Materie: | Appunti |
Categoria: | Latino |
Download: | 1023 |
Data: | 09.09.2008 |
Numero di pagine: | 24 |
Formato di file: | .doc (Microsoft Word) |
Download
Anteprima
virgilio_13.zip (Dimensione: 21.83 Kb)
trucheck.it_virgilio.doc 70 Kb
readme.txt 59 Bytes
Testo
VIRGILIO
Nacque ad Andes, probabilmente l’attuale Pietole, vicino a Mantova. Nella presunta sua introduzione all’Eneide dice “MANTUA ME GENUIT”. Su di lui ci sono numerose leggende, che si devono a Servio e Donato, i suoi biografi più grandi, che parlano di povertà di origini, topos del poeta. Secondo queste leggende, Virgilio sarebbe figlio di un vasaio, che ha sposato una donna che aveva delle terre. Ma Virgilio studiò a Mantova, Milano, Roma e Napoli: non era poi così povero! Il vasaio è un artigiano che occupa una posizione bassa socialmente ed economicamente, ma che rispetto agli altri artigiani ha qualcosa di artistico: facendo fare l’artigiano a suo papà si attribuisce una vena artistica genetica a Virgilio; e non sapendo dove mettere le terre, le attribuirono alla madre. In realtà Virgilio era figlio di proprietari terrieri; quella zona era fertile, quindi la famiglia era benestante. Virgilio rimase sempre legato a quelle terre; nelle Georgiche si lamenta che Mantova è troppo vicina a Perugia: dopo le guerre civili le terre vicine a Perugia furono espropriate; Asinio Pollione e Cornelio Gallo protessero la famiglia ed evitarono l’esproprio (questo indica che la famiglia era importante!). Però non scamparono alla seconda fase di esproprio: i due vennero sostituiti e non c’era più nessuno che li proteggesse. Mecenate gli diede comunque una casa importante a Roma e un’altra a Napoli (dove frequentò la scuola epicurea). Era soprannominato VIRGO per la sua timidezza: se era timido le conoscenze altolocate deve per forza averle ottenute tramite la famiglia che quindi doveva essere importante.
All’epoca di Virgilio erano frequenti personaggi illustri che raccoglievano attorno a sé letterati per offrire loro tranquillità economica. Virgilio colpito dalla confisca dei beni andò nel circolo più famoso, quello di Mecenate (altri erano Asinio Pollione, Messalla Corvino). Mecenate era di origine etrusca, a Roma era un eques, ricchissimo; attorno a sé raccolse i migliori autori e li indirizzò verso Augusto. Tradizionalmente Mecenate era considerato la congiunzione fra gli artisti e il potere; oggi si pensa a Mecenate non solo come uomo di cultura che indirizzava gli artisti verso Augusto, ma che anche influenzava Augusto, quasi un consigliere politico, molto abile. Fra gli artisti del suo circolo, Orazio compose solo un’ode romana, cantando solo qualche elemento della politica di Augusto; Virgilio invece fece molto meglio: non era il “poeta di corte” di Augusto, ma sentì e fece proprio il messaggio di Augusto. Nelle Georgiche dice “TUA, MECENAS, HAUD MOLLIA IUSSA”: gli ordini di Mecenate erano molto severi. Annuncia la prossima pubblicazione di un’“Augusteide”, un poema epico impostato su Augusto; Virgilio arriva invece ad un’“Eneide”, dove canta i valori attraverso un eroe passato, unendo storia e mitologia. Un poema epico nasce quando ci sono valori condivisi da tutti: l’epoca si è identificata in blocco con questi valori. L’Eneide non è un’opera su commissione, è molto sentita. Ha delle remore logiche: è figlia del neoterismo (sperimentalismo) da cui eredita il preziosismo: c’è grande attenzione per la scelta delle parole, l’uso della lingua.
Virgilio compì un viaggio in Grecia al ritorno dal quale si ammalò e morì. A Brindisi, prima di morire, incontrò Augusto e lo pregò di distruggere l’Eneide perché non era perfetta per le critiche del neoterismo. Alcuni versi sono proprio incompleti, però lui la vede tanto imperfetta perché ha alle spalle una tradizione così. Il dramma di Virgilio venne ripreso da un romanzo “Morte di Virgilio”: un uomo sente di non aver completato ciò che voleva e vuole che tutto muoia con lui. Augusto capisce che quest’opera può avere grande potere politico e ordina a Varo e Teca di revisionarla: non si sa bene come sia stata revisionata perché ci sono ancora moltissime imperfezioni e versi incompleti. Difficile pensare che fosse ancora peggio! Comunque viene pubblicata e diventa il poema epico ufficiale Romano oscurando Ennio.
Appendix Vergilianis
Si discute che sia l’opera giovanile di Virgilio. È improbabile che Virgilio cominci a scrivere pubblicando le Bucoliche: deve per forza esserci un’opera precedente, giovanile, con forte influenza del neoterismo. La critica è completamente in disaccordo sull’attribuzione a Virgilio dell’Appendix: c’è chi dice che è tutta di Virgilio e chi dice che è interamente opera di imitatori di Virgilio; tra queste due posizioni ci sono tutte le gradazioni possibili. Il Conte non l’accetta interamente: è una posizione eccessiva; probabilmente solo alcuni sono di Virgilio, in questi è possibile identificare delle intuizioni del Virgilio adulto che preannunciano il Virgilio seguente. L’Appendix comprende:
• Etna: poemetto scientifico, opera epicurea, è solo un’esposizione scientifica non tanto giusta. Non è sua, non è il suo stile.
