La donna abbandonata nella letteratura latina

Materie:Altro
Categoria:Letteratura Latina

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Testo

Il tema della donna abbandonata
Nei racconti mitici greco-romani è ricorrente la figura dell’eroina che,innamoratasi di uno straniero,lo aiuta in una difficile impresa,venendo in qualche modo meno ai doveri che la legano alla famiglia ed alla propria patria; quindi lo segue, spesso lontano, per poi esserne tradita e abbandonata.
All’interno dell’ambito latino possiamo rintracciare diversi tre famose eroine abbandonate: Didone, Medea e Arianna, donne accomunate dal fatto di aver amato moltissimo uomini che poi le hanno abbandonate.
Didone, regina di Cartagine, era innamorata dell’eroe Enea ed era totalmente succube del suo amore, preda del “furor”, la passione amorosa che l’aveva portata a pensare solo al suo rapporto con Enea e ad annullare se stessa sia come donna che come regina. Ella non riesce a raggiungere la libertà da questo amore nemmeno con l’atto estremo del suicidio, perché nella maledizione che lancia all’eroe si augura di essergli vicino anche come “fantasma” per tormentarlo: nemmeno dopo la morte accetta di stare lontana dal suo amato.
Medea è l’eroina greca che, per amore di Giasone, accetta di abbandonare la sua terra e la sua famiglia e di accompagnarlo nelle sue peregrinazioni. Anch’ella è talmente succube dell’amore per Giasone che, quando lui la lascia, uccide i suoi figli per vendetta, per non avere nulla che lo ricordasse e perché da sola ha paura di non riuscire a sopravvivere.
Infine vi è Arianna, innamorata di Teseo. Nel suo lamento di donna abbandonata afferma di essere disposta a seguire Teseo come schiava, e in virtù di questa condizione è disposta a prostrarsi ai suoi piedi, compiendo l’atto di umiliazione per eccellenza.
Questi tre esempi di eroine antiche dimostrano come spesso le donne fossero preda del “furor”, ossia della passione amorosa che le portava ad annullarsi completamente e ad essere prigioniere del loro stesso amore.
La prima opera a noi pervenuta che ne richiami la tematica è il carme LXIV di Catullo,in cui il lamento di Arianna riecheggia i topoi che domineranno nei secoli la letteratura di questo genere: ovvero, la perfidia del seduttore spergiuro, la sua ingratitudine, la sua spietata insensibilità, lo smarrimento della donna indifesa in una terra deserta e facilmente destinata a cadere in pasto alle belve, invocazione della punizione degli dei, ecc.
Abbiamo poi Medea, tragedia di Seneca, che riprende la tragedia omonima del greco Euripide: Medea, dopo aver compiuto una serie di delitti e malefatte in nome dell’amore che la lega a Giasone, vede quest’ultimo abbandonarla per sposare un’altra donna. Ecco che la nostra eroina è agitata da sentimenti contrastanti, amore e odio nello stesso tempo, in un crescendo di follia fino al tragico epilogo della vicenda.
Le "Heroides" (il nome in origine dovette però essere quello di "Epistulae heroidum", "Lettere delle eroine") sono 21 lettere d'amore in metro elegiaco, indirizzate da donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. Esse sono opera di Ovidio. Le prime 14 sono lettere di eroine mitiche (Didone a Enea, Arianna a Teseo, Medea a Giasone), ovviamente eroine da inserirsi a pieno titolo nella tradizione delle donne abbandonate.
Per quanto riguarda la Didone virgiliana, ella è la diretta discendente di Medea e Arianna: nelle sue parole possiamo notare gran parte dei motivi sopra elencati, fino alla maledizione lanciata contro i discendenti di Enea.
Tra le tante vittime d’amore della letteratura latina d’ogni tempo, Didone è tra le più umane e umanamente ricche, poiché è del tutto originale la perfetta coerenza con cui essa vive, dall’inizio alla fine della sua tragica vicenda, la propria duplice natura di donna appassionata e di regina. Si tratta dunque di una figura complessa, che ebbe nel tempo una fortuna enorme, basti pensare che sono almeno una trentina le opere liriche ispirate a questo soggetto.
