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Testo

Le traduzioni dal Latino

Seneca: Consolatio ad Marciam
XX: O ignari dei propri mali, coloro dai quali la morte non è lodata ed attesa come la più grande invenzione della natura, se racchiude la felicità, se respinge la disgrazia, se pone fine alla noia ed alla stanchezza del vecchio, se conduce l’età giovanile mentre si sperano le cose migliori nel pieno delle forze, se interrompe la fanciullezza prima dei passi più duri, per tutti è la fine, per molti il rimedio, per qualcuno il desiderio, per nessuno è benemerita più che per coloro ai quali viene prima di essere chiamata. Questa annulla la schiavitù anche contro la volontà del padrone; questa scioglie le catene dei prigionieri; questa conduce fuori dalla prigione coloro ai quali il comando prepotente aveva vietato d’uscire; questa mostra agli esuli che tendono sempre gli occhi e l’anima verso la patria che non v’è differenza tra le persone sotto la quale si trovino. Questa quando la sorte ha spartito male le cose comuni e ha consegnato chi ad uno chi ad un altro persone nate con uguali diritti, rende uguale tutti; è questa dopo la quale qualcuno non ha fatto niente per una decisione altrui; è questa, nella quale nessuno percepisce la sua abiezione; è questa che è aperta a tutti; è questa, o Marcia, che tuo padre ha desiderato ardentemente; è questa, affermo, che ha fatto in modo che nascere non sia un supplizio, che ha fatto in modo che io non mi abbattessi contro le minacce del caso, perché io possa conservare l’animo integro e padrone di sé: possiedo ciò che posso chiamare in mio aiuto. Vedo lì vicino delle croci, ma non di un solo tipo, ma costruite da chi in un modo da chi in un altro: alcuni levarono in alto ( condannati) rivolti con la testa verso la terra, altri infilano un palo per il retto, alcuni allungano le braccia sul patibolo; vedo i cavalletti, vedo le percosse e vedo macchine specifiche per ogni membro: ma vedo anche la morte Vi sono lì vicino nemici sanguinari, cittadini arroganti: ma lì vedo anche la morte. Non è penoso essere schiavi là dove se ti è venuto a noia il padrone, quando ti è lecito con un solo passo, andare verso la condizione libera: o vita ti apprezzo proprio per il beneficio che ci viene dalla morte.
Commento: La consolatio è indirizzata a Marcia, il cui padre Curzio Cordo, fu uno storico delle guerre civili sotto Tiberio, condannato a morte da Seiano. Non è l’unica consolatio che Seneca scrive, ve ne sono altre 2, poiché è un genere che rientra nella filosofia morale. Nell’etica stoica bisognava dare dei precetti morali utili per ogni occasione, ecco dunque si è appropriata di questo genere per mandare messaggi filosofici alle persone colpite da sciagure: filosofia alla spicciolata. Questo tipo di insegnamento si rifà al cinismo. Ma non solo, Seneca da un fatto personale, privato e particolare, vuole tratte una regola generale: il dolore va temuto entro certi limiti poiché la vita ed i beni materiali ci sono dati in prestito, e tutto è destinato a passare (transire): viviamo in mezzo alla “rapina rerum omnium”. La morte viene così rappresentata come l’elemento più caratteristico della vita umana, quello comune a tutti e che ci eguaglia.
Seneca: De Otio
, 2-5: Dice Epicuro: «Il saggio non si deicherà alla vita politica a meno che non sarà intervenuta una qualche necessita». Dice Zenone: «Il saggio si dedicherà alla vita politica a meno che qualcosa non lo impedisca». Il primo cerca l’ozio volutamente, l’altro per necessità, e del resto questa necessità si estende vastamente. Se lo Stato è troppo corrotto per poter essere aiutato, se è invaso dai mali, il saggio non si affaticherà inutilmente né si sacrificherà se è destinato a non recare alcuna utilità; se avrà scarsa autorevolezza e poche forze, se lo Stato non lo vorrà accettare, se la salute gli impedirà, come non farebbe scendere in mare una nave sconquassata, come non darebbe il proprio nome per il servizio militare se fosse debole, allo stesso modo non intraprenderà un cammino che saprà impercorribile. Pertanto può anche colui al quale ancora tutto è integre, può prima di sperimentare qualche pericolo, fermarsi al sicuro e immediatamente dedicare tutto se stesso alle virtù e condurre un ozio illibato come cultore di quelle virtù che possono essere coltivare anche dalle persone più miti. Certamente da un uomo si chiede ciò che sia di giovamento agli uomini se possibile a molti, se non proprio a molti a pochi, se non proprio a pochi ai vicini, se non proprio ai vicini a sé. Infatti quando si rende utile a tutti gli altri si dedica ad un compito comune. Come colui che si rende peggiore nuoce non soltanto a se stessi, ma anche a tutti quelli ai quali avrebbe potuto giovare se fosse diventato migliore, allo stesso modo chiunque benemerita di se stesso, per questo stesso fatto, giova agli altri, perché prepara una persona destinata a giovare agli altri.
1-4: Siamo soliti dire che il bene più grande è vivere secondo natura: la natura ci ha generato per entrambe queste cose, ia per la contemplazione delle cose, sia per l’azione. Ora dimostriamo ciò che abbiamo detto come prima cosa. Che cosa inoltre? Ciò sarà dimostrato se ciascuno si sarà domandato quanto desiderio ha di conoscere le cose ignote, e quanto si ecciti a tutti i racconti fantastici? Alcuni viaggiano per mare e sopportano coraggiosamente le fatiche di un lunghissimo viaggio con una sola ricompensa per conoscere qualcosa di nascosto e lontano. Questa condizione raduna le folle a guardare gli spettacoli, costringe a spiare tutte le realtà nascoste, a cercare le cose più nascoste, a srotolare le antichità, ad apprendere i costumi delle genti barbariche: la natura ci diede un intelletto avido di conoscenza e consapevole della sua arte e bellezza, mentre sarebbe destinata… Affinché tu sappia che quella ha voluto essere contemplata non solo essere guardata, osserva in quale parte ci ha collocato: ci ha collocato nella parte centrale di sé e ci ha dato la possibilità di vedere tutto all’intorno; e non solo ha fatto l’uomo in posizione eretta, ma coll’intenzione di renderla anche adatto alla contemplazione, cosicché potesse seguire con lo sguardo le stelle che scorrono nel cielo da oriente ad occidente, affinché potesse far girare il proprio volto con tutto l’universo, gli fece una testa sublime e la collocò su un collo pieghevole; poi conducendo 6 costellazioni di giorno e 6 di notte svelò ogni parte di sé affinché attraversi queste bellezze che aveva offerto ai suoi occhi suscitasse il desiderio delle rimanenti bellezze.
4-5: Con quale animo il saggio si isola nell’otium? In modo che sappia che anche allora compirà azioni che giovino alla posterità. Siamo senza dubbio che sia Zenone sia Crisippo hanno fatto cose più grandi che se avessero comandato eserciti, svolto cariche pubbliche, promulgato leggi: poiché queste non le promulgarono per una sola città ma per l’intero genere umano. Che ragione c’è, dunque, perché ad un uomo retto non convenga siffatta vita contemplativa, attraverso la quale regoli le generazioni future e non parli a pochi, ma ad ogni uomo d’ogni popolo quanti sono e quanti saranno? Insomma mi domando se siano vissuti secondo i loro insegnamenti Cleante, Crisippo e Zenone. Indubbiamente risponderai che quelli sono vissuti nel modo in cui avevano detto che si doveva vivere: eppure nessuno di quelli amministrò lo stato. Ma tu dici: «Quelli non ebbero o quella fortuna o quella autorità che suole essere richiesta per il governo dello stato.» Ma allo stesso tempo tuttavia condussero una vita non inerte: scoprirono che giova agli uomini più la loro calma che il correre qua e là ed il sudore degli altri .Quindi ciononostante questi sembrarono aver fatto molto, benché non facessero nulla nella vita pubblica.
Commento: Otium usato con accezione diversa, nella Grecia ellenistica esistevano due ideali di vita: vita pratica e vita contemplativa. Seneca si inserisce in questo dibattito intellettuale soprattutto con questo libro, proponendo una soluzione conciliatrice che contempera le due esigenze. La vita attiva racchiude in sé molto della vita contemplativa e viceversa: ritirarsi nell’otium può giovare a tutti. Ma si trova di fronte a due posizioni: Epicuro diceva che il saggio non si occupa di politica se non è estremamente necessario (vivi nascosto), gli stoici, al contrario, sostenevano che il saggio si deve interessare di politica almeno che qualcosa non lo impedisca Seneca abbassa il dibattito al suo caso personale, la sua presenza politica alla corte di Nerone è giustificabile? Anche Seneca accusa Nerone di incoerenza, lui è uno stoico e non abbandona la politica, ma lo stato romano è ormai così corrotto che il saggio non sprecherà più la sua attività che non è più necessaria. Questa è la posizione di Seneca, l’otium è necessità, ecco che incomincia a ricercare la perfezione morale (diventa cittadino del mondo). Deve quindi indagare dentro i limiti del lògos che Seneca percepisce dentro di sé: microcosmo che genera il macrocosmo. L’otium non è più un concedersi allo svago (Catullo, Cicerone…) ma un cercare di conciliare vita attiva e contemplativa.