• Copa: inno alla giovinezza e alla vita: è troppo solare per essere attribuita a Virgilio, che ha una visione triste della vita.
• Moretum: descrizione di una focaccia, probabilmente non è sua.
• Culix: significa zanzara. Un contadino sta dormendo, viene svegliato da una zanzara che lo punge; il contadino uccide la zanzara. Poi si accorge che lì vicino c’è un serpente che lo stava per morsicare, allora ringrazia la zanzara per averlo salvato: le rende gli onori funebri, c’è la descrizione della zanzara che scende negli Inferi. Quest’opera si riallaccia al neoterismo, quando gli autori cantavano gli onori funebri per il cagnolino, il pappagallo, il passero. Per di più è presente il problema della morte e la visione dell’oltretomba. C’è la visione negativa della vita tipica di Virgilio: la zanzara ha fatto del bene ma è stata uccisa. Chi sostiene che quest’opera non sia di Virgilio dice che Virgilio nell’Eneide ha cantato la discesa agli Inferi di Didone: questa è un’esercitazione scolastica per la sproporzione fra la zanzara e l’eroe, che risente del discorso dell’Eneide dal quale hanno copiato delle espressioni.
In ogni caso un’opera giovanile deve esserci da qualche parte, non può essere partito scrivendo le Bucoliche: ci vanno delle opere “di prova”, meno riuscite, non si sa se siano l’Appendix, una parte di esso o un’altra opera persa o anche distrutta da lui, come avrebbe voluto fare con l’Eneide.
Bucoliche
Sono 10 racconti di argomento pastorale. È il rifugio in una campagna idealizzata, diversa dalle Georgiche, dove si lavora pesantemente e si muore. Le Bucoliche sono la campagna dei pastori, che mentre il gregge pascola cantano i loro amori, fanno gare poetiche. È un mondo idilliaco, senza fatica, un mondo di sogni. È il mondo che Virgilio si è costruito cacciato dalla sua terra, dopo aver vissuto le guerre civili. Si distinguono due generazioni di autori che hanno operato in epoca augustea: la prima generazione è quella di Livio, Orazio, Virgilio, Tibulio ecc.: autori vissuti nelle guerre civili, generazione che si è formata prima di Augusto e ha visto la differenza fra le guerre civili e il nuovo impero; vedono in Augusto la possibilità di avere tempi migliori. La seconda generazione è rappresentata principalmente da Ovidio. È nata sotto Augusto, non ha visto la differenza fra l’epoca Augustea e quella delle guerre civili, si è adattata in questa magna quies perdendo di vista i valori che la generazione prima aveva dovuto conquistarsi.
Virgilio fu cacciato dalla sua terra: è il proprietario terriero legato alla sua terra, che sa che la terra richiede fatica ma ricompensa il duro lavoro. Allontanato dalla terra si crea un mondo nuovo, che è evasione dalla realtà, basato su principi epicurei: è una vita semplice che non bada al potere né alle ricchezze, apparentemente serena e tranquilla. Virgilio poi supererà l’epicureismo.
La poesia bucolica nasce in periodo ellenistico: Teocrito, di origine siciliana, porta ad Alessandria questo genere popolare rendendolo dignitoso. Era tipico dei pastori cantare per far passare il tempo dei canti, con una strofa a testa. Forse facevano anche delle gare. Viene resa poesia artistica con regole formali, non più improvvisata; Virgilio la conosce.
Il mito dell’Arcadia non è da confondere con la poesia bucolica! Nel mondo antico però si possono identificare? Si pensava di sì, quindi si identificava Teocrito, inventore della poesia bucolica, con l’inventore dell’Arcadia. Però Teocrito non cita mai l’Arcadia: è un po’ strano che l’inventore dell’Arcadia non ne parli mai! Non si sa da cos’abbia origine l’Arcadia: ne parla Polibio, ma non come mondo di pastori con un locus amoenus: Polibio dice solo che nell’Arcadia c’erano cantori abili, ma non dice che erano cantori bucolici. Scartato Teocrito, si tende a dire che Virgilio sia l’inventore dell’Arcadia: è il primo, nella decima egloga, ad ambientare le bucoliche nell’Arcadia. Canta infatti l’amore di Cornelio Gallo per una donna, da cui è stato lasciato. Usa la frase “Amor omnia vincit” che torna nelle georgiche come “labor omnia vincit”.
L’Arcadia di Virgilio è a metà fra un locus amoenus e un locus horridus: l’ambiente trasmette la disperazione di Cornelio.
Le Bucoliche furono composte ben prima dell’impero, in un momento in cui spera che le guerre civili siano finite, però la situazione non è piacevole, c’è una fuga da una realtà che non accetta, si costruisce un rifugio dove i principi epicurei costituiscono una barriera. I dotti ellenistici disponevano la propria opera in ordine cronologico, ma disponevano nell’opera i vari pezzi con qualche ordine. Virgilio qui fa la stessa cosa: alterna pezzi dialogati e pezzi continui, risponde ad un determinato ordine che non c’entra con la cronologia in cui sono state composte le egloghe.
La prima egloga dà il tono. È un dialogo fra due uomini, Titiro e Melibeo; uno resta nei campi, l’altro non ha più la terra e deve affrontare l’incerto. Quello che se ne deve andare ritiene l’altro FORTUNATO: fortunatus, felix, infelix sono termini chiave in Virgilio. Fortunatus è un termine che viene usato da chi vede un altro più favorito di lui nella fortuna, mentre chi è fortunato non riconosce i propri beni. Chi è cacciato non prova invidia, ma ritiene l’altro fortunato. I versi 79-83 sono una tipica descrizione virgiliana di un locus amoenus per indicare il luogo dove il fortunato può rimanere. Il paesaggio dovrebbe essere amoenus, allontanamento dalla realtà; si confronta con una descrizione di Teocrito, negli Idilli.