Eneide
L’invettiva di Didone

Virgilio mette di fronte le due figure contrastanti di Enea e Didone: la regina cartaginese viene raffigurata secondo il codice della poesia erotica, l’eroe troiano invece ubbidisce al codice epico. Inizialmente la regina spera ancora di piegare l’eroe; gli rimprovera il suo tradimento, ricorda la parola data, insistendo sulla propria sorte infelice, rimpiangendo la mancanza di un figlio. Cerca quasi di ricattare Enea per tenerlo ancora con se. Ma Enea, calmo e solenne, non fa alcuna concessione ai sentimenti: assicura la sua eterna gratitudine a Didone, ma nega di aver inteso il loro rapporto come matrimonio, lascia trasparire la sua nostalgia per la patria e le rimprovera di ostacolarlo. Ecco che Didone, presa dalla disperazione, non gli chiede più di restare, ma travolta dall’ira lo accusa di feroce crudeltà e irride le motivazioni degli ordini divini, da lui addotte per la partenza. Infine lo maledice e minaccia di perseguitarlo, da morta, come una Furia. Didone è ora in preda a un tumulto di sentimenti di dolore e sdegno, e lascia affiorare per la prima volta l’idea del suicidio per vendetta. Dopo questo passo i due amanti non s’incontreranno più (se non negli inferi), ma seguiranno diversi destini: Enea tutto dedito ormai alla sua eroica missione, Didone sempre più in preda ad una disperazione che la condurrà alla morte.
“Tu non hai avuto come madre una dea, nè Dardano fu l’autore della stirpe,
o perfido,ma ti generò dalle dure rocce l’orrendo
Caucaso e ti allattarono le tigri dell’Ircania.
A che scopo,infatti, dissimulo o a quali affronti più gravi mi riservo?
Forse che gemette a causa del nostro pianto?Forse che battè le ciglia?
Forse che vinto scoppiò a piangere o provò misericordia per l’amante?
Quali offese dovrei anteporre a questa?Ormai la grandissima Giunone
E il padre Saturno non guardano queste cose con occhi giusti.
In nessun luogo c’è una fede sicura. Io accolsi quello gettato sul lido,
E pazza lo resi consapevole delle cose del regno,
salvai dalla morte la flotta dispersa e i compagni.”
(vv.365-375, l.IV)
“va,raggiungi l’Italia con le tempeste, ricerca il regno attraverso le onde;
spero, se qualcosa possono i pii numi,
che tu sconterai la pena in mezzo agli scogli e che per nome Didone
spesso chiamerai. Da lontano ti perseguiterò con fiamme funeste
e, quando la fredda morte avrà sottratto le membra dell’anima,
come un’ombra ti seguirò in tutti i luoghi. Tu, crudele, espierai la colpa;
io udrò, e questa fama giungerà a me fino alle ombre dei morti.”
(vv.381-387, l.IV)
La maledizione di Didone
All’alba Didone, dall’alto della rocca, scorge la flotta troiana che si allontana a vele spiegate. Colta dall’ira è decisa a inseguire i fuggitivi e a vendicarsi; poi si rende conto che ormai ogni vendetta è impossibile poiché sono già lontani. Tuttavia può invocare su Enea e sui suoi discendenti una maledizione divina: trovi l’eroe in Italia guerre e stragi, muoia prematuramente ma rimanga insepolto; i Cartaginesi conservino sempre un odio implacabile verso i discendenti dei Troiani e un giorno, dalle ceneri della regina, possa nascere un terribile vendicatore.
“O Giove” gridò, “lo straniero
potrà andarsene via così, sbeffeggiare così il mio regno?
E i miei non prenderanno le armi, non correranno tutti
dalla città, non trascineranno le navi dagli arsenali?
Oh, su, portate le fiamme, date armi, spingete sui remi!
Ma che dico, dove sono? Quale follia mi travolge?
Infelice Didone, è adesso che l’empietà ti tocca?
Allora doveva, quando eri tu che gli davi lo scettro!
Ecco la destra e la fede di chi reca i penati con sé,
di chi sulle spalle, dice, portò il padre sfinito dagli anni!
Perché non l’ho fatto a pezzi e non l’ho disperso nel mare?
Perché non ho trucidato i compagni o lo stesso Ascanio,
e non ne ho imbandito le membra sulla mensa paterna?
Ma era incerto l’esito; è vero, e lo fosse pur stato!
Chi dovevo temere se dovevo morire?Oh, avessi
Portato il fuoco nel campo, riempito di fiamme le navi,
uccisi il padre e il figlio, tutti e me stessa nel rogo! “
(vv.590-606, l.IV)
“Se deve l’infame toccare
il porto e approdare alla terra, ed è questo che chiedono
i fati di Giove, ed è questa la meta fissata:
ebbene, percosso dall’armi di un popolo audace,
bandito dal paese, strappato dall’abbraccio di Iulo,
debba implorare aiuto, veda cadere i suoi
ingiustamente; e quando avrà dovuto piegarsi
ad una pace iniqua, non goda il regno né la luce bramata,
ma cada innanzi tempo, insepolto in mezzo all’arena”
(vv.612-620, l.IV)
“Non vi sia patto o amore fra i due popoli.
