è l’introduzione al pensiero politico, che si allinea alle altre opere. Spiega perché scrive solo adesso. Delinea il comportamento ideale dell’uomo politico sotto l’impero, riesce a vedere Roma al di là dell’imperatore, che sia buono o cattivo. Tacito ci tiene a sottolineare che la sua carriera è continuata anche sotto Domiziano. Quindi non si sa quanto il ritratto di Agricola sia attendibile: è un simbolo.
Il proemio è molto importante: fa sì che l’Agricola venga considerata la prima opera di Tacito; non c’è ancora lo stile di Tacito, ma si sente già. L'opera è un manifesto programmatico, una dichiarazione di intenti, un’indicazione di come comportarsi di fronte alla politica.
Primi 3 capitoli (letti dalla prof). C'è una frase che crea problemi, all'inizio del terzo: NUNC DEMUM REDIT ANIMUM Ora finalmente
1) ritorna il coraggio;
2) si torna a respirare.
La prima è un assurdo! con Nerva e Traiano la RARA TEMPORUM FELICITAS, “straordinaria felicità di questi anni” si contrappone a Domiziano: ha appena detto che abbiamo sopportato tutto quello che non abbiamo mai sopportato, non è solo colpa degli Imperatori, sotto Domiziano siamo stati vigliacchi anche noi, se avessimo avuto potuto non avremmo neanche pensato: cercavamo solo di sopravvivere. Tradurre animus con coraggio non è accettabile perché quando ci voleva coraggio non l'hanno avuto, ora che hanno la libertà non serve più a niente; sarebbe un insulto a Nerva e Traiano quindi NO! Comunque questa è la traduzione di base che ci dà anche Michlet, il maggior studioso di Tacito.
Nella seconda, animus = respiro: è una traduzione che andrebbe bene indicherebbe la felicitas, in questo senso non ha controindicazioni, ma ha una fregatura solenne: non esiste un solo esempio in tutta la latinità in cui animus significhi capacità di respiro. Potrebbe essere un apax, ma l'apax è la parola usata una volta sola, non il significato della parola.
C'è una nuova ipotesi convincente, fatta qualche anno fa: animus = autocoscienza, come la repetentia di Lucrezio quindi significherebbe: finalmente torniamo a pensare, ci rendiamo conto di quello che abbiamo fatto, riprendiamo coscienza di quale dovere abbiamo e delle nostre colpe; ora, grazie alla libertà, possiamo riprendere a pensare. In questo senso il termine è accettabile, non crea problemi di significato e si contrappone bene a quello che ha detto prima, di non voler ricordare i tempi passati. È anche d’accordo con quello che dice dopo, cioè che dobbiamo ricominciare, arrivare ad una nuova vita.
Noi siamo sopravvissuti “a noi stessi”: a quello di noi che la paura ci aveva fatto diventare.
Questo proemio è importante per quello che dice sul comportamento precedente, su quello da tenere ora e sul giudizio che Tacito vuole dare, che è anche un monito.
Alla fine, intorno al capitolo 42, c'è la condanna per la morte inutile, stupida, ricercata per valore personale, che non ha utilità per lo stato, anzi lo danneggia privandolo di un uomo che ha la virtus. Si può essere grandi anche sotto l’impero, senza ricercare l’affermazione di sé che è egoistica, sterile. Il suicidio era visto dalla filosofia stoica come un modo per superare una situazione inaccettabile, e lo stoicismo era la filosofia dell’opposizione.
Il centro dell'opera è rappresentato dal discorso di Calcago (pp. 418).
Rivolge pesanti accuse ai Romani: sono predatori di terre e di mari, insaziabili, avidi; chiamano il rubare “impero” e il deserto “pace” (Espressione tenuta presente da Carducci: “Le fonti del Clitumno”, è una delle opere più criticate: accusa il Cristianesimo, dice che Roma non trionfa più; attacca la religiosità medievale, che ha distrutto le vite. Ripresa anche da un tedesco, che dice che la pax romana è la pace dei cimiteri; ma tutta la cultura tedesca è critica di quella romana, ritenuta copiatura della Grecia, che deriva dal fatto che i Germani non sono mai riusciti a conquistarli: hanno un complesso di inferiorità e superiorità).
Dice che loro Britannici sono gli ultimi schiavi, i più disprezzati: non potrebbero essere rispettati. In un ultimo attacco dice che li hanno fatti grandi loro con i loro problemi interni, l’esercito è un’accozzaglia di gente straniera tenuta insieme dalla vittoria: fa riferimento al fatto che l'esercito romano, soprattutto per le zone periferiche, arruolava gente di lì, questo portò all'imbarbarimento dell'esercito (anche se ora non è ancora tanto evidente). I veri romani finivano per insediarsi lì e diventare “mezzi-romani”, sposando donne di lì. I generali romani sono ex provinciali; veniva data la cittadinanza a molti provinciali per unificare l’impero. nelle zone periferiche infatti conveniva prendere gente del posto da tempo sotto Roma a cui si concedeva un mestiere e la cittadinanza al congedo. Questo rendeva più solido l’esercito, ma Calcago lo vede come aspetto negativo. Sono tutte frasi che rientrano nel genere dell’hortatio militum, ma rivelano i problemi di Roma.
