Fontamara

Materie:Scheda libro
Categoria:Letteratura Italiana

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Testo

FONTAMARA

Sequenze
• L’arrivo del Cav.Pelino
• Le donne vanno al capoluogo per protestare
• L’incontro con l’Impresario
• Berardo e il cursore del comune
• Tutti i cafoni ad Avezzano
• L’arrivo dei camion
• La tentata fuga di Berardo
• La paga e la messa
• La questione dell’acqua
• La rivolta di Sulmona e il cambiamento di Berardo
• Berardo e il figlio di Giuva a Roma
• Il cavaliere e l’Avezzanese
• Il carcere
• La morte di Berardo
• Il giornale e la fine di Fontamara

Fabula
La fabula coincide con l’intreccio.

Riassunto
Questo libro narra di alcune vicende accadute in un paese inventato nella Marsica, abitato da poveri contadini e in cui da anni non succedeva mai nulla. Ma nuovi fatti sconvolgono l’equilibrio di questo paesino abitato per lo più da “cafoni”, persone povere e ignoranti; in questo libro l’autore denuncia alcuni soprusi che questi cafoni sono costretti a subire dalle persone più potenti di loro. Il primo episodio che racconta è quello della luce, infatti a Fontamara come in altri paesi circostanti nessuno pagava la tassa per la luce e nessuno si azzardava più a chiedere i soldi ai fontamaresi per non ricevere un brutto trattamento. Un giorno però la luce viene tolta e dopo qualche giorno un forestiero arriva in paese, dopo aver rassicurato tutti di non esser venuto a riscuotere alcun soldo invita i cafoni a firmare su un foglio bianco e loro decidono, visto che è gratis, di firmare. Questa firme però gli si ritorceranno conto, infatti, l’impresario un signore molto ricco e visto da tutti come un nemico costruisce un canale che porti l’acqua che va a Fontamara ad irrigare le terre di sua proprietà. Inutili le proteste dei fontamaresi; il forestiero che era venuto al paese mostra le loro firme e con quelle ribadisce che loro hanno acconsentito alla deviazione del corso dell’acqua. In realtà i paesani erano ignari dello scopo di quelle firme nel momento in cui le avevano fatte e raggirati in un modo così meschino protestano vivamente. Per cercare di zittirli l’impresario sceglie tre rappresentanti dei fontamaresi per cercare un accordo, tra cui lo scrittore, ma dopo aver protestato anche loro animatamente per le assurde proposte dell’impresario vengono sostituiti da Don Circostanza che si finge loro amico ma in realtà li raggira. In poco tempo i fontamaresi vedono i loro campi seccarsi per l’assenza di acqua, mentre il ruscello irriga le terre dell’impresario. L’autore descrive molto Berardo Viola e racconta le sue sfortunate vicende e dei numerosi raggiri che ha dovuto subire: tanti anni prima Berardo voleva emigrare in America in cerca di fortuna e così vendette a poco prezzo a Don Circostanza un pezzo di terra ereditato da suo padre, ma era uscita una nuova legge contro l’emigrazione del quale Don Circostanza era al corrente ma Berardo no. Lo sfortunato cafone si ritrovò così senza lavoro e senza la terra, considerato così da molta gente un gradino più in basso del cafone e chiamato il “cafone senza terra” e per questo non poteva sposarsi con Elvira, una ragazza che amava da tempo. Un giorno riesce ad ottenere un pezzo di terra in montagna, arido e brullo, al quale però Berardo comincia a lavorare instancabilmente ma alla fine i suoi risultati vengono spazzati via da un’alluvione. Cerca così di partire per Roma in cerca di lavoro, ma viene fermato alla stazione per mancanza della “tessera”. Una sera compare al villaggio un uomo, Innocenzo la Legge, che lavora per il comune con l’ordine che nei locali pubblici bisogna appendere un cartello con su scritto “IN QUESTO E’ PROIBITO PARLARE DI POLITICA”; a questo punto Berardo, portavoce di tutti, comincia a fare un discorso contro Innocenzo dicendo che se non si può parlare allora non si può ragionare e se non si ragiona non si vive, con questo discorso rispedisce avvilito Innocenzo al capoluogo. Verso la fine di giugno un nuovo barlume di speranza si prospetta all’orizzonte: ad Avezzano si dice discutono su come dividere la terra del Fucino, che è la terra più fertile dei dintorni, e per questo tutti i cafoni dei vari paesi, tra cui Fontamara, sono invitati a partecipare alla riunione. Un signore a bordo di un camion si presenta al paese per caricarvi i cafoni, tra cui lo scrittore, e insieme allo stendardo del paese si recano ad Avezzano. Ma qualcosa non procede come previsto, arrivati alla città aspettano ore e ore seduti nella piazza e solo al passaggio di alcune persone importanti sono incitati ad alzarsi e a urlare grida in loro onore; alla fine della giornata capiscono l’inganno loro non sono stati chiamati a discutere e le terre vengono spartite solo ai contadini ricchi. Il camion non li riporta al paese così cominciano a camminare verso il loro paese ma un signore li ferma e gli offre delle armi per combattere contro queste persone ricche che li hanno ingannati, un altro uomo però lo mette in guardia da questo signore dicendo che è un poliziotto che vuole incastrarli. Stanchi e infelici i cafoni tornano al villaggio, ma le sciagure non sono finite il giorno dopo infatti mentre gli uomini sono al lavoro dei camion arrivano al paese e stuprano alcune donne che invano tentano di difendersi; tornati al villaggio gli uomini ignari dell’accaduto vengono interrogati dai forestieri. Quando però vengano a sapere cosa è successo si ribellano e mentre cominciano picchiare i forestieri, tra i quali ci sono poliziotti e il commissariato, dal campanile della chiesa si vede una figura e i forestieri prendendola per la Madonna scappano di gran carriera. Altro raggiro, questa volta però a mano del Governo, viene fatto sulla paga che devono ricevere i fontamaresi dopo il duro lavoro fatto nelle campagne; al momento della consegna delle buste paga Don Circostanza comincia a togliere il 60% della somma come scritto su un giornale delle nuove disposizioni del governo. I lavoratori perciò si ritrovano con una misera paga dopo tanti giorni di fatica. Berardo che finora aveva sempre lottato per far valere i suoi diritti ora si rassegna consapevole di lottare con un nemico troppo forte per lui, così quando i suoi amici decidono di ribellarsi prendendo l’esempio di Sulmona lui non li appoggia. Berardo decide di partire per Roma in cerca di lavoro insieme al figlio dello scrittore, ma dopo molti giorni trascorsi all’interno di un ufficio di collocamento che non fa che spedirli da una stanza all’altra decidono di farsi aiutare da qualcuno più influente e si rivolgono per questo all’avvocato Don Achille Pazienza. In realtà l’avvocato è solo interessato ai loro soldi e invece di trovargli lavoro comincia a pretendere sempre più soldi che però Berardo non gli da illudendolo. Un giorno però giunge da Fontamara un telegramma in cui si dice che Elvira è morta preso dalla disperazione il cafone incontra l’avezzano che lo aveva messo in guardia tempo fa dal poliziotto; egli gli racconta di un uomo che fa insorgere i paesi, che è proprio lui stesso, e che ha riacceso la speranza nei cafoni. A causa di un pacco però i tre finiscono in prigione e Berardo confessa alla polizia di essere l’uomo che faceva insorgere i paesi, ma non vuole raccontare tutta la storia e per questo viene sia lui che il figlio dello scrittore picchiato fino a che Berardo disperato si suicida nella cella dopo aver letto un articolo in cui la gente lo ringraziava perciò che aveva fatto. Tornato al paese il giovane e tutti i fontamaresi decidono di scrivere un giornale in onore di Berardo dove denunciano tutti i soprusi che sono costretti a subire dalle persone più importanti e per questo il paese viene raso al suolo. Moltissima gente muore tranne la famiglia dello scrittore che si rifugia all’estero con l’aiuto dell’avezzanese.

