Il Barocco nella letteratura italiana

Materie:Riassunto
Categoria:Letteratura Italiana
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Testo

Il barocco e Giambattista Marino
Introduzione

Nel Seicento entra in crisi il modello culturale umanistico-rinascimentale. La teoria copernicana mina la certezza di un universo centrato sulla Terra (e quindi sull'uomo) e introduce l'idea di uno spazio infinito. L'epoca sanguinosa delle guerre di religione irrigidisce una concezione della religione fondata sull'identità e sull'appartenenza, sulla difesa dell'ortodossia contro ogni tentazione di libera ricerca. Si fa strada un diffuso senso di inquietudine e di smarrimento, di precarietà delle cose umane, si dilatano gli orizzonti immaginativi, ma entrano in crisi i valori classici di compostezza, equilibrio e armonia. In campo artistico questa crisi trova espressione nel barocco, che esprime una poetica dello stupore centrata sul bizzarro, sulla sproporzione, sul virtuosismo e l'illusionismo tecnico. Il barocco letterario trova in Italia il suo poeta più significativo in Giambattista Marino: il suo Adone è l'esempio più coraggioso dell'esaltazione della fantasia poetica della ricerca di un nuovo modello lirico aperto a un moderno virtuosismo espressivo.
Il concetto di barocco

La cultura del Seicento viene sintetizzata con il termine "barocco". Ma la sintesi non è priva di difficoltà, sia nell'individuazione dei limiti cronologici, sia in una sua precisa definizione terminologica.
Limiti cronologici
Il manierismo, pur radice importante e per certi versi causa del barocco, non ne è parte integrante; in Italia riguarda il Cinquecento, dagli anni '30 fino al termine del secolo, ed è uno dei vettori più importanti della cultura. Si può parlare invece di barocco solo rispetto al secolo XVII: in Italia fino agli anni '90, mentre in Francia risulta già in crisi a partire dal 1660. D'altra parte, esiste una chiara differenza tematica fra le due scuole, spesso confuse fra loro: il manierismo, con il suo virtuosismo e il suo culto del particolare, è una specie di "controclassicismo" interno al classicismo; il barocco si manifesta con un'energia iconoclasta, anticlassicistica, del tutto autonoma dall'aspirazione rinascimentale, secondo una ricerca ossessiva del "nuovo".
Definizione terminologica
L'etimologia del termine non è chiara: pare che "barocco" derivi dall'incrocio tra il sostantivo "baroco", che nella filosofia scolastica designava un particolare sillogismo paradossale, e il portoghese barroco, indicante un tipo di perla irregolare e sgraziata. Proprio da quest'ultimo significato deriva l'aggettivo francese baroque (bizzarro), da cui a sua volta deriva il termine italiano. In sede filosofica già nel Cinquecento il termine identificava spregiativamente un modo falso e di ragionamento, soggetto ancora alla superata mentalità aristotelica. E persino gli stessi autori che oggi sono definiti barocchi per eccellenza (per esempio, Marino, Tassoni ecc.) usarono l'aggettivo con connotazioni negative per indicare gli eccessi stilistici dei loro colleghi. Un vasto gruppo di poeti (come Rinaldi, Stigliani e Marino) che oggi ascriviamo al barocco preferivano definirsi come esponenti del "concettismo". Il termine "barocco" cominciò a entrare nel lessico comune della critica, sempre in senso spregiativo, verso la fine del Settecento per iniziativa dei teorici del neoclassicismo (J.J. Winckelmann, F. Milizia). Il significato spregiativo fu contestato a fine Ottocento dallo storico dell'arte tedesco H. Wölfflin, che riconobbe allo stile barocco, opposto all'arte classicista, un valore positivo. Oggi il termine ha generalmente un significato oggettivo, storico, che prescinde da giudizi di valore generale: quando non è usato in senso traslato (in cui mantiene sempre un'accezione di esagerato e artificioso), tende a identificare il gusto e lo stile di tutta un'epoca.
Temi e prospettive del barocco
Il nesso "arte-natura" viene interpretato come sensuale comunicatività fra i due soggetti: il virtuosismo diventa la "meraviglia" e il "piacere" di una continua simulazione dentro lo scambio simbolico fra l'arte e la natura. L'opera d'arte è alla ricerca di una "teatralità" assoluta (fra cruda quotidianità e spettacolo visionario), e allo stesso tempo cerca di esprimere la massima fisicità (dal macabro realistico all'erotico) insieme alla massima estasi religiosa.
Sono la tecnica e il preziosismo sorprendente dell'invenzione linguistica (giochi di metafore, improvvisazioni di analogie, paradossi, enfasi, iperboli e ambiguità dei testi) la novità moderna del linguaggio barocco. Lo scrittore barocco rifiuta la normale comunicatività del linguaggio, mette da parte il primato conoscitivo e morale della lingua rinascimentale, si apre a una scelta espressiva che si giustifica solo nella sottigliezza dell'esecuzione, nell'arguzia con cui sa inventare e rendere manifesta l'"artificiosità" dell'arte. Antitesi e contrasto drammatico diventano meccanismi strutturali dominanti in tutti i generi letterari, così come in tutte le manifestazioni artistiche.
I termini chiave del barocco sono: l'ingegno, cioè la capacità della parola di trasferire le immagini e i pensieri da un contesto a un altro; l'acutezza (l'agudeza spagnola), ovvero la capacità di colpire la sensibilità dell'ascoltatore; lo spirito, ossia la capacità di suscitare la meraviglia di chi legge. Fondamentale il termine concettismo (nel quale come abbiamo visto si riconoscevano gli scrittori barocchi), che invita all'uso di "concetti" con i quali uno scrittore sa impreziosire ed esasperare la comunicazione del linguaggio: il "concetto" è una specie di illuminazione mentale che accende la "meraviglia", come se le parole fossero tanto più vere quanto più capaci di visionarità, di invenzione creatrice. Nel Cannocchiale aristotelico (1670) di Emanuele Tesauro (1592-1672), l'"argutezza, gran madre di ogni ingegnoso concetto" viene ricondotta alla conversazione "civile" e dunque poetica, con lo scopo di procurare piacere e infinita meraviglia.
Uno stile internazionale
Il Seicento fu contemporaneamente l'età cupa della dominazione spagnola e della Controriforma e l'età del progresso filosofico-scientifico, in cui si afferma definitivamente la teoria copernicana (1543) con gli studi di Keplero (1609) e di Galileo (1632). La fine della certezza antropocentrica, il crollo dell'unità religiosa, il sorgere prepotente nella scienza di un'idea di spazio scientifico infinito, la fortissima crisi dell'equilibrio classicistico imposto dal manierismo cinquecentesco sono le prospettive storiche in cui s'inquadra la grande stagione del barocco. Fu uno stile "internazionale": interessò tutte le nazioni e tutte le forme artistiche, dalla musica alla poesia e all'architettura. In un certo senso, il barocco fu il primo fenomeno di cosciente modernità, come se in un nuovo spazio simbolico si aprissero alla creatività umana nuove strade e nuove tecniche espressive.
Il barocco italiano
La nostra letteratura barocca è ferma a una risposta che non sa dare: quale modello si può proporre con l'esaurirsi di quel principio rinascimentale, e in particolare del Bembo, che aveva legato la letteratura a una prospettiva ideale? Cosa vuol dire essere moderni, rinunciare a un sapere classicista? Per quanto l'esempio italiano, specie Marino e il marinismo, sia stato esportato in tutta l'Europa, non si può nascondere che il barocco letterario italiano risulta comunque una testimonianza di crisi culturale, il segno di una letteratura senza grandi libri. La crisi politica italiana, il peso della Controriforma sono certo cause di un disagio storico che sembra privo di soluzioni. La cultura nobiliare laica è afflitta da un individualismo tanto fazioso quanto servile; la cultura gesuitica, specie dagli anni '40, deve far prevalere il senso strumentale e "predicatorio" della cultura, quale controllo sociale. Le personalità migliori del nostro barocco sembrano casi isolati, quasi scardinati da una reale società letteraria. Fino alla fine del secolo, quando si affermerà in funzione antibarocca l'Arcadia, avremo un dibattito complesso ma anche confuso, spesso arenato in un groviglio di provincialismo e di intuizioni lasciate senza sviluppo, senza forza civile e culturale.
Giambattista Marino

