De bello gallico: libro VIII

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Testo

Libro VIII

Prologo
Costretto dalle tue assidue esortazioni, Balbo, visto che il mio quotidiano rifiuto non sembrava ammettere la scusa della difficoltà, ma
incontrava il biasimo dell'inerzia, ho assunto un compito davvero difficile: i commentari del nostro Cesare sulle sue imprese in Gallia, li ho
integrati con le vicende che non comparivano e li ho collegati ai suoi scritti successivi; inoltre, l'ultima opera, da lui lasciata incompiuta, l'ho
terminata a partire dalle imprese alessandrine per arrivare non dico al termine della guerra civile, di cui non vediamo ancora la fine, ma alla
morte di Cesare. Vorrei che i lettori sapessero quanto malvolentieri mi sia assunto il compito di scriverli, per essere con più facilità assolto
dall'accusa di stoltezza e arroganza, io che ho inserito tra gli scritti di Cesare i miei. Tutti lo sanno: non c'è opera di altri autori che sia stata
composta con altrettanta cura e che non sia superata dall'eleganza di questi commentari. Furono pubblicati perché agli storici non mancasse
il materiale su imprese così grandi; ma tutti ne riconobbero il valore, al punto che sembrava preclusa, e non offerta, la possibilità di narrarle.
In tal senso, comunque, la nostra ammirazione supera quella degli altri: perché tutti ne vedono la bellezza e la perfezione. ma noi sappiamo
anche con quale facilità e rapidità li abbia composti. Cesare, infatti, aveva sia una straordinaria disposizione ed eleganza nello scrivere, sia
un'autentica capacità di illustrare i suoi disegni. Io non ho partecipato direttamente alla guerra alessandrina e africana; sebbene in parte esse
mi siano note per bocca di Cesare, tuttavia un conto è udire i fatti che ci colpiscono per la loro singolarità o che ci riempiono
d'ammirazione, un altro è esporre gli avvenimenti per testimonianza diretta. Ma proprio mentre cerco ogni motivo di scusa per non essere
accostato a Cesare, mi espongo all'accusa di arroganza, per aver pensato che qualcuno possa paragonarmi a lui. Stammi bene.
I
Piegata tutta la Gallia, Cesare, che dall'estate precedente non aveva mai cessato di combattere, voleva concedere un po' di riposo ai
soldati negli accampamenti invernali, dopo tante fatiche. Giungeva, però, notizia che diversi popoli contemporaneamente rinnovavano i
piani di guerra e stringevano alleanze. Motivo di tali iniziative, verosimilmente, era che tutti i Galli ben sapevano che nessun esercito
concentrato in un solo luogo poteva resistere ai Romani e che, se parecchie genti, nello stesso istante, li avessero attaccati su diversi fronti,
l'esercito del popolo romano non avrebbe avuto appoggi, tempo, truppe sufficienti per fronteggiare tutti. E nessun popolo doveva sottrarsi
al destino d'un rovescio, se, impegnando i Romani, avesse permesso agli altri di riacquistare la libertà.
II
Per evitare che le aspettative dei Galli trovassero conferme, Cesare affida al questore M. Antonio il comando dei suoi quartieri d'inverno;
la vigilia delle calende di gennaio, con una scorta di cavalieri parte da Bibracte verso la tredicesima legione, da lui stanziata nei territori dei
Biturigi, non lontano dagli Edui. Alla tredicesima unisce l'undicesima legione, la più vicina. Lasciate due coorti a guardia delle salmerie,
guida il resto dell'esercito nelle fertilissime campagne dei Biturigi. Quest'ultimi avevano vasti territori e molte città, per cui la presenza di una
sola legione nei campi invernali non era valsa a impedire i preparativi di guerra e i patti di alleanza.