E sorga dalle ossa mie un vendicatore”(vv.624-625)
L’ultimo soliloquio di Didone
Il suicidio
Didone ha fatto innalzare un rogo all’interno della reggia per ardervi il letto coniugale e tutti gli oggetti donati da Enea, col pretesto di un rito magico che la liberi dall’amore, ma già intenzionata a morire. Manda allora la nutrice a chiamare Anna; quindi sale sul rogo, sul letto in cui aveva consumato la sua passione, e dopo strazianti parole di rimpianto, si getta sulla spada che Enea le aveva donato, dopo aver contemplato per un istante le spoglie dell’eroe rievocando la propria gloriosa vita di regina: se i troiani non fossero mai arrivati sarebbe stata sicuramente felice. Rinuncia allora ad ogni altro proposito di vendetta, solo augurando che Enea, scorgendo dal mare le fiamme del suo rogo, tragga sinistri presagi. Le ancelle vedono la regina nell’atto di trafiggersi; ecco che la reggia si riempie di clamore e la notizia si diffonde per la città sgomenta.
“Morirò invendicata” soggiunse, “purchè muoia. È così, è così,
che voglio scendere all’ombre. Veda questo fuoco dal mare
il crudele, della mia morte porti con sé il presagio.” (vv.660-662)
Didone a Enea
Heroides, VII
Enea è sempre presente ai miei occhi nelle mie veglie,Enea all’anima mia portano il giorno e la notte. Si,egli è un ingrato,insensibile ai miei benefici;vorrei,se non fossi stolta,starmi lontana da lui;non odio Enea,sebbene egli volga da me il suo pensiero;mi dolgo dell’infedele,e più,dolendomi,l’amo!
Venere,indulgi alla nuora! Abbraccia il tuo crudo fratello,fratello Amore;oh anch’egli militi nella tua guerra! E quegli ch’io presi,ch’io seguito ancora ad amare,quegli fornisca pure esca ai tormenti miei!
No,io m’inganno;una falsa immagine innanzi mi viene;egli ben differisce dalla materna natura! Te le pietre,te i monti,te le querce che sorgono sull’alte rupi,generarono te le crudelissime belve;o forse il mare che pur ora tu vedi agitato dai venti,che ti appresti a solcare pur sopra flutti ostili.(vv.25-38)
Pensa ora tu d’esser preso(ma non valga a nulla il presagio!)nell’impeto di un turbine. Che penserai tu allora? Ricorderai allora gli spergiuri del labbro bugiardo,e Didone,costretta dal frigio inganno a morire;ti starà dinnanzi agli occhi lo spettro della moglie tradita,triste,pieno di sangue, e con le chiome sciolte. dirai,e penserai che le folgori cadenti si scaglin su te?
Lascia che un poco si sfoghi la ferocia del mare e la tua;gran premio al breve indugio,la via che resta è sicura. Non io per te mi angustio:ma il piccolo Iulo sia salvo!
Tu…basta che tu abbia vanto della mia morte. Ma qual colpa hanno Ascanio fanciullo ed i numi penati? L’onde travolgeranno numi sottratti alle fiamme? Pure…tu teco non li hai;né quei sacri oggetti e tuo padre furono,come vantavi,carico agli òmeri tuoi.
In tutto mentisci. Nè certo da me la tua lingua comincia gl’inganni;non sono io la prima ad essere tradita. Se tu domandi ove sia la madre di Iulo leggiadro,ella perì lasciata sola dal dura marito. Tu me l’avevi narrato;né io me lo dolsi;or tu ardimi,che il meritai;la mia pena sarà minore della mia colpa.
Io non ho dubbio alcuno che i numi tuoi ti condannino;sono sete anni ormai ch’erri per terre e per mari. Sbattuto dalla tempesta t’accolsi in asilo sicuro;e,appena udito il tuo nome,ti diedi il mio regno.Ma fossi stata almeno contenta di quei benefici,e fosse stata sepolta la fama del mio connubio!Quel di fu fatale in cui la fosca procella ci spinse con improvvisa pioggia entro la cavernosa volta!Avevo udito un grido;credei fosse un urlo di ninfe;erano le furie che davano l’annunzio del mio destino. Vendicatevi,o pudore oltraggiato,o ombra di Sicheo ,verso cui vado,misera e piena di vergogna!
Ho,in un tempio di marmo,la sacra immagine di Sicheo,coperta d’intrecciate fronde e di candidi veli.