Il napoletano Giambattista Marino (1569-1625) è lo scrittore più significativo del nostro Seicento e rappresentò un modello imitato dagli scrittori dell'epoca in tutta Europa.
La vita e le opere
Avviato agli studi giuridici, si dedicò quasi subito alla poesia come poeta cortigiano presso il duca Ascanio Pignatelli e poi (1592) presso il principe Matteo di Capua. Nel 1600 entrò al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini a Roma. Pubblicate le Rime (1602), cominciò a lavorare alla stesura del poema Adone, che nel progetto iniziale avrebbe dovuto essere di tre libri. Nel 1606 seguì Aldobrandini a Ravenna e in altre città del Nord. Giunto a Torino (1608), scrisse per Carlo Emanuele I un panegirico Il ritratto del serenissimo don Carlo Emanuele duca di Savoia (1608), ottenendone in cambio una generosa ospitalità dal 1610 al 1615. A corte si scontrò con l'invidia del segretario del duca, il poeta Gaspare Murtola, autore del poema sacro La creazione del mondo (1608) deriso da Marino. Nel 1608 Marino aveva stampato la raccolta lirica La lira. Gli anni torinesi furono particolarmente fecondi: riprese e ampliò il progetto dell'Adone; nel 1614 stese le Dicerie sacre, tre orazioni fittizie (La pittura, La musica, Il cielo) che dimostrano un'abilità virtuosistica straordinaria nel modellare la lingua nel genere "oratoria sacra". Nel 1615 fu chiamato alla corte di Francia dalla regina Maria de' Medici, a cui dedicò il poemetto encomiastico Il tempio (1615). A Parigi scrisse alcune delle sue cose migliori: gli Epitalami (1616), poesie per nozze, La galeria (1619), rassegna di opere di scultura e pittura di artisti contemporanei. Nel 1620 diede alle stampe La sampogna, composta da 12 poemetti, 8 di contenuto mitologico e 4 di tipo pastorale. Il trionfo giunse con l'Adone (1623), poema in 20 canti la cui lussuosa edizione fu finanziata dallo stesso re Luigi XIII. Poco dopo Marino decise di tornare in Italia, accolto con grandi onori a Torino, a Roma e soprattutto a Napoli. Nella sua città si dedicò alla composizione di un poema religioso in ottave, La strage degli innocenti, già iniziata vent'anni prima; l'improvvisa morte non gli consentì di concludere quest'opera, pubblicata postuma nel 1638. Anche le Lettere (uscite a partire dal 1627) sono postume.
I caratteri dell'opera di Marino
Il carattere del lavoro di Marino è chiarito già da un'affermazione dello stesso poeta, che riguardo alle proprie vaste letture scriveva: "Imparai sempre a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch'io ritrovava di buono, notandolo nel mio zibaldone e servendomene a suo tempo". Marino è il poeta che reinventa e rinnova con un'esuberanza cromatica e figurativa mai vista nella nostra letteratura. Sembra aver superato senza ritorno il classicismo a favore di una curiosità infinita e sensuale, originalmente barocca. Le liriche della Lira sono una proliferazione di timbri e sonorità; la Sampogna è un esercizio di gusto inconsapevolmente "esotico" e svaporato; la Galeria poi forse il libro migliore di Marino rimane un incredibile tessuto di rifrazioni e annotazioni curiose.
L'"Adone"
Il libro di maggior successo fu comunque l'Adone. Con i suoi 40.000 versi è il più lungo poema della letteratura italiana. La vicenda che ne costituisce l'esile trama ha al centro l'innamoramento di Venere per il bellissimo giovane Adone. Marte, preso dalla gelosia, costringe il giovinetto a una serie di peripezie e alla fine ne provoca la morte a opera di un cinghiale. Lo svolgimento del mito ha tuttavia un'importanza relativa. Ciò che conta è il modo con cui esso viene raccontato e soprattutto l'infinita serie di episodi secondari, di spunti descrittivi (come quelli celebri del canto dell'usignolo o dell'elogio della rosa) sfruttati oltre ogni aspettativa; l'abilità nel trasformare aspetti allegorici in luoghi della fantasia, come il giardino del Piacere e l'isola della Poesia; e ancora l'infinita gamma di piani e di livelli con cui viene trattata la materia erotica che sta alla base del mito: si va dalle allusioni appena accennate alla narrazione audace e densa di particolari. L'Adone è un immenso coacervo di immagini, una "fabbrica delle meraviglie", un succedersi inarrestabile di metafore e sarebbe vano cercarvi un centro logico; la sua novità sta proprio nell'infrazione della regola classicistica dell'unità del poema eroico e nel recupero della narrazione affabulatoria dei grandi narratori di favole latini (Apuleio, Ovidio, Claudiano) ed ellenistici (Apollonio Rodio, Mosco e Bione).
Il marinismo e la lirica concettista

