Divina Commedia, Inferno canti II-III-IV-V-VI

Materie:Appunti
Categoria:Letteratura Italiana
Download:687
Data:28.03.2007
Numero di pagine:15
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
divina-commedia-inferno-canti-ii-iii-iv-vi_1.zip (Dimensione: 14.82 Kb)
trucheck.it_divina-commedia,-inferno-canti-ii-iii-iv-v-vi.doc     46.5 Kb
readme.txt     59 Bytes


Testo

Inferno, Canto II
Il secondo canto dell’Inferno è in sostanza un’unica parentesi, solenne ed obbligata.
E’ finito il vagabondare di Dante tra la selva e la piaggia diserta culminato nell’incontro con Virgilio, ma non è ancora iniziato il loro viaggio tra le anime dei dannati e poi dei penitenti.
Mentre si fa sera, tra tutti gli esseri viventi solo Dante rimane sveglio, preparandosi a “sostener la guerra sì del cammino e sì della pietate”, ma l’azione rimane sospesa. E’ il momento dei dubbi, di quelli manifesti (l’incredulità di esser stato scelto per un simile viaggio e il sentimento di totale inadeguatezza) come di quelli reconditi (il sospetto di peccare per superbia, valga quanto detto al canto precedente circa la portata salvifica della Commedia), ma tutti riguardano il Dante-poeta più che il Dante-pellegrino.
In questo senso la parentesi del secondo canto è obbligata. Il lettore potrebbe legittimamente supporre che Dante si sia precostituita una personalissima via alla salvezza eterna, in cui tutta la Storia (quella del reale tanto quella della metafora) è chiamata ad occuparsi del poeta fiorentino e della sua anima. A ben guardare il rischio di un sillogismo involontario è immediato: se la salvezza passa attraverso un intervento eccezionale del poeta Publio Virgilio Marone a favore del poeta Dante Alighieri e se a questi basta accordare il proprio assenso per venire ricondotto alla “diritta via”, come una sorta di lasciapassare per il Paradiso, ecco che i comuni mortali potrebbero legittimamente sentirsi emarginati, frustrati ed anche almeno un poco indispettiti.
Ma l’intento del Dante-poeta è all’opposto; né la sua fede né la conseguente impostazione della Commedia riflettono la ricerca di un rapporto diretto con Dio che escluda il resto dell’umanità e la comunità dei fedeli. La Commedia è un libro totalmente plurale e corale in cui le vicende del Dante-pellegrino sono parte di quelle universali e un esempio di come la grazia di Dio agisca per la salvezza di ogni uomo, in ogni tempo e in ogni luogo.
Per questo Dante-poeta fa citare al Dante-pellegrino i casi di Enea e di San Paolo (lo “Vas d’elezione”), come di uomini ben più meritevoli di lui cui fu concesso di inabissarsi tra gli inferi da vivi. E ancora per questo fa discendere l’intervento delle sue guide non già da una solidarietà di casta (Virgilio) o di affetti (Beatrice), ma dalla profusione del materno amore della Vergine Maria (“donna gentil”) che certamente, così come l’amore divino, è immenso ed indistinto. Non è Beatrice, beata tra i beati a fianco dell’”antica Rachele”, che si accorge delle pene del suo amico e nemmeno Santa Lucia di cui pure Dante era “fedele”, ma la Madonna stessa, emblema della grazia previdente, madre di Cristo e in lui di ogni altro uomo.
Ed allora, se così è, ecco che la grazia promana incessante in ogni direzione ed è responsabilità dell’uomo di farsene partecipe, nelle singolari contingenze in cui si trova. Per Dante-poeta strumento della grazia è la poesia, così come per Enea è la volontà di creare una patria e una progenie, per Paolo il fervore della predicazione.
Dante è solo uno fra i tanti uomini alla ricerca di Dio così come Beatrice è solo una tra i tanti beati che godono dell’amore eterno di Dio, mantenendo tutta la fragilità dei loro sentimenti (“gli occhi lucenti lagrimando volse”).