(vv.66-100)
Anna sorella!Sorella Anna!sciagurata confidente della mia colpa,or ora offrirai alle mie ceneri i doni estremi!
E,poiché la fiamma mi arderà,non si scriverà sulla mia tomba:”Elisa,di Sichèo”;ma pure sul tumulo marmoreo sarà questo epitaffio:
“Enea fornì la causa della morte e della spada;Didone morì trafitta dalla sua propria mano”.
(vv.191-196)

Medea
- Medea ode il canto Imeneo e diventa furente. Ella si chiede se Giasone possa veramente abbandonarla con due figli, da sola in terra straniera, ma ciò che più la tormenta è il fatto che l’abbandono di Giasone significherebbe che quest’ultimo non prova alcuna riconoscenza nei confronti di lei, sua sposa, che per salvargli la vita e poter vivere felici insieme ha perpetrato diversi e terribili delitti, arrivando ad uccidere perfino il padre e il fratello. Tuttavia ella non è disposta ad arrendersi, l’odio per Creusa e l’affronto di Giasone la rendono furente, disposta a compiere qualunque atto pur di vendicarsi. Per lei non hanno più valore i delitti compiuti in passato, l’unico suo desiderio è restituire a Giasone la sofferenza e il dolore che egli le ha provocato abbandonandola e decidendo di sposare Creusa. E proprio su di lei intende vendicarsi.
Non riesco ancora a credere a tanta sventura! E Giasone ha potuto fare ciò? Dopo avermi tolto il padre, la patria, il regno, ha potuto avere il coraggio di lasciarmi così sola in una terra straniera? Oh, senza cuore! Ha dunque dimenticato con tanto disprezzo tutto il bene che gli ho fatto, egli che soltanto per mezzo dei miei delitti riuscì a veder vinti il fuoco e il mare? E crede egli dunque che io abbia esaurito la serie dei miei delitti? Incerta, inasprita, non mi sento io forse trascinare dalla mente in delirio ad ogni estremo consiglio che mi possa dare vendetta? Oh, se egli avesse un fratello! Egli ha invece una sposa. Ecco, è questa che io devo colpire!…
(vv.118-126)
- Ancora una volta Medea sottolinea a Giasone i sacrifici ch’ella ha compiuto in nome del loro amore. Di fronte all’obbligo dell’esilio, si sofferma sulla propria condizione di donna senza ormai una patria, senza una casa e l’affetto dei propri cari che non ha esitato a uccidere proprio in nome di quel sentimento che la legava a Giasone. Questa è una Medea disperata, alla ricerca di qualunque appiglio o pretesto per riavere Giasone e fuggire da Creonte. Ma egli si rifiuta, ha paura delle conseguenze che questa scelleratezza potrebbe avere e anzi le consiglia di partire prima che sia troppo tardi. Adesso nelle parole di Medea non vi è più alcuna disperazione: animata da una lucida follia ha già tramato la sua vendetta e aspetta soltanto il momento opportuno per attuarla. Sa bene qual è il punto vulnerabile di Giasone ed è lì che lo colpirà I suoi figli pagheranno le colpe del padre, il suo amore la condurrà alla più terribile follia.
Così dunque egli ama i suoi figli? Bene! L’ho preso: egli ha rivelato il suo punto vulnerabile…mi sia almeno permesso di dire ai miei figli una parola di addio, giacchè me ne vado: mi sia concesso di abbracciarli per l’ultima volta: anche solo questo mi basta.
(vv.552-554)
Ecco, se ne va…Ed è così che te ne vai, senza più ricordarti di me e di tanti miei benefici? Sono dunque morta per te? Oh! No! Mai più te ne potrai dimenticare!
(vv.561-563)
- La furia e la rabbia accecano Medea, ormai pronta a compiere l’estremo gesto uccidendo i figli. Tuttavia, ella si ferma, indugia dubbiosa: può uccidere i figli la cui unica colpa è quella di avere Giasone come padre e Medea per madre? In lei si agitano odio e amore, atroci dubbi e vacillanti certezze…
Oh demente mia furia! Questo orrore inaudito, questo barbaro sacrilegio, no, no, non voglio commetterlo! Che cosa hanno fatto questi poveri bimbi? Tutta la loro colpa è quella di avere Giasone per padre e, colpa maggiore, per madre Medea ..Muoiano! Miei non sono…Farli morire? Oh no! Sono miei! Non hanno colpa né macchia…Sono innocenti, sì, si…Oh!…era innocente anche mio fratello! Perché dunque esiti, animo? Perché queste lacrime a rigarti la faccia? Perché l’odio e l’amore mi trascinano or di qua or di là, e questo doppio delirio mi travolge dal dubbio nel dubbio?