Personaggi
Non c’è un protagonista ma è l’intero paese con i suoi abitanti ad esserlo; ci sono però dei personaggi che vengono nominati più spesso, come Berardo, e altri che narrano le vicende in prima persona, Giuva, la moglie e il figlio.
Berardo: E’ il portavoce del popolo, uomo sfortunato ma coraggioso, ribelle e disposto a dare la sua vita per un amico. La prima descrizione che lo riguarda parla di un pezzo della sua vita e di quando fu tradito da un amico per il quale Berardo aveva picchiato delle persone:«Egli poteva fare da paciere nella questione dell’acqua per la semplice ragione che non possedeva più terre, né irrigue né secche, e non aveva interessi da spartire con gli altri cafoni. Un buon pezzo di terra che il padre gli aveva lasciato, l’aveva venduto vari anni prima a don Circostanza per pagare le spese di una lite e comprarsi l’imbarco per l’America. Egli pensava allora di emigrare e, trovando fortuna, di non tornare più a Fontamara, poiché era rimasto assai disgustato per un tradimento, come lui diceva, di un uomo di Fossa ritenuto suo amico, ch’egli aveva conosciuto da soldato e col quale in seguito aveva spartito il pane in molte occasioni e stretto grande amicizia». Nonostante fosse un cafone senza terra e per questo considerato un gradino più in basso degli altri cafoni, era ammirato da tutti e amato soprattutto dai giovani che erano conquistati dai suoi discorsi e dal suo modo di ragionare. «A Berardo però in fondo gli volevamo tutti bene. Aveva anche lui i suoi difetti, specialmente da ubriaco, ma era leale e sincero ed era stato assai sfortunato, e per questo, di buon cuore, gli auguravamo che potesse rifarsi la terra». Infatti era questo il suo sogno quello di avere un pezzo di terra e dopo anni di speranze alla fine riesce a ottenere un pezzo di terra in montagna arido e brullo; ma grazie alle sue cure riesce a diventare fertile e quando festeggia con i suoi amici del suo pezzo di terra un’alluvione distrugge tutto il suo lavoro. L’autore ci fornisce anche una sua descrizione fisica che sembra in contrasto con il suo carattere così impetuoso e ribelle:«Dal nonno, secondo la testimonianza dei più vecchi che lo ricordano ancora, egli aveva certamente ereditato la potenza fisica: un’alta statura, tarchiato come il tronco di una quercia, il collo breve e taurino, la testa quadra; ma aveva gli occhi buoni: aveva conservato da adulto gli occhi che aveva da ragazzo. Era incomprensibile, e persino ridicolo, che un uomo di quella forza potesse avere gli occhi e il sorriso di un fanciullo». L’autore lo descrive quasi come un eroe “non lasciava impunita nessuna ingiustizia che ci venisse dal capoluogo”, ogni volta infatti che veniva fatta qualche cosa ingiusta Berardo la distruggeva e per questo era temuto e ammirato da tutti. Il suo ragionamento era se qualcuno vi fa un torto voi fate un torto a lui e tutti i giovani la pensavamo come lui. Innamorato di una ragazza di nome Elvira non la sposava perché si considerava una persona meschina per il fatto di non possedere una terra, lui diceva non aveva niente da offrirle mentre Elvira portava la dote e questo non lo sopportava; tuttavia impediva a chiunque di sposarla prendendolo a pugni. Ma dopo aver lottato a lungo contro le ingiustizie si accorge che tutto quello che fa è inutile, che il suo nemico è troppo forte e per questo si arrende. Quando la gente gli chiede il so aiuto in una rivolta lui rifiuta e parte per Roma in cerca di lavoro; lì gli giunge però la notizia della morte di Elvira e così decide di sacrificarsi per il popolo: si suicida in cella e dice di essere stato lui l’uomo che portava alla ribellione molti paesi. E’ un personaggio a tutto tondo e dinamico in quanto imprevedibile nelle sue azioni.
La famiglia autore del libro: Nel libro non è uno solo l’autore ma è tutta la famiglia di Giuva, la moglie e il figlio, che si alterna nello scrivere le varie vicende di cui sono stati protagonisti.
Giuva: Così chiamato da tutti, probabilmente il suo nome è Giovanni e Giuva è solo in dialetto, è un cafone povero che come tutti cerca lavoro da una parte all’altra. L’autore non descrive se stesso né fisicamente né psicologicamente, quando parla di lui lo fa paragonandosi agli altri cafoni dando così una descrizione molto generale di lui; anche lui però è come gli altri ignorante e viene facilmente raggirato, ma non reagisce come Berardo anche se ammira il suo modo di fare. Amico di tutti, ha solo una rissa nel Fucino con suo cognato a causa dell’acqua, sempre più sorpreso da tutti gli avvenimenti che accadono a Fontamara che, prima, era un paese tranquillo dove non succedeva mai nulla. All’interno del racconto non esprime una particolare opinione su quello che accade; è un personaggio piatto e statico.