De Situ et Moribus Germaniae/Germanorum
È un’opera strana, non si sa nemmeno questa dove collocarla. Manca l'introduzione, che invece è lunga nelle altre opere. Comincia ex abrupto come quella di Cesare: manca una prefazione che chiarisca le intenzioni dell’autore. Inizia con un’approfondita descrizione geografica ed economica dei confini della Germania, che ha come fonte l'opera di Plinio il Vecchio, che aveva combattuto lì e da opere storiche precedenti: non sono informazioni di prima mano, Tacito non c'è mai stato. Passa poi a descrivere il popolo dei Germani, che sono un problema. Il pericolo dei Parti sembra fermato momentaneamente per problemi dinastici interni fra i Parti; il disastro di Teutoburgo invece fa capire che i Germani sono un problema, ma sconosciuto. Tacito dice che, conoscendo questa popolazione, la si può affrontare meglio: descrive i loro usi e costumi, le loro abitudini, i riti religiosi. Chiama i loro dei con i nomi degli dei romani: Roma tende ad assimilare gli dei degli altri con i propri, già Cesare aveva detto che i Galli veneravano la Morte. C'è il rito che poi riprenderà Rousseau: “selvaggio buono”, anche Tacito crede a questa visione moralistica, senza rendersi conto dell’assurdità di fondo: se si mettono insieme tanti buoni come può uscire un pericolo?!
Tacito esalta i costumi morigerati, l’onestà dei germani, che rappresentano un pericolo perché non sono corrotti, di fronte ad una Roma corrotta. Combattono in modo disorganizzato, ma diventeranno pericolosi quando apprenderanno le tecniche di combattimento romane: Tacito sta lanciando un grido di allarme.
Ne fa una popolazione perfetta, ma comunque riconosce ai Germani due difetti:
1) la crudeltà ma non è affatto uno svantaggio
2) tendono all'ubriachezza (sono gli inventori della birra) è l'unica cosa che salverebbe i Romani
con questi difetti dà un'immagine veritiera e non di idealizzazione di questo popolo. Tacito non vuole essere Germanico, ma vuole far capire quanto sono pericolosi.
Dal punto di vista letterario, ha le caratteristiche di un'opera etnografica, divisa in settori. È la prima opera romana totalmente dedicata ad un popolo barbaro: è un “unicum”, è strana come cosa, è un apax, dato che è l'unica (per quanto ne sappiamo) nel mondo latino. Catone aveva scritto le Origines, però erano italici! E Cesare parlava di tanti popoli, però senza approfondire, tanto per interesse!
Perché un’opera staccata così?
La selva di Teutoburgo era stata una sconfitta fortissima per i Romani, ma Vespasiano l'aveva in parte rivendicata, poi era un secolo prima! però i confini con la Germania sono i più difficili da controllare vede la pericolosità in senso moralistico di un popolo incorrotto.
Perché proprio i Germani? Anche quest'opera presenta un problema: che cos'è?
1) una monografia: Tacito ha visto la particolare pericolosità?
2) un'opera moralistica: Tacito vuole far vedere ai Romani la loro corruzione
3) un'opera uscita da sola, ma nata in preparazione all'opera storica: aveva fatto ricerche sui Germani nell'ambito dell'opera storica, come excursus, ma poi gli viene troppo lungo, si era ampliato troppo e quindi ha deciso di pubblicarla come opera autonoma (anche Erodoto aveva fatto excursus lunghi, ma ai tempi di Tacito bisognava stare attenti a queste cose perché c’era una tradizione ben affermata); oppure non gli è più servito come excursus – è l'ipotesi più probabile. Comunque è sempre un caso di sproporzione, è cresciuta al di là del programma iniziale.
Le guerre di Vespasiano riguardano la parte che non abbiamo nemmeno negli indici: non sappiamo se si è dilungato in questo aspetto, le “Historiae” si fermano prima.
Dal punto di vista letterario non è ancora il grande Tacito, lo stile si evidenzia solo in alcuni punti.
Le Historiae e gli Annales
Sono le due grandi opere di Tucidide. Non le abbiamo complete; c'è un problema sul numero di libri: dovevano essere 30 fra tutte e due, forse 14 e 16, però ha credibilità anche 12 e 18, ma non si può desumere da quello che abbiamo per la dilatazione della storia nell’avvicinarsi all’epoca contemporanea.
Prima scrisse le “Historiae”, che partono dalla morte di Nerone, nel 69 a.C., anno dei 4 Imperatori; è partito da qui perché evidentemente credeva che quell'anno fosse il primo in cui si evidenziasse un grande problema dell’impero: lo strapotere dell'esercito, che non poteva più essere controllato dal senato. Da qui racconta questo periodo difficile; vuole arrivare fino al 96, quando con la morte di Domiziano e la salita al potere di Nerva la crisi è superata, e riservare alla vecchiaia la descrizione dei suoi tempi, che sono “rara temporum felicitas” = rara serenità del suo tempo. È un momento di entusiasmo, non c'è desiderio di adulazione, ma è sincero.
In realtà non andrà avanti (cronologicamente), ma indietro, scrivendo gli “Annales”, nei quali parte da Augusto e scrive a dalla morte di Augusto, quando l’impero ha cominciato a funzionare, dopo la sua creazione, fino alla morte di Nerone.
Il fatto di dare due titoli diversi a queste due opere di storia ci fa pensare ad un’ipotesi convincente sulla differenza tra historiae e annales:
♣ HISTORIAE opera storica relativa al periodo vicino alla contemporaneità.
♣ ANNALES opera storica e basta (infatti non è contemporaneo a Tacito).
Gli annales sarebbero più un genere tipico dell’aristocrazia, suggerisce il fatto che fossero compilati anno per anno, come per i consoli. Historiae è un genere più antico, l’opera di Sisenna si chiamava così; la differenza quindi non dovrebbe essere nella forma ma nel contenuto.
Historiae
Abbiamo l’inizio; il proemio è molto importante (pag. 422). Tacito dice che intende raccontare un periodo ricco di eventi negativi, terribile per le battaglie, ricco di sedizioni, crudele anche nella pace dà un marchio di pessimismo, anche se poi dice che comunque ci sono dei bona exempla. Individua 3 aspetti dai quali risulta la storia:
• URBS quello che succede a Roma
• PROVINCIAE quello che succedeva nelle provincie
• EXERCITUS è il “segreto” dell’impero, che non si svela ancora nella dinastia Giulio-Claudia, ma con la morte di Nerone rivela tutta la sua potenzialità.