III
Al repentino arrivo di Cesare accadde l'inevitabile per gente colta alla sprovvista e sparpagliata: mentre i nemici, senza timore alcuno,
attendevano ai lavori nei campi, vennero sopraffatti dalla cavalleria prima di potersi rifugiare nelle città. Infatti, per ordine di Cesare, era
stato eliminato anche l'indizio più comune di un'incursione nemica, ovvero il fuoco appiccato agli edifici, sia perché in caso di ulteriore
avanzata non venissero a mancare foraggio e grano, sia perché i nemici non fossero messi in allarme dagli incendi stessi. Dopo la cattura di
molte migliaia di uomini, chi tra i Biturigi, in preda alla paura, era riuscito a sfuggire al primo attacco dei Romani, era riparato presso i
popoli vicini, fidando o in vincoli personali d'ospitalità oppure nell'alleanza comune. Invano: a marce forzate Cesare accorre dappertutto e
non lascia a nessun popolo il tempo di pensare alla salvezza altrui più che alla propria. Con la rapidità della sua azione teneva a freno gli
alleati fedeli, con il terrore costringeva alla pace i titubanti. Di fronte a tale situazione, i Biturigi, vedendo che la clemenza di Cesare lasciava
spazio per un ritorno all'alleanza con lui e che i popoli limitrofi non avevano subito pena alcuna, ma dietro la consegna di ostaggi erano stati
accolti sotto la sua protezione, ne seguirono l'esempio.
IV
Ai soldati, che avevano senza sosta condotto le operazioni con straordinario impegno anche nelle giornate invernali, lungo strade davvero
disagevoli e con un freddo insopportabile, come premio a titolo di bottino Cesare promette, per le tante fatiche e sopportazioni, duecento
sesterzi a testa, e ai centurioni mille. Invia le legioni ai quartieri d'inverno e ritorna a Bibracte dopo quaranta giorni. Mentre vi amministrava
la giustizia, i Biturigi gli inviano emissari per chiedergli aiuto contro i Carnuti, lamentando attacchi da parte loro. Appena ne è informato,
dopo aver sostato nei campi invernali non più di diciotto giorni, richiama la diciottesima e la sesta legione dagli accampamenti sulla Saona,
dove erano state dislocate per occuparsi del vettovagliamento, come si è detto nel libro precedente. Così, con due legioni parte
all'inseguimento dei Carnuti.
V
Quando la notizia di truppe in movimento giunse ai nemici, i Carnuti, edotti dalle sciagure altrui, abbandonano i villaggi e le città in cui
abitavano dopo aver frettolosamente allestito piccole costruzioni per ripararsi dall'inverno (infatti, in seguito alla recente sconfitta avevano
perduto parecchie città) e fuggono sbandati. Cesare non voleva che i soldati affrontassero i rigori della stagione, tremendi proprio in quel
periodo: pone il campo in una città dei Carnuti, Cenabo, ammassa parte dei soldati nelle case dei Galli, parte in ripari approntati gettando
alla svelta paglia sulle tende. Comunque, manda i cavalieri e i fanti ausiliari in tutte le direzioni in cui si diceva che si fossero mossi i nemici.
E non invano: i nostri, infatti, rientrano per lo più con un ricco bottino. I Carnuti si trovarono stretti dalle difficoltà dell'inverno e atterriti dal
pericolo; cacciati dalle loro case, non osavano fermarsi stabilmente in nessun luogo, né potevano sfruttare il riparo delle selve per
l'inclemenza della stagione. Divisi, perdono gran parte dei loro e si sparpagliano presso le popolazioni vicine.
VI
Cesare, in una stagione davvero ostile, al fine di prevenire l'inizio di una guerra riteneva di aver fatto a sufficienza per disperdere le forze
nemiche che si stavano concentrando ed era convinto, per quanto si poteva ragionevolmente supporre, che nessun grave conflitto potesse
scoppiare fino all'estate. Allora, alloggiò a Cenabo, nei quartieri d'inverno, C. Trebonio alla testa delle due legioni che aveva con sé. I
Remi, con frequenti ambascerie, lo informavano che i Bellovaci, superiori a tutti i Galli e ai Belgi quanto a gloria militare, e i popoli limitrofi,
sotto la guida del bellovaco Correo e dell'atrebate Commio, allestivano truppe e le radunavano in un solo luogo, per attaccare in massa le
terre dei Suessioni, vassalli dei Remi. Che alleati benemeriti verso la nostra repubblica non patissero alcun torto, Cesare la ritenne
questione riguardante non solo la sua dignità, ma anche la sua sicurezza. Perciò, richiama nuovamente dal campo invernale l'undicesima
legione, poi invia una lettera a C. Fabio, perché guidi nei territori dei Suessioni le due legioni che aveva ai suoi ordini; a Labieno richiede
una delle due legioni di cui disponeva. Così, conciliando le necessità dei campi invernali e le esigenze del conflitto, alle legioni imponeva a
turno l'onere delle spedizioni, ma non concedeva mai riposo a se stesso.
