Il teatro latino

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Testo

Il teatro latino
A differenza di quello greco che era fondamentalmente negativo (a tal punto che interveniva il deus ex machina per risolvere le situazioni) e in virtù della filosofia era strettamente legato ad argomenti etici, il teatro latino rappresentava una forma di divagazione, un momento rasserenante della vita del cittadino romano.
Secondo quanto ci narrano fonti come Ovidio, esso, nei tempi antichi, rappresentava un’occasione di incontro in uno spazio degradante, durante il quale ad un certo punto appariva una compagnia di attori, che dava il via ad un insieme di suoni, danze, giochi di acrobati e recitazione.
Successivamente, nel 240 a.C., si ebbe una svolta importante quando Livio Andronico mise in scena la fabula, un intreccio unitario con un copione scritto; egli, in particolare, sperimentò la messa in scena di un dramma greco tradotto in latino.
La tradizione teatrale greca, a partire dal VI secolo a.C., si incentrava sul dramma, un’azione scenica, in cui le vicende vengono “agite” davanti agli spettatori che guardano (infatti “teatro” deriva da “theáomai”, che significa “guardo”). I testi teatrali erano in versi e prevedevano l’alternanza di parti recitate e parti musicate e cantate, in aggiunta a quelle sostenute dal coro.
I Greci distinguevano tre forme: la tragedia, la commedia e il dramma satiresco.
In Grecia, il teatro era fortemente educativo, legato alla vita privata e religiosa della polis; infatti, le tragedie (messe in scena principalmente durante gli agòni tragici, indetti durante le grandi feste della polis) prevedevano nel finale l’intervento del “deus ex machina”, che forniva l’insegnamento etico-morale agli spettatori.
A Roma invece, il teatro era un modo per solennizzare un evento militare, religioso (anche i dies fas e nefas) o politico.

La rappresentazione teatrale a Roma
All’inizio, le rappresentazioni teatrali coincidevano con le festività pubbliche celebrate in onore degli dei, come i Ludi Romani, i Ludi Plebei ecc.; poi si estero a feste occasionali, legate ad eventi cittadini di particolare importanza.
Fino al 55 a.C. con il teatro “Pompeo”, a Roma non venne costruito un vero e proprio teatro in muratura. La struttura romana riprendeva quella del teatro greco: una càvea semicircolare per il pubblico, un’orchestra semicircolare per i cittadini più importanti, una scaena occupata da un ampio palcoscenico, successivamente isolato dal pubblico tramite un sipario. La scena riproduceva un luogo aperto e sul fondo vi erano tre porte, che servivano agli attori per entrare ed uscire.
Il finanziamento delle rappresentazioni sceniche era affidato ai pubblici magistrati e invece la regia e la sceneggiatura di esse al dominus gregis, il direttore della compagnia teatrale, che acquistava dai poeti il copione, lo sottoponeva al magistrato e, se approvato, procedeva all’allestimento.
Le compagnie di attori erano rigorosamente maschili e inoltre, a differenza della Grecia, la professiore di attore a Roma era sottoposta a pregiudizi di carattere sociale: infatti si riteneva che fosse indegno della gravitas del cittadino fare l’attore e quindi era un lavoro affidato ai liberti o agli stranieri.
Ogni personaggio era caratterizzato da una sua tipologia linguistica e gestuale, in modo da rendere più facile l’identificazione da parte del pubblico, ma un altro strumento utilizzato erano le maschere, che però non si sa bene a che periodo risalgano (testi plautini e terenzini parlano di espressioni del viso).
La tragedia greca
Gli elementi fondamentali della tragedia sono: il carattere drammatico, la vicenda tragica, i personaggi fuori dal comune, l’unità dell’opera (unità aristoteliche: tempo, luogo e azione) e il linguaggio elevato e solenne. Molto importante è anche il processo mimetico, che prevede una trasposizione della realtà e dei suoi problemi, estremizzandoli e incutendo terrore nel pubblico a tal punto da dare un insegnamento morale per contrasto (catarsi, momento in cui il pubblico si purifica da tali passioni come la vendetta, l’odio).
La parola “tragedia” deriva dal greco “tragos”, “capra” e “odé”, “canto”, quindi significa letteralmente “canto dei capri”, che si riferirebbe a un rito in onore di Dioniso; essa è sempre stata legata alla polis ed ebbe origine con l’idea di democrazia.
I più grandi tragediografi sono tre e sono tutti del V secolo a.C.: Eschilo, Sofocle ed Euripide.

Eschilo (Eleusi 525 – Gela 456)
Egli è il più antico tragediografo di cui possediamo tragedie complete, sette tra cui “I Persiani”, “I Sette contro Tebe” e una trilogia, “Orestea”.
Egli perfezionò e definì il genere tragico ed apportò alcune innovazioni all’interno della struttura della tragedia:
- introdusse un secondo attore (che dialoga con il coro)
- aumentò la parte dialogata (divenne più importante di quella del coro)
Questi due elementi ebbero conseguenze anche sui contenuti: aumentò il dibattito con un’esaltazione dell’indagine sulla realtà umana.
Tali contenuti rispecchiavano il contesto storico-culturale in cui Eschilo viveva; molti dei suoi personaggi erano dominati dalla hybris, una passione per mete vertiginose di autoaffermazione che porta alla trasgressione dei limiti imposti da Zeus.
Sofocle (Atene 496 – Atene 405)
Investito di cariche militari e politiche, Sofocle esordì come drammaturgo nel 468 a.C. e anche di lui ci restano sette tragedie, tra cui “Aiace”, “Antigone”, “Edipo re”, “Elettra” ed “Edipo a Colono”.
Anch’egli introdusse importanti innovazioni all’interno della struttura della tragedia:
- portò da dodici a quindi i coreuti
- portò da due a tre gli attori
- introdusse la scenografia
- tolse il tema unico
Riprese le tematiche affrontate da Eschilo, ma sottolineò l’irrevocabile emarginazione e dannazione dell’eroe tragico. L’essenza stessa della tragicità sta nel conflitto irrisolvibile tra la libertà di autoaffermazione e una costrizione interna, che li porta all’emarginazione.
Euripide (Salamina 480 – Pella 407/6)
Incompreso dai suoi contemporanei, Euripide fu il tragediografo più amato dai posteri e il più imitato. Egli non partecipò per niente alla vita politico-militare e di lui ci rimangono diciassette tragedie, tra cui “Medea”, “Ifigenia” (in Aulide e in Tauride) e un dramma satiresco, “Il Ciclope”.
Egli era pienamente consapevole delle nuove problematiche che si affacciavano alla vita della polis e queste divennero gli argomenti delle sue tragedie, incentrate prevalentemente sull’uomo; egli introdusse il discorso della ragione umana, in cui desumeva dalla realtà personaggi ed azioni. Perciò grande spazio è dato al dibattito delle idee e alle parti dialogate.

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