La dinastia Giulio-Claudia termina perché si ribellano le legioni in Gallia; nel 69 4 imperatori salgono al potere grazie all’esercito. Di questo problema se n’era già reso conto Augusto, che nel testamento aveva chiesto di non conquistare altri territori, ma di tenere a Roma un esercito pronto ad accorrere dove ce ne fosse bisogno (il motivo era anche economico: mancavano soldati), invece che avere un esercito in tutte le province. Nerone si uccise perché l’esercito della Gallia aveva nominato imperatore il suo generale; vista la possibilità, altri lo imitarono (Otone, Vitellio, Vespasiano). Questo dimostra due cose:
➢ La potenzialità dell’esercito
➢ L’instabilità politica, con rovina per Roma.
Tacito descrive questo passaggio di potere. Abbiamo solo questo. Nel finale: Vespasiano sta fermando la rivolta giudaica, viene proclamato imperatore mentre non è a Roma. Tito rimane in Palestina fino alla distruzione del tempio; qui Tacito inserisce un exursus sugli ebrei, per i quali prova una forma di disprezzo: non li definisce “barbari”, ma sono diversi dai Romani. Comunque vanta una buona documentazione sulla loro storia: mancava infatti la storia precedente, a cui Tacito provvede.
Tacito ritrae i 4 imperatori.
GALBA è una persona seria, un generale esperto, una persona per bene, che però non ha le idee chiare. È il primo a tentare il principato di adozione, provando ad adottare un Pisone, appartenente ad una delle più antiche e tradizionali famiglie di Roma. Nel discorso dice che se fosse possibile tornare alla repubblica, lui lo farebbe è la visione tradizionale di un aristocratico; non essendo però possibile (è il convincimento di Tacito attribuito a Galba), cerca di lasciare a Roma l’imperatore migliore possibile. Tacito qui approva Galba: il principato di adozione sembra conciliare bene impero e libertà. Però Galba commette un errore: sceglie una persona inadatta. Pisone è un romano supertradizionale, invece il mos maiorum va adottato ai tempi, e Pisone non può perché non accetta la situazione. È l’aspetto negativo di Galba.
OTONE è positivo sotto molti punti, come il coraggio in battaglia, l’onestà; però ne fa un epitaffio che finisce per essere crudele (c’è una vena di crudeltà in Tacito): dice infatti che la carriera di Otone era tale che qualunque carica ricoprisse sembrava degno di una più alta (in questo riprende Sallustio su Giugurta); sarebbe sembrato DIGNUS IMPERII NISI IMERASSE: degno di diventare imperatore se non lo fosse stato. Prometteva bene, ma delude. È ben visibile la crudeltà di Tacito, capace di distruggere in due parole un personaggio.
VITELLIO è peggio. Il ritratto che ne dà è pessimo; alla quarta guerra civile per Vespasiano, Tacito dice che Vitello non abbia combattuto, ma si sia nascosto in un LOCUS SORDIDUM: si pensava che si riferisse ad un gabinetto, forse però è un canile.
VESPASIANO abbiamo solo la parte dove descrive la sua abilità come generale nella conquista di Gerusalemme, che lascia da portare a termine al figlio.
Nell’introduzione delle Historiae Tacito promette di parlare di questo SINE IRA NEC STUDIO: con assoluta obiettività, senza odio né favore, passione per loro. Le motivazioni per amarli e odiarli le ha lontane. Ci sono dei BONA EXEMPLA: per esempio, Otone che muore facendo fuggire chi gli è rimasto fedele (non accetta sacrifici inutili). È un giudizio morale: ci sono ancora a Roma persone che dimostrano di avere ancora buoni valori.
Annales
Tacito voleva lasciare alla vecchiaia il discorso della rara temporum felicitas in cui gli imperatori conciliavano libertà e impero. Però invece di proseguire con le Historiae va all’indietro e non prosegue sulla strada indicata. Probabilmente non era poi tanto interessato alla rara temporum felicitas; Traiano sembrava voler interrompere la serie del principato di adozione, orientandosi su Adriano, che era suo cugino, sua moglie poi faceva pressione perché Traiano scegliesse proprio lui e questo era poco adatto ad un Romano. Poi assume una posizione autocratica. Il principato di adozione quindi non risulta così positivo Tacito non può più proseguire in questo senso va all’indietro. Il fatto che nel 69 gli eserciti dominassero la politica, indica che c’era qualcosa che non andava nell’impero: il pessimismo aumenta. Nell’Agricola aveva detto che rimaneva Roma dietro all’Impero, ma ora la sua visione comincia ad incrinarsi. L’impero in sé, come sistema, non era eliminabile (Tacito non commette l’errore dell’aristocrazia di rimpiangere i tempi antichi), ma aveva qualcosa di sbagliato. Era l’impero in sé, o l’imperatore, che impediva di conciliare questo binomio? Per rispondere, risale alle origini dell’impero.
Parte AB EXCESSU DIVI AUGUSTII: dalla morte di Augusto. Augusto fu il fondatore dell’impero, per il funzionamento bisognava considerare gli altri. Augusto PROFUIT PACIS COMMUNIS: l’avvento di Ottaviano pose fine alle guerre civili riconosce ancora nell’impero una magna quies rispetto alle guerre civili: c’è ancora qualcosa del vecchio Tacito; la quies però si limita solo alle guerre, non ai cittadini.
Tacito fa un breve excursus dalla fondazione di Roma (1 capitolo): qualcuno sostiene che il titolo potrebbe essere AB URBE CONDITA, ma sa troppo di copiatura da Livio e si riferirebbe ad un capitolo su 150! C’è comunque l’idea di tornare indietro, alle guerre civili.
LIBERTA’: dai re o dallo straniero?? In senso politico interno o esterno. Si è messo fine alle discussioni: no “libertà” ma “no …” ????