Una parentesi obbligata, quindi, ma anche solenne.
Se il “carisma” di Dante è la poesia, allora prima di iniziare un tale viaggio come è comprensibile il poeta invoca le Muse e il suo “alto ingegno”, drizza la schiena, gonfia il petto, e dà ampio sfoggio del “bello stilo” di cui è capace in un tripudio di vis retorica che alimenta i dialoghi del Dante-pellegrino con Virgilio e di questi con Beatrice.
O anima cortese mantoana,
di cui la fama ancor nel mondo dura,
e durerà quanto ’l mondo lontana
dice lei e
O donna di virtù, sola per cui
l’umana spezie eccede ogne contento
di quel ciel c’ha minor li cerchi sui
risponde lui soavemente, in un minuetto di reciproche cortesie, mentre ben altro tono usa con Dante che con un’arringa degna di un Gorgia o di un Cicerone scuote dai suoi residui dubbi
Dunque: che è? Perché, perché restai?
perché tanta viltà nel core allette?
perché ardire e franchezza non hai?
La forza, delle parole, dunque: quelle “vere che ti porse” Beatrice e quelle “tue” che hanno saputo disporre il cuore al desiderio e tornare al primo proposito di mettersi in cammino “ch’un sol volere è d’ambedue:/tu duca, tu segnore e tu maestro”.
La forza delle parole, che nella bocca di Dio come in quella degli uomini, dal momento della creazione hanno fatto la Storia dei popoli e di ogni singola persona, come del Dante-poeta che alla forza delle parole affida la propria salvezza.
Chiusa la parentesi, si può dunque andare, per un “cammino alto e silvestro”.




Inferno, Canto III
Ed eccoci alle porte dell’inferno. Anzi, alla “porta” della “città dolente” sulla cui sommità campeggia una scritta terribile e minacciosa, che non ammette scampo per chi varca la sua soglia.
“Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”.
Eppure, in questo canto dall’atmosfera lugubre e dilaniata, in cui il pellegrino Dante e la sua guida Virgilio fanno il loro ingresso nel mondo di chi si è ribellato a Dio, Dio non è assente. Tutt’altro.
Come recita l’insegna sulla porta, l’inferno è stato creato da Dio stesso, mosso a ciò dalla giustizia; giustizia che presuppone una legge che nella visione cristiana è il presupposto e la conseguenza dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Creatore e creatura che liberamente decidono di donarsi l’uno all’altro in una relazione d’amore.
In caso contrario, violata la legge e rotta l’alleanza, la giustizia impone che per l’uomo responsabile derivi una condizione opposta a quella che gli era stata offerta: la totale assenza della relazione con Dio, protratta per l’eternità.
Dante rimane come impietrito dinanzi a una prospettiva così cruda ed ora, per la prima volta nella sua vita, così reale. Guarda sgomento il suo Maestro e questi lo invita ancora una volta a liberarsi da ogni “sospetto” e “viltà”, ad avere fiducia nel viaggio che hanno intrapreso e in lui stesso, che con fare paterno gli sorride, lo prende per mano e oltrepassando la porta, lo introduce nelle “segrete cose” dell’inferno.
E qui la luce si spegne.
Come potrebbe essere diversamente, senza la luce di Dio?
Le tre terzine che seguono, tra il verso 22 e il verso 30, sono l’incubo di chi sente mille rumori senza conoscerne né l’origine né la provenienza; rumori che smuovono le paure ancestrali del fanciullo che è in noi, che ha un terrore assoluto per il buio, che grida aiuto e che solo il riaccendersi di una luce riesce a calmare.
Per chi abbia la fortuna di ascoltare una lettura di questo canto, consiglio a questo punto di chiudere gli occhi e di farsi investire dai “sospiri”, dai “pianti” e dagli “alti guai” che risuonano “tra l’aere sanza stelle”: ”diverse lingue, orribili favelle, parole di dolore, accenti d’ira, voci alte e fioche e suon di man con elle“, un tumulto che gira nella notte nera dell’inferno come un turbine.