VII
Riunite queste truppe, punta sui Bellovaci, stabilisce il campo nei loro territori e manda dappertutto squadroni di cavalleria per catturare
prigionieri, che lo avrebbero messo al corrente dei piani nemici. I cavalieri, eseguito l'ordine, riferiscono di aver trovato solo pochi nemici in
case isolate, ma non si trattava di gente rimasta a coltivare i campi (tutte le zone, infatti, erano state scrupolosamente evacuate), bensì di
osservatori rispediti a sorvegliare le nostre mosse. Avendo chiesto ai prigionieri dove si trovava il grosso dei Bellovaci e quali ne fossero i
disegni, Cesare ricevette le seguenti indicazioni: tutti i Bellovaci in grado di portare armi si erano radunati in un solo luogo, come pure gli
Ambiani, gli Aulerci, i Caleti, i Veliocassi, gli Atrebati; avevano scelto per l'accampamento una località in alto, in una selva circondata da
una palude e avevano ammassato tutti i bagagli nei boschi alle spalle. Parecchi erano i capi, fautori della guerra, ma la massa obbediva in
particolare a Correo, in quanto era noto il suo odio mortale per il nome del popolo romano. Pochi giorni prima, l'atrebate Commio si era
allontanato dal campo in cerca di rinforzi presso i Germani, che erano vicini e di numero sterminato. Poi, i Bellovaci, col consenso di tutti i
capi, tra l'entusiasmo generale, avevano deciso di esporsi a un combattimento, se davvero Cesare fosse giunto con tre legioni, come si
diceva; in tal modo, non sarebbero stati costretti, in seguito, a lottare contro tutto l'esercito in condizioni più difficili e ardue; se, invece,
Cesare avesse condotto truppe più numerose, si sarebbero attestati nella posizione che avevano scelto e avrebbero impedito ai Romani,
mediante imboscate, la raccolta di foraggio (che non solo scarseggiava, ma era anche disperso qua e là per via della stagione), nonché di
grano e di altri viveri.
VIII
Quando da diverse e concordi fonti conobbe il piano nemico e giudicò molto accorti i propositi che gli venivano illustrati e ben lontani dalla
solita avventatezza dei barbari, decise di sfruttare ogni mezzo per indurre gli avversari a scendere in campo al più presto, per disprezzo
dell'esiguità dei suoi effettivi. Aveva con sé, infatti, le legioni più anziane, la settima, l'ottava, la nona, straordinarie per valore, nonché una
legione di belle speranze, composta da giovani scelti, l'undicesima, che già da otto anni riceveva la paga, ma, in confronto alle altre, non si
era ancora guadagnata la stessa fama di provato valore. Così, convocato il consiglio di guerra, espone tutte le notizie che gli erano state
riferite e rafforza il coraggio delle truppe. Per attirare i nemici a battaglia, illudendoli di avere di fronte tre legioni, fissa l'ordine di marcia
come segue: la settima, l'ottava e la nona legione dovevano procedere in testa, seguite dalla colonna delle salmerie, poco numerose
ovviamente, come succede di solito nelle spedizioni; l'undicesima doveva costituire la coda, per non mostrare ai nemici una consistenza
numerica superiore a quanto essi sperassero. Con tale schieramento, formando in pratica il quadrato, arriva con i suoi in vista dei nemici
più presto di quanto essi pensassero.
IX
Non appena vedono all'improvviso le nostre legioni, schierate a battaglia, avanzare con passo deciso, i Galli, benché i loro propositi,
secondo le informazioni avute da Cesare, fossero molto baldanzosi, schierano le truppe dinnanzi al campo e non scendono dalle alture,
forse per evitare i rischi dello scontro o per la sorpresa del nostro arrivo repentino oppure in attesa delle nostre mosse. Cesare, anche se
prima desiderava il combattimento, colpito adesso dalla massa degli avversari, da cui ci separava una valle più profonda che larga, piazza il
campo davanti a quello nemico. Ordina di fortificarlo con un vallo di dodici piedi e di aggiungervi un piccolo parapetto di altezza
proporzionata; fa scavare una coppia di fosse di quindici piedi a pareti verticali, erigere parecchie torri a tre piani, raccordate mediante
ponti, coperti e protetti verso l'esterno da un parapetto di graticcio. Così, la difesa era assicurata da una coppia di fosse e da un duplice
ordine di combattenti: il primo ordine, dai ponti, più sicuro per via dell'altezza, poteva scagliare le frecce con maggior audacia e più lontano;
l'altro, situato più vicino al nemico, proprio sul vallo, grazie ai ponti stessi era protetto dalla pioggia di dardi. Dota di battenti le porte e le
affianca con torri più alte.
