Tibullo

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Testo

Tibullo
Sulla vita di Tibullo si hanno scarse notizie ricavabili,oltre che da cenni sparsi nelle sue elegie e negli scritti di altri autori,date da Vita Anonima. Ignoto è il suo prenome,incerti sono il luogo e la data di nascita.
Fu uno dei poeti più rappresentativi della letteratura latina in quanto la sua elegia impregnata di erotismo fu destinata a diventare un genere tipicamente latino.
Nacque forse in una cittadina del Lazio situata tra Tivoli e Palestrina. La famiglia di origine equestre era di agiate condizioni economiche e possedeva proprietà nella zona,anche se alcune terre furono confiscate in favore dei veterani di guerra. Entrò a far parte del circolo di Messala Corvino diventandone il più importante esponente. Trascorse l'ultima parte della vita nei suoi possedimenti dove Orazio,di cui fu amico,lo rappresenta malinconico e isolato. Un epigramma del poeta Marso ci informa che Tibullo mori in giovane età poco dopo la scomparsa di Virgilio.
Corpus Tibullianum
L’opera di Tibullo consiste in una vasta raccolta di elegie in tre libri, designata Corpus Tibullianum, sul quale gravano ancora problemi di autenticità. In particolare, solo i primi due libri appartengono per intero al poeta, mentre il terzo, che ha carattere antologico, presenta problemi di attribuzione ancora non pienamente risolti. Il libro I, noto come “libro di Delia”, fu forse composto tra il 31 e il 26 a.C. e comprende dieci elegie, cinque delle quali dedicate a Delia, pseudonimo greco della donna amata dal poeta,il cui vero nome era, uno più popolano Plania; tre al giovane Marato, una a Messalla ed una alla pace. Il libro II, conosciuto come “libro di Nemesi” è costituito da sei elegie, delle quali tre dedicate a Nemesi. Il terzo libro, invece, pone problemi di attribuzione ancora irrisolti: alcuni propendono per la sua autenticità, considerando originali del poeta le elegie qui raccolte ma con ogni probabilità da lui rinnegate in maturità causa il loro scarso valore poetico. Altri hanno invece ipotizzato la loro vera paternità, distinguendo, tra le 20 elegie che lo compongono, le prime sei come opera di Ligdamo, la settima di autore ignoto, detta “Panegirico di Messalla”, mentre le successive undici costituiscono il ciclo di Sulpicia e Cerinto, che sono ritenute autenticamente tibulliane.I rimanenti sei carmi,biglietti amorosi composti da 40 versi,si pensa che siano stati scritti dalla stessa Sulpicia e inviati al suo innamorato.
Della vita di Sulpicia non si hanno notizie certe,forse era figlia di una sorella di Messala e faceva parte del circolo letterario dello stesso Messala. Sono poesie di un amore bruciante,intenso e sincero,interessati per la storia del costume nella Roma augustea. In questo caso Sulpicia sarebbe l'unica poetessa di cui si ha testimonianza nell'ambito della letteratura latina. Infine, nella diciannovesima elegia ricompare il nome di Tibullo, parlando dell’amore di una donna anonima che torna anche nella elegia successiva di chiusura: è pertanto certa l’attribuzione al nostro poeta. Nel primo libro si può tracciare un ritratto del poeta che si ricava dalla tematica dell’amore e dai modi in cui questa viene cantata. Tibullo ci appare come non attratto dalla carriera militare e politica : pur senza una polemica aggressiva, ne rifiutò i valori e cercò la pace e l’otium letterario, in cui potersi dedicare agli amori e alla poesia elegiaca. Suona programmatica in questo senso la prima elegia, esprimendo i sentimenti e i miraggi del poeta, che, contento del poco e della modestia, non aspira alla gloria e desidera soltanto vivere nella sobrietà della campagna con la sua donna amata e averla vicino nel giorno della morte. Non fanno per lui armi e guerre, è intenzionato a godere dei piaceri dell’amore finché l’età giovanile lo consente, beandosi della soave e placida calma della vita agreste, ricondotta in una dimensione tutta interiore. L’ordine di successione delle elegie non segue la cronologia, né in questo primo libro né nei successivi e pare essere improntato al criterio alessandrino della poikilia o varietas, cioè alla molteplicità di temi e di motivi. Anche nel secondo libro la disposizione delle elegie obbedisce al criterio della varietas, a cui fanno perno le figure centrali di Delia e Nemesi. Nemesi è il nuovo amore del poeta che intende riscattarsi dal tradimento di Delia, incorrendo tuttavia in un amore più passionale e sfortunato del precedente; Nemesi non è solo donna infedele, ma ama il lusso e si comporta dispoticamente. Il poeta ne è schiavo ed è disposto a tutto pur di averla con sé; giacché non può farne a meno, preferisce seguire l’amico Macro alla guerra, ripetendo la traumatica esperienza pur di dimenticare la fanciulla
I temi.
i temi fondamentali della genuina poesia tibulliana sono la campagna e l'amore (a cui possiamo associare, per importanza, il profondo senso di religiosità), sempre vagheggiati, molto spesso intrecciati: il poeta ama vedere la sua donna, Delia, sullo sfondo della campagna, e contemplarla con tenerezza, talora appena tinta di un'indefinita malinconia e nostalgia