NOMINE PRINCIPIS: capo, non ancora imperatore. ????
Tacito aveva chiarito la sua intenzione di scrivere SINE IRA NEC STUDIO: senza motivi per non essere obiettivo (che è come dire che sarà obiettivo). Ma la sua storia è davvero obiettiva? Indubbiamente le sue fonti sono buone, sia quelle libresche (si rifà a storici dell’aristocrazia senatoria, di fede stoica), poi si vale degli ACTA SENATUS, che potrebbero essere o i verbali delle riunioni del senato, oppure il senatus consultus: la promulgazione di quello che il senato decideva, e anche degli ACTA DIURNA POPULI ROMANI, una sorta di giornale pubblico: ogni giorno si affiggevano a Roma tipo un giornale murale con gli avvenimenti di Roma e delle provincie. Tacito usa bene le sue fonti; davanti a due versioni diverse in genere le riporta tutte e due. L’obiettività assoluta è però inconciliabile con la natura umana: non solo il riportare un fatto prima o dopo, ma il fatto stesso di riportarlo, è già una scelta! Comunque possiamo riscontrare una discreta obiettività in Tacito. Esaltazioni ce ne sono poche; già con AUGUSTO, dopo aver detto che ha giovato alla pace comune, e averne fatto un bilancio positivo moralmente, si nota il pessimismo: cita gli atti negativi, come aver lasciato mano libera a Livia, aver portato al potere Tiberio, aver eliminato Agrippa Postumo, mentre non cita quelli positivi dà un taglio all’opera.
TIBERIO si vede come lo odia. Probabilmente questo disprezzo era il prodotto della delusione della classe senatoria all’avvento di Tiberio, che non aveva più potuto usare il giochino di Augusto, e poi non voleva regnare, non aveva un bel carattere. Se Ottaviano era vissuto sull’appoggio della gente che finalmente respirava dopo le guerre civili, ora queste non erano più sentite, erano lontane, non si vedevano più i vantaggi dell’impero ma solo gli svantaggi. Tiberio addirittura fuggì da Roma e si rifugiò a Capri: Tacito la vede come desiderio di soddisfare i suoi vizi. Tacito dà spesso anche una descrizione fisica, e quella di Tiberio è ripugnante, è pieno di pustole, sembra il marcio del suo animo che viene fuori. Lo accusa continuamente, come fa Sallustio nei confronti di Catilina. Lo accusa di essere SIMULATOR ATQUE DISSIMULATOR: ipocrita, simulatore e dissimulatore di ogni cosa, anche della morte: interpreta il fatto che una volta l’avevano dato per morto e invece era ancora vivo come quasi volontaria finzione: anche nel morire non fu sincero, c’è una mancanza di fides. Dato che riporta tutte le versioni quando sono discordi, la critica è riuscita a trarre dallo stesso Tacito i mezzi per modificare il ritratto che ne ha dato. Infatti Tiberio fu un ottimo amministratore: Ottaviano non aveva organizzato l’impero in senso burocratico, questo è un merito di Tiberio. Aveva solo un carattere poco adatto a regnare: Ottaviano avrebbe voluto come successore il fratello minore di Tiberio, e prima di rivolgersi a Tiberio ha cercato tutti: inevitabilmente si è sentito rifiutato! Inoltre aveva un matrimonio che funzionava, da cui aveva anche un figlio maschio, per la successione: lo hanno obbligato a divorziare e sposarsi con Giulia. Comunque è l’uomo che fugge di fronte alle difficoltà: fugge davanti a Giulia, mollandola a Roma e andandosene a Rodi, e fugge davanti all’impero, ritirandosi a Capri. Qui sbagliò a fidarsi di Seiano, prefetto del pretorio a cui lasciò Roma mentre lui era a Capri, che voleva prendersi il potere. Subì un’umiliazione quando Ottaviano gli impose come successore Germanico; poi quando Germanico morì incolparono Tiberio la famiglia di Germanico tramò contro di lui appoggiandosi a Seiano; ma quando Tiberio scoprì la faccenda tornò a Roma, eliminò tutti tranne Caligola, figlio di Germanico, e Agrippina minore, figlia di Germanico e Agrippina maggiore. Da qui si vede bene che non era un indeciso, però non voleva la posizione che aveva. Muore soffocato perché non era morto del tutto.
CALIGOLA ne parla male, però non abbiamo questa parte.
CLAUDIO non gli piace neanche lui. Mise all’amministrazione dell’impero dei liberti, offendendo in questo modo l’aristocrazia. Claudio era intelligente, ma poco rappresentativo fisicamente. Già Ottaviano era piccolo e malaticcio, Claudio era zoppo e c’era la diceria che fosse anche scemo. Lo danneggiarono la madre che lo sposò più volte; trovò l’amore con Messalina, ma Agrippina la mandò via e lo sposò. Si faceva dominare dalle donne, e questo non piaceva al romano tradizionale. Poi era uno studioso, quando non aveva nessuna importanza che un imperatore fosse uno studioso, non era quello il suo compito. La famiglia poi si è sempre vergognata del suo aspetto, per cui gli accentuò la sua paura di presentarsi in pubblico.
NERONE di Nerone è nota la crudeltà.
PETRONIO è una figura paradossale, come Muciano nelle Historie (governatore della Siria che ebbe un ruolo determinante per l’ascesa di Vespasiano; è descritto come un miscuglio di lussuria e operosità, di cordialità e arroganza, eccellente nelle attività pubbliche, ma con una reputazione ripugnante nella vita privata). Non li propone come modelli, però si stacca e li guarda con umana simpatia. È gente non presa dallo stato, non hanno libido adsentandi; in una società che si sta corrompendo esalta una persona come Petronio, che vive in un mondo plateale, senza mos maiorum. Non lo approva, ma gli sta simpatico.