Matalé: Così viene chiamata la moglie di Giuva, anche lei vuole combattere contro le ingiustizie e per questo si incammina verso il capoluogo accompagnata da altre donne per protestare contro l’acqua che gli operai stanno portando via a Fontamara, ma anche lei viene raggirata da don Circostanza che dice che l’acqua sarà per ¾ loro e per ¾ dell’impresario. Si dimostra anche coraggiosa quando dei poliziotti violentano sotto i suoi occhi una donna del villaggio sostenendo anche Elvira, anche lei però è fondamentalmente un personaggio piatto e statico.
Il figlio: Nel corso della narrazione non viene mai detto il suo vero nome e viene semplicemente chiamato figlio; lui racconta il viaggio insieme a Berardo a Roma e la morte di quest’ultimo. Anche lui ammirava come gli altri giovani Berardo, non viene descritto né fisicamente né psicologicamente ma il suo carattere sembra molto simile a quello del padre; anche lui cerca sempre lavoro e per questo segue Berardo a Roma ma qui viene picchiato dalla polizia per confessare delle cose che lui non sa. Personaggio statico e piatto.
Don Circostanza: E’ il vero nemico dei fontamaresi. Anche se da loro si fa chiamare “L’Amico del popolo” in realtà non fa altro che truffarli e raggirarli e invece di stare dalla loro parte come gli fa sempre credere è dalla parte dei più forti e potenti. Nelle prime due descrizioni che l’autore fa su di lui descrive il suo aspetto fisico e il suo comportamento con i fontamaresi: «Intanto i commensali ubriachi si erano raccolti sul balcone della villa. Tra essi adesso spiccava l’avvocato don Circostanza, col cappello a melone, il naso poroso a spugna, le orecchie a ventola, la pancia al terzo stadio».«Don Circostanza, detto anche l’amico del Popolo, aveva sempre avuto una speciale benevolenza per la gente di Fontamara, egli era il nostro Protettore, e il parlare di lui richiederebbe ora una lunga litania. Egli era sempre stato la nostra difesa, ma anche la nostra rovina. Tutte le liti dei Fontamaresi passavano per il suo studio. E la maggior parte delle galline e delle uova di Fontamara da una quarantina d’anni finivano nella cucina di don Circostanza». Lo scrittore descrive molti episodi in cui si capisce come questo avvocato fingendo di essere loro amico li raggirava; il primo di questi racconta che per ottenere i voti dei fontamaresi egli inviò un maestro che insegnasse loro a scrivere il suo nome. In questo modo quando andavano a votare non sapendo scrivere altro nome scrivevano quello dell’avvocato; per ottenere ancora più voti lui aveva inventato anche un trucco: siccome egli doveva registrare le persone morte a Fontamara invece di scrivere che erano morte le dava per vive e al momento delle votazioni aggiungeva il suo nome come voto fatto da queste persone morte. Le famiglie dei parenti morti ricevevano all’inizio cinque lire per ogni morto a testa ma poi l’avvocato decise di farli continuare a dare i voti di questi a suo nome ma di non dare più i soldi alle famiglie. Un altro raggiro lo compie quando si discute dell’acqua che deve andare nei campi di Fontamara, come era sempre successo, e quella che deve andare nei campi dell’impresario; l’avvocato si auto nomina rappresentante dei fontamaresi però invece di difendere i loro diritti li raggira dicendo loro che dopo dieci lustri riavranno l’acqua ma non specificando quanto duri un lustro, così l’acqua va tutta all’impresario. Gli ultimi due raggiri che compie riguardano Berardo, in uno gli ruba il pezzo di terra ereditato da suo padre, in un altro diminuisce del 60% la paga dei lavoratori dicendo che questa è la nuova legge. Personaggio statico e piatto.
L’Impresario: Il secondo nemico dei fontamaresi che insieme a don Circostanza li raggira, i cafoni lo vedono come una persona autoritaria che si arricchisce raggirandoli; la prima descrizione che l’autore fa di lui ci fornisce un’immagine malvagia di lui, visto come il diavolo che da tutto riesce a trarre ricchezza.