Teocrito descrive una campagna siciliana d’estate, abbondante, è primo pomeriggio, ma il calore non è eccessivo perché il sole è mitigato da un ruscelletto e da un grosso albero.
Virgilio descrive un paesaggio autunnale, di sera, con un monte che blocca l’orizzonte, l’idea del buio che scende, ci sono mele, castagne, formaggio: tinte scure, sfumate, c’è monocromatismo, tinte verso lo scuro. È un paesaggio triste.
Sono due paesaggi diversi, due mondi diversi. Quello di Virgilio è la proiezione del mondo interiore; la natura che muore, il monocromatismo: indica un addio. Dovrebbe essere un paradiso, ma la realtà entra. In altre egloghe subentrerà la morte. Virgilio non riesce a dare un significato alla morte, non ha senso questo rifugio da cui si è esclusi. Titiro non ha fatto niente per rimanere nel suo paese. È un mondo di inerzia, un paradiso statico. Un mondo che dovrebbe essere felice, non è pagato da niente. Ma è già grigio; non si sa se l’amore sia felice o no. È il fallimento della ricerca, la realtà, con l’infelicità e la morte, è entrata lo stesso nel rifugio che si era costruito. La vita e la morte non trovano risposta nelle bucoliche.
L’egloga IV rappresenta un’eccezione. L’argomento è diverso, canta qualcosa di più grande: l’attesa di un periodo. È presente la visione ciclica del tempo, elemento stoico. Nascerà un bambino che farà rivivere una nuova età dell’oro. Virgilio descrive come sarà quest’età: la natura è abbondante, gli animali vanno d’accordo, la natura produce i prodotti già lavorati, l’uomo è sereno perché non gli manca nulla. È una visione epicurea, anche se l’epicureismo rifiuta l’età dell’oro, perché la felicità è materiale. È il mondo della serenità. Si è discusso su chi sia questo bambino.
• L’interpretazione medievale (nella quale anche Dante crede) fa di Virgilio un precursore del Cristianesimo, un profeta. È assurdo perché Cristo non è vissuto in un’età dell’oro, e anche storicamente non c’entra niente. Quest’interpretazione fa dell’Eneide un poema allegorico.
• Asinio Pollione attendeva un bambino: potrebbe essere un omaggio per ringraziarlo di avergli salvato la terra. Quest’interpretazione indica che c’è il desiderio di rinascita di un mondo diverso.
• Qualcuno pensa che sia il figlio atteso da Augusto e Scribonia: ma non può essere, perché nasce Giulia.
• Potrebbe rappresentare la speranza che i Romani nutrono di non avere altre guerre civili: nascita di un mondo nuovo. Sono i Romani che rinascono, l’età rinasce, senza guerre ma con serenità. È il momento di maggiore illusione di Virgilio.
Comunque si può identificare sia con un bambino reale, sia con la rinascita dell’umanità; l’unica cosa che cambia è se alla base c’è anche un intento encomiastico.
La decima egloga parla di Cornelio Gallo, amico di Virgilio. L’amore diventa il motivo centrale della vita di Gallo e la massima disperazione. AMOR OMNIA VINCIT, l’uomo si arrende di fronte all’amore.
Le bucoliche rappresentano quindi un mondo che nasce male (la prima egloga è triste, c’è dolore), ed è un paradiso che non salva perché non guarisce le disperazioni (X egloga). Risentono di esperimenti neoterici: c’è una grande conoscenza della natura, delle piante e amore per questi, c’è tanta raffinatezza. Si nota l’adesione piena all’epicureismo, c’è un tentativo di usare l’epicureismo come salvezza da una realtà deludente. Però fallisce: se è riuscito dal punto di vista poetico, fallisce nella ricerca. È un mondo che va superato, e tenterà di superarlo con le Georgiche.
Georgiche
Sono presentate come stretti ordini di Mecenate (è appena finita la battaglia di Filippi). Vengono definite un’“opera didascalica”. Seneca diceva che c’erano degli errori nell’ambito delle colture: è un poema didascalico, ma non è un manuale di agricoltura. Già “Le Opere e i Giorni” di Esiodo non erano semplicemente un manuale di agricoltura. Qui c’è la giustificazione del lavoro dell’uomo. Non è un’opera commissionata: è un’opera sua in cui esprime sia le sue concezioni sia quelle Augustee. Sono l’opera del LAVORO. Se le Bucoliche erano una fuga dalla realtà, nelle Georgiche cerca qualcosa lottando (LABOR LIMENS). C’è contraddizione fra IUSTISSIMA TELLUS, la terra giustissima che produce tantissimo rispetto al poco lavoro dell’uomo, e il LABOR IMPROBUS, il lavoro pesante per produrre qualcosa. Sembra una contraddizione, ma è conciliata. La terra è generosa con il contadino, ma il contadino le deve dare tanto lavoro. L’uomo lotta insieme alla terra per produrre.
Le georgiche partono dall’annullamento dell’età dell’oro ma non visto negativamente. Capovolge la concezione del paradiso, che diventa un luogo dove si lavora, ma resta bellissimo: Giove ha voluto che l’uomo avesse la soddisfazione di ottenere qualcosa con il lavoro. Il Padre non ha voluto che l’uomo si intorpidisse, gli ha aggiunto delle difficoltà e gli ha nascosto quello che c’era perché l’uomo avesse soddisfazioni. Ha fatto sì che i contadini fossero fortunati.