Con la libido adsentandi e la libido moriendi l’aristocrazia viene meno ai suoi compiti la situazione è brutta a Roma per il venir meno dei valori, è brutta nell’esercito che non risponde più all’imperatore, è brutta nelle province che si staccano Tacito va all’indietro perché non trova più la rara temporum felicitas, e vuole capire come si è arrivati a questa situazione: però non l’ha capito, non è una storia a tesi. La società è pronta a cedere di fronte alla situazione. La scrittura diventa più nervosa e complessa da capire, usa più frequentemente la variatio: lo stile riflette l’incupimento che deriva dal non vedere una soluzione. Da un lato è impossibile tornare alla res publica, dall’altro servire Roma al di là dell’imperatore è irrealizzabile. La storia che deve raccontare è povera di azioni nobili ed è piatta: vede il ripetersi degli stessi vizi intervallati da rari exempla di grandezza. Cerca di evidenziare la personalità degli imperatori, fa una descrizione approfondita dei personaggi, spesso aggiunge anche una descrizione fisica che tende a riflettere la descrizione morale (Tiberio è una figura marcia: pieno di pustole). Qualcuno dice che è una “storia dramatica” alla Turide di Samo: non sono pezzi di bravura fini a se stessi, non è un mezzo stilistico, ma un mezzo psicologico: fermarsi su una scena e descrivere con tanti particolari serve a chiarire la particolarità dei personaggi.
Non è neanche ben chiaro quale sia la concezione della storia è guidata dalla divinità, dall’uomo o dal caso cieco? Sembra oscillare tra una τυχη malvagia e l’uomo che controlla le proprie azioni (però se l’uomo è malvagio, come la maggior parte di quelli che descrive, l’azione è negativa!) alla fine c’è sempre pessimismo. Altre volte sembra che veda un tutto organico della storia che ha qualcosa di stoico (d’altra parte lo stoicismo è la sua cultura), però sono momenti talmente brevi da escludere una vera e propria adesione filosofica, la sua è una visione morale.
Contemporaneo di Plutarco, eques, consigliere dell’imperatore Adriano era quello che doveva rispondere alle lettere, quindi conosceva la politica del momento; inoltre si occupava di una questione privata doveva essere affidabile. Adriano era il cugino di Traiano, al senato non era piaciuta l’importanza che Traiano aveva dato alla sua famiglia, e nemmeno l’interesse alla politica dimostrato da sua moglie Paolina, alla quale sembra che si debba la posizione di Svetonio; Svetonio si ritirò improvvisamente dalla vita politica, proprio nell’anno in cui Traiano eliminò tutti i protetti di Paolina: evidentemente ha capito che il senato considerava l’interesse di Paolina un’ingerenza.
Svetonio aveva accesso a tutti gli archivi, poteva vivere direttamente la vita imperiale e conoscere la documentazione più delicata e sensibile: l’epistolario. Da qui trae ispirazione per le sue opere:
♣ DE VIRIS ILLUSTRIBUS: biografie di personaggi importanti, di cui ci rimane poco, ma dimostra la passione di Svetonio per le biografie, la ricostruzione delle vite.
♣ DE VITA CAESARUM: è l’opera più importante di Svetonio, parte da Cesare è importante perché afferma che il primo imperatore si può considerare Cesare, anche se non lo è stato formalmente, è lui che ha impostato l’impero. fa il contrario degli storici: riassume l’ultima parte, o per minore documentazione, o perché non ha avuto il tempo di riorganizzarla. Il suo fine è chiaro nel titolo: le biografie sono il nuovo modo di fare storia, è diverso da Plutarco che afferma esplicitamente che le biografie che scrive non sono storia, non hanno uno sfondo storico; invece Svetonio adotta la biografia per fare storia, e può permetterselo, per doversi motivi:
1. È un eques; invece un aristocratico come Plutarco non potrebbe: l’aristocrazia deve rifarsi per impostazione mentale al sistema annalistico, Tacito non poteva cambiare; Svetonio invece non aveva vincoli tradizionali e si poteva permettere di cambiare il metodo, non sentendosi obbligato ad una tradizione.
2. La scelta imperatore per imperatore è adatta all’epoca: la storia romana non procedeva più anno per anno al cambiare dei consoli, ma la politica cambiava a seconda dell’imperatore, che scandiva la politica del suo periodo.
Che poi sia vera storia quella che scrive è discutibile; lui considera legittima la scelta biografica, ma quando si descrive la vita di un personaggio si possono seguire due ordini:
• Per tempora in ordine cronologico, come fa Tacito
• Per species al Romano piace la forma enciclopedica, trovare insieme le cose che c’entrano l’una con l’altra.
Svetonio non è influenzato da Plutarco perché sono contemporanei; ha esempi di entrambi i metodi e segue fino ad un certo punto quello per species, che giustifica. Infatti racconta per tempora la vita dell’imperatore prima che ne assumesse la carica, poi la sua vita è raccontata per species: non è più importante l’ordine cronologico, quanto le caratteristiche che il personaggio manifesta. Questo sistema è più adatto ai tempi dell’impero.