Sono la moltitudine degli ignavi, ossia “l’anime triste di coloro che vissero sanz’infamia e sanza lodo”, sciagurati che “mai non fur vivi” poiché mai spesero la vita per un’idea, un valore, una causa, giusta o sbagliata che fosse. Non solo uomini, ma anche angeli che pur non rimanendo fedeli a Dio non si schierarono con Lucifero tra i demoni ribelli. Insomma, anime che nessuno vuole, né in paradiso né all’inferno, condannate a essere continuamente assalite da mosconi e vespe rincorrendo il simbolo fuggevole di un’insegna che tra loro si aggira velocissima e irraggiungibile.
In questo groviglio di corpi nudi, Dante riconosce qualcuno, con assoluta probabilità il papa Celestino V, ossia “colui che fece per viltade il gran rifiuto” di rinunciare al soglio pontificio dopo soli quattro mesi dalla sua elezione, aprendo le porte all’infausto regno di Bonifacio VIII. Ora, che questo pover’uomo di animo semplice e caritatevole, che le cronache lasciano supporre invece in grazia di Dio, dedito alla meditazione e alla preghiera, con l’unica colpa di sentirsi inadatto per le responsabilità di guidare la Chiesa, abbia realmente meritato le colpe dell’inferno (anzi quelle non meno terribili dell’antinferno) appare improbabile ed è comunque un mistero che nemmeno la Commedia è in grado di svelare.
Ma vale qui (e varrà per gli innumerevoli altri incontri che Dante farà lungo il suo viaggio) quanto già detto a commento del canto precedente. Collocando Celestino V tra gli ignavi, Dante non intende sostituirsi al giudizio divino per l’anima del duecentounesimo successore di Pietro, al secolo Pietro del Morrone, ma collocare il suo cammino alla ricerca della salvezza nello spazio e nel tempo, laddove il male che vedeva nella società e nella chiesa aveva a suo parere dei responsabili e tra questi sommamente Bonifacio VIII e il suo involontario “dante causa” Celestino V.
Non è il Celestino V della storia quello che il pellegrino Dante incontra, ma il Celestino V personaggio della Commedia, parte integrante dell’allegoria della conversione che il poeta Dante dipinge con tanta forza persuasiva.
Allo stesso modo dobbiamo collocare le schiere di dannati che affollano l’inferno e quelle che, in conclusione del canto III, si appressano ad entrarci oltrepassando le acque dell’Acheronte. Schiere sterminate di morti “ne l’ira di Dio”, che tali appaiono al poeta Dante dal punto di vista della sua esperienza e che egli riconosce largamente affetta dal peccato. E’ da questo peccato che egli vuole scappare, ritrovando “la diritta via”. A Dante interessa la salvezza, non il giudizio!
E qui compare di nuovo la giustizia divina (ancora lei!) che spinge le schiere dei dannati alla pena eterna contro le rive del fiume, così implacabile che il suo timore trasforma in desiderio il guado sulla barca del fosco nocchiero Caronte.
Una visione tanto cruda e insopportabile che, complici un sommovimento di tutti gli elementi, Dante perde coscienza di sé, cadendo di colpo “come l’uom cui sonno piglia”.
Per ascoltare, nella lettura di Roberto Gasco: http://guidoconforti.it/doc/INF_III_bis.mp3




Inferno, Canto IV
Il canto IV è il canto della luce.
In primo luogo della luce-metafora della grazia di Dio, che viene a mancare del tutto sul ciglio della “valle dolorosa” dal quale Dante, passato l’Acheronte nell’incoscienza dello svenimento, risvegliandosi si affaccia.
Il verso 10 descrive perentoriamente la natura di questa assoluta assenza di luce esogena con una tripla aggettivazione che alla prima qualificazione (“oscura”) -di per sé in apparenza sufficiente- ne aggiunge altre due (“profonda” e “nebulosa”) che derivano dal complesso di tutte le percezioni sensoriali e che nell’insieme contribuiscono a definire il volume -tangibile e greve- dell’abisso infernale: mentre l’oscurità è desumibile dal semplice esercizio della vista, la profondità -in assenza di luce- è riscontrabile solo con l’uso dell’udito applicato alla diversa intensità dei rumori che giungono all’orecchio e analogamente la nebulosità con l’uso dell’olfatto.