Le Georgiche sono divise in 4 libri, che corrispondono a 4 settori:
• Coltivazione della terra
• Coltivazione degli alberi
• Allevamento degli animali
• Allevamento delle api
Il lavoro dell’uomo è man mano meno faticoso: non è casuale, comincia subito col parlare del labor improbus per mettere subito l’uomo davanti alle difficoltà. Vede i campi abbandonati per le guerre civili: immagina un contadino che dissoda un campo e ci trova un elmo sotto. È una generazione che non ne può più delle guerre civili: c’è in tutta l’opera una fortissima esortazione al ritorno alla pace.
Nelle Bucoliche dolore e morte entrano colpendo indistintamente uno o l’altro.
Nelle Georgiche anche, anche se non dovrebbe essere così. L’uomo vive nascosto, senza cercare dolori, e l’uomo che lavora non dovrebbe trovarli: invece non è così, anche questo mondo fallisce.
Virgilio vede il dolore e la morte non nell’uomo, ma negli animali: descrive la peste del Norico. È un locus horridus da cui viene la pestilenza, che non tocca l’uomo. È la malattia più pesante che c’era mai stata a Roma. Ci sono gli animali che dopo il lavoro arrivano quasi a coglierne il frutto, ma muoiono prima di mangiare, prima di poterlo cogliere. L’umanizzazione degli animali è visibile anche in un toro, che sconfitto da un altro toro se ne va pingendo. Un cavallo (da sella, non da tiro) sta morendo: infelice, vacilla, non ricorda più le corse che faceva, presenta tutti i sintomi della peste che colpiva gli uomini (sudore ecc.). Risente della peste di Atene descritta da Lucrezio; non è un omaggio, ma trasferisce agli animali i sintomi che erano degli uomini. Un toro crolla mentre sta faticando (non è giusto!) e l’altro toro è triste per la morte di suo fratello; anche l’aratore è triste, ma la sua tristezza è diversa. La morte coglie gli animali non solo in un momento in cui non ce lo si aspetta, ma anche dove c’è il premio della fatica, che non si riesce a raggiungere. Non risolve il problema delle Bucoliche.
Con la peste si chiude il terzo libro. Nel quarto c’è un pezzo anomalo: la descrizione del vecchio di Corciro, che ha una caratterizzazione strana. Infatti:
1. Virgilio dice: “memini vidisse”, è l’unico punto in cui usa la prima persona.
2. Il vecchio vive presso il niger Galesus: il Galeso era già stato citato da Orazio, però era albus, puro.
3. Ha pochi iugeri di rus relictum, terreno abbandonato. Le Georgiche presentano un terreno sul quale si può coltivare; questa descrizione è estranea alle Georgiche perché parla di terre incolte che nessuno vuole.
Il vecchio, tutto solo, non solo si arrangia, ma è il primo a cogliere mele e rose in questa terra, e alla sera la sua mensa è carica di cibi non comprati; però la mela è l’unica cosa commestibile che cita, tutte le altre cose sono fiori colorati che contrastano con il fiume nero. È una figura strana; qualcuno sostiene che è semplicemente uno con il pollice verde, ma è un’ipotesi stupida: cosa c’entra qua? È più probabile che sia un avanzo epicureo: si accontenta di poco, riesce a compiere il miracolo di trasformare in un giardino un rus relictum. È vecchio, e attorno alla sua mensa non c’è altro; è solo. Rappresenta la reincarnazione del sogno epicureo, però la serenità è pagata con la solitudine e il fiume che diventa niger. Il fatto che Virgilio qui parla in prima persona indica che non è una cosa coerente, ma un suo ricordo, una fuga momentanea.
Il quarto libro è dedicato alle api: sono animali importanti sia per il miele, unico dolcificante dell’antichità, ma soprattutto perché sono animali sociali (rappresentano gli uomini). La loro è un’organizzazione perfetta, anche se immobile (non sono possibili scambi di classe). Le chiama anche PARVI QUIRITES:
• È una Roma in miniatura
• Lavorano: si muovono per amor florum: amano il proprio lavoro, c’è quasi un rapporto di amore, come l’amore del Romano per l’officium (mos maiorum).
Si dice che le Georgiche terminassero con un elogio a Cornelio Gallo, poi sostituito con l’episodio di Aristeo. L’episodio di Aristeo però parte dal verso 350 e continua fino al 565: avrebbero dovuto essere 200 versi di elogio ad una persona?!? Il numero di versi è più o meno regolare in tutti e quattro i libri, quindi tolto l’episodio di Aristeo dovevano esserci altri 200 versi al suo posto; la leggenda dice che la prima edizione terminava con l’elogio di Cornelio Gallo, poi quando è caduto in disgrazia sono stati sostituiti: se fosse così, dovremmo avere una prima edizione delle georgiche con almeno una traccia di questi 200 versi, che invece sono scomparsi del tutto!! Inoltre non si può sostituire l’elogio di un personaggio con un mito complesso.
1. Il mito di Aristeo c’era già nella prima edizione, oltre a questo c’erano alcuni versi (15-20) di elogio finali, che sono stati persi, la cui lunghezza non influisce sulla lunghezza dell’opera né sono troppi per essere stati persi.
2. Erano sempre una ventina di versi, che sono stati eliminati, c’era già anche il mito, che è stato ampliato di 15-20 versi.