Marino fu il riferimento principale della poesia secentesca: amici e avversari videro nell'Adone il problema poetico di un'epoca. Il "concetto" è una specie di illuminazione mentale che accende la "meraviglia", come se le parole fossero tanto più vere quanto più capaci di visionarità, di invenzione creatrice.
Il lucano Tommaso Stigliani (1573-1651) fu un marinista moderato, prima amico del Marino poi suo acerrimo censore; scrisse Il mondo nuovo (1618), un poema epico su Cristoforo Colombo, e infine L'occhiale (1627), un libro di critiche all'Adone. Il bolognese Claudio Achillini (1574-1640) rese ancor più solenne e a tratti pedante la lezione marinista, mentre l'altro bolognese Girolamo Preti (1582-1626) mostrò una maggiore autonomia e ricchezza espressiva (Rime, 1614). I temi tipici del Marino (l'orologio d'acqua, la girandola, la zanzara, il neo sul labbro) furono ripresi ossessivamente dal pugliese Antonio Bruni (1593-1635) nelle Tre Grazie (1627) e nelle Veneri (1653). Un'aspirazione più religiosa accomuna altri scrittori barocchi. Maffeo Barberini (1568-1644) fu papa (1623) col nome di Urbano VIII; i suoi versi sono legati al petrarchismo, ma anche rinvigoriti da un forte gusto concettistico. Il fiorentino Giovanni Ciampoli (1589-1643) fu amico e seguace del Galilei: letterariamente ebbe viva la lezione del Chiabrera.
La contaminazione del dramma pastorale nel romanzo spiega anche la presenza di parti meliche e liriche nel tessuto della narrazione. Il genovese Bernardo Morando (1589-1656) fece uso nel Rosalinda di molte canzonette, in cui emerge anche l'idea di trasgredire o in qualche modo corrompere il modello della bellezza femminile. Un esercizio di variazione barocca su immagini sensuali è l'opera (soprattutto La selva poetica, 1648) dell'urbinate Giovanni Sempronio (1603-1646). Interessanti sono le liriche (Poesie, 1626) dell'ascolano Marcello Giovanetti (1598-1631), in cui gli schemi barocchi lasciano filtrare una concreta vitalità poetica. Il messinese Scipione Errico (1592-1670) sia con le Rime (1619) e le Poesie liriche (1646), sia col dialogo L'occhiale appannato (1629) mostra una notevole ingegnosità. Molto interessante, anche per il nostro gusto contemporaneo, il lavoro del friulano Ciro di Pers (1599-1663), autore di una tragedia, L'umiltà esaltata ovvero Ester regina (1664), e di Poesie (postume, 1666): la sua scrittura sembra lontana dai semplici schemi dei marinisti o degli antimarinisti; c'è in lui una verità umana, una passione, un senso struggente della vita e della morte, qualcosa come una libertà morale che gli permette di scrivere uno fra i migliori canzonieri del suo tempo.
Nella seconda parte del secolo, mentre si prefigura specie a Nord una prima tendenza razionalistica e già quasi prearcadica, continua a dominare nel Meridione il modello marinista, che in molti casi appare addirittura esasperato. Il genovese Anton Giulio Brignole Sale (1605-1665) accompagna la prosa delle Instabilità dell'ingegno (1635), una sorta di piccolo Decameron, con poesie che rappresentano la migliore società del tempo. Nel Sud d'Italia l'esperienza concettista sembra esprimersi con maggiore ricchezza. Il pugliese Giuseppe Battista (1610-1675) rivela una notevole esuberanza immaginifica. I napoletani Federico Meninni (1636-1712) e soprattutto Giovanni Lubrano (1619-1693) sono rappresentanti del "secentismo del secentismo". Anche il siciliano Giuseppe Artale (1628-1679), quando raccoglie la sua Enciclopedia poetica (1679), mostra una lezione barocca di enfasi prossima all'ossessività.
Il classicismo barocco
Introduzione