Non soltanto un luogo oscuro, quindi, ma anche lungo e difficile da oltrepassare. Tre qualità per definire la vastità di un buco nero: perfetto!
Ma per quanto “cieco” il mondo dell’inferno non è totalmente buio e non solo per esigenze narrative (pur nella penombra, Dante delinea i contorni del paesaggio che lo circonda, incontra personaggi, si accorge dei loro sentimenti, a iniziare dal pallore che intravede sulle guance di Virgilio all’atto di scendere nel primo cerchio). Tuttavia, quel poco di luce che intacca la notte eterna scaturisce da agenti endogeni, quale la “luce vermiglia” balenata dalla “terra lacrimosa” che vinse il poeta in chiusura del canto III e quale, per quanto riguarda il canto IV, il fuoco che dal verso 68 in poi rischiara la cupola luminosa sotto la quale passeggiano gli “spiriti magni”.
Siamo nel frattempo scesi nel limbo (ossia lembo, orlo, margine) dove si trovano le anime di coloro che vissero senza peccato, salvo quello originale poiché per motivi di tempo (essendo nati prima di Cristo) o di condizione (non avendo avuto comunque accesso al battesimo) non riuscirono ad entrare nella pienezza della fede cristiana, attraverso la “porta che tu credi”.
Costoro sono una moltitudine così sterminata di uomini, donne e bambini da costituire una sorta di selva spessa di spiriti, accostati gli uni agli altri, con l’unica afflizione di vivere nel desiderio di Dio senza la speranza di potervisi accostare e quindi scossi non da pianti, ma da perenni sospiri che, per il numero delle anime, fanno tremare “l’aura etterna” (per la verità si dice che all’atto della sua resurrezione Cristo trasse da questa condizione di afflizione molti personaggi dell’Antico Testamento, tra cui Adamo, Abele, Noè, Mosè, Abramo, Davide, Isacco, Giacobbe, i suoi dodici figli e Rachele, che abbiamo già incontrato in compagnia di Beatrice del canto II; ma ciò corrisponde a necessità teologiche che nulla aggiungono o tolgono alla pietosa drammaticità della situazione).
Rispetto a tale ressa di anime sospiranti e da questa ben distante Dante vede un fuoco che vince l’”emisperio di tenebre” e sotto al quale incontra prima quattro eccelsi poeti (Omero, anzitutto, e poi Orazio, Ovidio e Lucano) e quindi, in un “nobile castello” cerchiato da sette giri di mura e difeso da un “bel fiumicello”, grandi personaggi della mitologia e della storia, re e condottieri, eroi ed eroine, filosofi e uomini di scienza.
Anche in questo caso il semicerchio di luce scaturisce da un fattore endogeno e proprio dell’ipogeo infernale, in particolare dalla propagazione dell’intelligenza umana che in quelle grandi anime ha trovato la sua massima espressione.
Un fuoco, quindi, cioè una forma di luce generata dalla capacità e dalla volontà degli uomini, così come le idee e le azioni di coloro rischiararono le tenebre dell’ignoranza. Un fuoco sotto la cui “lumera” alloggia con qualche sospiro in meno e qualche onorificenza in più, il gotha del pensiero non-cristiano o pre-cristiano a cui peraltro Dante riconosce anche dei meriti specifici nel campo della fede.
E’ infatti grazie alla fama (l’”onrata nominanza” del verso 76) da loro acquisita tra i viventi che molti hanno trovato elementi per comprendere il mondo, la verità e, da ultimo, la strada per la salvezza. Ed è a questo fatto che si deve la particolare condizione (una sorta di limbo del limbo) che è loro riservata.
Non quindi un merito proprio, quanto piuttosto un merito indiretto, derivante dall’indotta partecipazione al percorso di redenzione per altri.