L'amore.
A Delia, nel I libro, egli dedica 5 elegie :ella è quasi certamente una creatura reale , una bella biondina, sposata e liberta, o comunque di umile condizione: è lei la donna ideale per Tibullo, è lei l'ispiratrice degli accenti più teneri e delicati, dei pensieri più umani e gentili del canzoniere: il poeta sogna di vivere con lei una vita serena e felice nella pace dei campi e di averla accanto a sé in punto di morte. Eppure Delia si rivela tutt'altro da come Tibullo se la rappresenta: è una creatura volubile, che sa anche tradire senza scrupolo. Inevitabile, così, la rottura, che il poeta pur non sopporta: egli si lascerà andare all'ira, ma un'ira essa stessa dolce, e portata al perdono: l'invettiva cruda e feroce è solo nei confronti della mezzana, che ha procurato alla "sua" Delia un nuovo amante. Nel II libro i toni divengono forse più sofferti e più "crudi": vi sono 3 elegie dedicate a Nemesi, una cortigiana sensuale ed avida di denaro, tra le cui braccia il poeta malauguratamente si getta per "vendicarsi" dei tradimenti di Delia: ma il nuovo amore ben presto si mostra per quello che è veramente, imponendo al poeta un'umiliante schiavitù.
La campagna
Si affaccia, poi, prepotente il "mito" della campagna: essa non è solo quella di Delia e delle tenerezze d'amore: è anche la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi guadagni e al fragore delle armi; T., infatti, non cerca la ricchezza e detesta la guerra, nella quale vede un mezzo di arricchimento, non di diffusione della civiltà: al contrario, egli s'accontenta di un' "aurea mediocritas", che gli consenta una vita moderatamente agiata e soprattutto tranquilla, nel segno di un profondo e desiderato "disimpegno". Il contrasto con il tono sensuale e appassionante di Properzio,la galanteria superficiale brillante di Ovidio,la sensibilità tibulliana invece si esprime in toni malinconici e sfumati. Nelle elegie di Tibullo la caratteristica originale sta nel muoversi in un mondo quasi di sogno in cui le immagini si succedono per evocazioni e per analogie,senza un filo logico. Per questo motivo è assente il gusto per l'erudizione mitologica,importante per Tibullo lo sfondo campestre,rappresentato con vive immagini cioè un mondo ideale su cui il poeta proietta il suo desiderio di pace e di vita semplice e serena.
Lingua e stile
Lo stile di Tibullo è uno dei modelli della classicità. Tibullo lavora con un lessico limitato e con un numero ristretto di temi, variando i quali riesce a creare effetti sempre diversi, sfumando dal dolce al malinconico, talvolta al rabbioso. Non fa sfoggio invece di quell'erudizione mitologica che caratterizza lo stile del suo contemporaneo Properzio. La lingua di Tibullo è priva di arcaismi, grecismi e neologismi; l'assenza di erudizione mitologica ne rende ancora più nitido il disegno, tal che l'elegia tibulliana, anche per questo, occupa nell'antichità un posto tutto particolare, e anche oggi straordinariamente moderno. L'andamento vago, ondeggiante del testo poetico di Tibullo si combina poi con un linguaggio chiaro, elegante nella sua sobrietà, in apparenza semplice, ma in realtà risultato di un dotto studio, espressione consumata di quel senso della misura caratteristico del classicismo augusteo

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