Seneca: De ira
III, 36 (1-4): Tutti i sensi devono essere ricondotti ad firmitatem; per natura sono resistenti, se l’animo che ogni giorno deve necessariamente chiamato a fare il rendiconto, ha smesso di corromeperli. Faceva così Sesto, finita la giornata, una volta che si era ritirato per il riposo interrogava il suo animo: «Oggi, quale dei tuoi mali hai guarito? A quale vizio ti sei opposto? In quale parte ti sei migliorato?» Cesserà l’ira e sarà più moderato se saprà che ogni giorno si deve presentare davanti ad un giudice. Dunque cosa ci può essere di più bello di questa abitudine di passare in rassegna la giornata? Quale sonno viene dopo la ricognizione di sé: quam tranquillo, quam alto e libero, quando l’animo o è lodato o ammonito, e come esploratore e censore segreto ha giudicato sui propri costumi. Io mi servo di questa facoltà ogni giorno, presso di me sostengo la mia causa. Quando il lume viene tolto dallo sguardo e la moglie già consapevole dei miei costumi, tace, esamino col pensiero tutta la mia giornata e ripenso alle mie azioni e a ciò che ho detto; non mi nascondo nulla, non passo sopra a niente. Perché dovrei temere qualcosa dai miei errori quando posso dire: «Vedi di non fare questa cosa in modo più grande, ora ti perdono. In quel discorso hai parlato con grande ardore: non voler in seguito scontrarti con un incompetente; non vogliono imparare coloro che mai impararono. Ammonisti quello più di quanto dovevi, ma così non lo hai corretto, ma offeso: vedi in futuro non tanto se non sia vero ciò che dici, ma se quello a cui è detto il vero non lo sopporti; l’uomo buono gioisce dell’essere rimproverato, ogni malvagio sopporta molto faticosamente un che lo corregge.
Commento: L’esame di coscienza era una pratica appresa dalla scuola dei Sesti: ripresa durante il distacco dalla vita attiva. Lo stoicismo di Seneca non è puro, infatti è contaminato da altre filosofie (cinismo: disprezzo delle cose materiali per ricercare vita spirituale).
Seneca: De Clementia
I, 1-2: Nerone, ho deciso di scrivere sulla clemenza, affinché in un certo modo potessi svolgere il compito dello specchio e potessi mostrare te a te stesso destinato a giungere ominuim volutatem maximam. Benché infatti il vero frutto delle azioni rette sia l’averle fatte, né benché non ci sia alcun premio delle virtù degno all’infuori di esse stesse, è utile scrutare e percorrere intorno alla propria buona coscienza, tum mettere gli occhi in hanc immensa folla discorde, ribelle, impotente, in perniciem alienam suamque ugualmente pronta a balzare, se questo giogo abbia spezzato e giova parlare così: Io dunque fra tutti i mortali sono stato preferito e scelto per fare in terra la funzione degli dei? Io sono arbitro della vita e della morte per le nazioni; è nelle mie mani quale condizione debba avere ciascuno; quello che la fortuna vuole che sia dato a ciascuno dei mortali, lo afferma attraverso la mia bocca. Da una nostra risposta i popoli e le città traggono motivo di gioia; nessuna parte e da nessuna parte fiorisce se non per mia volontà e concessione.; tutte queste migliaia di spade che la mia pace ora fa restare nel fodero ad un mio cenno saranno impugnate; quali popoli siano da distruggere completamente, quali da trasportare altrove, a quali si debba dare la libertà a quali togliere, quali re debbano diventare schiavi e a quali teste si debba dare l’insegna regale, quali città debbano crollare, quali sorgere, tutto questo dipende da me.
Commento: Cerca di convincere l’imperatore a servirsi dei filosofi per la guida dello stato. Lui deve fungere da specchio per riflettere l’immagine del princeps, così che Nerone possa guardare il suo buon animo e disprezzare la folla che senza un princeps non può essere felice. Tutti i poteri del principe sono reali, ma Seneca utopicamente crede di poter influire su Nerone. Seneca alla fine pagherà gravi conseguenze.
Seneca: Epistola a Lucilio 7
1-5: Tu vuoi sapere che cosa ritengo si debba principalmente evitare? La folla. Non la puoi ancora frequentare senza pericolo. Io almeno confesserò la mia debolezza: riporto a casa quei costumi che ho portato fuori. Quel poco che avevo messo in ordine viene turbate, ritorna qualcuno dei vizi che avevo cacciato. Ciò che succede agli ammalati che una lunga infermità ha afflitto a tal punto che non possono uscire senza danno, questo stesso succede pure a noi: anche i nostri animi stanno rimettendosi da una lunga malattia. La dimestichezza con la folla è nociva: ognuno o ci raccomanda un vizio o ce lo trasmette o ci unge senza che noi ce ne accorgiamo. Ed il pericolo è tanto più grande quanto più grande è la folla nella quale ci confondiamo. In verità che cosa può esserci di più dannoso ala virtù che poltrire assistendo ad uno spettacolo? Infatti allora i vizi, favoriti dal piacere più facilmente si insidiano nell’animo. Che cosa pensi che io dica? Ritorno a casa non solo più avido di beni materiali, ma anche più crudele più inumano perché sono stato tra gli uomini. Per caso capitai in uno spettacolo meridiano aspettandomi giochi e facezie e qualcosa di riposante con cui gli occhi degli uomini si possono riposare dalla vista del sangue umano. È tutto il contrario: i combattimenti precedenti erano opera di misericordia; ora lasciate da parte le bazzecole, avvengono veri e propri omicidi. I gladiatori non hanno nulla con cui proteggersi. Esposti ai colpi in tutto il corpo, mai spingono avanti invano la mano armata. Questo genere di lotta i più lo preferiscono alle coppie di gladiatori ordinarie e straordinarie. E perché non dovrebbero preferirli? La spada non può essere respinta con l’elmo, con lo scudo. A che cosa servono le difese? A cosa servono le schermaglie? Tutte queste cose sono indugi alla morte. Al mattino gli uomini sono gettati ai leoni e agli orsi, a mezzogiorno ai loro spettatori. Gli spettatori ordinano che gli uccisori siano gettati in pasto a quelli che gli uccideranno e riservano il vincitore per un’altra strage: il risultato dai combattimenti è la morte: si combatte col ferro e col fuoco. Queste cose accadono mentre l’arena è vuota! «Ma qualcuno ha commesso un furto ed ucciso un uomo». E allora? Quello perché ha ucciso ha meritato di subire ciò e tu sciagurato che pena hai meritato per guardare questo? «Uccidilo, colpiscilo, brucialo! Ma perché va in contro alla spada con tanto timore? Perché uccide con poca audacia, perché muore poco volentieri. Lo si spinga con le botte in contro alle ferite: ricevano colpi reciproci con i petti nudi e posti l’uno di fronte all’altro». Lo spettacolo è sospeso: «Nel frattempo si sgozzino altri uomini affinché non si stia a far niente». Suvvia non comprendete che i cattivi esempi ricadano sopra quelli che li fanno. Ringraziate gli dei immortali perché insegnate ad essere crudele a colui che non può imparare [Nerone].
Commento: La civiltà sta cambiando, ma per il momento solo Seneca va contro questa pratica degli spettacoli; però è più una forma di disgusto che di protesta. Infatti lui è il saggio aristocratico che odia il volgo, è presente una aristocratica superiorità. Si ritira a meditare su se stesso, le illusioni sono venute meno (ultima frase)si ritira dalla vita attiva, richiesta di interiorità che emerge.
Seneca: Epistola a Lucilio 41
Tu fai una cosa assai saggia e per te salutare se, come mi scrivi, persisti nell’indirizzarti verso la saggezza ed è cosa sciocca implorare la saggezza dal momento che potresti ottenerla da te stesso. Non si devono levare le mani al cielo né invocare i custodi dei templi per poterci meglio accostare alle orecchie delle statue, quasi potessimo essere ascoltati meglio: dio è preso di te, è con te, è dentro di te. È così come ti dico, Lucilio in noi c’è uno spirito divino che osserva e controlla il male ed il bene delle nostre azioni; egli ci tratta così come è stato trattato da noi. In verità un uomo buono non è nessuno senza dio: forse che alcuno potrebbe assurgere al di sopra della sorte se non fosse aiutato da lui? Quello ci da consigli splendidi ed eroici. In ciascuno degli uomini buoni abita un dio: chi sia questo dio è incerto ma c’è. Se si presenterà al tuo sguardo un bosco fitto di alberi che oltrepassano al solita altezza e che impedisce la vista del cielo, per l’intrecciarsi dei rami aliorum alios protegentium, l’altezza di quel bosco, il mistero del luogo, lo stupore per l’ombra così fitta e continua, pur in un luogo aperto ti daranno la fiducia dell’esistenza di un nume. Se una grotta, creata non dalla mano dell’uomo, ma scavata in tanta ampiezza da fenomeni naturali, sostiene su rocce profondamente corrose un monte, essa colpirà il tuo animo con un sentimento di religioso timore. Veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; l’improvviso scaturire dal sottosuolo di un vasto fiume ha propri altari; … … …. Chi è dunque quest’anima? È l’anima che splende di una sola luce, quella del suo bene. Che cosa è infatti più stolto che lodare in un uomo quello che non gli appartiene? Cosa c’è di più stolto di colui che ammira cose che possono trasferirsi immediatamente ad un’altra persona? Morsi d’oro non rendono migliore un cavallo. È diverso il modo in cui viene spinto nell’arena un leone dalla criniera dorata, mentre viene ammansito e costretto con la spossatezza a sopportare le bardature, diverso il modo in cui si slancia in leone selvaggio e di intatto vigore; questo, violento nella sua furia, come la natura lo ha voluto, bello per la terribilità del suo aspetto, la cui bellezza è quella di essere guardato non senza timore, viene preferito a quell’altro imbolsito e ingioiellato. Nessuno deve gloriarsi se non di ciò che gli appartiene. Noi lodiamo la vite se appesantisce i tralci con germogli d’uva, se essa a causa del peso dei grappoli che ha prodotto piega a terra i tralci: forse che qualcuno preferirebbe a questa vite quella da cui pendono grappoli e fogli d’oro? La virtù propria della vite è dunque la fertilità; e anche nell’uomo bisogna lodare ciò che è proprio dell’uomo stesso. Io ti presento l’esempio di un tale che ha una numerosa famiglia, che abitava in una bella casa, semina molto, mette a frutto grandi capitali; nessuno di questi beni è in lui, ma tutto è attorno a lui. Loda in quello ciò che non gli può essere tolto e dato, ciò che appartiene veramente all persona. Tu mi domando cosa sia? È l’anima, è la ragione perfetta nell’anima. L’uomo è infatti un animale razionale; pertanto si realizza il suo bene se ha assolto completamente il compito per cui è nato. Che cos’è che la ragione esige da lui? Una cosa molto facile, vivere secondo natura. Eppure la comune folla rende ciò molto difficile: ci spingiamo l’un l’altro le colpe. Come è possibile riportare alla salvezza coloro che nessuno trattiene e che la folla spinge? Stammi bene.
