La vita sfugge e non s'arresta un'ora

Materie:Tema
Categoria:Letteratura Italiana

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Testo

Analisi del sonetto “LA VITA FUGGE, E NON S’ARRESTA”, dal CANZIONIERE CCLXXII, di FRANCESCO PETRARCA
E’ un sonetto incredibilmente drammatico scritto da Petrarca in un’ora di grave turbamento, di pesante e cupo sconforto. Laura è morta; lo capiamo dall’ultimo verso che è piuttosto esplicativo:
“… e i lumi bei che mirar soglio, spenti”.
Qui, i bei lumi sono gli occhi belli di Laura che se un tempo erano oggetto di ammirazione da parte del poeta, ora non sono più luminosi, ma privi di luce, spenti, sono gli occhi di una persona morta.
Petrarca avverte la fugacità della vita e l’avvicinarsi, pericoloso, della morte; è dalla prima quartina, sin dal primo verso, che si evidenzia la temibile inesorabilità del tempo che l’io lirico sembra vedere come qualcosa di reale. E’ tutto espresso per mezzo di una metafora; la metafora di un mare in tempesta che lo spaventa e lo fa dubitare del navigare futuro. (È la stessa metafora che Petrarca utilizza in “Passa nave mia colma d’oblio”: la metafora del mare “aspro” in tempesta e della nave in difficoltà)
Dal punto di vista stilistico questo incalzare del tempo è reso dai polisindeti che notiamo principalmente nella prima quartina e nell’ultima terzina:
“La vita fugge e non si arresta …,/ e la morte …,/ e le cose pesanti …/ - e ancora - veggio fortuna in porto e stanco ormai …/, e rotte arbore …/, e i lumi ….”
Questo ripetersi di coordinate introdotte tutte dalla medesima preposizione “e” dà al sonetto un ritmo lento ma allo stesso tempo inesorabile (la lettura di più coordinate risulta lenta e difficile, in una proposizione, rispetto alla lettura di frasi brevi); ci viene trasmesso, quindi, l’effetto di questo tormento interiore che il poeta voleva comunicare. Inoltre si individuano alcuni verbi di movimento come “fugge” , “vien” , “tornami” che vogliono evidenziare affanno, tomento. Tormento interiore caratterizzato anche dalla presenza di alcune antitesi come quella tra i versi uno e due “vita-morte”o ancora “fugge-s’arresta”; quella tra i versi nove e dieci: “dolce-triso”.
Possiamo notare, inoltre, la descrizione di tre piani temporali differenti: il presente, il passato e il futuro; troviamo sia il ricordo del passato che l’angoscia per il futuro nella seconda quartina:
“e ‘l rimembrare e l’aspettare…”
Troviamo ancora il passato nella prima terzina, introdotto da:
“Tornami avanti”
E infine il futuro, nell’ultima terzina, che spaventa incredibilmente Petrarca, evidente vittima di un enorme tormento interiore.
Tormento interiore causato anche dal dissidio che da sempre caratterizza ne caratterizza la vita: a partire dal verso sei fino alla fine della seconda quartina abbiamo indicazioni piuttosto precise.
“… sì che ‘n veritate,/se non ch’i’ ò di me stesso pietate,/ i’ sarei già di questi pensier’ fora”
Egli dice chiaramente che avrebbe posto fine alle sue sofferenze togliendosi la vita, ma si rende conto di provare troppa pietà per sé stesso per compiere un atto simile. Nonostante ciò ha paura: la vecchiaia lo spaventa, si rende conto che con il tempo la sua situazione non può migliorare ma il dissidio tra spirito e cose materiali tenderà a rimanere intrinseco nella sua anima. (È la stessa situazione che notiamo ne “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi”; la sensazione del tempo che passa, che sgretola le cose senza possibilità alcuna di porre rimedio)
Quindi la morte gli si presenta come uno spettro e non come approdo di tranquillità, come metà da raggiungere per la pace in eterno. ( A differenza del sonetto “Quanto più mi avicino al giorno estremo” dove la morte, invece, è vista come liberazione). Questo perché Petrarca è indissolubilmente legato alle cose della vita terrena, al mondo; ma nonostante ciò è anche inappagato da questo modo di vivere. Per questo motivo non può aspirare a trovare il perdono di Dio dopo la morte. Nell’ultima terzina, infatti, troviamo una metafora al verso quattordici:
“Veggio fortuna in porto ….”;
In questo caso il porto non rappresenta tanto la salvezza (in genere il porto è ben visto dal marinaio che naviga con il mare in cattive condizioni), bensì il tramonto della vita (che è la morte appunto). Si noti però che c’è “fortuna in porto” (ovvero tempesta); da qui capiamo che per Petrarca la morte è tutt’alto che una fine sicura.
Volendo paragonare questo sonetto ad altri del Canzoniere, ci rendiamo conto che è un sonetto tra i più cupi, fra i più tristi. Un sonetto nel quale il poeta non ripone alcuna fiducia per il futuro ma tende ad accettarlo come eternità tormentata.

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