Il mito di Aristeo è la conclusione logica delle georgiche. Gli antichi credevano nella bugonia: se si lasciava della carne a marcire, arrivano le vespe: gli antichi credevano che la carne bovina facesse nascere le api. Usa un sistema ad anello (già usato da Catullo nel carme 64): un mito che fa da cornice ad un altro mito. Aristeo ha delle api che muoiono tutte. Si rivolge alla madre, una ninfa, che fa parlare Protiro, il quale dice che la morte delle api è una punizione per aver causato involontariamente la morte di Euridice (qui è inserito il racconto di Orfeo e Euridice). Aristeo sacrifica un bue dalla cui carcassa rinascono le api. È bella la descrizione del mito: Aristeo aveva cercato di avvicinarla, lei scappa, ma è morsicata da un serpente e muore; Orfeo scende nell’Ade ottiene di farla tornare in vita se fosse riuscito a resistere alla tentazione di guardarla, ma non riesce e lei scompare. Contrappone due personaggi che hanno a che fare con la morte, Aristeo e Orfeo. Aristeo obbedisce agli Dei, esegue quello che gli hanno detto di fare, e ottiene una vittoria sulla morte; in più il racconto ha valore didattico perché insegna come far nascere le api. Orfeo invece non ha pazienza e rispetto, il furor gli impedisce di sconfiggere la morte. Presenta di nuovo il problema della morte: dice perché e come può essere sconfitta, ma non riesce ancora a spiegarla, a darle un senso. Troverà una risposta di tipo politico solo nell’Eneide.
Eneide
L’Eneide sostituì la preventivata Augusteide, poema promesso ma che non mantiene, come non mantiene l’affermazione che la poesia epica non fa per lui. In una lettera rinnega il suo passato latino per abbracciare quello greco. Riprende il concetto omerico del mito come argomento di un poema epico. Il mito è il passato di Roma, ma si inserisce anche come futuro prevedendo la storia e la grandezza di Roma. Enea rappresenta l’incarnazione del mos maiorum, l’uomo Romano fuori dal tempo, l’uomo ideale. Non solo ha l’aspetto glorioso, ma mostra il dolore di quanto costi essere un uomo così.
I 12 libri risentono dell’influenza di Omero: i primi sei parlano del viaggio, come l’Odissea, gli altri narrano la guerra, come l’Iliade; sono più corti per influenza ellenistica. Ci sono vicende amorose inserite all’interno (quarto libro); ha un precedente: Apollonio Rodio con le Argonautiche, dove dedica all’amore un libro su 4. Racconta quello che è successo prima in medias res, come nell’Odissea.
La figura di Enea
Se la struttura dell’Eneide assomiglia ai poemi omerici, Enea però non è né Achille né Odisseo:
- È diverso da Achille perché non lotta per la sua gloria
- È diverso da Odisseo perché non torna a casa ma viaggia verso l’ignoto.
Oltre al PIUS ci sono due aspetti contrastanti in Enea
- PATER: guida dei suoi e pater futuro dei Romani
- VIR: vorrebbe la sua vita privata, amare e vivere per sé.
I due aspetti lottano fino al sesto libro: con il rifiuto di Didone di parlare, muore il vir.
L’Eneide finisce in modo strano: Enea sembra spietato. Turno si è messo nelle sue mani quasi da supplice chiedendo che gli fosse risparmiata la vita; se ci fosse ancora stato il vir, Enea l’avrebbe risparmiato per compassione. Il dovere di Enea è di PARCERE SUBJECTIS, ma DEBELLARE SUPERBOS: come pater del popolo Romano, deve uccidere Turno. Per Enea è un sacrificio dall’inizio alla fine, attraverso il quale la morte viene spiegata e accettata perché è un contributo essenziale alla grandezza di Roma. Non avrà neanche una morte gloriosa e non vedrà Roma nascere, il frutto delle sue fatiche. Vengono sottolineati i dolori e le rinunce: sono il prezzo che chiedono gli Dei.
La morte
La morte viene dunque spiegata come necessaria per la nascita e la grandezza di Roma; questo concetto viene particolarmente evidenziato nell’episodio di Eurialo e Niso: Virgilio interviene direttamente per sottolinearlo quando muoiono. La morte è spesso riferita ai giovani: Eurialo, Niso, Pallante, Camilla. Virgilio descrive la morte di Camilla dicendo che la sua anima sfugge sdegnosa agli Inferi: nonostante sia una nemica, c’è il dolore per la morte prematura. (omerico)
L’Epicureismo
Nell’Eneide ci sono due riprese dell’epicureismo:
1. La città di Evandro, locus amoenus con il LLLLLLLLLLL;
2. Un medico che cura Enea ferito: Apollo si era innamorato di lui e gli aveva fatto un dono, lui sceglie di diventare un medico per curare gli altri. Enea lo incontra proprio nel momento in cui sta per uccidere Turno.
In tutto il resto del poema c’è il capovolgimento dell’epicureismo: la gloria e il trionfo danno senso alla vita.
Libro I
Enea compare durante una tempesta; non teme la morte in sé, ma questa morte, che sarebbe inutile perché non ha portato a termine il suo compito. Tende le mani al cielo e dice “tre, quattro volte beati coloro a cui il Fato concesse di morire sotto le mura troiane”. La prima volta che Enea compare è per dire che altri sono beati. Rimpiange di non essere morto combattendo in patria. Appena arrivano sulla terra scoprono una città che sta sorgendo, vedendoli dice “fortunati coloro le cui mura sorgono già”. Queste due frasi esprimono i suoi sentimenti: rimpianto per il passato e incertezza per il futuro. Sulle porte di un tempio in questa città è istoriata la caduta della città di Troia: “SUNT LACRIMAE RERUM ET MENTEM MORTALIA TANGUNT”, l’uomo piange sulla storia. Si piange su quello che è successo e le sventure degli altri toccano la mente. Troia ha commosso tutti che piangono sulle disgrazie altrui.