Nella letteratura barocca va segnalata una corrente "classicista" che si differenzia dall'imperante marinismo. Autori come Tassoni, Chiabrera, Testi si rifanno alla lezione di Torquato Tasso e alla tradizione rinascimentale e al concettismo pieno di metafore di Marino contrappongono uno stupefacente sperimentalismo nei metri poetici e nella lingua. Nel Seicento la forma narrativa si sviluppa in senso moderno. Fiabe e novelle trovano nella raccolta in dialetto napoletano di Basile la loro massima espressione.
Alessandro Tassoni

Il modenese Alessandro Tassoni (1565-1635), fra il 1599 e il 1603 fu a Roma al servizio del cardinale Ascanio Colonna, che accompagnò in Spagna (1600). Partecipò alla vita letteraria del tempo, aderendo alle Accademie della Crusca e degli Umoristi. Si mise al servizio di Carlo Emanuele I di Savoia, di cui appoggiò la politica antispagnola. Nel 1618 accettò l'incarico di "gentiluomo ordinario" del cardinale Maurizio di Savoia, figlio del duca Carlo Emanuele I; poi (1626) passò al servizio del cardinale Ludovico Ludovisi finché nel 1632 tornò a Modena, diventando poeta di corte di Francesco I.
Nel 1608 pubblicò per la prima volta i Dieci libri di pensieri diversi, ripubblicati nel 1612 e, in redazione più ampia, nel 1620. I primi quattro trattano di scienza, i seguenti quattro di costume e di morale; il nono di Cose poetiche, istoriche e varie, mentre il decimo, aggiunto nel 1620, contiene un Paragone degl'ingegni antichi e moderni, il quale anticipa la disputa sugli antichi e sui moderni che, a partire dalla Francia, divise il mondo intellettuale del Seicento tra sostenitori del modello dei classici e fautori della libertà di ispirazione e di innovazione. Si tratta di un'opera erudita, indicativa dello spirito eclettico e curioso di Tassoni e della sua vena polemica, in questo caso rivolta a sgombrare il campo letterario dall'ossequio classicistico alle regole della Poetica aristotelica. Contro la moda dei canzonieri ispirati all'opera di Petrarca scrisse le Considerazioni sopra le Rime del Petrarca (1609-11), in cui analizza i caratteri dell'ispirazione del poeta per mettere al bando ogni principio di autorità a favore di una libera fantasia creatrice. Compose anche diversi scritti rimasti inediti di argomento filologico, dimostrando il suo interesse per lo studio dell'evoluzione della lingua. Interessanti le opere politiche: le due Filippiche contro gli Spagnuoli difendono i Savoia nella contesa tra questi e la Spagna per il Monferrato; lo stile è forte e vigoroso, animato da un sincero desiderio di libertà degli Stati italiani dalle potenze straniere.
Tassoni e il poema eroicomico
Il capolavoro di Tassoni resta La secchia rapita (iniziato fra il 1614 e il 1618); l'edizione definitiva apparve a Venezia nel 1630. Il motivo iniziale è fornito dalla tradizione leggendaria di "un'infelice e vil secchia di legno" rapita dai modenesi ai bolognesi. Il resto è tratto da vicende storiche diverse, usate dal poeta in tutta libertà e calate nell'ambiente municipale del tempo. Pervade tutto il testo una vena satirica, che si rivolge con forza contro i costumi morali, sociali e letterari contemporanei, talvolta scadendo nella polemica personale. I riferimenti al costume contemporaneo e alle persone reali sono mescolati con elementi fantasiosi in un anacronistico, mobilissimo quadro, dove il serio e il tragico s'intrecciano con il comico e il grottesco, in una dimensione rivelatrice del nuovo gusto barocco. Questa commistione di toni aulici e plebei indica il carattere sperimentale dell'opera e inaugura il "poema eroicomico", nato dalla crisi del poema cavalleresco umanistico (in cui serio e comico si integrano) e dalla presenza del nuovo modello della Gerusalemme di Tasso, in cui il poema eroico si chiude in una "serietà" tragica e religiosa. La secchia rapita propone un gioco sottilissimo quanto vivace di alternanza di serio e faceto. La comicità di Tassoni nasce soprattutto dallo scontro fra la volgarità del provincialismo italiano e le aspirazioni eroiche di molti personaggi, ancora profondamente legati agli ideali cortesi. Tassoni non fa parodia, né accede alla malinconia per un mondo perduto. La sua lingua è vibrante, nella testimonianza comica eppure seria dello strazio politico italiano. Il poema eroicomico di Tassoni fu preso a modello da altri scrittori con esiti molto inferiori.
Classicismo barocco: Chiabrera e Testi

