"Myricae" di Giovanni Pascoli

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Categoria:Letteratura Italiana
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Testo

Pascoli -Tematiche presenti nella raccolta Myricae e tecnica impressionistica dell’autore

Giovanni Pascoli nasce nel 1855 a San Mauro, in provincia di Forlì. A soli dodici anni rimane sconvolto dall’uccisione del padre, e, dopo la morte della madre è costretto ad abbandonare gli studi. In seguito riesce ad iscriversi alla facoltà di lettere dell’Università di Bologna. Nel 1906 viene chiamato a sostituire Carducci, che già era stato suo professore alla cattedra di letteratura italiana. Delle sue raccolte di poesie, la prima e anche la più famosa, uscita per la prima volta nel 1891, con successive ristampe e correzioni, è Myricae.

In “Myricae” emergono i temi principali della natura, della morte, del poeta, dell’orfano, e in ogni poesia ricorre almeno uno di essi.

La natura è il tema dominante delle sezioni “Ricordi” e “In campagna”.
“Ricordi” comprende le più antiche poesie di Myricae, le immagini della natura sono fantastiche, o idilliache, e anche la musicalità della poesia non è ancora particolare come nella produzione successiva.
Nella poesia “Il Bosco” si fondono insieme le influenze classiche e quelle parnassiane-simboliste.. In un bosco che spira “la malìa”, “vivono i fauni ridarelli”, più veloci dei venti, e le ninfe. Ma quando essi si dileguano, “è pur viva la boscaglia,/ viva sempre ne’ fior della pervinca/ e nelle grandi ciocche dell’acacia”. E’ una sottile simbologia: la poesia sopravvive anche senza gli spunti mitologici, come impressione naturale.
In “I puffini dell’Adriatico” le numerose impressioni visive e uditive di un’alba calma e serena creano un’atmosfera idilliaca: “un rigo di carmino/ recide intorno l’acque marezzate”, “E’ un’alba cerulea d’estate:/ non una randa in tutto quel turchino”; le voci dei puffini sono “oziose e tremule risate (...) su le mute ondate”, simili a “un vociare, per la calma, fioco,/ di marinai (...) quando, stagliate dentro l’oro e il fuoco,/ le paranzelle in una riga lunga/ dondolano sul mar liscio di lacca”.
Nella sezione “In campagna” la natura comunica solitudine, sconcerto, o nasconde la presenza latente della morte.
Fa parte della sezione, tra le altre, “Nella macchia”, che sin dal primo verso lascia trasparire una solitudine e una malinconia estreme: “Errai nell’oblio della valle”. Il concetto viene ripreso all’inizio di ogni terzina, creando un senso di angoscia crescente: “errai nella macchia più sola”, ”errai per i botri solinghi”, “Io siedo invisibile e solo”, “Io siedo invisibile e fosco”. Il “cantico di capinera” che “si leva dal tacito bosco”, pare una presenza consolatrice, in quanto “ripete,/ Io ti vedo”.
Nella poesia “Il bove”, il poeta immagina che gli occhi del bue vedano ogni cosa ingigantita, diversa da come la vediamo noi: “nel piano/ che fugge, a un mare sempre più lontano/ migrano l’acque d’un ceruleo fiume”, che probabilmente altro non è che un ruscello, “ampie ali aprono imagini grifagne/ nell’aria”: così il bue vede gli uccelli, le nubi divengono l’apparenza dietro cui si celano “tacite chimere”. Confrontando la poesia con “Il bove” di Giosuè Carducci, che oltre al titolo ha in comune con la poesia pascoliana anche il metro, in cui l’animale è “solenne come un monumento” e infonde “un sentimento di vigore e di pace”, possiamo capire come siano differenti le sensibilità dei due poeti: Carducci ci dà un senso di realtà rassicurante, Pascoli al contrario ricrea la natura in maniera distorta e, proprio per questo, incute paura: “Il sole immenso, dietro le montane/ cala, altissime: crescono già, nere,/ l’ombre più grandi d’un più grande mondo”.
Anche in “Novembre” la natura assume una dimensione particolare: l’estate di San Martino con la sua aria “gemmea” porta l’illusione di vedere albicocchi in fiore e di sentire l’odore del prunalbo, ma le piante sono secche, “stecchite”. Le immagini che si susseguono diventano man mano più inquietanti: “vuoto è il cielo”, in quanto il poeta non si aspetta più nulla da esso; “cavo (...) sembra il terreno”, perché, essendo ghiacciato, risuona sotto il piede, come se fosse scavato in attesa di una bara; infine, il “cader fragile” di foglie richiama la caducità umana. Nella conclusione (“E’ l’estate, / fredda, dei morti”) si vengono così a sovrapporre due giorni di Novembre: il giorno di S. Martino (l’11), e il giorno dei morti (il 2), e il messaggio finale della poesia è che dietro l’armonia della natura si nasconde la presenza della morte.
Come si è potuto notare, in componimenti come “Novembre”, la natura è solo apparentemente armoniosa e consolatrice, a volte, come ad esempio in “X Agosto” è contrapposta alla malvagità dell’uomo.
Nella poesia il poeta racconta la morte del padre Ruggero, ponendola in parallelo con la morte di una rondine che, come lui, ha lasciato la casa priva di sostentamento e, soprattutto, del suo amore. Le stelle cadenti vengono definite “gran pianto”, e nella sesta strofa il poeta dice che il Cielo inonda la terra “d’un pianto di stelle”: potrebbe sembrare che biasimi l’uomo malvagio o che compatisca chi subisce le ingiustizie proprie del mondo umano, ma in realtà è semplicemente distante: la rondine “tende/ quel verme a quel cielo lontano”, l’uomo “addita/ le bambole al cielo lontano”.