È credibile? Il personaggio che salta fuori è un imperatore o un uomo comune? Dà risalto ai particolari ai quali aveva accesso. Si rivolge agli altri eques, che non erano al governo, ed erano più curiosi, avevano un maggiore interesse per i particolari più che per la politica. Ne viene fuori un ritratto pettegolo, “è la storia scritta da un cameriere”, dice un critico usando un’affermazione gentile per dire che è una serva. Mira a presentare l’uomo più che la politica. Il giudizio globale sugli imperatori coincide con quello senatorio: gli imperatori erano già stati classificati dal senato in buoni e cattivi (anche se poi erano quasi tutti cattivi). C’è una tendenza allo scandalo. Da lui conosciamo la descrizione fisica, come mangiavano, come si vestivano… La distinzione tra buoni e cattivi era fatta dal senato: Nerone era adorato in Oriente e dalla folla, però il senato l’aveva bollato come crudele e lui non è uscito da questa tradizione. Però vanta una certa autonomia: per esempio di Caligola dice che ha permesso la circolazione di libri che Tiberio aveva fatto bruciare riporta tutto, anche le notizie che l’aristocrazia non aveva fatto diffondere perché attenuavano il ritratto. C’è comunque una buona documentazione e una buona obiettività. Plutarco va a vedere volontariamente le vite private; Svetonio vorrebbe ricostruire la storia dell’impero; che la storia sia fatta di vite lo dice il titolo, è una nuova concezione di storia. Leo accusa Svetonio di aver fatto una cosa impropria, applicando agli imperatori un genere nato per letterati. L’improprietà di questa scelta è rimasta opinione diffusa fino a 30 anni fa, e ora non è più accettata, perché si è notato che è sbagliato il punto di partenza del Leo: si era infatti dimenticato che esistevano delle biografie precedenti, mentre invece lui le considerava genere inventato dai dotti ellenistici per gli scrittori. Quindi questo genere era applicabile alla storiografia perché esisteva già.
È contemporaneo del greco Luciano. È uno scrittore africano: è importante perché la letteratura cristiana latina nasce in Africa. frequenta una grande scuola di oratoria a Cartagine, zona in cui la letteratura greca e la lingua romana erano imposte ha senso che produca letteratura. Non abbiamo neanche il nome completo di Apuleio, sappiamo che era un greco di lingua greca che ha imparato il latino e ha scritto in latino; pare che abbia anche scritto opere in greco, ma non ne abbiamo traccia. Aderisce alla seconda sofistica, comincia l’attività di retore che dà spettacolo. Viaggia e passa da Roma, come facevano tutti, aveva un buon successo come oratore.
L’oratore, il filosofo e il mago
Nell’ambito delle sue orazioni epidittiche c’è FLORIDA, un’antologia dei suoi discorsi più famosi e applauditi. Tra questi c’è la descrizione di un pappagallo: era un animale sconosciuto da questo mondo. È una raccolta dei pezzi che hanno avuto più fortuna dei discorsi che hanno avuto più fortuna. Ci sono anche delle definizioni: lui si auto-definisce PHILOSOPHUS PLATONICUS: segue una sorta di neoplatonismo, una filosofia che accentua l’aspetto magico della filosofia di Platone; lui si considera un vero rappresentante.
In un altro discorso, il DE DEO SOCRATIS, che qualcuno ritiene un’opera staccata, fa riferimento al δαιμον di Socrate chiamandolo DEUS, perchè il latino non aveva la differenza di termini εος / δαιμων; il δαιμον sarebbe quell’entità intermedia tra l’uomo e dio, già Esiodo parlava di uomini della prima età che diventano dei. Contemporaneamente nel Cristianesimo nasceva la figura dell’angelo custode, quindi sviluppa l’argomento cristiano: non si sa se il cristianesimo ne parli per contrapporlo al δαιμον, o il contrario. È una figura che spunta adesso, o per il bisogno di un’entità divina, o per contrapporla al cristianesimo. Secondo qualcuno questo discorso non è un discorso, o è finito per errore nei FLORIDA, o è un discorso tratto da un’operetta filosofica.
Accanto ai florida ci sono due operette filosofiche con le quali Apuleio definisce la sua concezione del Platonismo, che diventa basilare nel medioevo. È odiato dagli autori cristiani, ma anche seguito. L’operetta DE PLATONE ET EIUS DOGMATE “su Platone e la sua teoria” è il mezzo con il quale si conosce Platone, ma è il Platone dell’epoca, che è quello conosciuto fino al ‘500.
C’è anche il DE MUNDO, traduzione dello pseudo-aristotelico “Del cosmo”: il mondo è guidato dal dio, ma non direttamente: attraverso esseri divini (δαιμονες) che fanno da tramite tra l’uomo e dio, e fanno andare avanti il mondo. È una filosofia semplificata per fare da guida spirituale per le classi colte che la ricercano come conforto. È la sua fede, che cerca di propagandare. Può essere che i contenuti delle sue opere filosofiche si siano trasformati in discorsi.
Accanto alla parola neoplatonismo esiste la parola mago in Apuleio: la magia è intesa nel senso di τεοργια (Platone), mezzo di ascesi verso Dio. Rientra nella visione teorica dell’epoca, sopravvive fino al Medioevo. Apuleio è:
• Oratore
• Filosofo platonico e mago.
Sembra strano, ma rientra nell’ecletticismo di un’epoca, in cui il convergere, il superare i confini non ben definiti sono il risultato di una ricerca dell’esistenza di una vita che abbia un senso.
La legislazione romana puniva con la pena di morte la magia, il Romano ha sempre avuto paura di ciò che sfuggiva alla concretezza. Definirsi mago era al limite della legalità. Durante uno dei suoi viaggi conosce un suo condiscepolo che aveva una madre vedova ricchissima; lei aveva tantissimi pretendenti ma si rifiutava di risposarsi. Il figlio, ammiratore di Apuleio, per proteggere la madre, fidandosi di Apuleio gli offre di sposarla. Apuleio la sposa; ma poi ad un certo punto il figlio che aveva voluto le nozze, strumentalizzato dal suocero povero che sperava di mettere le mani sul patrimonio, si lascia convincere ad accusare Apuleio di aver indotto al matrimonio la donna con arti magiche. La sua orazione, il DE APOLOGIA, è un rifacimento, non può essere quella vera perché è troppo lunga (hanno provato a recitarla e ci hanno messo 6 ore), però deve contenere gli elementi base della difesa. Si compone di due fasi:
1. Si difende dall’accusa di mago
2. Racconta i fatti: da qui sappiamo tutta la vicenda.
Però non abbiamo la controparte! La sua difesa sta nel fatto che la donna aveva scritto il testamento prima di sposare Apuleio, ed era stato lui stesso a farglielo scrivere e firmare nel testamento lasciava tutto al figlio e niente al marito. Che interesse avrebbe quindi avuto nello sposarla?! La causa va bene, lui continua a scrivere, il fatto in sè che abbia pubblicato la causa ampliata testimonia il buon esito della vicenda. Riesce a non rinnegare di essere un mago difendendosi dall’accusa; distingue due modi di essere mago:
1. Filosofico: quello della magia buona, per avvicinarsi alla divinità; cita dei passi di Platone per difendersi
2. Quello della magia cattiva, la stregoneria, a cui non ha mai pensato e non si è mai applicato.
Già Silla aveva sentito il bisogno di fermare questa pratica.