Sul piano della poesia lirica i due capiscuola della corrente classicista e antimarinista del barocco sono Gabriello Chiabrera e Fulvio Testi, che lasceranno un'impronta sulla poesia anche del Settecento.
Gabriello Chiabrera
Gabriello Chiabrera (1552-1638), nato a Savona, studiò a Roma ed entrò al servizio del cardinal Cornaro. Ritornato a Savona, si interessò alla poesia e ricoprì vari incarichi pubblici. Cosimo de' Medici gli concesse un vitalizio come ricompensa per la composizione della favola teatrale Il rapimento di Cefalo (1600) musicata da G. Caccini. Dal 1632 fino alla morte, attese alla revisione delle sue numerose opere.
La produzione letteraria di Chiabrera comprende quasi tutti i generi. Scrisse poemi epici (Gotiade, 1582; Ameneide, 1590; Il foresto, 1653, postumo), poemetti didascalici sacri e profani (La disfida di Golia, 1598; Il diluvio, 1598), tragedie, prose morali e numerose raccolte poetiche, i cui testi erano spesso destinati alla musica (Canzoni eroiche, sacre e morali, 1586-88; Sonetti, 1605; Canzonette, 1606).
Chiabrera è stato sempre inteso come una proposta alternativa al concettismo di Marino. Il suo sperimentalismo tematico (basato sulla ricerca di soggetti tratti dai classici greco-ellenistici e dalla poesia francese cinquecentesca, soprattutto Ronsard) o prettamente metrico-linguistico (incentrato sul recupero di generi strofici inusuali tratti da Anacreonte o da Pindaro, sebbene Chiabrera non conoscesse il greco) gli consentì una musicalità nuovissima, chiara e leggera. Dalle sue "canzonette" prenderà l'avvio tanta poesia settecentesca votata al "grazioso".
Fulvio Testi
Il ferrarese Fulvio Testi (1593-1646) fu segretario di stato del duca di Modena Francesco I. In questa veste compì missioni diplomatiche a Mantova, a Vienna, a Roma e in Spagna. Nominato governatore della Garfagnana dal 1639 al 1642, al ritorno a Modena fu coinvolto in un intrigo antispagnolo e arrestato. Morì in carcere. Esordì nel 1613 con una raccolta di Rime, alla maniera di G. Marino. L'alta passione civile ispirò il poemetto in ottave Il pianto d'Italia (1617), calda esortazione a Carlo Emanuele I di Savoia a liberare la patria dalla dominazione spagnola. Nella produzione successiva (Poesie liriche, 1627-48) il concettismo barocco viene abbandonato in nome di uno stile classicheggiante, sul modello di Chiabrera. I temi dell'impegno civile e politico, la critica aspra contro il malcostume delle corti ispirano modi sobri e robusti, che rendono questa poesia un modello di retorica alta e sentenziosa, forse il più importante del Seicento. Documento interessante della complessa realtà sociale e politica della vita cortigiana sono le sue numerose Lettere, scritte in una prosa concreta, secca e appassionata. Se Chiabrera gettò le basi di tanta raffinatezza settecentesca, Testi attuò il presupposto di una poesia di ispirazione morale di sicuro riferimento per le riproposte classicistiche del Settecento e dell'Ottocento.
Il caso di Francesco Fulvio Frugoni