Il tema della natura è molto strettamente legato con quello della morte.
Ad esempio nella sezione “Alberi e fiori” varie poesie simboleggiano la vita e la fine di essa. “Nel Giardino”, propone un tramonto autunnale: “or che ottobre (...) il marzo rende morto al suolo” la bacca rassomiglia al bocciuolo, l’alba al tramonto, è come se la vita e la morte si venissero a confondere. Il giorno sembra esalare dalle cime degli alberi, e il cuore si chiude in una “pia ombra”, e si aprono corolle di cui non si è visto formare il bocciolo, sensazioni di cui non si sa l’origine.
In “Rosa di macchia” assistiamo alla contrapposizione tra una rosa centofoglie, che, colta da una montanina, lascerà il rosaio spoglio, e una rosa canina, ignorata, che brillerà di bacche “nel lutto/ del grigio inverno”. A questa immagine si aggiunge la riflessione sulla ragazzina che prima passava “stornellando” e che “risalirà muta,/ forse, una sera”, simbolo dei giorni giovanili che la vita spegnerà.
Spesso l’ispirazione per le poesie inerenti il tema della morte è l’esperienza personale, in quanto dal momento della morte del padre, Pascoli si sentì “per tutta la vita bloccato sulla figura fantasmatica del padre assente e latente, che l’ha privato (...) del sostegno, del nutrimento, della viscerale protezione del nido ormai derelitto” (A. Marchese). Il poeta tentò di ricreare il nido con le sorelle, ma il tentativo fallì col matrimonio della sorella Ida.
“Myricae” si apre infatti con il poemetto “Il giorno dei morti”, in cui il poeta, guardando il camposanto, ripensa alla propria famiglia e ai tanti lutti che hanno segnato la sua esistenza. Il cimitero diventa però come una nuova casa, un nuovo nido per la famiglia finalmente riunita, che continua tuttavia a piangere: “Sazio ogni morto, di memorie, posa./ Non i miei morti. Stretti tutti insieme,/ insieme tutta la famiglia morta, (...) stretti così come altre sere attorno al foco (...) piangono.”
Alla morte della madre sono dedicate le tre poesie intitolate “Anniversario”: nella prima il poeta rievoca gli anni vissuti con lei e le sensazioni provate da bambino, nella seconda si rivolge a lei raccontandole del nido ricreato con Ada e Maria, nella terza la figura della madre reca consolazione, ma vi è pur sempre presente l’immagine della sua tomba lontana e fredda.
Della già citata “X Agosto”, è interessante analizzare la forma, confrontandola con quella di un’altra poesia incentrata sulla morte, “Ultimo sogno”: la prima, di evidente ispirazione autobiografica, da un lato presenta una forma molto semplice, dall’altro instaura un gioco di parallelismi tra l’uomo e la rondine, trasformando la semplice narrazione della tragedia delle due creature in simbolo della tragedia universale; la seconda è tutta incentrata sul fonosimbolismo: il “fragor di carriaggi/ ferrei”, e gli “schiocchi acuti e fremiti selvaggi” danno l’idea degli incubi che assalgono il poeta durante la febbre, il “fruscio/ sottile, assiduo, quasi di cipressi;/ quasi d’un fiume che cercasse il mare/ inesistente” è simbolo della vita che corre sempre più lontano, verso una meta oscura.
Simile a “Ultimo sogno” per struttura e tematica è “Scalpitio”, pubblicata per la prima volta col titolo “La morte”. E’ metaforica l’intera descrizione di un “galoppo lontano” che viene “con tremula rapidità”: all’inizio potrebbe sembrare essere un cavallo, ma il dubbio è insinuato sin dal v.2 con una reticenza (“è la…?”), dietro la quale si nasconde probabilmente la parola ‘morte’, che inizialmente costituiva il titolo della poesia e che nell’edizione definitiva viene esplicitato solo nell’ultimo verso, ove viene ripetuta tre volte, come un urlo di terrore. Da questo galoppo fugge qualche uccello “smarrito/ che scivola simile a strale”, e l’allitterazione conferisce l’idea della rapidità della freccia (in chiave metaforica, della morte). Oltre alle figure retoriche, anche la metrica, con la ripetizione sempre uguale degli accenti, crea una musicalità cantilenante, un crescendo di tensione (“Un piàno, un desèrto infinìto;/ tutto àmpio, tutt’àrido, eguàle”), e i due versi ternari spezzano questa ripetizione sempre uguale, ma non la suspense: anzi, l’accrescono proprio perché, creando una pausa, aumentano l’alone di mistero.
In “Morte e sole”, il poeta riflette su come l’uomo tenta di penetrare il segreto della morte, ma fissandola, “costellazione/ lugubre (…) in un cielo nero”, è come se guardasse il sole: rimane abbagliato e alla fine vede solo “un voto vortice”.
Nella poesia “Morto”, un bambino “nel sonno grande” (il sonno della morte), stringe i pugni, come se avesse in mano qualcosa a lui caro, come faceva sempre di notte, accorgendosi poi al mattino di non avere nulla. Quello che stringe ora è il dono dell’Angelo, la morte, e il pugno vuoto rappresenta la vuotezza e la vanità della vita.