Solo in questo senso si comprende, tra l’altro, la presenza nel bel castello di musulmani quali il (feroce?)Saladino, Avicenna e Averroè. Ancora una volta siamo in presenza non già di un “giudizio divino”, ma di un (amorevolissimo) tributo che Dante rende a personaggi centrali per la sua formazione umana nel campo delle virtù civili e del pensiero filosofico. E analogamente solo in questo senso si comprende la presenza di figure dichiaratamente epiche quali Elettra, Ettore o Enea che nessun’altra funzione ebbero nella storia che di condizionare e influenzare le vicende personali e sociali di uomini e donne realmente vissuti.
Sotto la volta luminosa della “lumera” Dante trascorre gli ultimi istanti quieti della sua discesa agli inferi, “parlando cose che’l tacere è bello,/sì com’era parlar colà dov’era”.
Alla fine il “savio duca” lo porta fuori, nell’aura che trema dei sospiri delle anime in pena e accompagnandolo verso la parte dove non c’è (più) alcuna luce.



Inferno, Canto V
Dal primo cerchio Dante discende nel secondo, che per le caratteristiche “a imbuto” dell’abisso infernale è di raggio più corto, ma al contrario di maggiore pena afflittiva. E così sarà a seguire, in una triste progressione del dolore.
Sulla falsariga dell’esempio virgiliano disegnato nell’Eneide qui trova subito l’orribile Minosse, mezzo uomo e mezza bestia, che ringhiando giudica le colpe di ogni anima dannata e a seconda della loro natura con un gioco di coda indica il grado (o cerchio) a cui essa è destinata. Come Caronte anche Minosse ha da dire sulla presenza di un vivente al suo cospetto, ma come Caronte Virgilio zittisce anche Minosse con la stessa formula magica che non ammette obiezioni “vuolsi così colà dove si puote/ciò che si vuole, e più non dimandare”.
Superata la lugubre garitta di Minosse Dante si addentra nel secondo cerchio che è quello in cui patiscono i “peccator carnali”, categoria ben più ampia di quella dei lussuriosi con cui si è soliti indicare questo genere di dannati. In verità i lussuriosi sono tutti qui ed uno di loro (Cleopatra) come tale viene anche citato, ma per il poeta “peccator carnali” sono più in generale tutti coloro che hanno sottomesso la ragione alla passione (il “talento”). E tra questi un gruppo particolare è costituito dalle ombre di coloro che sono morti per colpa dell’amore, i quali come uno stormo di gru vagano in una lunga fila lanciando i loro lamenti.
Per entrare nella logica di questo canto e conseguentemente cercare di comprendere più nel profondo il celeberrimo incontro con Paolo e Francesca che lo chiude, è necessario soffermarsi sulla parola “amore” così ricorrente nel corso del testo. Questo “amore” non è affatto un oggetto di relazione tra le persone, ma al contrario e in piena ortodossia stilnovista è un soggetto efficiente, che agisce per e nella relazione tra le persone.
Nel corso del canto V per sette volte (è da ritenere che il numero non sia affatto casuale, ma indichi metaforicamente la vastità delle occasioni in cui ciò accade) “amore” è associato a un verbo di azione:
1) combatte con Elena e con Achille (v. 66)
2) distacca le ombre (“dipartille”) dal mondo dei viventi (v. 69)
3) trascina (“mena”) Paolo e Francesca (v. 78)
4) prende Paolo (v. 101)
5) prende Francesca (v. 104)
6) conduce entrambi alla morte (v. 106)
7) concede di conoscere “i dubbiosi disiri” degli innamorati (v. 120)
E ognuna di queste azioni è perentoria, potente, inderogabile.
L’amore protagonista a tutto tondo del quinto canto è un soggetto invincibile del quale non si può fare a meno e dal quale, una volta avvinti, è impossibile staccarsi. Valgano per tutti gli esempi dei due famosissimi versi (100 e 103) in cui alla parola Amor è associata la specificazione in un caso della immediata presa su un nobile cuore (“ch’al cor gentil ratto s’apprende”) e nell’altro della necessità per ciascun essere amato di amare a propria volta (“ch’a nullo amato amar perdona”).