Il genovese Francesco Fulvio Frugoni (1620-1686) crebbe e studiò in Spagna. Al suo ritorno a Genova scrisse un poema giocoso, La guardinfanteide (1639), pubblicato con lo pseudonimo di Flaminio Filauro. Al seguito di Anton Giulio Brignole Sale, ambasciatore genovese, viaggiò lungamente in Europa. Verso il 1650 entrò nell'ordine dei Minori di san Francesco di Paola e negli anni seguenti compose alcune opere sacre. Dal 1652 fu al servizio di Aurelia Spinola, vedova del principe di Monaco: per lei scrisse il dramma musicale L'innocenza riconosciuta (1653) e dopo la sua morte scrisse una biografia romanzata e fortemente elogiativa, intitolata L'eroina intrepida (1673). Negli ultimi anni, esiliato da Genova, fu a Torino e a Venezia. Si dedicò al teatro, al poema epico e alla composizione di un'opera singolare di racconti satirici intitolata Il cane di Diogene (pubblicata postuma nel 1689). Nei sette volumi, o "latrati", che compongono Il cane di Diogene, uno degli esempi più curiosi di prosa barocca italiana, Frugoni utilizza una ricca varietà di temi, di stili e soprattutto di linguaggi (usa la lingua dotta e quella gergale, il francese o lo spagnolo, i neologismi e i dialetti), in modo da costituire un vero e proprio pastiche, cioè un'opera che vuole concentrare in sé qualunque argomento e qualsiasi modo per parlarne. Tuttavia, il virtuosismo linguistico prevale sulla materia trattata e induce una certa monotonia.
La fiaba napoletana di Basile

Il napoletano Giovan Battista Basile (1575-1632) è l'autore del bellissimo Lo cunto de li cunti. Dal 1600 al 1604 fu al servizio della Repubblica di Venezia, dove ebbe la possibilità di conoscere l'ambiente dei letterati e di farsi introdurre all'Accademia degli Stravaganti. Tornato a Napoli, frequentò l'Accademia degli Oziosi. Visse per un breve periodo alla corte dei Gonzaga a Mantova e successivamente lavorò al seguito della sorella Adriana, una famosa cantante. Fu anche governatore in alcune zone del Sud in rappresentanza di nobili napoletani. Scrisse, usando lo pseudonimo Gian Alesio Abbatius, anagramma del suo vero nome, liriche e poemi che non si discostano dai moduli marinistici e tardo-rinascimentali (Il pianto della Vergine, 1608; Madrigali et ode, 1609, la favola marinara Le avventurose disavventure, 1611; le Egloghe amorose e lugubri, 1612). Pubblicò anche opere in dialetto napoletano molto apprezzate, che dimostrano il suo attaccamento alle tradizioni e alla cultura partenopea (le egloghe Le muse napoletane, 1635, postumo). L'amore per le fiabe, le favole, i motti popolari e i proverbi lo portò a raccogliere prezioso materiale: nacque così il suo capolavoro, (pubblicato postumo tra il 1634 e il 1636 per volere della sorella Adriana), Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de' peccerille, noto anche come Pentamerone. Si tratta di una raccolta di 50 fiabe con una speciale cornice: le fiabe vengono raccontate in cinque giorni da dieci vecchie. La bellezza del libro è una vivacità narrativa straordinaria, un uso brillante e moderno della lingua. La realtà e la fantasia si completano in un'esuberanza lirica e insieme commovente che forse non ha pari in tutto il barocco italiano. Dalla sua raccolta furono derivate fiabe come Cenerentola, Il gatto con gli stivali, La bella addormentata.
Le storie di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno

Minori, ma vibranti per il medesimo sano gusto popolare, sono i libri del bolognese Giulio Cesare Croce (1550-1609). Nato povero, fu un vero e proprio cantastorie e scrisse dialoghi, scherzi, pronostici e canzoni, sia in italiano sia in dialetto romagnolo, stampandoli su fogli volanti e opuscoli che venivano venduti sulle piazze. La sua fama letteraria resta comunque affidata a quel piccolo capolavoro di narrazione popolare che sono le proverbiali Sottilissime astuzie di Bertoldo (1606), seguite dalle Piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino, figliuolo del già detto Bertoldo (1608). A Bertoldo e Bertoldino, Adriano Banchieri (1567-1634) volle aggiungere una continuazione, Il cacasenno (1620), che fu poi illegittimamente inglobato ai primi due. Scritto in una lingua popolareggiante, ma efficace nell'immediatezza della rappresentazione degli aspetti materiali della condizione umana, il Bertoldo e le sue "continuazioni" sono uno dei capolavori della narrativa popolare di tutti i tempi.
La prosa filosofica,scientifica e storica
Introduzione

L'altissima ricerca filosofico-scientifica di Campanella e Galilei è anche un'ottima testimonianza di lingua esuberante, profonda, lucida e chiara. La prosa trova anche un punto di riferimento nella produzione culturale dei gesuiti e, in particolare, nell'opera di Bartoli. La storiografia è dominata dalla figura di Paolo Sarpi e dalla sua polemica sugli esiti della Controriforma.
Tommaso Campanella