«Chiacchiere a parte, non c’era dubbio che quell’uomo straordinario avesse trovato l’America nella nostra contrada. Egli aveva trovato la ricetta per trasformare in oro anche le spine. Qualcuno affermò ch’egli avesse venduto l’anima al Diavolo in cambio della ricchezza, e forse aveva ragione. A ogni modo, dopo l’inchiesta dei carabinieri sulla carta moneta, l’autorità dell’Impresario era cresciuta enormemente. Egli rappresentava la Banca. Egli aveva a disposizione una grande fabbrica di biglietti. I vecchi proprietari cominciarono a tremare di fronte a lui. Con tutto ciò, non riuscivamo a capacitarci come gli avessero ceduto perfino il posto di sindaco o di podestà». In un’altra sua descrizione fatta da Matalé si capisce come anche se la gente lo odiava non poteva fare a meno di ammirarlo e quando lo vedono arrivare avvertono che è un personaggio potente e per questo si sentono a disagio. Egli comunque non li ascolta e non li prende in considerazione vedendoli come persone inferiori rispetto a lui: «Egli intanto si avvicinava discutendo animatamente con alcuni operai; era in abito da lavoro, con la giacca piegata sul braccio, un livello idrico in una mano, un doppio metro sporgente nella tasca dei pantaloni, le scarpe bianche di calce. Nessuno, che non lo conoscesse, avrebbe supposto ch’egli fosse ormai l’uomo più ricco della contrada e il nuovo capo del comune». Personaggio statico e piatto.
Don Abbacchio: E’ il prete dei piccoli villaggi che però celebra la messa a Fontamara solo quando gli abitanti del paese gli offrono dei soldi e lui ne approfitta per aumentare ogni volta la paga. Anche lui sempre dalla parte dei più forti e dei potenti usa molte volte le messe come mezzo per rimproverare i paesani che non pagano le tasse; nella prima descrizione che l’autore fa di lui si nota come sia molto simile a quella di don Circostanza, entrambi hanno lo stesso fisico di chi si lascia compromettere dalle persone per un buon banchetto, mangiando e bevendo a sazietà: «Davanti a tutti scese il canonico don Abbacchio, grasso, e sbuffante, col collo gonfio di vene, il viso paonazzo, gli occhi socchiusi in un’espressione beata. Il canonico si reggeva in piedi per l’ubriachezza e si mise a fare acqua contro un albero del giardino, tenendo la testa appoggiata contro l’albero per non cadere». In quest’altra descrizione invece lo scrittore ci fa notare come don Abbacchio pur essendo un prete non li difendeva dalle ingiustizie delle persone ricche: «Egli non era un uomo malvagio, ma fiacco, timoroso e, nelle questioni serie, da non fidarsi. Non era certamente un pastore capace di rischiare la vita per difendere le sue pecore contro i lupi, ma era abbastanza istruito nella sua religione per spiegare come, dal momento che Dio ha creato i lupi, abbia riconosciuto ad essi il diritto di divorare di tanto in tanto qualche pecora. Noi ricorrevamo a lui per i sacramenti; ma sapevamo, per esperienza, di non poter ricevere da lui nessun aiuto e consiglio nelle disgrazie che ci venivano dalla cattiveria dei ricchi e delle autorità». Uomo corrotto è un personaggio piatto e statico.
Don Carlo Magna: Era l‘antico riccone del villaggio prima che arrivasse l’Impresario viene ampiamente descritto ma durante il racconto viene citato solo qualche volta. Anche lui come gli altri un truffatore gli veniva aggiunto al suo nome la parola “Magna” non nel significato di grande ma perché ogni volta che lo cercavano sua moglie dicevano che stava mangiando. Uomo che aveva ereditato una grande fortuna dai suoi antenati ma si è rovinato per mano sua.«Altrimenti, siccome don Carlo Magna era un noto buontempone, donnaiolo, giocatore, bevitore, mangione, uomo pauroso e fiacco, da gran tempo egli avrebbe finito di scialacquare le proprietà lasciategli dal padre,(…). Egli si era sposato tardi e donna Clorinda non aveva potuto raccogliere che i resti del naufragio. Dalle numerose e vaste terre che gli antenati di don Carlo Magna avevano messe insieme, ricomprando a prezzo vile i beni in quel tempo sequestrati alle parrocchie e ai monasteri, e che i buoni cristiani non osavano ricomprare, ben poche ne restavano. Una volta don Carlo Magna possedeva quasi tutta la contrada di Fontamara e le ragazze nostre che più gli piacevano erano costrette ad andare in servizio a casa sua e a subire i suoi capricci; ma ora non gli restavano che le terre portate in dote dalla moglie». E’ un personaggio piatto e statico.
Cav. Pelino: Al servizio del comune inganna i fontamaresi facendo firmare loro un foglio, sostenendo che grazie a quel foglio i cafoni potranno dire la loro opinione alle autorità, in realtà quel foglio sarà la loro rovina. Convinti dal forestiero i cafoni firmano ma questo foglio verrà usato più tardi dall’Impresario per portare l’acqua di Fontamara nelle sue terre. Dalla descrizione che l’autore fa di lui si capisce come le persone provenienti dalla città fossero così diverse da quelli di paese e per questo disprezzati: «D’aspetto era un giovanotto elefantino. Aveva una faccia delicata, rasata, una boccuccia rosea, come un gatto. Con una mano teneva la bicicletta per il manubrio, e la mano era piccola, viscida, come la pancia delle lucertole, e su un dito portava un grande anello, da monsignore. Sulle scarpe portava delle ghette bianche». Anche lui è presente più tardi alla spartizione dell’acqua che andrà a Fontamara e quella per i campi dell’Impresario e ovviamente aiuterà quest’ultimo ad appropriarsene. E’ personaggio statico e piatto.