In qualche misura questo “amore”, benché profano, appare affine e addirittura analogo a quello divino: anch’esso soggetto efficiente, anzi identificato nella più intima sostanza della trinità divina, creatore e ricapitolatore di ogni cosa, alfa e omega della storia.
Non solo, ma del medesimo “amore” lo stesso Dante Alighieri è stato anche uno dei più autorevoli sacerdoti e cantori, avendo ad esso dedicato gran parte della propria poesia e della propria vita: dell’amore che ravviva, che guarisce, che rinnova, che fortifica, che unisce, che conduce alla bellezza e alla pace.
Ma se le cose stanno così, perché e come è possibile che questo “amore” conduca alla perdizione e alla condanna eterna?
Qui Dante non ha una risposta pronta; intuisce, ma fatica anche solo a comprendere (prima ancora che ad accettare) che l’”amore” da lui vissuto e cantato invece di un anticipo di paradiso sulla terra al contrario possa costituire una gabbia che impedisce di arrivare a Dio e al suo Amore. In quel “Oh lasso” di fine verso 112, nel suo tenere il capo chino alle parole di Francesca e nel figurarsi perfettamente i “dolci pensier” ed il “disìo” dei due amanti romagnoli sta tutta la sua umanissima partecipazione al loro dramma. Che è anche il suo dramma. O almeno una parte del dramma per sfuggire al quale ha dovuto scrivere la Commedia.
Perché, dunque, e come è possibile che questo “amore” conduca alla perdizione e alla condanna eterna? La risposta, nel corpo del canto V, è data con chiarezza ed evidenza: sta in quel soggiogamento della ragione (e quindi della facoltà di saper riconoscere la “diritta via”) da parte dei desideri carnali che all’estremo può condurre fino al rinnegamento della vita ed alla morte: quanto successo a Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano (sempre sette!) e a più di mille tra “donne antiche e’ cavalieri”, ma quanto successo (con più chiarezza) anche ai suoi contemporanei Paolo e Francesca.
“Amor condusse noi ad una morte” dopo che “prese costui” e dopo che “mi prese del costui piacer sì forte”.
Dal punto di vista della fede cristiana e del cammino di redenzione del Dante-pellegrino il canto V ha dunque una portata grandissima, anche se la sua sintesi (che colloca i peccator carnali in alto nel secondo cerchio dell’inferno, appena sotto coloro che “non peccaro”) è ben lontana da una certa dottrina sessuofoba che ha pervaso la Chiesa nella sua storia millenaria fino ai giorni nostri.
Dal punto di vista del Dante-poeta l’omaggio reso al peccato di “troppo amore” è una delle più alte pagine di poesia che sia mai stata scritta e che è un delitto sciupare con parafrasi o commenti a pié di pagina.
Molto meglio farsi prendere dalle parole affrante di Francesca, dal silenzioso pianto di Paolo e dal loro volar “leggieri”, uniti per l’eternità.



Inferno, Canto VI
Nuovi tormenti e nuovi tormentati si trovano scendendo ancora di un livello, giù nel terzo cerchio infernale.
Dopo i peccator carnali (per contrappasso soggetti ad essere investiti e sballottati da una perenne bufera di vento, così come in vita lo furono dalle loro passioni) è ora la volta dei dannati per la colpa della gola, che sono costretti a giacere sotto una incessante pioggia fredda, sporca e “greve” per essere frammista a grandine e neve; i loro palati, avvezzi in vita ad apprezzare la prelibatezza di gusti e di sapori, marciscono ora in una fanghiglia maleodorante.
A completare la loro afflizione un altro mostro derivato dall’Ade virgiliana è il crudele Cerbero, che qui appare come una enorme fiera “diversa”, ossia composta dall’insieme di differenti caratteristiche animali: in primo luogo cane, che abbaia sopra i corpi dei peccatori, con grandi denti e unghie con cui li graffia, scorticandoli e squartandoli; ma anche viscido come un verme, con gli occhi vermigli, addirittura una nera barba bisunta (umana?) e soprattutto con tre teste che spalanca contemporaneamente.