Nato nel 1568 a Stilo, in Calabria, Tommaso Campanella entrò quindicenne nell'ordine domenicano e si dedicò allo studio della filosofia naturalistica di Telesio, dell'astrologia, dell'occultismo, della magia. Presto sospettato di eresia, dal 1591 al 1597 subì quattro processi. Iniziò a dar corpo al progetto messianico di una grande riforma politico-religiosa secondo linee che furono esposte poi nella Città del sole (1623), il suo capolavoro, che delinea una società fondata sull'organizzazione razionale della vita sociale. Arrestato per una congiura contro la dominazione spagnola (1599), si finse pazzo per evitare la condanna a morte e fu rinchiuso in carcere fino al 1626. La carcerazione, all'inizio molto dura, gli consentì in seguito di comporre numerose opere (De sensu rerum et magia, 1620; Philosophia realis, 1623; Metaphysica, 1625), di intrattenere carteggi e perfino di ricevere visite e insegnare. Fu liberato nel 1629, per interessamento del papa Urbano VIII. Riparò infine a Parigi, dove fu ben accolto e dove poté attendere alla pubblicazione delle sue opere e morì nel 1639.
Nei vari aspetti della natura Campanella si sforza di scoprire la presenza del divino: le stesse tre "primalità" di potenza, sapienza e amore che permeano ogni essere e sono immagine della Trinità. Rettificando il sensismo di Telesio, Campanella insiste sull'attività dello spirito umano che ha il suo centro nell'autocoscienza, una dottrina che anticipa le posizioni di Cartesio.
L'opera poetica di Campanella
Campanella scrisse anche una raccolta di Poesie (1622) in vari metri (sonetti, madrigali, canzoni). Alcune di esse espongono i capisaldi della sua filosofia, altre sono preghiere animate da una profonda commozione e altre ancora le più interessanti riflettono i travagli della sua esperienza biografica: la consapevolezza della propria missione, la drammatica contrapposizione a un mondo folle e malvagio, l'esperienza della carcerazione con i suoi momenti di disperazione o di abbandono alla provvidenza divina. Nella sua poesia, che occupa un posto di rilievo nel panorama del Seicento italiano, Campanella si richiama consapevolmente al modello dantesco del poeta-profeta, in contrapposizione con la figura del poeta-retore, artefice di "meraviglia", dominante in epoca barocca.
Galileo Galilei

Il pisano Galileo Galilei (1564-1642) è il rinnovatore della scienza moderna e come scrittore propose una scrittura realistica e concreta, priva di barocchismi. Si dedicò agli studi matematici. Le sue prime pubblicazioni gli fecero ottenere nel 1589 la cattedra di matematica. Andò poi a lavorare a Padova, realizzando ricerche sperimentali. Il perfezionamento del cannocchiale (1609) gli permise l'osservazione più ravvicinata di alcuni fenomeni celesti e la conseguente scoperta della natura montuosa della Luna, dell'esistenza delle macchie solari e di quattro satelliti di Giove, tutte questioni che mettevano definitivamente in crisi l'astronomia tolemaica. Egli ne diede notizia con un trattato in latino, il Sidereus nuncius (1610), dedicato al granduca di Toscana Cosimo II. Ciò gli valse la nomina a "primario matematico e filosofo" granducale, senza l'obbligo dell'insegnamento e con un buon appannaggio economico. Nel 1613 la pubblicazione dell'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari lo mise in aperto contrasto con i domenicani. Denunciato nel 1615 all'Inquisizione, Galilei si difese con quattro scritti fondamentali, le Lettere copernicane (1615), con le quali sollecitava la Chiesa ad astenersi dal pronunciarsi in modo ufficiale su un argomento scientifico come quello della teoria copernicana, da lui ritenuta compatibile con la Bibbia, se interpretata allegoricamente. Nel 1616 tuttavia il cardinale Bellarmino dichiarò l'inconciliabilità tra fede cattolica e teorie copernicane e ingiunse a Galilei di astenersi da studi su quell'argomento. Nel 1623 venne eletto papa Urbano VIII, uomo di cultura aperto alle problematiche scientifiche e amico di Galilei. Questi gli dedicò Il saggiatore (1623), un saggio sulle comete scritto con una lingua chiara e pungente. Inoltre, confidando nella protezione papale, scrisse il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo: tolemaico e copernicano, pubblicato dopo estenuanti trattative con la censura nel 1632. I gesuiti e l'Inquisizione reagirono violentemente alla pubblicazione: Galilei fu convocato a Roma e nel giugno del 1633 fu costretto ad abiurare la verità scientifica; poi fu condannato al domicilio coatto prima a Siena e poi nella sua villa di Arcetri, sulla collina di Firenze. Le sue condizioni di salute andarono rapidamente peggiorando e nel 1637 divenne cieco; ciononostante, continuò a studiare e riuscì a far pubblicare clandestinamente in Olanda i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali (1638).
Il Dialogo sopra i due massimi sistemi è una delle opere più significative della letteratura italiana, sia per la complessità e l'importanza degli argomenti trattati, sia perché in essa viene creata la prosa scientifica italiana. Galilei "inventa" e utilizza una lingua rigorosa, limpida e precisa, capace di spiegare il dato scientifico senza genericità e al tempo stesso di impiegare termini della lingua comune dando loro un definitivo valore scientifico. A tutto ciò si accompagna un continuo, gradevolissimo e sapiente ricorso all'ironia, piacere intellettuale che accomuna il grande scienziato ad Ariosto, il poeta che egli amò e apprezzò più di ogni altro.
Gli scrittori gesuiti: Bartoli e Segneri