Don Ciccone: Avvocato è un altro di quegli uomini corrotti dall’Impresario con un banchetto e proprio mentre esce dalla casa di quest’ultimo la moglie lo descrive, dopo quest’episodio però non viene più nominato: «Dopo scese l’avvocato don Ciccone, con un giovanotto che reggeva per un braccio; egli era ubriaco fradicio e dietro il mucchio di mattoni lo vedemmo cadere a ginocchioni sulla propria umidità».
Innocenzo la Legge: Questo nome è significativo perché infatti lui è quello che deve far rispettare le leggi e riscuotere le tasse. Maltrattato sempre dai fontamaresi che non posso permettersi di pagare le tasse che lui chiede, l’autore lo nomina solo qualche volta sempre in compagnia dei più potenti e ovviamente dalla loro parte; tanto che è stato ridotto dalla moglie dell’Impresario a suo servo. Una sera si presenta a Fontamara per appendere un cartello: IN QUESTO LOCALE E’ PROIBITO PARLARE DI POLITICA, per questo viene giustamente contestato da Berardo.
Don Achille Pazienza: Chiamato cavaliere è un cliente della locanda il Buon Ladrone, un tempo persona importante finge di voler aiutare Berardo e il figlio di Giuva a trovare un lavoro ma in realtà cerca solo di guadagnare dei soldi e roba da mangiare e Berardo finge di voler dargli tutto quello che chiede. L’imbroglione però prende i soldi da loro e non gli trova un lavoro; il figlio di Giuva lo descrive nella stanzetta della locanda, come un vecchio malato disteso sul letto: «Trovammo don Achille Pazienza interamente disteso sul letto; egli era un povero vecchietto catarroso, con una barba di una decina di giorni, un vestito giallo, delle scarpe di tela bianca, un cappello di paglia sulla testa, una medaglia di bronzo sul petto e uno stecchino di legno in bocca, e in questi paramenti egli si era messo, per riceverci».
Baldissera: Chiamato anche il generale Baldissera, è un abitante di Fontamara fa lo scarparo e la sua mentalità si contrappone a quella di Berardo, mentre quest’ultimo pensa ai fatti il generale si limita solo alle parole e per questo molte volte i due litigano. L’autore fa su di lui un’ampia descrizione ma durante l’intera vicenda non parla molto di lui se non generalmente insieme agli altri cafoni. «Il suo ardire però non arrivava mai ai fatti, e non solo per la sua vecchiaia, ma per la sua timidità. Da ragazzo, a Fossa, dove esercitava il mestiere dello scarparo, egli aveva imparato le cerimonie da un vecchio barone decaduto, presso il quale, nei pomeriggi dei giorni di festa, esercitava l’antico e dignitoso ufficio del domenichino. L’incarico era gratuito, ma di soddisfazione e per nulla stancante, poiché consisteva unicamente nell’accompagnare il signor barone,a riguardosa distanza, nella passeggiata pomeridiana.» «Il generale Baldissera era assai povero, forse il più misero di tutti i Fontamaresi, ma soffriva che si risapesse e ricorreva a piccoli raggiri per nascondere la fame che da molti anni lo divorava. Fra l’altro egli coglieva i pretesti più bizzarri per allontanarsi la domenica da Fontamara e tornarvi verso sera, in realtà più che mai digiuno e sobrio, ma con uno stecchino fra i denti e traballante, come uno che avesse mangiato carne e bevuto fino all’ubriachezza, per apparire uomo in grado di spendere e togliersi i capricci». Da queste descrizioni emerge un uomo orgoglioso che nonostante la sua povertà non vuole che questo fatto si sappia e fa di tutto per dimostrare il contrario.
Elvira: E’ una bella ragazza figlia della sorella di Giuva e dichiarata promessa sposa di Berardo, anche se lui non la chiede in sposa perché non possiede alcuna terra mentre Elvira ha la dote e il corredo. Ragazza semplice e modesta viene da tutti quasi considerata una santa,tanto che al suo passaggio nessuno bestemmia; in un occasione salva i fontamaresi affacciandosi dal campanile viene scambiata dai poliziotti per la Madonna e per questo scappano. In un pellegrinaggio chiede alla Madonna di prendere la sua vita e in cambio di aiutare Berardo, la sua preghiera viene esaudita, Elvira muore sul letto per la febbre altissima. «Elvira, la figlia della buon’anima di Nazzarena, mia sorella, morta