Giovan Battista Marino: vita ed opere

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Categoria:Letteratura Italiana
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Testo

Giovan Battista Marino

La vita
Marino nacque a Napoli, che a quei tempi era sotto il dominio spagnolo, nel 1569. Fu avviato dal padre agli studi legali, ma li abbandonò per dedicarsi alle lettere. Finì due volte in carcere e, poco più che trentenne, si recò prima a Roma, poi a Ravenna ed infine a Torino, alla corte dei Savoia. Anche qui dovette fare i conti con la giustizia e riuscì addirittura a sfuggire ad un attentato tesogli da un letterato da lui offeso. Fuggì anche in Francia dove conobbe Luigi XIII a cui dedicò il suo famoso poema l’Adone.
Nel 1623 tornò in Italia per sfoggiare gli allori francesi e per godersi le ricchezze accumulate negli anni. Morì nel 1625 proprio nella sua città natale, dopo una vita carica di piacere, onori, denaro e avventure.

Il percorso letterario
Il suo percorso letterario è caratterizzato da tantissime opere e dall’estrema varietà di generi nei quali si cimentò.
La sua più famosa raccolta poetica è la Lira, pubblicata nel 1608, dove i generi di poesie sono raccolti per temi (amorose, marittime, boscherecce, eroiche, sacre, encomiastiche) e sono ispirate a Tasso e ai poeti del Cinquecento.
Nel periodo che trascorre a Torino scrive il Ritratto, un panegirico in onore del duca divenuto suo protettore, e la Sampogna, una raccolta d’idilli. Altra rilevante raccolta è la Galeria, composta da 452 tra madrigali e sonetti che descrivono in versi una serie di celebri opere d’arte.
La sua opera più famosa è certamente l’Adone che viene composta durante il periodo di soggiorno in Francia. Si tratta di un poema in venti canti organizzati in ottave di endecasillabi che racconta la leggenda dell’iniziazione all’amore del bellissimo Adone. Nel poema troviamo un uso sovrabbondante di metafore, antitesi, iperboli e di ogni altro “trucco” linguistico.
Vasta è anche la sua produzione in prosa: del 1614 sono le Dicerie sacre, prediche su argomenti teologici e religiosi.
Anche il voluminoso Epistolario tramanda un Marino attentissimo giocoliere della forma, ma anche provocante e sapido osservatore del suo tempo.

Un abile interprete del gusto per lo stupore
Il gusto poetico per il meraviglioso ed il bizzarro ha un punto di riferimento costante nell’attività letteraria di Giovan Battista Marino. Egli dichiara apertamente che lo scopo dell’artista è quello di destare meraviglia. Quindi il fine dell’arte non è educare o trasmettere insegnamenti morali, ma stupire e dilettare.
Marino sapeva bene di interpretare il gusto di un’epoca; era, infatti, molto attento alle esigenze del pubblico ed aveva compreso che in un’età di censure e di divieti i lettori non avevano altro che un segreto fascino per il proibito. Così investì la propria abilità tecnica muovendosi sul sottile confine tra il detto e il non detto, meraviglioso e sensuale, perché sapeva che esattamente questo voleva il pubblico delle corti cui si rivolgeva. Ciò naturalmente gli costò spesso l’accusa d’oscenità da parte anche dell’inquisizione, ma si difese sempre con estrema abilità. Infatti, affermava che, se le sue opere erano immorali, allora il loro successo denunciava automaticamente come immorali tutte le corti e tutta l’epoca in cui il poeta viveva.
Le tecniche della meraviglia
Marino ripete in molte sue opere che per stupire non bisogna imitare i grandi, ma attingere da loro e rimescolare con l’ingegno, oppure sfruttare tutto il materiale mitologico meno utilizzato e rielaborarlo con l’arguzia e la fantasia. L’importante, afferma fortemente, è utilizzare l’ingegno.
L’ingegno, spiega, è l’arte della parola, della forma che lui trasforma nel contenuto stesso. L’abilità di saper giocare con le parole. Un ingegno fantasioso decisamente lontano dal razionalismo attraverso il quale i filosofi dell’epoca indagavano le meraviglie della natura. Marino coglie della realtà l’aspetto immaginifico e stupefacente, mentre Galilei e Cartesio cercano gli ambiti empiricamente misurabili.
Qui si manifesta la contraddittorietà del Seicento: da una parte si pone il problema scientifico della misurabilità del cosmo, dall’altra emerge la sconvolgente percezione dell’infinito e della sua conseguente incommensurabilità. Da quest’ultima dimensione scaturisce la poetica di Marino: la parola è essa stessa un universo infinito, che può produrre immagini senza limiti. Per questo Marino può permettersi gli accostamenti più arditi: in fondo sempre di parole si tratta e non si esce dalla forma verbale.

Esempio



  


  1. Marco

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