Una delle accuse mosse è quella di aver inviato un dentifricio ad un amico, che era una stregoneria. È interessante perché da qui sappiamo cos’era il dentifricio per gli antichi: il suo aveva come elemento abrasivo la sabbia, e varie creme ammolienti; quello normale era composto essenzialmente di urina d’asino, la sua era una ricetta nuova, e venne vista come filtro magico con cui dominare gli altri.
È un capolavoro oratorio in quanto riesce abilmente a rigettare l’accusa e a non negare di essere un mago. Quello che l’ha salvato dev’essere stato il testamento della moglie: manca il movente!
L’asino d’oro
Apuleio continua con la sua attività, non si sa fino a quando! C’è un problema di datazione della sua opera più fondamentale: il titolo è METAMORFOSEON LIBRI UNDECIM / LUCIUS VEL ASINUS (Lucio o l’asino) / ASINUS AUREUS (l’asino d’oro, titolo medievale). Non la cita nell’apologia: deve averla scritta dopo. Il numero di libri è alquanto strano: sono 11, non 12, numero canonico, né 7 il romanzo ha 10 libri + 1! È la stessa storia di Luciano ma diversa per alcuni punti.
Lucio va in Tessaglia luogo di magia e stregoneria. Va per interessi economici o per conoscere la magia, è ospitato nella casa di uno la cui moglie Panfila è una maga, e la vede trasformarsi in un uccello. Allora fa rubare dalla servetta, corrotta, l’unguento, ma lo sbaglia e diventa un asino. È diverso dalla vicenda greca per l’ambientazione, e perché lui si interessa di magia, poi lui spia la maga pecca di CURIOSITAS, colpa negativa, voleva vedere ciò che non poteva: è andare al di là dei propri limiti. Poi commette anche un’altra colpa: convince la servetta andandoci a letto: commette anche una colpa di lussuria, colpa animalesca. Paga attraverso la degradazione a livello animale, ma a livello abbassato: lui voleva trasformarsi in un animale, ma in un animale che si libera nel cielo, invece si trasforma in un animale fermo a terra. Da qui cominciano una serie di avventure ; la servetta gli dice che per salvarsi deve mangiare delle rose. Viene bastonato da un suo ex servo proprio mentre stava cercando di mangiare le rose che c’erano in giardino, e viene rapito da banditi che hanno già con loro una ragazza rapita. Qui inserisce una novella che dura 2 libri e mezzo: Amore e Psiche. Il fidanzato della ragazza li fa fuggire, però perde i due: lui muore ucciso da un amico innamorato anche lui della ragazza, lei si suicida dopo aver vendicato il fidanzato. Viene preso da un sacco di gente diversa, diventa famoso perché ama mangiare le torte e diventa l’amante di una donna, tanto che lo vogliono portare in un circo, lui scappa e arriva in riva al mare. Lì finalmente trova le rose e torna umano, cambia nome Madaurensis (si identifica con Apuleio), a Roma diventa sacerdote della dea Iside.
Non mangia delle rose qualunque, ma le rose sacre: sono le rose della divinità la divinità salva. Apuleio si identifica con il protagonista: è possibile che Apuleio appartenesse ad un culto misterico, e se si interpreta bene la notizia, sarebbe anche passato in un culto elitario, quello di Iside, Osiride. Il significato complesso della vicenda e la dimensione religiosa di norma sono estranee al romanzo. L’opera greca di Luciano finisce com’era cominciata: non c’era colpa di curiositas, ma un semplice sbaglio di filtro. Nell’opera latina tutto parte da una colpa di curiositas che deve avere una punizione. Tutti i pericoli dell’asino sono l’espiazione della colpa; la divinità, quando è purificato, fa cessare la punizione, e lui cessa di dedicarsi alla magia per dedicarsi alla divinità. Nel romanzo greco, l’asino, tra tutte le avventure che ha avuto, ha una relazione con una nobile; quando ritorna uomo, nel finale, si trova bellissimo, e pensa che se le è piaciuto come asino, chissà come uomo! Quindi torna dalla donna, vanno a letto, lui si aspettava chissà quali complimenti, lei però lo apprezzava di più come asino. Il finale del romanzo latino è diverso, ed è una delle chiavi di lettura. All’inizio Apuleio aveva detto che avrebbe composto una FABULA GRAECANICA: graecanica vuol dire “alla greca”, non originale; fabula?! Il romanzo greco è diviso in romanzo e novella (nn perché le novelle sono oscene e il romanzo è casto e puro, ciò che li differenzia è la lunghezza. Il greco e il latino non hanno una differenza di termini per indicare il romanzo: il greco si arrangia dicendo τα περι των (avventure di…), il latino usa il numero di libri (metamorfoseon libri 11). Lui invece dice di comporre una fabula. Le raccolte di novelle erano rappresentate in Grecia dalle Fabulae Milesiae di Aristide di Mileto, di carattere osceno. Per indicare la differenza tra romanzo e novella il latino usa o il numero di libri o il termine racconto, cioè fabula. Quindi non sta facendo riferimento alle Fabulae Milesiae, vuole solo fare un racconto alla greca. Perché sente il bisogno di sottolineare alla greca, se c’era già il Satyricon, un altro romanzo già diffuso? Non considera il Satyricon un romanzo (parodia di un romanzo) o semplicemente non se ne occupa? Non importa.