Per quanto riguarda il tema del poeta, sono dedicate a questo tema due intere sezioni della raccolta, “Le pene del poeta” e “Le gioie del poeta”, che insieme formano una sorta di manifesto estetico.
Della prima fanno parte, tra le altre, “Il cacciatore”, in cui Pascoli paragona il poeta a un cacciatore che insegue un’idea, ma mettendola per iscritto, col verso la uccide come la freccia uccide l’uccellino “gola d’oro e occhi di berilli”, “sirena” del cielo, e “Le femminelle”, in cui una rosa alba su cui crescono numerose femminelle, ossia germogli sterili, è simbolo degli artisti e dei numerosi parassiti che vivono sfruttando le fatiche altrui.
Della seconda fa parte “Il miracolo”, che è il miracolo della poesia, capace di rendere veggenti (“Vedeste, al tocco suo, morte pupille!”). E’ interessante da analizzare in quanto presenta numerose analogie col celebre sonetto “Voyelles” di Rimbaud: ognuna delle strofe è caratterizzata dall’insistere su un colore (rispettivamente azzurro, bianco, verde, azzurro nuovamente, rosso e nero) e su una vocale (i, a, e, e, i, u), come a stabilire una coincidenza tra colori e suoni.
Il concetto che il poeta sia veggente, e voglia far vedere a tutti le cose sotto la luce in cui appaiono a lui, è presente anche nella poesia “Alba”. All’alba tutti gli uccelli si risvegliano, finché si sveglia una rondine che sembra creare all’improvviso la luce del giorno: “virb... disse una rondine; e fu/ giorno”. La rondine è qui simbolo del poeta, che nell’oscurità della vita sa portare la luce col suo canto.

