Divina Commedia - Inferno - Canti 19 - 25

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Testo

DIVINA COMMEDIA
• Canto XIX
Cerchio VIII – Terza bolgia – Simoniaci
Dopo la bolgia degli adulatori D. e V. affrontano il vizio della simonia.
Alla sommità del ponte che domina la terza bolgia il poeta scorge lungo le pareti rocciose di color ferrigno una serie di fori di uguale dimensione analoghi ai pozzetti battesimali del Battistero di S. Giovanni in Firenze. I dannati conficcati dentro a testa in giù fino al tronco agitano le gambe per schivare la pioggia infuocata.
Un peccatore la cui pena sembra più violenta attira l’attenzione di Dante che, sostenuto da Virgilio, si avvicina al dannato: il Papa simoniaco Niccolò III.
Il Papa peccatore credendo che D. fosse il proprio successore Bonifacio VIII, sarcasticamente gli rinfaccia il peccato di simonia per il quale ha dannato se stesso.
V. invita Dante a chiarire il malinteso e il Papa rivela la propria identità, la sua colpa, la sua pena, dice che oltre a Bonifacio VIII alla stessa pena è destinato Clemente V, che si sarebbe compromesso con il re di Francia Filippo il Bello.
Lo sdegno di Dante, che non si trattiene di fronte a tale interlocutore, esplode in un’invettiva contro Niccolò II e tutti i papi simoniaci che, corrompendo la Chiesa, hanno avverato la profezia dell’Apocalisse. Causa di tale corruzione è il cattivo uso che i Papi stanno facendo del potere temporale. (Il piede di terracotta del Veglio).
Le dure parole di D. agitano il dannato ma trovano approvazione da Virgilio che, ricongiuntasi al poeta, riprende il cammino.
• Canto XX
Cerchio VIII – quarta bolgia – indovini
Dal ponte della IV bolgia Dante guarda il fondo e vede una folla che avanza lenta, come il processione tacendo e lacrimando. Osservando meglio, quando è più vicino, si accorge che il corpo è stravolto: il capo è rivolto verso le reni cosicché le lacrime bagnano le natiche. Profondamente turbato Dante piange. Vedendo le sue lacrime V. lo rimprovera. Qui essere spietati è indice di pietà; di fronte alla giustizia divina bisogna chinare il capo e guardarsi dal sentimento che sopravanza la ragione. Qui Dante osserva come sono puniti Anfiarao, Tireisa, Aronte, Manto, costretti a camminare a ritroso. L’accenno a Manto, la maga tebana, offre a V. lo spunto per cominciare a narrare l’origine della sua città natale. Comincia descrivendo la regione attorno al lago di Garda che raccoglie le acque delle valli circostanti e vede sorgere sulla sponda la fortezza di Peschiera. Emissario del lago è il Mincio che prima di gettarsi nel Po forma una palude, proprio in questa zona Manto si fermò per esercitare la sue arti magiche: qui visse e morì. Le genti dei dintorni si radunarono in quel luogo e vi fondarono la città di Mantova che conobbe momenti di grandezza prima che Pinamomnte dei Bonaccolsi non la togliesse con l’inganno ad Alberto da Casalodi. V. conclude avverrtendo che quella è l’unica versione reale sull’origine della città. D., curioso, viole conoscere il nome di altri indovini e V. gli indica Eripilo (Eneide); e tra i moderni Michele Scotto, Guido Bonatti, Asdente, e infine un gruppo di donne che si diedero alle attività divinatorie. ma ormai si va facendo tardi, la luna sta tramontando all’orizzonte di Gerusalemme ed è ora di riprendere il cammino.
CONTRAPPASSO: gli indovini hanno il capo rivolto all’indietro, procedono lentamente tacendo e lacrimando. In vita eccedettero nel parlare e ora tacciono, vollero vedere oltre il presente ed ora hanno il capo rivolto all’indietro
• Canto XXI
Cerchi VIII – quinta bolgia – barattieri
Scesi dal ponte della quarta bolgia i poeti raggiungono il punto più alto di quella successiva. Qui si fermano a guardare il fondo del fossato, più scuro degli altri, poiché il fondo è ricoperto da uno stagno di pece nera bollente, simile a quella usata nell’arsenale di Venezia. Le pareti della bolgia sono tutte imbrattate dalla pece che gorgoglia senza lasciare intravedere niente. Impaurito dalle parole di V. che lo trae verso di sé, D. si volta appena in tempo per vedere un diavolo nero con le ali aperte e l’aspetto crudele; sulle sue spalle penzola un dannato tenuto saldamente per la caviglie. Arrivato sull’orlo della bolgia il diavolo chiama a raccolta tutti i suoi colleghi e presenta loro il nuovo dannato come uno dei magistrati di Lucca; quindi scaraventatolo nella pece bollente lo raccomanda alla sorveglianza di Malebranche.