Commento: Problema stoico sulla presenza degli dei nel mondo e sul loro intervento. Seneca non parte dal cosmo, parte dall’uomo, dalla sua interiorità «Noli fores ire, in te ipsum vedi, in interiore homine habitat veritas» (Sant’Agostino, Confessioni). Seneca non da una risposta precisa su chi è dio, non lo concepisce, però, come persona, lui non sa quale dio abita in noi, sa che ne abita uno, e pensa da una divinità che si differenzia dal lògos degli stoici. Quella di Seneca è una ricerca senza fine.
Seneca: Epistola a Lucilio 47
1-3: Con piacere ho appreso dalle persone che vengono dalla tua casa che tratti familiarmente i tuoi schiavi: ciò si addice alla tua saggezza ed alla tua cultura. Sono schiavi. Si ma anche uomini. Sono schiavi. Si ma anche compagni di abitazione. Sono schiavi. Si ma anche umili amici. Sono schiavi. Si ma anche compagni di schiavitù, se penserai che gli uni e gli altri sono soggetti alla volontà della fortuna. Pertanto rido di costoro che giudicano disonorevole pranzare col proprio servo: per quale ragione se non perché è una consuetudine molto superba, mette attorno al padrone durante il pranza, una moltitudine di schiavi che stanno in piedi? Egli mangia più di quanto è capace di contenere, e con straordinaria avidità sovraccarica il ventre già pieno e non più avvezzo a compiere le funzioni del ventre, così che espelle ogni cosa con maggiore fatica di quella con cui la introdusse. Ma ai disgraziati schiavi non è lecito neppure muovere le labbra, neppure per parlare. Ogni sussurro è represso con la verga e neppure quei fatti fortuiti , la tosse, gli starnuti, i singulti, sfuggono alle percosse; l’interruzione del silenzio con una parola la si sconta con una pena; durante tutta la notte stanno in piedi senza mangiare, in silenzio. Così accade che costoro non potendo parlare in presenza del padrone, sparlino del padrone.
Petronio: Satyricon
27: Ma non ci spogliammo subito: ci mettemmo a bighellonare (e a darci buon tempo) e a mescolarci ai gruppi, quando ad un tratto vedemmo un vecchio dalla testa pelata, vestito con una tunica rosso fiamma, che giocava con dei ragazzi zazzeruti. Quello che ci incuriosì non furono i ragazzi, per quanto ne valesse la pena vederli giocare, ma bel vecchio bacucco che, in sandali, faceva esercizi con una palla verde; non si chinava mai quando gli cadeva per terra, ma uno schiavo, che ne aveva una borsa piena, era lì pronto a rifornire i giocatori. E osservammo altre cose strane: per esempio, due eunuchi che se ne stavano, uno di fronte all’altro, ai due estremi del campo: uno teneva in mano un ordinale d’argento, l’altro contava le palle, ma non quelle che nel gioco si passavano da una mano all’altra, bensì quelle che cadevano per terra. Mentre stavamo lì incantati a guardare queste finezze sopraggiunse Menelao: “ Questo è quello che vi farà abbuffare stasera” ci disse “ e quanto avete visto ora è solo un antipasto”. Menelao aveva appena smesso di parlare, che Trimalcione schioccò le dita e l’eunuco, a quel segnale, gli mise l’orinale sotto. Scaricata la vescica, si fece dare l’acqua per le mani e inumiditesi appena le dita, se le asciugò sulla testa dei ragazzi.
28: Sarebbe troppo lungo raccontare quello che vedemmo. Entrammo nel bagno e, quando fummo grondanti di sudore, in un lampo, passammo sotto la doccia fredda. Intanto Trimalcione, in una nuvola di profumi, si veniva asciugando non già con i soliti lenzuoli, ma con pannolini di finissima lana mentre dinanzi a lui tre massaggiatori si scolavano bottiglie di Falerno litigando tra loro e facendone cadere un sacco per terra; ma Trimalcione diceva che era tutto alla sua salute. Poi tutto avvolto in un manto scarlatto, lo misero in una lettiga, preceduta da quattro lacchè in livrea e da un’altra portantina dove c’era il suo tesoruccio, un bimbo con la faccia di vecchio, tutto cisposo, più brutto ancora del suo padrone. Mentre così se lo portavano, gli si fece vicino agli orecchi un suonatore, con un minuscolo flauto, che gli zufolò in sordina per tutto il tragitto, come si gli stesse confidando qualche segreto. Noi ci mettemmo appresso, carichi di meraviglia, e, sempre insieme ad Agamennone, giungemmo sotto la porta di casa dove in cima era attaccato questo cartello: «ogni schiavo che esce senza il permesso del padrone riceverà cento frustate». Nell’atrio stava un portiere che indossava un vestito verde, stretto alla vita da una cintura color ciliegia e che sbucciava i piselli i un vassoio d’argento; dalla soglia inoltre pendeva una gabbia d’oro con una gazza tutta screziata che dava il benvenuto a quelli che entravano.
111: Ad Efeso vi era una signora così famosa per la sua pudicizia che anche dai paesi vicini le donne venivano ad ammirare un simile portento. «Quando le morì il marito, non contenta di andare dietro al feretro, come le altre, con i capelli sciolti, e di percuotersi il petto nudo dinanzi alla gente, volle seguire il marito fin nella sepoltura e custodirne la salma fin nel sepolcro dove era stata posta secondo l’uso dei Greci; e, notte e giorno, non faceva che piangere. Era tanto disperata che nemmeno i parenti riuscirono a farle cambiare l’idea di morire di fame; perfino i magistrati lei mandò via… Così tutti piangevano, ormai, come morta, quella donna esemplare che da cinque giorni non toccava cibo. Assisteva la sventurata una sua fedelissima ancella che univa le sue lacrime a quelle della padrona e che, inoltre, quando la lampada posta sopra la tomba stava per spegnersi, badava a rifornirla d’olio. Per tutta la città non si parlava d’altro e gli uomini d’ogni cero riconoscevano che non si era mai visto un tal esempio di pudicizia ed amore.» «Frattanto il governatore della provincia fece crocifiggere certi ladroni, proprio vicino alla tomba dove la vedovella piangeva il suo recente lutto.» «La notte successiva, un soldato, messo lì di guardia perché nessuno staccasse i corpi dalle croci, per seppelirli, vide un lume che splendeva tra le tombe e, udendo anche dei gemiti, come se qualcuno piangesse - per quella debolezza che è un po’ di tutti gli uomini - volle andare a vedere che vi fosse e che stesse facendo; così scese nel sepolcro e quando vide quella bellissima donna, in un primo momento rimase esterrefatto, credendo di trovarsi di fronte ad un fantasma, ma poi, vedendo il cadavere dell’uomo e notando le lacrime della donna, il suo viso, che lei si era tutto graffiato con le unghie, comprese che si trattava di una sposa che non sapeva darsi pace per la morte del suo uomo e così, portato nel sepolcro quel poco che aveva per cena, cominciò ad esortarla, dicendole che era inutile persistere in un vano dolore perché a nulla, in fin dei conti, giova rovinarsi i polmoni con tanti lamenti e che, del resto, quella era la fine di tutti e quella l’ultima, comune dimora: insomma, tutte quelle belle parole che si dicono, in tali circostanze, per dare un po’ di conforto agli animi addolorati. Ma quella, ancor più esasperata dalla presenza di uno sconosciuto e dal fatto che quello volesse consolarla, prese a graffiarsi il petto con maggiore impegno e a strapparsi i capelli che gettava, a ciocche, sulla salma del marito.»«Il soldato, però, non si perse d’animo e, continuando nelle sue esortazioni, cercò di far prendere alla donna un po’ di cibo. L’ancella, dal canto suo, conquistata dall’odore del vino, si arrese per prima e stese la mano all’offerta invitante, e così, rianimata dalla bevanda e dal cibo, cominciò anch’essa a combattere l’ostinazione della padrona.» «In verità nessun ascolta malvolentieri chi lo invita a mangiare e a vivere, e così la donna, sfinita da tanti giorni d’astinenza, lasciò, alla fine, cadere ogni sua ostinazione e, non meno avidamente della sua ancella, che per prima aveva ceduto, si gettò sul cibo.»
112: «Tra l’altro sapete che cosa, per lo più, suole tentare l’uomo sazio. Con le stesse blandizie che aveva usato per persuadere la donna a voler vivere, il soldato si mise all’assalto anche della pudicizia di quella. Alla casta il giovane non sembrava né brutto né impacciato, tanto che l’ancella cercava di renderglielo simpatico ripetendole sempre: “Combatti anche contro un gradito amore? Non ti ricordi dove vivi?” Che dire di più? La donna non astenne nemmeno questa parte del corpo, e il soldato vincitore la persuase in tutti e due i sensi. Dunque giacquero non solo quella prima notte, che fu come di nozze, ma anche quella dopo e la terza, chiuse, si capisce, le porte del sepolcro, affinché, chiunque, tra i conoscenti e i non conoscenti, venisse al sepolcro, ritenesse che la pudicissima donna fosse spirata sopra il corpo del marito.» «Il soldato, intanto, tutto preso dalla libidine della donna ed eccitato da quell’amore segreto, comprava quello che più poteva per le sue possibilità e, appena faceva buio, portava tutto al sepolcro. Ora accadde che i parenti di uno dei crocifissi, vedendo che la sorveglianza era molto diminuita, una notte trassero giù dalla croce il loro congiunto e gli resero le estreme onoranze. Il soldato, occupato in ben altre faccende, quando vide, il giorno dopo, una croce senza più il morto, ben sapendo quello che lo attendeva, corse a narrare la brutta faccenda alla donna e , disperato, senza aspettare di venire giudicato e condannato dai suoi superiori, decise di uccidersi e punire, così, la sua imperdonabile negligenza. Chiese, quindi, che gli fosse preparato, in quel sepolcro un posticino anche per lui: in quel sepolcro che avrebbe così riunito il marito e l’amante. La donna, però, non meno pietosa che casta, gli disse: “Ahimè? Gli dei non permetteranno che io veda, in così breve tempo, le esequie dei due uomini che mi sono stati più cari. È meglio appendere alla croce un morto che lasciar morire un vivo”. E così, detto fatto, fece togliere dal sepolcro il corpo del marito e attaccarlo alla croce che era rimasta libera. Il soldato, tutto contento, mise in atto la trovata di quella donna così saggia e il giorno dopo la gente rimase strabiliata, non riuscendo a capire come il morto avesse fatto a salire sulla croce.»