l’anno prima. La ragazza era considerata a Fontamara la promessa di Berardo, benché forse non si fossero mai scambiati una sola parola. Ma quando la ragazza andava in chiesa o alla fontana, Berardo impallidiva e tratteneva il respiro nel vederla e la seguiva con lo sguardo in modo da non lasciar dubbi sul suo sentimento. E siccome Elvira aveva ben presto risaputo dalle sue compagne di questa intesa attenzione di Berardo e non aveva protestato, né aveva cambiato l’ora e l’itinerario delle sue uscite (…). Più che bella, bisogna anzi dire ch’era gentile e delicata, di statura media, col viso dolce e quieto, nessuno l’aveva mai udita ridere ad alta voce, o anche schiamazzare, o dimenarsi in pubblico, o piangere. Era di una modestia e riservatezza straordinarie; era come una madonnina. Al suo avvicinarsi, nessuno osava bestemmiare o pronunziare parole sconce. (…) Oltre a ciò si sapeva che la ragazza aveva una discreta dote: mille in contanti e il corredo in ordine, lenzuola, federe, tovaglie, camicie, coperte, tutto assortito, una madia nuova, due comò di noce e la lettiera a due piazze di ottone, già comprata e pagata». Personaggio statico e piatto.
Donna Clorinda: E’ la moglie di don Carlo Magna e se non fosse per lei don Carlo non avrebbe più niente, dirige lei tutti gli affari ma quando qualcuno dei cafoni deve vedere don Carlo lei dice sempre che è occupato. L’autore la descrive ma ha un ruolo molto marginale: «Donna Clorinda vestiva un abito nero con molte trine sul petto e portava sulla testa una specie di cuffia pure nera. Guardandola in faccia e ascoltando la sua voce si capiva perché nel paese era stata soprannominata il Corvo. (…) Quando noi finimmo di spiegarci a proposito dell’acqua, donna Clorinda era pallida come se fosse per svenire. Sulla sua faccia scarna si vedeva, nelle mascelle irrigidite, lo sforzo per frenare lagrime di rabbia».
Maria Rosa: E’ la madre di Berardo, povera e sofferente per la sua condizione vorrebbe tanto vederlo sposato con Elvira e si dispera con lui quando il campo viene distrutto da un’alluvione. «La madre gli stava aggrappata a una spalla, tutta invasa dal terrore, col viso di cenere come quello di una morta, aggrappata come Maria al Calvario; e lui guardava la montagna e ripeteva:”Ecco, ecco, naturalmente”». «Così parlava la vecchia Maria Rosa, che passava la maggior parte della sua giornata, e durante l’estate anche la notte, su una pietra davanti all’entrata della sua abitazione, ch’era in realtà una grotta, Maria Rosa filava e cuciva, o aspettava il ritorno del figlio ch’essa ammirava e vantava con parole poco abituali nelle madri. Non potendo Berardo primeggiare sulla ricchezza, Maria Rosa trovava inevitabile ch’egli eccellesse almeno nella sventura».
La Zappa: Un capraro di Fontamara che viene solo nominato mentre andava dall’Impresario per protestare incontra il gruppo di donne fontamaresi, giunte anch’esse per protestare contro di lui, e l’accompagna: «Per strada incontrammo La Zappa, un capraio di Fontamara che cercava anche lui l’Impresario. Egli si trovava con le sue capre nel tratturo, quando una guardia campestre l’aveva avvertito che doveva allontanarsi». «Noi conoscevamo La Zappa come giovanotto di poco ragionamento, però, in quel caso, aveva ragione».
Marietta: Vedova abitante a Fontamara, accoglie lei tutte le persone importanti e conosce un po’ meglio gli usi e costumi della gente ricca. Alla domanda che le fanno i fontamaresi: “Perché non ti risposi?” Lei risponde che se si risposasse non riceverebbe più la pensione del marito e per questo gli uomini le danno ragione mentre le donne la disprezzano; scrive anche con la sua bella calligrafia il giornale di Fontamara.
L’Avezzanese o Solito sconosciuto: Viene chiamato il Solito sconosciuto perché lui è lo sconosciuto che fa ribellare i vari paesi, finito poi in carcere qui conosce Berardo e gli racconta ciò che ha fatto. Nonostante le sue azioni è un truffatore perché convince Berardo a confessarsi e a scontare la pena per tutto quello che lui ha fatto. Abitante di Avezzano i cafoni l’avevano incontrato lì dove lui li aveva messi in guardia da un poliziotto.
Maria Grazia, la Ciammaruga, Filomena, Castagna, la Recchiuta, la figlia di Cannarozzo, Maria Cristina: Sono il resto delle donne del villaggio, l’autore le nomina solo un paio di volte e solo sull’ultima fa una breve descrizione:«Maria Cristina vestita a nero per la morte recente del marito, che ventilava il poco grano raccolto nel suo campo, facendo cadere il grano dalla cascina tenuta in alto, a braccia tese, a ritroso del vento».