V. suggerisce a D. di nascondersi dietro una roccia mentre lui parlerà con i diavoli. Quindi appena V. è giunto sulla sesta riva viene assalito dai demoni con gli uncini levati, ma V. li blocca chiedendo di poter parlare con uno di loro. Si fa avanti Malacoda cui il poeta latino ricorda di essere già giunto in quel luogo per volere di Dio; il demone abbassa allora la guardie ordina agli altri di non toccarlo. V. richiama allora il poeta rimasto indietro che si avvicina timidamente, mentre i diavoli si fanno avanti tutti insieme levando un coro di minacce sarcastiche.
Mescolando verità e menzogna Malacoda avverte V. che non potranno proseguire oltre perché il ponte della sesta bolgia è tutto crollato, suggerisce un percorso alternativo, ma falso. Malacoda offre anche una pattuglia di diavoli come scorta.
Grande è il disappunto di D. che non gradisce quella compagnia, ma V. lo rassicura, il loro comportamento malvagio è destinato solo ai dannati.
CONTRAPPASSO: sono costretti a rimanere completamente immersi nel lago di pece bollente, se escono sono straziati dai diavoli. In vita furono sleali praticarono affari vischiosi e neri, ora bollono nella pece vischiosa e nera.
• Canto XXII
Cerchio VIII – quinta bolgia – barattieri
I due poeti vanno in compagnia dei diavoli lungo le rive della bolgia dei barattieri; nel fossato che ribolle di pece ogni tanto riemerge la schiena o il muso dei dannati che si rituffano subito nella pece prima che Barbariccia li uncini.
Uno di loro si attarda col muso fuori come una ranocchia, quel tanto che basta a Graffiacane per arpionarlo, tirarlo su per i capelli impeciati e esporlo alla mercè dei diavoli, che si fanno sotto gridando contro di lui. D. vuole sapere chi sia il dannato, e dietro richiesta di V. il dannato si presenta come Ciampolo da Navarra, di umili origini posto a servitù di un signore, poi alla corte di re Tebaldo dove si macchiò di baratteria. Ciriatto, uno dei demoni si avventa contro di lui squarciandolo con le sue zampe di porco, subito Barbariccia afferra il malcapitato, e prima che altri ne faccia strazio, rivolto a V. gli dice di continuare. V. chiede se c’è qualche italiano tra i suoi compagni di pena. Ciampolo risponde che ha appena lasciato sotto la pece uno che fu di un paese vicino all’Italia; ma di nuovo i demoni lo aggrediscono. A fatica Barbariccia riesce a trattenerli. Il dialogo prosegue e Ciampolo svela che sotto la pece insieme a lui è dannato Gomita di Gallura, e il suo compagno Michele Zanche anch’egli sardo, governatore di Logudoro.
Astutamente Ciampolo propone un patto: egli farà uscire dalla pece alcuni suoi compagni a patto che i Malebranche si tengano lontani dalla costa. Quindi tutti i diavoli arretrano e Ciampolo, scegliendo bene il tempo, punta i piedi per terra e si rituffa nella palude sfuggendo dalle braccia di Barbariccia: a nulla serve l’inseguimento di Alichino. Ma Calcabrina, cogliendo l’occasione della rissa si tuffa dietro di lui e lo artiglia. I due diavoli si artigliano a vicenda e rimangono avvinghiati nella pece bollente. Il calore li separa, ma rimangono incollati nella palude vischiosa. Barbariccia con i suoi accorrono in aiuto dei diavoli che vengono tratti in salvo con uncini.
• Canto XXIII
Cerchio VIII – sesta bolgia – ipocriti
Dopo essere fuggiti lasciando i diavoli impegnati a cavarsi dalla palude i poeti procedono soli e in silenzio lungo l’argine della palude. Di pensiero in pensiero un nuovo dubbio assale il poeta: certamente i diavoli adirati per la rissa vorranno sfogarsi su di loro e presto saranno alle loro calcagna. Impaurito D. confessa il suo dubbia a V., ma il poeta aveva già letto nella mente del discepolo e gli propone di trovare un accesso alla sesta bolgia.