La scena si aggroviglia sincopata in un unico latrato che accomuna Cerbero (con le sue tre teste ululanti) e la massa dei dannati che urlano, anch’essi come cani, cercando di ripararsi per un attimo sia dalla pioggia sia dai terribili versi del mostro; finché Virgilio, fatta una palla di fango, la getta “dentro a le bramose canne” e, proprio come i cani, Cerbero s’acquieta un momento preso a mordere quel pasto degno del luogo.
Dante può così proseguire la sua avanzata nel terzo cerchio, tra anime le quali giacciono tutte distese a terra, tranne una che, riconosciutolo, si alza a sedere e lo chiama:
“O tu che se’ per questo ‘nferno tratto,”
mi disse, “riconoscimi se sai:
tu fosti, prima ch’io disfatto fatto”.
Si tratta quindi di un abitante della Firenze dei tempi di Dante, un tal Ciacco di cui nulla si sa se non che in vita si lasciò evidentemente fuorviare dagli eccessi della buona tavola.
Dopo gli accenni già dati con i personaggi di Celestino V e degli stessi Paolo e Francesca entra qui in scena tutta la contemporaneità di Dante, che così grande risalto ha nell’economia della Commedia. Se il passato, infatti, ha un contenuto fondante di origine e di giustificazione, il cammino verso la salvezza del poeta non può che consumarsi nel ristretto arco della sua vita terrena. E qui al Dante-poeta e al Dante-personaggio si accosta anche il Dante-cittadino, partecipe alla vita sociale e politica, combattente, a tratti vincitore e a tratti vittima, infine esule.
A Ciacco Dante non perde l’occasione per chiedere come finiranno i conflitti tra le parti attualmente in causa (guelfi bianchi e neri) della loro città, se c’è qualcuno che può dirsi “giusto” e quale sia la ragione di tanta discordia.
E qui, con il tramite di Ciacco, Dante-poeta e cittadino confida a Dante-personaggio come stanno le cose, mischiando cronaca a commenti sui fatti di cronaca (non dimentichiamo che sussiste un lasso di 6-7 anni tra il tempo in cui la Commedia è ambientata e quello in cui è scritta).
La cronaca: dopo una lunga contesa le due parti ricorreranno alle armi e dapprima prevarranno i bianchi, ma dopo tre anni (“infra tre soli”) saranno i neri ad affermarsi, con l’aiuto del papato di Bonifacio VIII (“tal che testé piaggia”, ossia colui che in questo momento cerca di non schierarsi né con l’uno né con l’altro); e questi per lungo tempo terranno soggiogati gli avversari, nonostante il peso e la vergogna di tali persecuzioni.
Il commento sui fatti di cronaca: i “giusti” sono pochissimi (“due”) e in città non contano niente (“non vi sono intesi”); il conflitto è stato generato dalla superbia, dall’invidia e dall’avarizia; anche coloro che si adoperarono per il bene comune (vengono citati nomi noti della Firenze dell’epoca: Farinata degli Uberti, il Tegghiaio ossia Aldobrando degli Adimari, Iacopo Rusticucci, Arrigo -probabilmente Fifanti- e Mosca Lamberti) marciscono ben più in basso nell’abisso infernale, gravati da diverse colpe “tra le anime più nere”.
E’ solo un primo passaggio: altri ne seguiranno per tratteggiare con compiutezza i confini delle relazioni di Dante col suo mondo. Ciacco torce gli occhi, inclina la testa e si rituffa senza proferire più alcuna parola nella sua mota puzzolente.
Il canto si chiude con un colloquio tra Dante e Virgilio sulla portata delle attuali pene rispetto a quelle che interverranno alla fine dei tempi, dopo il giudizio universale (“la gran sentenza”); questione da approfondire più avanti giacché lo stesso poeta glissa e ci conduce al punto dove si scende nel quarto cerchio e al cospetto del “gran nemico” Pluto.

Esempio