Un altro tema molto presente all’interno di “Myricae” è quello dell’orfano, che ritroviamo in molte poesie, le già citate “X Agosto”, “Il giorno dei morti”, le tre intitolate “Anniversario”, ed in altre come “Ida e Maria”, in cui il poeta rivela il profondo affetto che prova per le sorelle “mani d’oro”, con cui aveva tentato, come già accennato, di ricomporre il nido di cui era stato privato.

Infatti anche il motivo della casa e del nido è uno dei più ricorrenti, specialmente quando gli argomenti sono la morte e l’orfanezza, proprio perché è l’ossessione della morte che si traduce nell’ “erezione della roccaforte del nido quale ultima difesa dal mondo” (Marchese). Alle poesie già analizzate potremmo aggiungere “Patria”, in cui il poeta sogna di tornare a San Mauro in un giorno d’estate: la descrizione del paesaggio, descritto con rapide impressioni per dar l’idea di ricordi spezzati, si conclude con l’immagine del cane che non riconosce più il padrone per la lunga assenza, scena in netta antitesi con quella, immediatamente richiamata alla mente, di Argo, cane di Ulisse che riconobbe il suo padrone assente da vent’anni e morì, di vecchiaia e consunzione, dopo averlo rivisto.

Per quanto riguarda lo stile del poeta, è importante puntualizzare che spesso Pascoli descrive scene che possono sembrare realistiche, ma che in realtà non lo sono affatto, sia perché, con la descrizione di quadretti pastorali della sua Emilia, egli simboleggia altre realtà, sia per il linguaggio che utilizza, eterogeneo e assai composto, che si può definire impressionistico.
Il poeta usa infatti un linguaggio pregrammaticale, cioè anteriore alla regola, che sfugge alle norme della grammatica (è il caso delle onomatopee), accostato ad un linguaggio postgrammaticale, ossia un lessico tecnico (nel caso della nomenclatura di uccelli e piante) o al contrario anche gergale o colloquiale. A tutto ciò si uniscono ossimori (“tacito tumulto”, “estate fredda”, “tenebra azzurra”), sinestesie (“restò negli aperti occhi un grido”, “voci di tenebra”), sintagmi in cui la costruzione è diversa dal solito (“tanto di stelle”, “nero di pece”, “alba di perla”) e vi è un uso frequentissimo della frase nominale. Come fa notare Gianfranco Contini, studioso di filologia e letteratura, analizzando il linguaggio di Pascoli, che sfugge a ogni regola, emerge un rapporto critico e conoscitivo fra l’io e il mondo, mentre chi ha un’idea sicura e precisa dell’universo e dei rapporti esistenti in esso, utilizza un linguaggio ben determinato da regole.
Come infatti scriverà nel famoso saggio Il Fanciullino, Pascoli intende la poesia come una forma diversa di approccio alla realtà: per lui il poeta deve rappresentare oggetti e realtà come farebbe un fanciullino che vede tutto per la prima volta: con meraviglia, e senza far riferimento a realtà troppo usurate.

Nell’epoca del positivismo e del naturalismo, in cui nascono la psicologia e la criminologia, scienze che paiono esatte e che perciò danno all’uomo gran fiducia in sé, un atteggiamento come quello di Pascoli è raro se non unico, e questo fa di lui un poeta all’avanguardia, primo annunciatore della poesia del Novecento.

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