Libro II
Narra la fine di Troia. La morte di Laocoonte è una morte senza giustificazione, e a maggior ragione quella dei suoi figli: Laocoonte muore per mano degli dei perché tenta di andare contro il destino: muore perché il destino si compia. Si pone il problema della morte: i primi morti dell’Eneide sono innocenti. L’unica speranza per gli sconfitti è quella di non sperare affatto. Enea sa di dover sposare una donna sconosciuta, viene privato della patria, non può più morire in patria, gli vengono tolti anche gli affetti familiari: ha con sé il figlio, ma più che un appoggio è visto come un dovere; il padre morirà, e perde anche la moglie Creusa, che gli compare come fantasma accettando il proprio destino; nel suo discorso ad Enea pensa solo al figlio, le rimane qualcosa della madre, ma non della moglie.
Libro III
Racconta il viaggio e gli incontri di Enea. Fra questi spicca Andromaca; Virgilio era a conoscenza dei poemi ciclici. Andromaca è ancora disperata per la morte del figlio Astianatte; vive con Eleno in una MESTIZIA SERENA: vive senza una speranza di felicità, ma senza grandi aspettative, ritirandosi dalla storia. Quando vede Iulo, bambino senza madre, si riempie di tristezza e si sente ancora più madre senza figlio. Quando Enea parte augura loro: “vivete felici, per voi il fato è raggiunto, per noi è ignoto”. C’è sempre l’idea di incertezza, futuro ignoto, però deve andare avanti, non può uscire.
Libro IV
Riprende l’argomento del secondo libro delle Argonautiche: l’amore. È dedicato alle vicende di Enea e Didone. Nelle Argonautiche Medea si innamora di Giasone (un cretino integrale), che dell’eroe ha solo l’aspetto. Medea è una maga straordinaria che però non ha esperienza in amore; c’è lo studio profondo dell’amore nel suo evolversi. Virgilio tratta lo stesso argomento con una profondità diversa:
1. Enea è un eroe
2. Didone non è inesperta, ha perso un marito, è una regina, ha la responsabilità di un popolo, non è più giovanissima, è adatta ad Enea: non c’è bisogno di un intervento divino per farli innamorare.
Didone è perfettamente adatta ad Enea. Virgilio sottolinea che è colpita non dall’aspetto, ma dal valore di lui: si innamora del valore, per una forma di pietà: avendo conosciuto i mali ha imparato a venire incontro alle persone come lei. Lei ha già trovato la sua destinazione, lui no. I due si innamorano, non solo lei; però c’è una differenza: Enea è Romano, Didone no. Lei non ha lo spirito di sacrificio che lui ha. In un primo momento per un’intesa fra le Dee, vengono lasciati in pace: Giunone era interessata a Cartagine, Venere ad Enea. Quando però Giove si accorge che la missione di Enea non procede gli manda un messaggero che gli ricorda i suoi doveri di pater. Rimprovero degli Dei (v. 281). In Enea c’è il vir, per il quale quelle terre sono dolci, però c’è anche il pater, che desidera la fuga. Umanamente andarsene da lì è una fuga da Didone e da sé stesso; ha paura di non riuscire a staccarsi da quelle terre dolci. (vv.330) dice: PRO RE PAUCA LOQUOR. Didone ha rischiato tutta la vita per lui. Non ha più dignità, le resta solo il suicidio. v. 362: ITALIA NON SPONTE SEQUOR: è un verso non concluso, ma che non ha bisogno di conclusione, è perfetto così. Esprime tutto Enea. Sequor indica l’inseguimento di una meta irraggiungibile; una missione misteriosa, che sembra non avere fine. Enea è disperato, è la sua ultima ribellione a cui cerca di sottomettere anche Didone: non è lui che l’ha voluto, è il suo destino a cui non si può sottrarre. Didone non lo può accettare. Per lei AMOR OMNIA VINCIT. Non vuole che Enea se ne vada perché è l’ultima cosa che le rimane che giustifichi il suo comportamento di fronte allo stato. Non può piegare la testa al suo dovere. V. 390: verso uguale ad uno delle Georgiche. Didone scappa da sé stessa, non ha altro modo di salvare la propria dignità. Non le rimane che uccidersi: non solo elimina la sofferenza, ma riporta il popolo in sicurezza e salva la propria dignità. I continui “ego”, “tu” sottolineano la coppia.
Morendo Didone maledice Enea: questo offre il motivo ad Annibale (la leggenda è probabilmente di origine italica). Sale sul letto suo e di Enea, dove ha messo tutti i suoi ricordi: con lei muore la regina e tutto ciò che l’ha fatta decadere. Dice che sarebbe stata felice, troppo felice, se le navi troiane non fossero mai giunte lì. Morirà invendicata, ma si augura che arrivi qualcuno a vendicarla. Per i romani la morte è il modo ultimo con cui uno conferma come è vissuto. La società Romana accetta il suicidio. Qui però Didone non riesce a morire perché non era la sua ora; Giunone, forse sentendosi un po’ colpevole, ha pietà di Didone, e manda Iris a strapparle il capello a cui era attaccata la sua vita. Non si sa se fosse la concezione dell’epoca o un’immagine poetica. Sembra contrastare la concezione del suicidio dei Romani: probabilmente è il pensiero di Virgilio che qui si impone. Didone non ha altra strada, però la sua vita è stata sconvolta dall’arrivo di Enea: in un certo senso il fato di Enea ha sconvolto il fato di Didone; tutto questo non era previsto dal suo Fato, è stata una cosa improvvisa. Ha anticipato una morte prevista per un altro momento.