Spazio
L’autore non descrive molto i luoghi che vede, le descrizioni sono poche e brevi. La prima è l’unica descrizione lunga e completa e riguarda Fontamara, un paese sulla montagna e per questo un po’ isolato dal resto del mondo, sembra riflettere la mentalità dei paesani che abitando in un posto isolato non conoscono niente del mondo che li circonda. Nel loro paesino i fontamaresi si sono creati un mondo a se estraneo alle regole della città; paese povero non esiste un cittadino più ricco che abbia una casa più bella e maestosa delle altre, tutte le case si assomigliano e riflettono una stessa condizione sociale. «A chi sale a Fontamara dal piano del Fucino il villaggio appare disposto sul fianco della montagna grigia brulla e arida come su una gradinata. Dal piano sono ben visibili le porte e le finestre della maggior parte delle case: un centinaio di cosucce quasi tutte a un piano, irregolari, informi, annerite dal tempo e sgretolate dal vento, dalla pioggia, dagli incendi, coi tetti malcoperti da tegole e rottami d’ogni sorta. La maggior parte di quelle catapecchie non hanno che un’apertura che serve da porta, da finestra e da camino. Nell’interno, per lo più senza pavimento, con i muri a secco, abitano, dormono, mangiano, procreano; talvolta nello stesso vano, gli uomini, le donne, i loro figli, le capre, le galline, i porci, gli asini. Fanno eccezione una decina di case di piccoli proprietari e un antico palazzo ora disabitato, quasi cadente. La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato, e che è l’unica via da dove possano transitare i carri. Ai fianchi di questa sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, coi tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. A chi guarda Fontamara da lontano, dal Feudo del Fucino, l’abitato sembra un gregge di pecore scure e il campanile un pastore. Un villaggio insomma come tanti altri; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo». «E a Fontamara non c’è bosco: la montagna è arida, brulla, come la maggior parte dell’Appennino. Gli uccelli sono pochi e paurosi, per la caccia spietata che a essi si fa. Non c’è usignolo; nel dialetto non c’è neppure la parola per designarlo». In questa breve descrizione parla di Fontamara di notte dopo che è stata tolta la luce:«a mano a mano che si faceva scuro e vedevamo le luci dei paesi vicini accendersi e Fontamara sbiadirsi, velarsi, annebbiarsi, confondersi con le rocce, con le fratte, con i mucchi di letame, capimmo subito di che si trattava». La casa di don Carlo Magna viene descritta brevemente ma da queste poche parole si capisce quanto sia ricco:«Dal soffitto della cucina pendevano prosciutti, salami, salsicce, vesciche di strutto, fitte corone di sorbe, di agli, di cipolle, di funghi. Sul tavolo era un mezzo agnello sanguinante e dai fornelli veniva un buon odore da svenire». Berardo era riuscito finalmente a ottenere un pezzo di terra su in montagna e dopo averci lavorato sodo un alluvione lo distrugge e l’autore descrive la scena con molti aggettivi:«E all’alba del terzo giorno venne giù dalla montagna, col fragore di un terremoto, in direzione della contrada dei Serpari, come se la montagna crollasse, un’enorme fiumana d’acqua che portò via il campiello di Berardo, come un affamato vuota un piatto di minestra, scavando la terra fino alla roccia e disperdendo nella valle le piantine verdi del granturco. Al posto del campo coltivato rimase un’enorme fossa, una specie di cava, una specie di cratere». In questa descrizione parla della piazza di Avezzano e della magnificenza di questa città:«Fummo condotti su una grande piazza dove ci venne assegnato un buon posto, dietro il palazzo del tribunale, all’ombra. Altri mucchi di cafoni erano stati addossati ai vari edifizi attorno alla piazza. Tra un mucchio e l’altro vi erano pattuglie di carabinieri. Staffette di carabinieri in bicicletta attraversavano la piazza in tutti i sensi. Appena arrivava un nuovo camion i cafoni venivano fatti scendere e accompagnati dai carabinieri in un punto convenuto della piazza. Sembravano i preparativi di una grande festa. A un certo momento attraversò la piazza un ufficiale dei carabinieri a cavallo. Berardo trovò il cavallo bellissimo». Un’altra descrizione riguarda i campi aridi dopo che l’acqua di Fontamara era stata deviata verso i campi dell’Impresario, le brevi frasi che l’autore ha scritto sui campi danno un impressione di devastazione come se fossero stati campi di battaglia:«Ai piedi della collina, i campi e gli orti, abbandonati dal ruscello, assumevano ogni giorno un aspetto più desolante. (…) Il raccolto bruciava lentamente. Sulla terra arida e assetata si aprivano larghi crepacci. Visti da lontano, soltanto i campi di granoturco di Pilato e di Ranocchia sembravano far eccezione, ma non era che apparenza; le parti erbacee del granturco si erano sviluppate, ma le pannocchie erano rimaste rare e piccole, con grani minuscoli, magri. Avrebbe potuto servire tutt’al più come foraggio per le bestie. Ancora più triste era la sorte di Michele Zompa, di Baldovino e il mio, seminato a fagioli: i fagioli somigliavano a gramigna bruciata dal sole; sugli orti di Barletta, Venerdì Santo, Braciola, Papasisto sembrava che fosse passato un fiume di lava». La penultima brevissima descrizione narra delle fontane di Roma, così magnifiche agli occhi del narratore:«A ogni fontana Berardo si fermava per bere, come i nostri asini al mattino camminando verso Fucino; ma ne incontravamo anche di grandiose che gettavano zampilli d’acqua in aria, a incredibili altezze, e da quelle non si poteva bere». Nell’ultima descrizione l’autore, il figlio di Giuva, osserva la cella dove sono rinchiusi lui e Berardo insieme all’Avezzanese, molto ricca di particolari che nonostante il luogo sia orribile l’autore non pare spaventato da questo luogo e anzi ne è soddisfatto perché ha trovato un giaciglio per la notte:«La metà della cella era occupata da un rialzo in cemento, un po’ più alto d’un marciapiede ordinario, e quel rialzo aveva la funzione di letto. In un angolo vi era un buco puzzolente la cui funzione era ancora più evidente. I due detenuti che ci avevano preceduti nella cella, erano rannicchiati in un angolo, col capo appoggiato sulla giacca piegata in forma di cuscino».