Quintilliano: Institutio Oratoria
X, 1, 93-95: Anche nell’elegia possiamo competere da pari a pari con i Greci: il poeta più puro e aggraziato del genere a me pare Tibullo: ma c’è chi preferisce Properzio. Dell’uno e dell’altro più manierato è Ovidio, così come meno disinvolto è Gallo. Certamente tutta nostra è la satira, in cui Lucilio, che per primo vi acquistò rinomanza, ha tuttora degli estimatori così devoti, che non esitano a preferirlo non solo agli scrittori di satire, ma a tutti i poeti. Per conto mio, quanto da costoro, tanto dissento da Orazio, il quale crede che Lucilio scorra «limaccioso» e che «c’è qualcosa che si potrebbe toglierne». Infatti egli è meravigliosamente colto, ricco di spiriti liberi e perciò pungente e notevolmente arguto. Molto più limpido e puro è Orazio e - non credo di sbagliarmi - senz’altro il più importante dei poeti satirici. Grande e meritata fama ha conseguito Persio, pur con un solo libro di satire. E ce ne sono altri oggi illustri e che saranno in avvenire ricordati. Dell’altro genere di satira, più antico, ma caratterizzato dalla varietà non soltanto dei metri, fu scrittore Terenzio Varrone, l’uomo più erudito dei Romani. Egli compose numerosissime e dottissime opere e fu conoscitore profondo della lingua latina, e, in ogni senso, di antiquariato, relativo sia al mondo greco che a quello romano.: ma il suo contributo era destinato più all’erudizione che all’eloquenza.
Tertulliano, Apologeticum
II, 6-9. Eppure noi abbiamo trovato che anche l’inchiesta contro di noi è stata proibita. Infatti Plinio Secondo, quando governava la sua provincia, dopo aver condannati alcuni cristiani, dopo averne fatti abiurare altri, tuttavia turbato dalla loro grande quantità consultò Traiano su come dovesse comportarsi per il resto, ritenendo che tranne l’ostinazione di non sacrificare non aveva trovato null’altro riguardo al loro mistero se non riunioni antelucane per cantare a Cristo come se fosse un Dio e per rinsaldare una dottrina che vietava l’omicidio, l’adulterio, la frode, la perfidia e tutti gli altri crimini. Allora Traiano rispose per scritto che questa razza di persone non doveva essere inquisita, ma se denunciati bisogna punirli. O sentenza illogica per necessità! Dice che non dovevano essere ricercati come fossero innocenti e raccomanda di punirli se fossero colpevoli. Rispetta e si accanisce, finge di non capire e capisce. Perché esporre te stesso alla censura? Se li condanni perché non li ricerchi? Se non li ricerchi, perché non li assolvi? Per rintracciare i briganti si sorteggiano guarnigioni militari per tutte le provincie; contro i colpevoli di lesa maestà e contro i nemici pubblici ogni uomo è soldato: l’inchiesta si estende fino ai complici ed ai testimoni. Solo il cristiano non è permesso ricercarlo, ma denunciarlo, come se l’inchiesta mirasse a qualcos’altro che non la denuncia. Perciò voi condannate una persona denunciata che nessuno volle che fosse ricercato; ritengo, pertanto che questi non sia punito perché è colpevole, ma perché non essendo cercato è stato trovato.
Cicerone: DE AMICITIA
Invero ascoltate, ottimi uomini, le cose che molto spesso erano discusse tra me e Scipione riguardo all'amicizia. Quello affermava che certamente non c’è nulla di più difficile d'una amicizia che duri fino all'ultimo istante di vita. Infatti, spesso capita che la stessa cosa non convenga ad entrambi o che non abbiamo la stessa opinione in politica; affermava che spesso anche i costumi degli uomini cambiano o a causa delle avversità o a causa dell'avanzare dell'età. Se invece si siano protratti fino alla giovinezza, talvolta sono distrutti da un conflitto per un buon partito matrimoniale o per qualche vantaggio che entrambi non possono aggiungere. Ma se qualcuno ha fatto durare più a lungo l'amicizia, tuttavia è fatta spesso vacillare, se capitano nella lotta per le magistrature; infatti, non v'è flagello più grande per le amicizie, che il desiderio di ricchezze nei più e la contesa delle cariche pubbliche nei migliori. Inoltre le grandi controversie, e nella maggior parte giuste, nascono quando si chiede agli animi qualcosa che non sia retto, come per esempio, o d’essere complici del [nostro] desiderio o sostenitori delle azioni disoneste. Coloro i quali si rifiutano, sebbene facciano ciò onestamente, tuttavia sono accusati da quelli ai quali non vogliono obbedire di violare la legge dell'amicizia; invece quelli che hanno il coraggio di chiedere ad un amico qualsiasi cosa, con la stessa loro richiesta dichiarano apertamente che faranno qualsiasi cosa per l'amico. E per le loro lamentele non solo muoiono amicizie di lungo tempo, ma nascono odi eterni. Così tante sciagure incombono sulle amicizie che, egli diceva, evitarle tutte gli sembrava opera non solo della saggezza ma anche della fortuna.
Allora sia stabilita nell'amicizia questa legge, che né chiediamo cose turpi, né facciamole se richiesti. Il costume degli antenati ha ormai deviato alquanto dalla sua strada e dal suo corso. Allora si deve insegnare ai buoni che, se fossero capitati per uno strano caso, o senza saperlo, in amicizie di tal fatta, non pensino essersi così legati da non poter distaccarsi dagli amici in qualche grande situazione di scelleratezza. Inoltre bisogna stabilire una pena per i disonesti, né invero una minore, per quelli che avranno seguito un altro, di quella per coloro che furono essi stessi a compiere il misfatto.
Venga dunque sancita come prima legge dell’amicizia questa, che chiediamo agli amici cose oneste, facciamo cose oneste per gli amici, non esitiamo nemmeno a dare liberamente il nostro consiglio quando siamo pregati, ci sia sempre prontezza e non ci sia esitazione. Sia di grande importanza nell’amicizia l’autorità degli amici che ci portano al bene e sia utilizzata per avvertire non solo apertamente, ma anche aspramente, se la situazione lo richiedesse, e si obbedisca ad essa.
[...]
Inoltre si afferma che altri affermino in modo anche più disumano che si debbano ricercare le amicizie per difesa e aiuto, non per benevolenza ed amore; e quanto meno ciascuno ha sicurezza e forza tanto più cerca amicizia: da ciò avviene che le donne cerchino il sostegno delle amicizie più degli uomini, i poveri piedi ricchi, i disgraziati più di quelli che ritengono d’essere felici. Oh nobile sapienza! Sembrano privare il mondo del sole coloro che privano la vita dell'amicizia, di cui non abbiamo avuto niente di meglio dagli dei immortali, niente di più dolce.
[...]
Aggiungiamo anche, cosa che si può aggiungere con sicurezza, che non c'è niente che attiri e attragga qualche cosa a sé quanto l’affinità l'amicizia, certamente si ammetterà che sia vero che i buoni preferiscono i buoni e si uniscano ad essi, uniti quasi da una parentela e dalla natura. A motivo di ciò sia evidente sia, secondo me, per i buoni c’è tra i buoni un legame affettuoso quasi inevitabile che è la fonte dell'amicizia, costruita dalla natura. E mi sembra anche che cloro che fingono amicizia per interesse, sciolgano l'amabilissimo nodo dell'amicizia. Infatti, non è tanto gradito il vantaggio che c’è procurato da un amico quanto lo stesso amore dell'amico, e allora ciò che viene dall'amico, fa piacere se è accompagnato dall'affetto e si è tanto lontani dal fare amicizie per bisogno che coloro i quali non hanno per niente bisogno degli altri per i mezzi per i soldi e soprattutto per la virtù, in cui consiste il maggior sostegno, sono i più generosi e disponibili. E non saprei neppure se sia necessario che gli amici non abbiano mai bisogno di niente. Dunque l'amicizia non è stata una conseguenza dell’interesse, ma l'interesse dell'amicizia.