Libro VI
Narra la discesa agli Inferi. È collocato al centro del poema, è il punto di svolta. Riprende la discesa di Odisseo nell’Oltretomba. Si vede il punto debole del paganesimo, cioè l’impossibilità di immaginare una beatitudine nell’Oltretomba: immagina i Campi Elisi, ma è limitato, è il classico locus amoenus. Si scende negli Inferi con le stesse preoccupazioni che si avevano in vita: “anche nella morte gli affanni non li abbandonano”, rimangono gli affanni che si avevano. Incontra Didone nei Campi del Pianto, dove ci sono i morti di dolore; Didone ha però un conforto: si riunisce a Sicheo, cancellando il tradimento al giuramento di eterna fedeltà al marito. Qui Enea abbandona il vir. Chiede perdono per cosa ha dovuto fare; ora può piangere, quando Didone era ancora viva non poteva confortarla piangendo perché doveva rimanere freddo; ora invece non c’è più nulla da fare. Le fa un discorso, ma con un tono diverso: qui può esprimere l’amore che aveva dovuto soffocare per poter compiere la sua missione. Didone invece, non essendo Romana, non poteva soffocare i suoi sentimenti. Didone si volta è scappa via senza dire nulla: le è rimasto amore, ma non può né deve perdonare, deve chiudere per sempre. Se lo perdonasse a Enea rimarrebbe il ricordo del vir. Vedendola allontanarsi, Enea soffre: è il rimorso che quando Didone era ancora viva non era stato sottolineato. Il silenzio di Didone è un elemento nuovo che indica incomprensione, spaccatura, impossibilità di comunicazione (verrà poi ripreso da Tacito).
Nei Campi Elisi incontra il padre Anchise. Non riesce ad abbracciarlo: è impossibile cogliere la morte. Il padre gli illustra il suo futuro e quello di Roma, che in parte è quello che gli aveva detto Creusa. vv. 847 – 853. Roma è inferiore ad altri popoli per tante cose (arte, oratoria, scienza…) ma il Romano ha il compito di governare sugli altri. “ricorda”: dà valore assoluto all’ordine. Se si fosse fermato qui la commemorazione di Roma sarebbe stata trionfalistica; però il libro si chiude male, con la morte di Marcello: il dolore è il prezzo che si paga per l’eternità. Augusto contava sulla sopravvivenza di Marcello che faceva ben sperare, Virgilio è rimasto colpito da questa morte prematura (a Roma i funerali dei giovani si facevano di notte perché il sole non fosse offeso da qualcosa di non naturale. Vv. 882 – 888: si chiude con l’omaggio ad un morto, si ricorda che il destino di Roma sarà glorioso ed eterno ma ad un prezzo molto alto.
Libro VIII
C’è la descrizione dello scudo di Enea, plasmato su quello di Achille. Lo scudo porta il simbolo di chi combatte: quello di Achille rifletteva la sua bellezza; in più serviva ad Omero per spiegare i costumi dei greci nei periodi di pace; nello scudo di Enea c’è il futuro di Roma. vv. 730-731: indica che sulle spalle di Enea poggia il destino di Roma.
Descrive il luogo di Evandro ( un posto tranquillo, dove non si cerca la gloria ma la serenità. Però anche questo mondo fallisce: è sconvolto dalla morte di Pallante. L’Epicureismo non basta per sconfiggere il dolore. La morte di Pallante non sarà invendicata, la morte di Turno la compenserà; questa però costerà un’altra rinuncia ad Enea: non potrà avere compassione personalmente, ma dovrà uccidere Turno perché la giustizia lo richiede.
Libro IX
È narrata la vicenda di Eurialo e Niso, classici ,,,,,,,,edeeeeeeeee: i due muoiono giovani. Il passo viene ripreso da Ariosto. Qui muoiono tutti e due, la sopravvivenza di uno sull’altro non avrebbe senso. Hanno bisogno l’uno dell’altro. L’ingenuità per cui muore Eurialo è la stessa per cui muore Camilla: un momento di debolezza. Anche Enea ha delle debolezze umane: l’eroe in guerra non è una macchina, ma rimane pur sempre una persona. Eurialo deve dare la prova di quanti nemici ha ucciso e si carica stupidamente di armi che lo rendono visibile e pesante; Niso sarebbe riuscito a salvarsi, ma vedendo Eurialo che muore, torna indietro: non per salvarlo, ma per morire con lui. Prova rimorso perché il piano era suo e Eurialo l’ha solo seguito, per amore suo che è infelice. Viene ucciso come un papavero tagliato dall’aratro, muore buttandosi sul cadavere del compagno. Qui Virgilio dà la spiegazione della morte: dice che sono fortunati entrambi, che verranno ricordati finché la stirpe di Enea reggerà Roma (cioè per sempre). La morte ha senso inserita nella storia di Roma; è pagata con la gloria.
Libro X
Morti di Pallante e di Lauso. Lauso è il figlio di un re malvagio, però lui era meraviglioso. Pallante invece era figlio di Evandro, uomo pius. Hanno una diversa posizione alle spalle, ma sono entrambi giovani e valorosi. Si scontrano, ma se si uccidessero a vicenda non avrebbero una morte gloriosa: vengono uccisi dall’eroe avversario più valoroso. Enea non vorrebbe uccidere Lauso, ma deve perché Lauso si mette davanti al padre che Enea stava uccidendo. Enea deve ucciderlo, ma lo fa con pietà. Pallante invece si scontra con Turno: si evidenzia la differenza fra un Romano, Enea, e un non Romano, Turno. Turno combatte come se Pallante fosse un eroe della sua grandezza, rimanda indietro il suo corpo spogliandolo del balteo. Fa riportare il cadavere al padre “come ha meritato di vedere suo figlio” (morto). Turno è superbo, e la morte di Pallante è la causa scatenante il finale. Virgilio ha voluto evidenziare i due morti giovani causate da due guerrieri sproporzionati per loro, per sottolineare il coraggio dei giovani nell’affrontare il massimo guerriero. Le morti sono giustificate e compensate con la gloria; anche Lauso in fondo muore per Roma.