Tempo
Non fa riferimento agli anni in cui si svolge la vicenda ma alla fine della prefazione c’è scritto 1930 perciò si presuppone che il romanzo fa riferimento ai primi anni del Novecento. Il racconto ha un ritmo abbastanza veloce, i piani del tempo non coincidono perché l’autore usa i tempi al passato. Sono presenti alcuni sommari e pause nelle descrizioni.

Tecniche narrative e stilistiche
La tecnica utilizzata è quella dell’io narrante, infatti, il narratore è interno ed è protagonista e testimone delle vicende. Nell’organizzazione sintattica del discorso prevale la costruzione paratattica del periodo: le frasi sono semplici e chiare, i periodi brevi e facili da capire. Il linguaggio adoperato dall’autore è di tipo basso, infatti deve rispecchiare le caratteristiche dei “cafoni”, come l’ignoranza e l’incapacità di esprimersi in un italiano corretto. Il latino e frasi complicate e articolate sono presenti solo quando coloro che parlano sono istruiti e ricchi. L’aggettivazione è abbondante solo nelle descrizioni ed è di tipo oggettivo.

Temi e simboli
In questo il tema fondamentale è la lotta di Silone contro l’ingiustizia e gli abusi del potere istituzionale, fra i "cafoni" e i ricchi e la sua funzione è di denunciare l’oppressione e i soprusi subiti dai contadini abruzzesi.
Un altro tema è quello della povertà, della continua lotta per i bisogni materiali. La povertà è infatti il vero problema, alla base di tutte le liti, sia tra i fontamaresi stessi che tra “cafoni” e borghesi.
I fontamaresi sono abbandonati a loro stessi, non c’è nessuno che li aiuti e senza alcun sostegno non usciranno mai dalla loro situazione disastrosa.

Dalla parte del lettore
Questo libro mi è piaciuto molto sia per i temi che tratta mostrandoci una realtà che oggi noi vediamo nei paesi del terzo mondo; sia per come l’autore racconta i vari episodi rendendo il lettore partecipe alla vicenda. Nel romanzo il lettore si impersona in un cafone che lotta contro i soprusi subiti dai ricchi ma senza risultato.

Esempio



  


  1. Paolo

    alcune frasi più significative di Fontamara sto per fare l'esame di terza media scuola de Lollis chieti

  2. Patrizio

    perchè don pazienza se la prende con il padre di berardo?