Inoltre dobbiamo stabilire quali siano i confini nell'amicizia e, per così dire, i limiti precisi dell'affetto. Riguardo a ciò vedo che si propongono tre opinioni, nessuna delle quali approvo: una è che proviamo affetto verso i nostri amici nello stesso modo in cui noi ne proviamo per noi stessi; la seconda è che il nostro affetto per gli amici corrisponda ugualmente e uniformemente all'affetto di quelli nei nostri confronti; la terza è che ciascuno sia stimato dagli amici tanto quanto stimi se stesso. Infatti, non è vera la prima, quante cose, che non faremmo mai per noi, facciamo per gli amici, pregare un uomo indegno, inveire contro qualcuno molto aspramente e accanirsi con molta forza! Cose che a favore nostro sarebbero poco giuste, a favore degli amici sono giustissime e vi sono molte cose nelle quali gli uomini onesti sottraggono e lasciano che si sottragga molto ai loro interessi, affinché ne usufruiscano gli amici piuttosto che essi stessi. La seconda opinione è quella che riduce l'amicizia alla reciprocità di servigi e di buone disposizioni: questo però significherebbe ridurre a calcolo l'amicizia, in modo troppo meschino e arido, in modo tale che il conto di ciò che è ricevuto e di ciò che è dato sia pari. Mi sembra che la vera amicizia sia più ricca e più generosa e non osservi rigorosamente a non dare più di quanto abbia ricevuto. Invero lo stesso terzo limite è molto il peggiore, cioè che sia stimato dagli amici tanto quanto ciascuno stimi se stesso. Infatti spesso in qualcuno l'animo è troppo scoraggiato o è troppo debole la speranza di migliorare la propria sorte. Dunque non è proprio dell'amico essere verso quello come verso se stesso ma piuttosto sforzarsi e darsi da fare per risollevare l'animo abbattuto dell'amico e indurlo a speranze e pensieri migliori. Sarà, inoltre, necessario desiderare e bramare che l'amico commetta errori molto spesso, per darci più occasioni per rimproverarlo; al contrario sarà inevitabile angosciarsi, addolorarsi e provare invidia per le azioni oneste e i successi degli amici. Perciò questo principio, di chiunque sia, è capace di annullare l'amicizia. Si sarebbe dovuto raccomandare piuttosto che adoperassimo una tale attenzione nel procurarci le amicizie, da non iniziare ad amare uno che un giorno potremmo odiare. E anche se fossimo stati poco fortunati nello scegliere, Scipione pensava che si dovesse sopportare piuttosto che pensare al momento dell'inimicizia.
Penso dunque, che bisogna attenersi a questi limiti, cioè che, quando i costumi degli amici sono giusti, allora ci sia fra loro la comunione di tutte le cose nelle decisioni e nei desideri senza alcun’eccezione; in modo che se per qualche eventualità accada di dover sostenere desideri degli amici non molto giusti, in cui si tratti della loro vita o del loro onore, si possa declinare dalla retta via, purché non ne consegua un'estrema vergogna. Infatti, vi è un limite alla condiscenza tra amici, ma invero non si deve trascurare l'onore, né si deve ritenere il favore dei concittadini, che è vergognoso procurarsi con lusinghe e adulazione, un'arma insignificante per la vita politica; la virtù che tiene dietro l'amore non si deve per niente ripudiare.
[...]
Dunque è proprio del prudente frenare, come il carro, così lo slancio dell'affetto, per così dire dopo aver provato i cavalli, come è nell'amicizia, dopo aver messo alla prova, in qualche modo, i costumi degli amici. Si vede spesso quanto certi siano volubili anche di fronte al denaro; altri, poi, che una piccola somma non ha potuto far vacillare, si rivelano [volubili] davanti a una grande. Ma se si troveranno alcuni che ritengono ignobili anteporre il denaro all'amicizia, dove troveremo quelli che non antepongono all'amicizia, le cariche pubbliche, le magistrature, i comandi militari, i poteri le ricchezze, così che, quando da una parte sono offerte loro queste cose, e dall'altra i diritti dell'amicizia, non preferiscano molto di più quelle? Infatti, la natura umana è debole per disprezzare il potere e anche su lo hanno raggiunto trascurando l'amicizia, pensano che ciò sarà dimenticato, poiché l'amicizia è stata trascurata non senza un motivo importante. Dove si troverà uno che anteponga l'onore dell'amico al suo? Quanto, poi, sembra difficile alla maggior parte degli uomini, farsi partecipe delle disgrazie altrui! E non è facile trovare chi si abbassi a questo. benché Ennio abbia detto giustamente: "L'amico certo si vede nella sorte incerta". Tuttavia queste due cose provano la superficialità e l'incostanza della gente cioè che disprezzino gli amici nella buona sorte o li abbandonino nella cattiva. Colui che, in entrambe le circostanza, si sia dimostrato serio, costante, saldo, dobbiamo giudicarli di quel genere d’uomini estremamente raro e quasi divino.
Il sostegno della stabilità e della costanza che cerchiamo nell'amicizia, è quello della fiducia. Inoltre conviene scegliere un amico sincero, gentile e affine, cioè che sia mosso dai nostri stessi sentimenti. L'amicizia non può esistere se non tra gli onesti. Infatti, è proprio dell'uomo onesto, che è lecito chiamare saggio, osservare questi due principi nell'amicizia. Prima di tutto che non vi sia niente di finto o simulato; infatti, è proprio dei un animo nobile persino odiare apertamente piuttosto che celare il proprio pensiero dietro un falso aspetto. Inoltre non solo respinge le accuse fattegli da qualcuno, ma non è neppure sospettoso, pensando sempre che l'amico abbia commesso qualche errore.
Inoltre esiste, a questo punto, una questione alquanto difficile: se talora amici nuovi, degni d’amicizia, devono essere anteposti ai vecchi, come siamo soliti anteporre ai cavalli invecchiati quelli giovani. Dubbio indegno in un uomo! Infatti, non vi deve essere sazietà d’amicizie, come delle altre cose: le amicizie più antiche, come quei vini che resistono al tempo, devono essere piacevolissime ed è vero ciò che si dice, che si devono mangiare molti moggi di sale affinché sia completo il dono dell'amicizia. Inoltre, le nuove amicizie, se hanno la speranza di fruttificare, come, per così dire, v'è il frutto nelle erbe non fallaci, non si devono per niente ripudiare, ma le vecchie amicizie devono conservare il proprio posto. Inoltre è importantissimo nell'amicizia ritenersi pari a chi è inferiore affinché per mezzo proprio, tutti gli amici potessero diventare più importanti.
CICERONE: De republica
VI, par. XII: Allora Africano, dovrai mostrare alla patria la luce de tuo animo, del tuo ingegno, del tuo senno. Ma io vedo, di quel tempo, come un bivio del destino. Quando, infatti, la tua età avrà compiuto sette volte otto giri e rivoluzioni del sole, e da questi numeri, di cui l’uno per un motivo e l’altro per un altro, sono del pari stimati perfetti, con naturale vicenda avranno condotto a termine la somma (d’anni) a te prefissata dal destino, tutta la città si rivolgerà a te solo e al tuo nome, a te guarderanno il senato, a te tutti i benpensanti, a te gli alleati latini, tu sarai il solo al quale si possa appoggiare la salvezza della città, e, per non dire di più, dovrai come dittatore restaurare lo Stato, se riuscirai a sfuggire dalle empie mani dei tuoi famigliari» -. Qui avendo Lelio esclamato ed essendosi messi gli altri a piangere forte, Scipione lievemente sorridendo: - Silenzio! Prego - disse - non svegliatemi dal sonno ed ascoltate per un poco il seguito.
CICERONE: De officiis
I, 105-106: In tutto il problema relativo al dovere conviene tenere sempre presente quanto la natura umana sia superiore a quella delle bestie e degli altri bruti; quelle non avvertono se non il piacere e vi sono trascinate d’impeto, la mente umana invece si alimenta di nozioni e di pensieri, cerca o fa sempre qualche cosa, è spinta dal diletto di vedere e di udire. Che anzi, se c’è qualcuno un po’ incline ai piaceri, purché non sia una bestia, poiché vi sono taluni uomini solo di nome non di fatto, ma anche che guardi un po’ più in alto, sebbene preso dalla sensualità, nasconde e dissimula il suo desiderio di piacere per vergogna. Dal che si capisce che il diletto carnale non è abbastanza degno della superiorità dell’uomo, e che bisogna rigettarlo e tenerlo in dispregio; se poi c’è qualcuno che fa delle concessioni ai piaceri, si comprende che deve tenere una certa misura nel godere. Così il vitto e la cura del corpo si commisurino alla salute ed alle forze, non già al piacere. Ed anche se vogliamo considerare quale eccellenza e dignità siano nella nostra natura intenderemo come sia vergognoso guazzare nel lusso e vivere con ogni raffinata mollezza, e quanto onesta invece una vita frugale, moderata, continente, severa e sobria.
LIVIO cap. 5, 48-49
Ma più che da tutti i mali dell’assedio e della guerra, entrambi gli eserciti erano tormentati dalla fame ed i Galli anche da un’epidemia dovuta al fatto che il loro accampamento si trovava in un punto depresso in mezzo alle alture, bruciato dagli incendi e pieno di esalazioni, dove bastava un alito di vento per sollevare polvere e cenere. I Galli, non riuscendo a sopportare quelle esalazioni proprio perché erano un popolo abituato al freddo e all’umidità, morivano soffocati dal grande calore mentre il contagio si diffondeva come se si fosse trattato di bestiame, per pigrizia di seppellire i cadaveri ad uno ad uno li bruciavano a mucchi accatastati alla rinfusa, rendendo così in seguito famoso quel luogo col nome di Tombe dei Galli (bustorum Gallorum). Venne poi stipulata una tregua con i Romani e, con l’autorizzazione dei comandanti, si iniziarono colloqui. Ma dato che durante queste conversazioni i Galli non perdevano occasione per rinfacciare agli avversari la fame che pativano e li invitavano ad arrendersi piegandosi a questa necessità, pare che per far loro cambiare idea a tale riguardo venne gettato giù da molti punti del Campidoglio del pane in direzione dei posti di guardia nemici. Soltanto che ormai la fame non poteva più né essere dissimulata né tollerata a lungo. E così mentre il dittatore era impegnato a realizzare di persona una leva militare ad Ardea, e dopo aver ordinato al maestro di cavalleria Lucio Valerio di marciare da Veio a capo di un esercito disponeva e preparava le truppe per affrontare i nemici in condizioni di parità, nel frattempo gli uomini attestati sul Campidoglio, stremati dai turni di guardia e dai picchetti armati, non riuscivano a superare quell’unico ostacolo, la fame. La natura non permetteva di avere ragione non ostante avessero già affrontato con successo tutti i mali che possono capitare a degli esseri umani, speravano di giorno in giorno se apparisse un qualche aiuto da parte del dittatore; alla fine, quando ormai non solo il cibo, ma anche la speranza era venuta a mancare e i loro corpi indeboliti erano quasi schiacciati dal peso delle armi nell’incalzare dei turni di guardia, il dittatore ordinò loro di chiedere la resa e il riscatto a qualunque condizione, anche perché i Galli avevano fatto sapere in maniera più che chiara di essere disposti a togliere l’assedio ad un prezzo per nulla esorbitante. Allora si tenne una seduta del senato nella quale venne dato ai tribuni militari l’incarico di definire i termini dell’accordo. La questione venne regolata in un colloquio tra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: il prezzo pattuito per un popolo presto destinato a regnare sul mondo fu di mille libbre d’oro. A questa trattativa già di per sé infame venne aggiunto anche un oltraggio: i Galli portarono dei pesi tarati in maniera disonesta e siccome il tribuno protestò, l’insolente comandante dei Galli aggiunse al peso la propria spada, pronunciando una frase insopportabile per le orecchie dei Romani: «Guai ai vinti!».
