De Clementia - Seneca Proemio

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Testo

DE CLEMENTIA – SENECA
LATINO TESTO ORIGINALE
Autore: Seneca
Opera: De Clementia – VII
Traduzione:Daesty

Proemio

1. Scribere de clementia, Nero Caesar, institui, ut quodam modo speculi vice fungerer et te tibi ostenderem perventurum ad voluptatem maximam omnium. Quamvis enim recte factorum verus fructus sit fecisse nec ullum virtutum pretium dignum illis extra ipsas sit, iuvat inspicere et circumire bonam conscientiam, tum immittere oculos in hanc immensam multitudinem discordem, seditiosam, impotentem, in perniciem alienam suamque pariter exsultaturam, si hoc iugum fregerit, et ita loqui secum: 2. 'Egone ex omnibus mortalibus placui electusque sum, qui in terris deorum vice fungerer? Ego vitae necisque gentibus arbiter; qualem quisque sortem statumque habeat, in mea manu positum est; quid cuique mortalium Fortuna datum velit, meo ore pronuntiat; ex nostro responso laetitiae causas populi urbesque concipiunt; nulla pars usquam nisi volente propitioque me floret; haec tot milia gladiorum, quae pax mea comprimit, ad nutum meum stringentur; quas nationes funditus excidi, quas transportari, quibus libertatem dari, quibus eripi, quos reges mancipia fieri quorumque capiti regium circumdari decus oporteat, quae ruant urbes, quae oriantur, mea iuris dictio est. 3. In hac tanta facultate rerum non ira me ad iniqua supplicia compulit, non iuvenilis impetus, non temeritas hominum et contumacia, quae saepe tranquillissimis quoque pectoribus patientiam extorsit, non ipsa ostentandae per terrores potentiae dira, sed frequens magnis imperiis gloria. Conditum, immo constrictum apud me ferrum est, summa parsimonia etiam vilissimi sanguinis; nemo non, cui alia desunt, hominis nomine apud me gratiosus est. 4. Severitatem abditam, at clementiam in procinctu habeo; sic me custodio, tamquam legibus, quas ex situ ac tenebris in lucem evocavi, rationem redditurus sim. Alterius aetate prima motus sum, alterius ultima; alium dignitati donavi, alium humilitati; quotiens nullam inveneram misericordiae causam, mihi peperci. Hodie dis immortalibus, si a me rationem repetant, adnumerare genus humanum paratus sum.'5. Potes hoc, Caesar, audacter praedicare: omnia, quae in fidem tutelamque tuam venerunt, tuta haberi, nihil per te neque vi neque clam adimi rei publicae. Rarissimam laudem et nulli adhuc principum concessam concupisti innocentiam. Non perdit operam nec bonitas ista tua singularis ingratos aut malignos aestimatores nancta est. Refertur tibi gratia; nemo unus homo uni homini tam carus umquam fuit, quam tu populo Romano, magnum longumque eius bonum. 6. Sed ingens tibi onus imposuisti; nemo iam divum Augustum nec Ti. Caesaris prima tempora loquitur nec, quod te imitari velit, exemplar extra te quaerit; principatus tuus ad gustum exigitur. Difficile hoc fuisset, si non naturalis tibi ista bonitas esset, sed ad tempus sumpta. Nemo enim potest personam diu ferre, ficta cito in naturam suam recidunt; quibus veritas subest quaeque, ut ita dicam, ex solido enascuntur, tempore ipso in maius meliusque procedunt.
7. Magnam adibat aleam populus Romanus, cum incertum esset, quo se ista tua nobilis indoles daret; iam vota publica in tuto sunt; nec enim periculum est, ne te subita tui capiat oblivio. Facit quidem avidos nimia felicitas, nec tam temperatae cupiditates sunt umquam, ut in eo, quod contigit, desinant; gradus a magnis ad maiora fit, et spes improbissimas conplectuntur insperata adsecuti; omnibus tamen nunc civibus tuis et haec confessio exprimitur esse felices et illa nihil iam his accedere bonis posse, nisi ut perpetua sint.
8. Multa illos cogunt ad hanc confessionem, qua nulla in homine tardior est: securitas alta, adfluens, ius supra omnem iniuriam positum; obversatur oculis laetissima forma rei publicae, cui ad summam libertatem nihil deest nisi pereundi licentia. 9. Praecipue tamen aequalis ad maximos imosque pervenit clementiae tuae admiratio; cetera enim bona pro portione fortunae suae quisque sentit aut exspectat maiora minoraque, ex clementia omnes idem sperant; nec est quisquam, cui tam valde innocentia sua placeat, ut non stare in conspectu clementiam paratam humanis erroribus gaudeat.
ITALIANO TRADUZIONE