X
Lo scopo di tale fortificazione era duplice. Sperava, appunto, che la mole dei lavori e la sua simulata paura infondessero fiducia ai barbari;
inoltre, vedeva che, grazie appunto alle opere di fortificazione, era possibile difendere il campo anche con pochi uomini, quando occorreva
allontanarsi troppo in cerca di foraggio e di grano. Frattanto, piccoli gruppi dei due eserciti davano luogo a frequenti scaramucce tra gli
accampamenti, che pure erano separati da una palude. Talvolta, comunque, o le nostre truppe ausiliarie, Galli e Germani, attraversavano la
palude e incalzavano con maggior vigore i nemici, o erano i barbari, a loro volta, a superarla e a ricacciare i nostri, costringendoli al
ripiegamento. Poi, durante le quotidiane spedizioni in cerca di foraggio, accadeva l'inevitabile, dato che la ricerca avveniva per casolari
sparsi e isolati: i nostri soldati, disuniti, venivano circondati in zone difficilmente praticabili. Il che ci procurava solo la perdita di pochi
animali e servi, ma alimentava gli stolti pensieri dei barbari, tanto più che Commio, partito per chiedere aiuti ai Germani, come ho già detto,
era rientrato con un contingente di cavalieri. Non erano più di cinquecento, tuttavia l'arrivo dei Germani esaltò i barbari.
XI
Cesare, constatato che ormai da parecchi giorni il nemico si teneva nell'accampamento, difeso dalla palude e dalla conformazione naturale
della zona, si era anche reso conto che non poteva né espugnare il loro campo senza un combattimento rovinoso, né circondarlo con opere
d'assedio, a meno dell'impiego di truppe più ingenti. Allora invia una lettera a Trebonio, ordinandogli di richiamare quanto prima la
tredicesima legione (che svernava nelle terre dei Biturigi con il legato T. Sestio) e di raggiungerlo con le tre legioni a marce forzate. Intanto,
ai cavalieri dei Remi, dei Lingoni e degli altri popoli, che aveva richiesto in gran numero, dà l'incombenza di scortare a turno i nostri in cerca
di foraggio, per proteggerli da improvvisi attacchi dei nemici.
XII
La cosa accadeva ogni giorno, e ormai le precauzioni diminuivano per via dell'abitudine, come spesso accade quando si ripetono le stesse
azioni. I Bellovaci, una volta conosciuti i punti dove stazionavano quotidianamente i nostri cavalieri, con un gruppo scelto di fanti preparano
un agguato in una zona ricca di vegetazione. Lì inviano, il giorno seguente, dei cavalieri, che dovevano attirare i nostri nel bosco, dove poi i
fanti appostati li avrebbero circondati e assaliti. La mala sorte capitò ai Remi, a cui quel giorno era toccato il servizio di scorta. Quando
all'improvviso videro i cavalieri nemici, i nostri, sentendosi superiori per numero, disprezzarono le forze avversarie: li inseguirono con
troppa foga e vennero circondati dai fanti. Scossi dall'accaduto, si ritirarono più rapidamente di quanto non comporti, di regola, un
combattimento di cavalleria; ma persero il principe del loro popolo e comandante della cavalleria, Vertisco, persona ormai anziana, a
stento in grado di cavalcare, che però, com'è costume dei Galli, non aveva accampato la scusa dell'età al momento di rivestire il comando,
né aveva voluto che si lottasse senza di lui. Il successo nello scontro esalta e accende lo spirito dei nemici, vista anche l'uccisione del
principe e comandante dei Remi, mentre la sconfitta insegna ai nostri a disporre i posti di guardia dopo aver esplorato con più attenzione i
luoghi e a inseguire con maggior criterio il nemico in fuga.