Ma né gli dei né gli uomini tollerarono che i Romani sopravvivessero a prezzo di un riscatto. Infatti, per una sorte provvidenziale, prima ancora che il vergognoso mercato fosse concluso, mentre si era nel pieno delle trattative e l’oro non era stato pesato del tutto, sopraggiunse il dittatore che ordinò di far sparire l’oro e ingiunse ai Galli di andarsene.. Siccome questi ultimi si rifiutavano sostenendo di aver stipulato un accordo, Camillo disse che non poteva avere validità un patto siglato, senza sua autorizzazione, dopo che era stato nominato dittatore, da un magistrato di rango inferiore, e intimò ai Galli di preparasi alla battaglia. Ai suoi uomini diede disposizione di accatastare i bagagli, di preparare le armi per riconquistare la propria terra a colpi di spada e non a prezzo dell’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dei, le mogli e i figli, nonché il suolo della patria segnato dalle atrocità della guerra e tutto ciò che era sacro dovere riconquistare, difendere e vendicare. Poi schierò le truppe in ordine di battaglia come la natura del suolo permetteva sul terreno di per sé accidentato dalla ormai semidistrutta Roma, e prese tutte quelle misure che l’arte militare permetteva di scegliere e di predisporre in favore dei suoi uomini. Disorientati da quest’iniziativa, i Galli prendono le armi e si buttano all’assalto dei romani più con rabbia che con raziocinio. Ma ormai la sorte era cambiato e la potenza divina e la saggezza umana erano dalla parte di Roma. Così, al primo scontro, i Galli vennero sbaragliati con minore sforzo di quanto essi ne avessero impiegato nella vittoria presso il fiume Allia. Poco dopo, in una seconda e più regolare battaglia, ad otto miglia da Roma, sulla via Gabina, dove si erano raccolti dopo la fuga, vennero di nuovo sconfitti sempre sotto il comando e gli auspici di Camillo. Lì il massacro non ebbe limiti: venne preso l’accampamento e non fu lasciato in vita nemmeno un messaggero che tornasse in dietro a riferire della disfatta. Dopo aver recuperato la patria strappandola al nemico, il dittatore tornò in trionfo a Roma e, in mezzo ai lazzi grossolani improvvisati in quelle occasione dai soldati, con lodi non certo immeritate venne salutato come Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma. Dopo averla salvata in tempo di guerra, Camillo salvò di nuovo la propria città quando, in tempo di pace, impedì un’emigrazione in massa a Veio, non ostante i tribuni - ora che Roma era un cumulo di cenere - fossero pi che mai accaniti in quest’iniziativa, e la plebe la appoggiasse già di per sé in maniera ancora più netta. Fu questo il motivo per il quale egli non rinunciò alla dittatura, dopo la celebrazione del trionfo, visto che il senato lo implorava di non abbandonare il paese in quel frangente così delicato.
Tacito, Il matricidio
III) Nerone, pertanto cominciò ad evitare di incontrarsi da solo con la madre e, quando essa se ne andava i campagna a Tusculo o ad Anzio, si compiaceva con lei perché si prendeva un po’ di svago. Alla fine, considerando che la presenza di lei, in qualunque luogo ella fosse, era per lui pericolosa, decise di ucciderla, mostrandosi dubbioso solo sul fatto se dovesse adoperare il veleno o la spada o qualsiasi altro mezzo violento. In un primo tempo pensò ad un veleno. Se, tuttavia questo fosse stato propinato alla mensa del principe, ciò non si sarebbe potuto attribuire ad un puro caso, dato il precedente della morte di Britannico, e d’altra parte, sembrava difficile corrompere i servi di una donna che era vigile contro le insidie, proprio per la consuetudine ai delitti; v’era poi il fatto che Agrippina aveva premunito il suo corpo con l’uso degli antidoti contro i veleni. Nessuno, poi, avrebbe potuto trovare il modo di nascondere un eccidio fatto a colpi di pugnale, poiché Nerone temeva che colui che fosse stato prescelto a compiere così grave misfatto potesse anche ricusarne l’incarico. Gli offrì un’idea ingegnosa il liberto Aniceto, capo della flotta di stanza al capo Miseno e precettore di Nerone fanciullo, odioso ad Agrippina, che era da lui ricambiata da pari odio. Costui informò il principe che si poteva costruire una nave, una parte della quale, in alto mare, si sarebbe aperta per un apposito congegno ed avrebbe fatto affogare Agrippina, colta di sorpresa. Nulla più del mare offriva possibilità di disgrazie accidentali e se Agrippina fosse stata portata via da un naufragio, chi sarebbe mai stato tanto iniquo da attribuire ad un delitto, ciò che i venti e le onde avevano compiuto? Il principe avrebbe poi elevato alla madre morta un tempio, dagli altari e dagl’altri segni d’onore, a testimonianza del suo affetto filiale.
IV) L’idea geniale fu accolta, favorita anche dalle circostanze, dal momento che Nerone celebrava presso Bala le feste quinquatrie. Qui attese Agrippina, mentre andava ripetendo a tutti che si dovevano tollerare i malumori della madre, e che gli animi si dovevano rappacificare; da ciò sarebbe sorta la voce di una riconciliazione, ed Agrippina l’avrebbe accolta con la facile credulità delle donne per le cose che suscitano piacere. Nerone, poi, sulla spiaggia, mosse incontro a lei che veniva dalla sua villa di Anzio, ed avendola presa per mano l’abbracciò e la condusse a Bauli. Questo è il nome di una villa che è lambita dal mare, nell’arco del lido tra il promontorio Miseno e l’insenatura di Baia. Era là ancorata, fra le altre navi una più fastosa, come se anche ciò volesse rappresentare un segno d’onore alla madre; Agrippina, infatti, era solita viaggiare su una trireme con rematori della flotta militare. Fu allora invitata a cena, poiché era necessario attendere la notte per celare un misfatto. È opinione diffusa che vi sia stato un traditore e che Agrippina, informata della trama, nell’incertezza se prestare fede all’avvertimento , sia ritornata a Bala in lettiga. Qui le manifestazioni d’affetto del figlio cancellarono in lei ogni paura; accolta affabilmente fu fatta collocare al posto d’onore. Coi più svariati discorsi, ora con tono di vivace famigliarità, ora con atteggiamento più grave, come se volesse metterla a parte di più serie faccende, Nerone trasse più a lungo possibile il banchetto; nell’atto poi di riaccompagnare alla partenza Agrippina, la strinse al petto, guardandola fisso negli occhi, o perché volesse rendere più verisimile la sua finzione o perché guardandola per l’ultima volta il volto della madre che andava a morire sentisse vacillare l’animo suo, per quanto pieno di ferocia.
V) Quasi volessero rendere più evidente il delitto, gli dei prepararono una notte tranquilla piena di stelle ed un placido mare. La nave non aveva percorso ancora un lungo tratto; accompagnavano Agrippina appena due dei suoi famigliari, Crepereio Gallo che stava presso il timone e Acerronia, che ai piedi del letto ove Agrippina era distesa andava rievocando lietamente con lei il pentimento di Nerone, e il riacquistato favore della madre; quando all’improvviso ad un dato segnale, rovinò il soffitto gravato da una massa di piombo e schiacciò Crepereio che subito morì. Agrippina ed Acerronia furono invece salvate dalle alte spalliere del letto, per caso tanto resistenti da non cedere al peso. Nel generale scompiglio non si effettuò neppure l’apertura della nave, anche perché i più, all’oscuro di tutto, erano di ostacolo alle manovre di coloro che invece erano al corrente della cosa. Ai rematori parve opportuno allora di inclinare la nave su di un fianco, in modo da affondarla; ma non essendo possibile ad essi un così improvviso mutamento di cose, un movimento simultaneo ed anche perché glia altri che non sapevano facevano sforzi in senso contrario, ne venne che le due donne caddero in mare più lentamente. Acerronia, pertanto, con atto imprudente, essendosi messa a gridare che lei era Agrippina e che venissero perciò a salvare la madre dell’imperatore, fu invece presa di mira con colpi di pali e di remi e con ogni genere di proiettile navale. Agrippina, in silenzio, e perciò non riconosciuta (aveva avuto una sola ferita alla spalla), da prima a nuoto, e poi con una barca da pesca in cui si era incontrata, trasportata al lago di Lucrino, rientrò nella sua villa.
VI) Qui ripensando alla lettera piena d’inganno colla quale era stata invitata, agli onori coi quali era stata accolta, alla nave che, vicino alla spiaggia e non trascinata da venti contro gli scogli, s’era abbattuta dall’alto come fosse stata una costruzione terreste, considerando anche il massacro di Acerronia e guardando la sua propria ferita, comprese che il solo rimedio alle insidie era fingere di non aver capito. Mandò perciò, il liberto Agermo ad annunciare a suo figlio che per la benevolenza degli dei e per un caso fortunato , si era salvata dal grave incidente; lo pregava, tuttavia, che, per quanto emozionato per il grave pericolo corso dalla madre, non pensasse per ora di venirla a trovare, perché per il momento lei aveva bisogno di tranquillità. Frattanto, affettando piena sicurezza, si prese cura di medicare la ferita e di riconfortare il suo corpo; un solo atto non fu in lei ispirato a simulazione, l’ordine di recare il testamento di Acerronia e di porre i beni di lei sotto sequestro.