[1] Ho deciso di scrivere sulla clemenza, Nerone Cesare, per poter fare in qualche modo la parte dello specchio, e mostrarti l’immagine di te stesso che sei avviato a raggiungere il massimo dei piaceri. Infatti, benché il vero frutto delle azioni rette sia l’averle compiute e non ci sia alcun premio degno delle virtù al di fuori delle virtù stesse, giova esaminare attentamente e percorrere la propria buona coscienza, e poi posare lo sguardo su questa immensa moltitudine discorde, sediziosa, incapace di dominarsi, pronta a saltar su per la rovina altrui e per la propria, una volta che avrà abbattuto questo giogo; e giova parlare così con se stessi:[2] "Sono, dunque, io quello che fra tutti i mortali è stato preferito e scelto per fare in terra le veci degli dèi? Sono l’arbitro della vita e della morte delle nazioni: è nelle mie mani la decisione sulla sorte e sulla condizione di ciascuno; quello che la fortuna vuole che sia dato a ciascuno dei mortali, lo fa sapere attraverso la mia bocca; da una nostra risposta popoli e città traggono motivi per rallegrarsi; nessun luogo prospera, se non per la mia volontà e per il mio favore; tutte queste migliaia di spade, che la mia Pace fa rimanere nel fodero, ad un mio cenno verranno sguainate; quali popoli debbano essere distrutti completamente, quali fatti spostare altrove, a quali si debba dare la libertà, a quali strapparla, quali re debbano essere ridotti in schiavitù e quali teste debbano essere insignite della dignità regale, quali città debbano crollare, quali sorgere, dipende tutto dalla mia autorità. [3] Nonostante tutto questo potere, l’ira non mi ha mai spinto ad infliggere supplizi iniqui; non mi ci ha mai spinto l’impeto giovanile, né la temerarietà o la tracotanza degli uomini, che spesso toglie la pazienza anche dagli animi più tranquilli; non mi ci ha mai spinto l’orgoglio funesto, ma diffuso in chi è a capo di grandi imperi, di ostentare la propria potenza seminando terrore. La mia spada è riposta nel fodero, anzi è legata, ed io ho cura di risparmiare il più possibile anche il sangue più vile; non c’è nessuno che, pur essendo privo di altri titoli, non trovi grazia presso di me solo per il suo nome di uomo. [4] Tengo nascosta la severità e sempre pronta, invece, la clemenza; sorveglio me stesso, come se dovessi poi render conto alle Leggi, che ho richiamato dalla dimenticanza e dalle tenebre alla luce. Prima mi sono commosso per la tenera età di uno, poi per l’anzianità dell’altro; ad uno ho perdonato per la sua dignità, ad un altro per la sua umiltà; ogni volta che non ho trovato una ragione di misericordia, ho risparmiato per me stesso. Oggi sono pronto, se gli dèi mi chiedono il conto, ad enumerare tutto il genere umano".[5] Tu puoi, Cesare, proclamare audacemente che tutto ciò che la tua protezione e la tua tutela è pienamente e che da parte tua non si sta alcun male, né per via violenta né di nascosto, alla repubblica. Tu hai bramato una lode rarissima e che finora non è stata concessa ad alcun principe: l’innocenza da colpe. Questa tua bontà singolare non spreca fatica e non trova uomini ingrati e malignamente avari della propria stima. Ti si è grati: nessun singolo uomo fu mai tanto caro quanto lo sei tu al popolo romano, per il quale sei un bene grande e durevole. [6] Ma ti sei imposto un peso enorme; nessuno, infatti, parla più del divo Augusto né dei primi tempi di Tiberio Cesare, e nessuno cerca al di fuori di te un modello da presentarti perché tu lo imiti: si pretende che il tuo principato sia conforme a questo assaggio che ne hai dato. Questo sarebbe stato difficile, se questa tua bontà non fosse in te naturale, ma come presa in prestito per un certo tempo: nessuno, infatti, può indossare a lungo una maschera. Le cose simulate ricadono presto nella loro natura; quelle sotto le quali c’è la verità e che, per così dire, nascono da qualcosa di sostanzioso, col tempo si accrescono e migliorano.
[7] Il popolo romano correva un gran rischio, poiché era incerto in che direzione si sarebbe orientata la tua nobile indole: ora i voti pubblici sono al sicuro, poiché non c’è pericolo che tu sia colto da un’improvvisa dimenticanza di te stesso. L’eccessiva prosperità rende certuni insaziabili, e le brame non sono mai tanto temperate da cessare una volta raggiunto ciò cui si mirava: gradualmente si passa dal grande all’ancora più grande, e una volta ottenute cose insperate, si abbracciano speranze smisurate. Oggi, tuttavia, tutti i tuoi concittadini confessano apertamente che sono felici e che a questi beni non si potrebbe aggiungere nulla, purché siano duraturi. [8] Molte cose li costringono a questa confessione, la più tardiva che gli uomini di solito fanno: una profonda e piena sicurezza, un diritto posto al di sopra di ogni violazione; l’avere sempre presente una forma di governo graditissima alla quale non manca nulla, tranne la possibilità di essere distrutta, per godere di una libertà assoluta. [9] Tuttavia, quella che ha destato uguale ammirazione nei più grandi così come nei più umili è la tua clemenza; gli altri beni, infatti, ciascuno li sente o se li aspetta maggiori o minori in proporzione alla sua condizione personale; dalla clemenza, invece, tutti sperano lo stesso; e non c’è nessuno che si compiaccia tanto della sua innocenza da non rallegrarsi poi di stare al cospetto della Clemenza, indulgente di fronte agli errori umani.

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