Poi dice una frase ambigua: LECTOR INTENDE LAETAVERIS: si riferisce ad un lettore privato: segui attentamente e
1. Ne sarai divertito promette che la vicenda sarà divertente.
2. Ma laetaveris può anche voler dire innalzarsi spiritualmente, trarne conforto spirituale troverai l’indicazione di una strada.
Infatti ha la duplice chiave di lettura. La critica ne vedeva solo una delle due, e considerava inopportuni tutti gli elementi al di là della loro interpretazione. Va tenuto presente il fatto che a differenza del greco, Apuleio inserisce nella prima parte una novella di magia (che non vuol dire nulla) però è al centro del romanzo, e occupa quasi 3 libri; è una novella particolare, nella storia stona la lunghezza eccessiva, ma non il modo in cui viene introdotta: quando l’asino viene rapito con la giovane, c’è con loro una vecchia serva dei banditi che ha il compito di sorvegliare la ragazza, e ne ha pietà: le racconta una fiaba (comincia proprio con “c’era una volta un re…”), che è il mito di Amore e Psiche. Un re ha 3 figlie, una delle quali talmente bella da essere venerata come una dea dai suoi sudditi; Venere è gelosa (φονος εων), sdegnata perché le invade il campo, manda un oracolo al re: Psiche non potrà mai unirsi ad un essere umano, ma dovrà sposare un monstrum: un essere straordinario. Il padre terrorizzato e le sorelle che avevano paura di non trovare marito sminuite dalla bellezza di Psiche la cacciano di casa; lei viene salvata da un uomo misterioso che la fa regina, la porta in un castello, ad una condizione: che lei non lo veda mai in faccia: lui arriva solo a notte fonda, e per il resto del tempo non è mai con lei. Lei è felice, pensa che questo debba essere un uomo particolare, però è sola: ottiene il permesso di invitare nel castello le sorelle, che quando vedono il lusso sono gelose, e la convincono che se la tratta così è di sicuro un mostro che la ucciderà, dunque lei farebbe bene ad ucciderlo. Lei si lascia convincere, ma non del tutto: decide di guardarlo. Scopre che lui è un giovane bellissimo, però mentre lo guarda le cade una goccia di cera e lui si sveglia: lei ha tradito il patto tra di loro; Venere promette che potrà tornare con lei solo se Psiche supererà delle prove: solo che lei, arrivata ormai alla fine, si lascia andare, ma interviene Eros a salvarla può tornare con lei. Il mito, per i nomi dei protagonisti, ha un ascendente platonico. Per le sue dimensioni sproporzionate in questo racconto si può trovare la chiave di lettura del romanzo. Psiche è colpevole di curiositas, proprio come Lucio, e come l’asino deve superare tante prove; alla fine torna non solo quella che era, ma in una posizione superiore (da amante segreta diventa moglie legittima e lo può vedere). Questo dimostra che la novella ha un significato allegorico: per curiositas Lucio scende in uno stato inferiore di quello umano, soffre e interiormente rimane un essere umano, solo che vincolato dalla corporeità di un asino: sente che il piacere dell’asino è animalesco, non riesce più a provare soddisfazioni personali: è la degradazione dell’uomo che non riesce ad andare oltre. Dopo aver sofferto anche nei momenti belli, il dio salva l’uomo e non solo Lucio torna quello che era, ma diventa un uomo migliore: rispettoso dei limiti che voleva superare. C’è dunque una chiave di lettura MORALISTICA. Questi elementi, nella discussione sul LAETAVERIS, fanno propendere per l’interpretazione sia della novella, sia dell’intero romanzo, come un testo edificante, però la seconda parte, dopo la novella, contiene una serie di avventure oscene! Come può essere edificante se è anche osceno? qualcuno allora l’ha interpretato come divertimento, e il racconto di Amore e Psiche sarebbe un’avventura in più che può accentuare la magia, ma che non ha intenti morali, la lunghezza eccessiva sarebbe dovuta al fatto che si è lasciato un po’ prendere la mano, comunque è per divertimento, poi per ribadire che è un philosophus platonicus, e per aggiungere qualche novità all’opera. L’undicesimo libro (quello in cui dice che diventa sacerdote di Iside) però stona proprio! Se Amore e Psiche si può ancora digerire, l’XI no! Nessuno ha mai detto che possa essere una parodia religiosa: non c’è senso ironico nell’XI libro. Disturba come numero, e anche per il senso. Nessuna delle due interpretazioni può quindi accettare l’intera opera. Oggi prevale l’interpretazione media: si tratta di un romanzo particolare, dove l’elemento di evasione è compresente con quello di purificazione. Nel mondo antico la separazione dei generi era rigida, anche l’ellenismo comunque fa una contaminazione, ma con cautela. Il romanzo però non era considerato un genere letterario, ma solo un racconto d’evasione senza pretese. Ciò è provato dal fatto che il genere non possiede nemmeno un nome! è il genere ideale per mescolare 2 elementi così antitetici; l’inconciliabilità poi è nostra, cioè la troviamo leggendo il romanzo con i nostri criteri, evidentemente il mondo antico lo accettava. Questo non è un romanzo edificante, o di divertimento, ma è tutte e due le cose contemporaneamente. Quindi al duplice interpretazione del laetaveris non è casuale: vuole dire volutamente che troverai sia di che divertirti, sia di che risollevarti.
Né il Metamorfoseon né il Satyricon, gli unici romanzi latino che ci sono arrivati, sono in realtà esempi di romanzi greci propriamente detti: Apuleio ha questa trasformazione, quello di Petronio è la parodia di un romanzo: ciò dimostra la posizione particolare di un genere già molto aperto in Grecia, che diventa ancora più aperto in Roma.