VII) Nerone, intanto in attesa della notizia che il delitto era stato consumato, apprese che invece Agrippina .......................corso un pericolo così grande da non farla dubitare intorno all’autore dell’insidia. Allora Nerone, morto di paura, cominciò ad agitarsi gridando che da un momento all’altro Agrippina sarebbe corsa alla vendetta, sia armando gli schiavi, sia eccitando alla sollevazione i soldati, sia appellandosi al senato ed al popolo, denunciando il naufragio, la ferita e gli amici suoi uccisi. Quale aiuto contro di lei egli avrebbe avuto se non ricorrendo a Burro e Seneca? Perciò fece subito chiamare l’uno e l’altro che forse erano già prima al corrente della cosa. Stettero a lungo in silenzio per non pronunciare vane parole di dissuasione o forse perché pensavano che la cosa fosse giunta ad un punto tale che se non si fosse prima colpita Agrippina, Nerone avrebbe dovuto fatalmente perire. Dopo qualche momento , Seneca in quanto soltanto si mostrò molto più deciso, in quanto, guardando Burro, gli domandò se fosse mai possibile ordinare ai soldati l’assassinio. Burro rispose che i pretoriani, troppo devoti alla casa dei Cesari e memori di Germanico non avrebbero osato compiere nessun atto nefando contro la prole di lui.; toccava ad Aniceto di assolvere le promesse. Costui senza alcun indugio chiese per sé l’incarico di consumare il delitto. A questa dichiarazione Nerone si affrettò a proclamare che in quel giorno gli era conferito veramente l’impero e che il suo liberto era colui che gli offriva dono sì grande: corresse subito via e conducesse con sé i soldati, deliberati ad eseguire gli ordini. Egli, poi, saputo dell’arrivo di Agermo messaggero di Agrippina, si preparò ad architettare la scena di un delitto e nell’atto in cui Agermo gli comunicava il suo messaggio, gettò tra i piedi di lui una spada e, come se lo avesse colto in flagrante, comandò subito di gettarlo in carcere, per poter far credere che la madre avesse tramato l’assassinio del figlio e che, poi, si fosse data la morte per sottrarsi alla vergogna dell’attentato scoperto.
VIII) Frattanto essendosi sparsa la voce del pericolo corso da Agrippina, come se ciò fosse avvenuto per caso, man mano si diffondeva la notizia, tutti accorrevano sulla spiaggia. Gli uni salivano sulle imbarcazioni vicine, altri scendevano ancora in mare per quanto consentiva la profondità delle acque. Alcuni protendevano le braccia con lamenti e con voti; tutta la spiaggia era piene delle grida e delle voci di coloro che facevano domande e di quelli che rispondevano; un gran moltitudine si affollò sul lido coi lumi, e come si seppe che Agrippina era incolume, tutti le mossero in contro per rallegrarsi con le, quando all’improvviso ne furono ricacciati dalla vista di un drappello di soldati armati e minacciosi. Aniceto accerchiò la villa con le sentinelle ed abbattuta la porta e fatti trascinare via gli schiavi che gli venivano incontro, procedette fino alla soglia della camera da letto di Agrippina, a cui solo pochi servi facevano la guardia, perché tutti gli altri erano stati terrorizzati dall’irrompente violenza dei soldati. Nella stanza vi erano un piccolo lume ed una sola ancella, mentre Agrippina se ne stava in stato di crescente allarme, perché nessuno arrivava da parte del figlio e neppure Agermo: ben altro sarebbe stato l’aspetto delle cose intorno se veramente la sua sorte fosse stata felice; non v’era che quel deserto rotto da urli improvvisi, indizi di suprema sciagura Quando anche l’ancella si mosse per andarsene Agrippina nell’atto di rivolgersi a lei per dirle: «anche tu m’abbandoni?» scorse Aniceto in compagnia del triarca Erculeio, e del centurione di marina Obarito. Rivoltasi allora a lui gli dichiarò che se era venuta per vederla annunziasse pure a Nerone che si era riavuta; se poi fosse lì per compiere un delitto, essa non poteva avere alcun sospetto sul figlio: non era possibile che egli avesse comandato il matricidio. I sicari circondarono il letto e primo il triarca la colpì con un bastone sul capo. Al centurione che brandiva il pugnale per finirla protendendo il grembo gridò: «colpisci al ventre» e cadde trafitta da molte ferite.
VIRGILIO: Bucolica I
Il tema pastorale dell’opera si riscontra da subito nel titolo dell’opera: il termine «Bucolica» significa difatti “canti dei bovari”. Il poema trae origine dalla letteratura greca, difatti Virgilio si ispira a Teocrito. La prima egloga si presenta come un dialogo tra due pastori, il felice Tityro e l’infelice Melibeo. In questo dialogo emerge sia l’idealizzazione del mondo pastorale sia l’allusione alla tragedia sociale dell’esilio, contrasto evidenziato anche sul piano stilistico tramite il rapporto contrastivo nos / tu. Tityro deve la sua fortuna ad un deus o comunque a qualcuno che rimarrà per lui un deus. Ben diversa è la situazione di Melibeo: espropriato delle sue terre, è costretto all’esilio. Il suo gregge è sfinito e spossato, Melibeo vuole conoscere l’identità di quel dio, da cui, comunque, non può sperare nulla. Tityro risponde parlando di Roma, alludendo alla figura di Ottaviano, che viene ricordato al verso 42 con il sostantivo iuvenem. Roma è il cipresso che si innalza fino al cielo, la città più grande, la più magnificente. Tityro è riuscito ad andare a Roma, grazie alla libertà raggiunta, dopo essere stato schiavo di Galatea e di Amarillide, la donna dal suo canto. A Melibeo è tutto chiaro, solo grazie all’aiuto di un iuvenis - deus, Tityro ha potuto conservare i suoi campi; a Melibeo non resta che lamentarsi della sua sorte, maledicendo i soldati e barbari che prenderanno le sue terre come compenso di guerra
MELIBEO
Tityro, tu sdraiato all’ombra di un rigoglioso faggio
Componi un canto silvestre su un flauto esile;
Io abbandono i territori della patria e i cari campi coltivati,
Io abbandono la patria; tu, Tityro, ozioso all’ombra
Fai risuonare le selve del nome della bella Amarillide
TITYRO
O Melibeo, un Dio creò per me questa calma:
Si egli sarà sempre per me un dio l’altare di quello
Spesso un agnello giovane preso dai nostri ovili bagnerà di sangue.
Proprio lui consentì che le mie giovenche errassero, come tu vedi, e proprio lui
Consentì che io suonassi ciò che volevo sull’agresta zampogna.
MELIBEO
Veramente non ti invidio; piuttosto sono stupito: da ogni parte,
In tutta la campagna senza interruzione c’è un tale turbamento. Ecco, vedi me,
Soffrendo spingo avanti delle caprette, anche questa, a fatica, Tityro, conduco:
Perché qui nei fitti noccioli, poco fa, dopo aver dato alla luce due gemelli,
Speranza per il gregge, li abbandonò sulla nuda pietra.
Spesso, questa disgrazia per me, se il mio animo non fosse stato sciocco,
Mi ricordo, me l’hanno predetta le querce colpite dai fulmini.
Ma tuttavia, chi sia questo dio dimmelo Tityro.
TITYRO
O Melibeo, io stolto ho ritenuto la città che chiamano Roma, simile
A questa nostra, dove spesso noi pastori siamo soliti menare (via dalle madri) i teneri agnelli.
Così conoscevo i cuccioli somiglianti ai cani, così le caprette
Alle madri; così ero abituato a confrontare il piccolo con il grande.
Ma invero questa città ha di tanto innalzato il suo capo fra le altre
Quanto sono soliti i cipressi tra i flessibili viburni.
MELIBEO
E quale motivo così grande ci fu per vedere Roma?
TITYRO
La libertà, benché fosse tardi, tuttavia si rivolse verso me che stavo inerte,
Dopo che la barba cadeva più bianca nel radermi;
Tuttavia si rivolse verso me e dopo lungo tempo venne,
Dopo che Amarilli mi ebbe, dopo che Galatea mi abbandonò.
E certamente, infatti, confesserò, finché Galatea mi tenne
Non ci fu per me né alcuna speranza di libertà, né alcuna cura di pecunia.
Sebbene molti animali destinati al sacrificio uscirono dai miei recinti,
Sebbene il pingue formaggio fosse lavorato per l’ingrata città,
Non ritornavo mai a casa con qualche soldo nella mia destra.
MELIBEO
Ed io che stavo a guardare perché invocassi così mesta gli dei, o Amarilli,
Per chi lasciavi appesi agli alberi i frutti:
Tityro era lontano. O Tityro, perfino i pini
Perfino le fonti e le piante qui intorno ti invocavano.
TITYRO
Che fare? Non potevo uscire dalla schiavitù
Né conoscere altrove dei così favorevoli.
Lì ho visto, Melibeo, quel giovane, per il quale
Il mio altare fuma dodici volte l’anno.
Egli alla mia supplica diede questa pronta risposta:
«Pascolate come prima i buoi, ragazzi; allevate i tori».
MELIBEO
Fortunato vecchio, così i campi rimarranno tuoi,
E grandi abbastanza per te anche se nudi sassi
E paludi dai canneti fangosi ingombreranno il pascolo.