(vv.919-928)
- Ormai la vendetta è compiuta, Medea ha ucciso uno dei suoi figli e Giasone è distrutto dal dolore A nulla valgono le sue preghiere e le sue suppliche: Medea ha perso il senno, in preda a follia e rabbia porta a termine la sua vendetta, e come ogni volta, fugge per i cieli, a bordo di un carro trainato da due draghi, lasciando Giasone in lacrime coi corpicini dei figli ormai morti.
No, ma lì dove non vuoi, lì dove molto ti duole, lì, lì, immergerò il mio ferro! Va pure, ora, o superbo, va a cercare il talamo di altre vergini! Abbandona le madri!
(vv.995-997)
Tu mi chiedi pietà. Ora sì che va bene: tutto quanto è compiuto. Io non ho mai avuto alcun altra soddisfazione da chiederti, o mia vendetta. E tu, ingrato Giasone, alza quei tuoi occhi bagnati di lacrime! Riconosci tua moglie? Io, di solito, fuggo così: la mia via è sempre aperta nel cielo: due draghi piegano sotto il mio carro i loro colli squamosi. Riprenditi i figli, tu, padre! Io col mio carro volante mi sollevo nel regno dei venti, per correre in alto gli spazi sublimi dell’aria.
(vv.1008-1015)
Medea a Giasone
Heroides, XII
Io, io che ora non sono ormai per te se non una barbara, che ora ti sembro povera, che ora ti sembro molesta, addormentai con sonno malioso gli occhi fiammeggianti e ti diedi, perché lo portassi via senza pericolo, il vello.
Così tradii mio padre: lasciai la mia patria e il mio regno, volli cercare ogni mia soddisfazione nell’esilio. La mia purità diventò la preda d’un ladrone straniero; lasciai, con la cara madre, la mia sì buona sorella.
Ma fuggendo non ti lascia senza me, o fratello!
(vv.105-113)
Godi, padre ch’io offesi; gioite, o Colchi ch’io abbandonai! Ombra di mio fratello, ricedimi come sacrificio espiatorio! Perdetti il regno, la patria, la casa; e sono abbandonata al marito che, egli solo, era per me tutte queste cose insieme.
(vv.159-162)

Arianna a Teseo
Heroides, X
- Ecco infine ciò che Arianna scrive a Teseo. Il mito narra che Teseo fosse stato inviato a Creta per uccidere il Minotauro e fosse stato aiutato nell’impresa da Arianna, figlia di Minasse e sorella del Minotauro stesso. Teseo, in cambio del suo aiuto, promise di portarla con se ad Atene e sposarla, ma durante il viaggio di ritorno l’abbandona su un’isola.
Ho trovato che tutta la stirpe delle belve feroci è più mite di te; non potevo affidarmi ad altri peggio che a te.O Teseo,ciò che leggi ,te lo mando da quella spiaggia da cui le vele portaron via senza me la tua nave,e ove il mio sonno mi tradì,tu mi tradisti,insidiando a me perfidamente mentre dormivo.
Era il tempo che la terra comincia a coprirsi di cristallina pruina e gli uccelli cinguettano nascosti tra le frondi.Tra la veglia e il sonno,languida nel mio torpore,semisupina,io stesi le mani per toccar Teseo;ma non c’era nessuno!Ritrassi le mani,le protesi di nuovo,agitai le braccia nel letto;non c’era nessuno!
Il terrore mi destò;sbigottita mi alzai;mi precipitai fuori dal vedovo letto;ed ecco,il mio seno risonò dei colpi delle mie mani,e i capelli, arruffati com’eran dal sonno,furono devastati.
C’era la luna;guardo s’io veda qualche altra cosa oltre le rive;gli occhi non riescono a scorgere altro che rive.
(vv.1-18)
E di la col mio sguardo misuro per vasto tratto l’alto mare. E di là(anche i venti mi furon sfavorevoli!)vidi le vele tutte gonfiate dall’impetuoso Noto. Vidi,o credetti di aver veduto?Ma rimasi semiviva e più fredda che ghiaccio.
Il dolore non mi lascia però languire a lungo;me ne riscuoto,e chiamo Teseo ad altissima voce:
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Così dissi,e a ciò che non poteva la voce supplivo con le grida;e alle mie parole si aggiungevano le percosse. E,pel caso che tu non udissi le mie mani agitate in largo fecero segnali perché vedere almeno tu mi potessi; e issai veli bianchi su una lunga pertica,che mi ricordassero a quelli che m’avevano dimenticata.
(vv.27-40)

Esempio