Resta sul ferrarese Daniello Bartoli (1608-1685) il giudizio di Leopardi, che lo definì "il Dante della prosa italiana". Bartoli entrò giovanissimo nella Compagnia di Gesù e vi compì tutti gli studi. Insegnante di retorica a Parma, dal 1637 divenne uno dei più importanti predicatori italiani. Nel breve scritto Dell'uomo di lettere difeso ed emendato (1645) assunse una posizione moderata nei confronti del barocco, stile "moderno e concettoso". Tra le sue numerosissime opere minori, vanno segnalati il trattato sull'Ortografia italiana (1670) e il De' simboli trasportati al morale (1677). Il suo capolavoro è l'Istoria della Compagnia di Gesù (1650-73). Il fine dell'opera non è storiografico ma direttamente celebrativo e religioso. Cionondimeno, all'interno della sua opera si trovano grandiose descrizioni geografiche puntellate da precise considerazioni di carattere storiografico. Su questa base si aprono poi i ritratti a tutto tondo degli eroi gesuiti: Francesco Saverio, Matteo Ricci. Lo stile di Bartoli, lontano dagli eccessi del concettismo, è giustamente celebre: pur all'interno della proliferante retorica barocca, la sua prosa appare elegante, fluida ed equilibrata in modo armonioso.
La letteratura controriformistica ha un punto di forza nella produzione di predicatori. Le loro prediche non raggiungono alti profili teologici, ma certo sono di altissima spettacolarità moralistica e retorica.
È il caso di Paolo Segneri (1624-1694): il suo Quaresimale (1679) è un capolavoro della letteratura omiletica del Seicento: la vastissima e salda cultura teologica trova espressione in un'eloquenza appassionata, che rifugge da eccessivi contorcimenti retorici e dal concettismo oscuro in voga ai suoi tempi. Da ricordare anche Sforza Pallavicino (1607-1667) e la sua Istoria del Concilio di Trento (1656-57).
Paolo Sarpi

Il veneziano Paolo Sarpi (1552-1623) è il più grande storico italiano di quest'epoca. Nel 1565 entrò nell'ordine dei serviti e in seguito divenne teologo del duca di mantova Guglielmo Gonzaga e collaboratore del cardinale Carlo Borromeo a Milano. Nel 1606 fu nominato teologo della Repubblica di Venezia. In questa veste partecipò al conflitto che si aprì (1604) fra la Serenissima e papa Paolo V, quando Venezia si rifiutò di consegnare al tribunale ecclesiastico due preti imputati di reati comuni. Sarpi sostenne la posizione della Repubblica anche dopo l'interdetto (1606) e a prezzo di una scomunica personale. Terminata la disputa con un compromesso (1607), si avvicinò ai riformati d'oltralpe, senza abbandonare l'ortodossia e coltivando a Venezia i suoi sogni di riforma della Chiesa cattolica.
La polemica con la Santa Sede per la questione dell'interdetto è documentata da una ampia serie di scritti, tra cui spiccano i sette libri della Istoria particolare delle cose passate tra il sommo pontefice Paolo V e la Repubblica di Venezia gli anni 1605-07 (postumo, 1624), nota anche come Istoria dell'interdetto, che narra gli avvenimenti in modo puntuale e rigoroso. Queste opere rivelano lo spirito libero di Sarpi, teso alla costante ricerca della verità attraverso una serrata indagine razionale. Importante testimonianza sono le Lettere ai protestanti: in una prosa semplice e vigorosa, egli espone il suo programma di riforma della Chiesa in nome del rigore e della purezza delle origini evangeliche e la sua strategia politica, volta ad agganciare Venezia alla Francia e all'Inghilterra per controbilanciare la forza degli Asburgo.
La Istoria del concilio tridentino è il capolavoro di Sarpi, composto tra il 1608 e il 1618 e pubblicato a Londra nel 1619 con lo pseudonimo Pietro Soave Polano. La storia del concilio di Trento vi è minutamente ricostruita con appassionata cura filologica. Partendo dal diffondersi della Riforma in tutta Europa, Sarpi ricerca le cause della rottura tra cattolici e protestanti, individuandole negli interessi mondani e temporali della curia romana. Quegli stessi interessi, a suo modo di vedere, hanno causato il fallimento del concilio, da cui sono usciti rafforzati l'autoritarismo papale e la mondanizzazione della Chiesa. La prosa è scarna, asciutta, ispirata a quella rigorosa di G. Galilei, di cui Sarpi fu amico e del quale condivise gli interessi scientifici.

Esempio



  


  1. klaudia

    cerco il riassunto dell opera di Alessandro Tassoni : Il Concilio degli Dei dalla 41-46