Libro XI
Virgilio inserisce un caso anomalo: Camilla, una guerriera donna. Ha precedenti nella mitologia: le amazzoni, guerrieri a tutti gli effetti, ma erano qualcosa di sovrumano (figlie di Ares). Sono più che donne normali, e hanno un modo di vivere contrario dei maschi. Sono le prime ad andare a cavallo, hanno sottomesso una tribù di uomini che hanno solo scopo riproduttivo, si tengono le figlie e lasciano i maschi agli uomini: è il capovolgimento della legge ateniese. Devono riprodursi perché non sono immortali. Camilla invece è diversa: non è un guerriero che per caso è donna, ma una donna che per caso è guerriero; è stata allevata da suo padre, lontano dalla società, il padre l’ha allevata nell’unico modo che conosceva, facendone un guerriero. Ha una bellezza al femminile, non sono doti maschili al femminile. Camilla muore come Eurialo, per un momento di distrazione. È abituata a maneggiare le armi e si incanta davanti ad una bella armatura: la sua vanità è coerente con l’educazione che ha ricevuto. Segue il guerriero cercando di avere quelle armi, però è distratta e muore facilmente. La sua morte è compensata dalla gloria attraverso la poesia. Per descrivere la sua morte Virgilio dice che “l’anima fugge sdegnata fra le ombre”; “fugge” indica la rapidità, “sdegnata” indica la rabbia di essere privata della vita. Lo stesso verso viene usato alla fine dell’Eneide per descrivere la morte di Turno. Ma negli altri casi in cui si verificano due versi uguali, hanno un senso; qua la ripetizione sembra inspiegabile. L’anima di Turno è diversa da quella di Camilla, il verso funziona per Camilla ma non per Turno. Probabilmente è una di quelle imperfezioni che Virgilio non ha fatto in tempo a correggere.
La morte di Camilla è vicina al lamento della sorella di Turno, una ninfa immortale. La morte è compensata dall’immortalità della gloria, ma viene paragonata alla vera immortalità: la ninfa aveva un solo fratello, e avendolo perso soffrirà per sempre. non vuol più dire felice: se nell’immortalità c’è il dolore, il dolore non si spegnerà mai. Omero l’aveva intuito attraverso Calipso, ma la ninfa era solo sola, non c’era una vera sofferenza come qua.
Libro XII
Enea è ferito e si ritira per essere medicato; appena prima dello scontro finale incontra il medico, che indica cosa costa soffocare il proprio istinto: è l’estrema ripresa del vecchio sogno bucolico, del ,,,,,,,,,,,. Il medico non era una professione molto stimata a Roma; IAPIX è il medico troiano che riesce a guarire Enea. Amato da Apollo, il Dio gli offrì un dono: gli propose tre attività (prevedere il futuro, suonare la cetra, oppure le armi) che l’avrebbero reso grande, ma lui preferì un’arte che non dava gloria, ma che gli permetteva di aiutare gli altri: l’arte della medicina, muta e ingloriosa. Resuscita questo sogno solo per un attimo: è la vita mai ricompensata da gloria ma che ha in sé la giustificazione.
Il combattimento finale risente dello scontro di Achille e Ettore. Enea combatte una guerra ordinata dagli Dei sulla cui giustizia è perplesso: Lavinia avrebbe dovuto sposare Turno. Turno viene sconfitto e supplice, tenendo gli occhi in atteggiamento umile, le mani in posizione di preghiera, Virgilio accentua la posizione di supplice. Anche Ettore aveva chiesto ad Achille di restituire il corpo al padre, ma non si era mai piegato; qui Turno assume una posizione indegna per un eroe. Turno ammette il proprio errore, Enea sta per cedere ma alla vista del balteo di Pallante capisce qual è il suo dovere: parcere subiectis, ma debellare superbos. Deve essere giusto, e la giustizia è diversa dalla pietà. Per descrivere la morte usa gli elementi tradizionali delle ginocchia che si sciolgono e del calore del sangue che abbandona il corpo. Termina con lo stesso verso che aveva dedicato a Camilla.
Se Augusto giocava sull’equivoco di tornare ad un Romano tradizionale, Virgilio interpreta questi valori dando soluzioni e risposte. Non trova una spiegazione filosofica, ma politica della morte; uscendo dall’individualismo epicureo, torna ad una visione quasi collettivista in cui ognuno ha il suo compito, ma non c’è annullamento dell’individuo perché alla fine è ricompensato dalla gloria. Roma ha finalmente un poeta che ha oscurato gli Annales di Ennio, finora poema nazionale; nel II secolo ci sarà una ripresa di Ennio, non si sa bene perché. Aulo Gellio testimonia infatti la presenza di enneastai, attori specializzati in Ennio, che cantavano pubblicamente un libro degli Annales. Virgilio comunque riprenderà Ennio in epoca cristiana. Si diffonde l’idea che bisogna rifarsi a Virgilio. Nacque la moda dei Centoni: si prendevano alcuni versi di Virgilio per comporre un altro argomento.
Riassunto del testo di Virgilio "l'attesa di una nuova era"