Un erba sconosciuta non ammalerà le pecore affaticate dalla maternità
Né subiranno il contagio del gregge vicino
Fortunato vecchio, qui tra corsi d’acqua a te noti
E tra sacre fonti godrai il fresco dell’ombra;
Da una parte, come sempre, al confine col vicino, la siepe di sempre
Ai cui fiori si nutrono le api iblee
Più volte col suo sussurro lieve ti inviterà a dormire;
Dall’altro, sotto la rupe i potatori canteranno al cielo, tuttavia, nel frattempo, i rochi colombacci, a te cari,
E la tortora non smetteranno di gemere dall’olmo alto nel cielo.
TITYRO
Dunque i cervi, fatti leggeri, pascoleranno in cielo,
Il mare lascerà sulla spiaggia i pesci allo scoperto,
Andando ciascuno in esilio nei territori altrui
I Persiani berranno l’acqua della Saône e i Germani quella dal Tigri
Prima che si cancellerà dal mio cuore il suo viso.
MELIBEO
E noi ce ne andremo da qui, chi nell’Africa arsa,
Chi in Scizia e fino all’Oaxe dai gorghi fangosi,
Chi tra i Britanni largamente divisi da tutto il mondo.
Non rivedrò mai un giorno, dopo lungo tempo, la terra paterna
Il tetto di zolle d’erba della mia povera casa
E dietro quel po’ di spighe quello che per me è il mio regno?
Un empio soldato avrà questi campi così ben coltivati?
Un barbaro questi raccolti? Ecco dove la discordia ha postato
I poveri cittadini: per quelli ho seminato i miei campi!
O Melibeo, innesta ora le piante di pero, disponi le viti in filari!
Andate miei capretti, andate, gregge una volta felice.
Non vi vedrò sdraiato nell’ombra verde di un antro
Pendere lontano dal ripido pendio tra i cespugli;
Non canterò più canzoni; non vi poterà il vostro pastore
A brucare il citiso in fiore e i salici amari.
TITYRO
Ma tu, per stanotte almeno, potevi restare a riposare con me
Su un letto di verde fogliame: abbiamo mele mature,
Tenere castagne, e formaggio fresco in abbondanza,
E già fumano i tetti delle fattorie che spuntano in lontananza
E calano dall’alto dei monti le ombre più grandi.
Differenze tra Teocrito e Virgilio. Per Virgilio l’opera è stata redatta per motivi anche autobiografici (oltre alla volontà di una novità letteraria e poiché si sposava con la filosofia epicurea nella ricerca dell’atarassia), dunque troviamo anche interferenze della realtà esterna. Inoltre se Virgilio si pone sotto un punto di vista pastorale, condividendo le loro passioni, implicando quindi una partecipazione emotiva, Teocrito ha un atteggiamento aristocratico ed ironico. Anche la lingua sarà dunque differente. Per Virgilio è infatti una lingua colta ma semplice, Teocrito invece compie una mimesi linguistica. L’ambientazione è diversa. Per Virgilio si parla di locus amoenus (luogo dove il pastore sta con il suo gregge cantando sotto un albero frondoso vicino ad un ruscello = Arcadia, luogo in realtà arido, mitizzato in quanto l’uomo non deve faticare, la natura offre da sola il sostentamento), per Teocrito si parla di Sicilia e di solito nel primo il paesaggio esterno riflette pienamente lo stato d’animo dei pastori, per il secondo no. Inoltre le Bucoliche riprendono la poesia alessandrina di cui Catullo a Roma si era fatto esponente. Infatti ritroviamo il carattere personale, il lavoro di “labor limae”, il riferimento alla poesia greca, era una valvola di sfogo e di consolazione e la struttura è uguale.
VIRGILIO: Georgiche
(Libro I 121 - 159)
… Lo stesso Padre
Volle che fosse difficile la via della coltivazione e per primo
Fece smuovere i campi con metodo aguzzando con le preoccupazioni gli intelletti umani
E non permise che il suo regno si intorpidisse in una dannosa inerzia.
Prima di Giove non vi erano contadini che lavorassero i campi;
Non era neppure lecito segnare o dividere con i confini i terreni;
(Gli uomini) cercavano (i frutti) per metterli in comune, la natura stessa
Donava tutto più generosamente senza che nessuno (la) sollecitasse.
Quello (Giove) aggiunse il malefico veleno ai funesti serpenti
E ordinò ai lupi di fare prede e che il mare si agitasse
E tolse il miele dalle piante e nascose il fuoco
E fermò il vino che scorreva ovunque a fiumi,
Affinché il bisogno, con l’aiuto della riflessione, suscitasse le varie arti
A poco a poco e per mezzo dei solchi cercasse il frumento,
Affinché traesse fuori il fuoco nascosto nelle vene della selce.
Allora i fiumi per la prima volta sentirono gli olmi scavati;
Il navigante contò e diede un nome alle stelle
Alle Pleiadi, alle Iadi e all’Orsa luminosa di Licaone;
Poi escogitò come catturare le belve con i lacci e ingannarle con il vischio
E circondare le radure con i cani
E uno già colpisce con la rete il fiume profondo
Cercando il fondo, un altro tira su le gocciolanti reti dal mare;
Poi vennero il duro ferro e la lama della stridula sega
(Infatti i primi uomini spaccavano il fondibile legno con i cunei)
Allora ebbero origine le varie arti. Il duro lavoro e il bisogno che
Preme nelle necessità, vincono ogni difficoltà.
Per prima Cerere insegnò ai mortali a volgere la terra con l’aratro
Quando ormai le ghiande e i corbezzoli dalla sacra selva
Venivano meno e Dodona negava il cibo.
Ben presto anche al frumento fu aggiunta la malattia, tanto che la ruggine
Maligna corrodesse gli steli e lo sterile cardo si ergesse irto di spine
Nei campi; ed ecco che le messi muoiono e subentra una boscaglia selvaggia
Ossia lappole e triboli e le erbe sterili dominano i campi.
Se non darai tregua con rastrelli frequenti all’erba
E non spaventerai gli uccelli col rumore, se non eliminerai l’ombra che ricopre
I poderi con la falce e non avrai chiamato la pioggia con le tue preghiere,
Invano, ahimè, starai a guardare il gran mucchio di raccolto altrui e
Per calmare la fame andrai a scuotere le querce nei boschi.
(libro II versi 458-540)
La natura viene rappresentata benigna, la vita del contadino più semplice rispetto a quella del cittadino che ha gusti raffinati. Il contadino possiede inoltre i valori di laboriosità, moderazione, religiosità e giustizia. Nei primi 20 versi la poesia è simile a quella del De rerum natura di Lucrezio: Virgilio teme di non essere all’altezza per scrivere quest’opera chiede aiuto alle muse. Ci sono versi che richiamano ad una concezione antica in cui si riteneva la sede dell’intelligenza nel sangue. Inoltre il testo ha riferimenti bucolici. Inoltre Virgilio afferma che due sono i modi per raggiungere la felicità: uno è quello epicureo espresso da Lucrezio (felice è colui che può investigare le cause delle cose…), l’altro è quello del contadino che vive secondo natura in “contrasto” con la città, un luogo di pazzia e di follia umana in quanto il cittadino si lascia coinvolgere dalle passioni. Il contadino è messo in contrasto con l’avventura, con il desiderio di potere e di ricchezza, contro la fama oratoria; l’agricoltore è colui che lavora duramente, per tutto il periodo dell’anno, in un clima famigliare, in cui anche gli animali sono umanizzati: gli affetti puri del contadino sono contrapposti alla corruzione cittadina. Non solo, il contadino si diverte anche, durante le feste, un divertimento semplice ma puro, che facevano anche gli antichi.
O agricoltori anche troppo fortunati se solo conoscessero i loro
Beni! Per loro spontaneamente, lontano dalla discordia delle armi,
La terra giustissima offre dal suolo facile sostentamento.
Se l’alto palazzo dalle superbe porte
Non versa uno stolo immenso di salutatori mattutini da tutte le sue porte
Se (gli agricoltori) non bramano a bocca aperta, battenti variamente intarsiati di bella tartaruga,
vesti ricamate in oro e bronzi di Corinto,
se la bianca lana non è colorata con la porpora assira e
l’uso dell’olio limpido non è guastato dalla cannella,
ma invece non mancano una pace sicura e una vita fallace
Ricca di beni diversi, ma il riposo nei poderi,
spelonche e laghi naturali e fresche vallate amene,
e muggiti di buoi e molli sonni al riparo di un albero.
Lì vi sono balze e tane di animali selvatici,
una gioventù operosa e abituata al poco,
non manca il culto per gli dei e la venerazione per i genitori: fra loro
la Giustizia segnò le sue ultime impronte quando abbandonò la terra.
Invero, in primo luogo, le Muse dolci più di tutto,
di cui io porto le sacre insegne colpito d’amore immenso,
mi accolgano mostrandomi le vie del cielo e le stelle,
le eclissi diverse del sole e le fasi della luna,
l’origine dei terremoti, quale forza rigonfi i mari profondi
spezzando gli argini e poi tornando in se stessi,
perché tanto si affrettino a bagnarsi nell’Oceano i soli invernali,
o quale indugio pesi sulle notti lenti a trascorrere.
Se invece il sangue, freddo intorno al mio cuore,
impedirà che io possa avvicinarmi a questi aspetti della natura,
piacciano a me le campagne e i fiumi che irrigano le vallate,
possa io amare anche senza gloria le selve ed i corsi d’acqua.
O dove sono le pianure e lo
Sperchèo e le cime del Taigeto percorse in riti bacchici dalle vergini
spartane! Oh, chi mi porterà tra le gelidi valli dell’Emo
e mi riparerà con l’enorme ombra dei rami!
Felice chi ha potuto investigare le cause delle cose
e mettere sotto i piedi tutte le paure, il fato inesorabile,
lo strepito dell’avido Acheronte.
Fortunato anche colui che conosce gli dei agricoli,
Pan e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle.
Quell’uomo non possono turbare i fasci popolari, né la porpora dei re
né la discordia che inquieta i fratelli che si tradiscono
o i Daci che calano dal Danubio una volta fatta un’alleanza,
non le vicende di Roma e i regni condannati a morire; e quello
non si duole avendo pietà per il povero né invidia il ricco

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