Non hanno ancora finito di parlare che appaiono i diavoli furibondi, V. afferra D. e si precipita con lui giù per il pendio della bolgia successiva. Quando sono sul fondo i poeti vedono i diavoli in cima all’argine, ma impotenti perché non possono uscire dalla bolgia a cui la Provvidenza li ha assegnati. Qui D. e V.: trovano gli ipocriti che precedono lentissimi sotto pesanti cappe dorate all’esterno, ma di piombo all’interno. I poeti non riescono a camminare insieme a loro per il passo troppo lento dei condannati. Dante vuole conoscere qualcuno e una voce lo invita a fermarsi ed incontra due anime che si accorgono che D. è vivo e gli chiedono che sia. Egli, con orgoglio gli risponde di essere nato a Firenze. Catalano si presenta come frate gaudente di Bologna, l’altro è Loderingo. Sono qui condannati perché, chiamati a Firenze come podestà, favorirono liti e discordie che andavano a proprio vantaggio D. sta per lanciarsi in un’invettiva contro di loro quando gli muoiono le parole sulla labbra perché vede a terra un crocifisso con tre pali. Il dannato che si contorce è Caifa il sommo sacerdote che consigliò ai Farisei di crocifiggere Gesù: è costretto a terra, calpestato dagli altri ipocriti insieme al suocero Anna e agli altri partecipanti al Sinedrio. V. chiede indicazioni per uscire dalla bolgia, ma Catalano gli dice che tutti i ponti sono rotti e che si devono arrampicare su per la frana; solo allora V. si accorge di essere stato ingannato da Malacoda.
• Canto XIV
Cerchio VIII – settima bolgia – ladri
Così come il contadino, che all’inizio della primavera si stupisce quando vede la campagna ricoperta di brina, che crede neve, e si dispera, ma si rasserena subito quando vede sciogliersi la brina; D. è preoccupato per l’espressione accigliata di V., ma quando vede che il maestro, alla frana del ponte della VI bolgia si rivolge a lui con serenità e dolcezza , si placa. V. spinge D. su per l’erta franosa e gli consiglia i punti più facili D. è stanco e si siede per riposarsi, ma V. lo ammonisce che bisogna abbandonare la pigrizia perché li attende una ascesa lunga e difficoltosa.
Salgono per il ponte della settima bolgia molto stretto, D. parla per non mostrare stanchezza, quando sente una voce dal fondo. D. si sporge e guardando giù gli appare il terribile spettacolo della bolgia piena di serpenti tra i quali corrono, nude, le anime dei dannati con le stesse serpi intorno al corpo. Un’anima viene trafitta al collo, si infiamma e crolla a terra incenerita; quando la cenere si ricompone nella forma originaria appare un’anima con sguardo smarrito e trasognato. V. domanda chi sia: con feroce arroganza si presenta Vanni Fucci di Pistoia, fiero di essere più bestia che uomo. D., conoscendolo come un omicida, gli chiede perché si trovi tra i ladri. Vedendosi scoperto Vanni Fucci ammette di essere l’autore del furto sacrilego nella cappella di S. Iacopo nel duomo di Pistoia. Egli, per vendicarsi, predice a D. che se a Pistoia prevarranno prima i Bianchi, poco tempo dopo Firenze sarà presa dai Neri e con l’aiuto di Moroello Malaspina sconfiggeranno i Bianchi di Pistoia a Campo Piceno.
• Canto XXV
Cerchio VIII – settima bolgia – ladri
Dopo la profezia Vanni Fucci fa un gesto blasfemo, due serpi gli serrano la gola e lo immobilizzano. Allora D. esplode contro la città di Pistoia piena di banditi che deve essere incenerita come Vanni Fucci. Vanni Fucci fugge e lo rincorre un centauro infuriato, ricoperto di serpi e sulla spalle ha un drago alato che sputa fuoco. È Caco punito per aver rubato gli armamenti di Ercole.
Tre spiriti si avvicinano ai poeti e uno si chiede dove sia finito Cianfa. Improvvisamente un serpente si lancia addosso ad uno dei tre dannati e si avvinghia a lui; così avviluppati prendono fuoco e le loro fattezze si mescolano. Uno dei due dannati si chiama Agnolo, che è ormai diventato irriconoscibile, il suo corpo è un essere ibrido e si allontana a passi lenti portandosi dietro sia l’anima di Agnolo Brunnelleschi, sia quella di Cianfa Donati. Fulmineo come un ramarro sotto l’afa estiva arriva un serpentello nero che schizza fuoco e si dirige verso l’ombelico di uno dei due dannati. Uomo e serpente per un attimo si fissano: sta per compiersi una metamorfosi più strana di quella di Ovidio. La coda del serpente si divide in due e prende le fattezze di gambe, la sua pelle diventa molle e liscia e quella dell’uomo si inspessisce e si fa squamosa. Le gambe dell’uomo si ritirano e le zampe della serpe si allungano. L’essere umano trasformato in rettile cade a terra e l’altro si leva in piedi. Così l’anima diventata serpe fugge sibilando l’altra si ferma e, rivolta all’unico superstite, dice che è suo desiderio che quel Buono strisci per la bolgia come lui ha fatto finora. Dante, confuso, riconosce i due fiorentini rimasti. L’uno è Puccio Sciancato, l’altro, quello che da serpe si è fatto uomo, è Francesco Guercio dei Cavalcanti.

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