XIII
Frattanto, non conoscono pausa le scaramucce quotidiane al cospetto dei due accampamenti, nei pressi dei guadi e dei passaggi della
palude. In una di esse i Germani, che Cesare aveva portato al di qua del Reno perché combattessero frammischiati ai cavalieri, varcarono
tutti la palude con molta decisione, uccisero i pochi che tentavano la resistenza e inseguirono piuttosto caparbiamente gli altri, seminando il
panico non solo in chi era pressato da vicino o veniva colpito da distante, ma anche tra i rincalzi, che stazionavano più lontano, come al
solito. Fu una rotta vergognosa: scalzati, via via, dalle posizioni dominanti, non si fermarono finché non trovarono riparo nel loro
accampamento; altri, in preda alla vergogna, proseguirono la fuga anche oltre il campo. Il pericolo corso sconvolse l'intero corpo nemico,
al punto che si rende difficile stabilire se i Galli siano più inclini alla boria per insignificanti vittorie oppure pavidi di fronte a mediocri
avversità.
XIV
Dopo aver trascorso parecchi giorni sempre nell'accampamento, i capi dei Bellovaci, quando vennero a sapere che il legato C. Trebonio si
stava avvicinando con le legioni, nel timore di un assedio come ad Alesia, fanno allontanare di notte le persone inutili troppo anziane o
deboli o prive di armi; con loro mandano tutti i bagagli. Mentre dispiegavano la colonna, ancora in scompiglio e in disordine (un gran
numero di carri, infatti, segue di solito i Galli anche negli spostamenti brevi), vengono sorpresi dal sorgere del sole. Allora schierano le
truppe dinnanzi al loro campo, per impedire ai Romani l'inizio dell'inseguimento prima che la colonna dei bagagli si fosse allontanata
abbastanza. Cesare, visto il pendio così erto, non giudicò opportuno attaccare i nemici pronti alla difesa e decise invece di far avanzare le
legioni di quel tanto, che impedisse ai barbari di muoversi dalla loro posizione senza rischi, data la minaccia dei nostri. Poi notò che i due
accampamenti erano sì divisi da una palude impraticabile - un ostacolo in grado di frenare la rapidità dell'inseguimento - ma che una catena
di colli, al di là della palude, raggiungeva quasi il campo nemico e ne era separata solo da una piccola valle. Allora, getta ponti sulla palude,
la varca con le legioni e giunge rapidamente su una spianata in cima ai colli, protetta su entrambi i lati da scoscesi pendii. Qui ricompone le
legioni e raggiunge l'estremità della spianata, dove forma la linea di battaglia. Da qui, i dardi scagliati dalle macchine da lancio potevano
piovere sui nemici disposti a cuneo.
XV
I barbari, forti della posizione, non avrebbero rifiutato lo scontro, se i Romani avessero tentato un attacco al colle; ma non potevano inviare
soldati in piccoli gruppi, per evitare che si scoraggiassero, una volta sparpagliati; perciò mantennero la stessa formazione. Cesare, di fronte
alla loro pervicacia, lascia pronto un distaccamento di venti coorti e, tracciato il campo, ordina di fortificarlo. Terminati i lavori, schiera le
legioni, le dispone, in pieno assetto, dinnanzi al vallo e piazza di guardia i cavalieri con i loro cavalli tenuti a briglia. I Bellovaci, vedendo i
Romani pronti all'inseguimento e non potendo né pernottare, né rimanere più a lungo in quel luogo senza correre pericoli, decidono la
ritirata con il seguente stratagemma: le fascine di paglia e frasche su cui sedevano (infatti, i Galli sono soliti sedere su fascine, come ricorda
Cesare nei precedenti commentari) e che abbondavano nel loro accampamento, se le passarono di mano in mano e le posero dinnanzi alla
loro linea. Quando il giorno volgeva al termine, contemporaneamente, a un segnale stabilito, le incendiano. Così, un muro di fiamme,
all'improvviso, coprì ai Romani la vista di tutte le truppe nemiche. E subito i barbari ripiegarono con grandissima rapidità.
XVI
Cesare, anche se non aveva potuto vedere la ritirata dei nemici per le fiamme che gli si paravano dinnanzi, sospettava comunque che lo
stratagemma servisse a una fuga. Perciò, fa avanzare le legioni e lancia all'inseguimento gli squadroni di cavalleria. Temendo, però,
un'imboscata, nel caso che i nemici fossero rimasti nella loro posizione e cercassero solo di attirare i nostri in una zona svantaggiosa,
procede con una certa lentezza. I cavalieri non osavano spingersi nella densissima cortina di fumo e di fiamme; se qualcuno vi era entrato
per l'eccessivo slancio, vedeva a stento la testa del proprio cavallo; temendo, dunque, un agguato, lasciarono che i Bellovaci si ritirassero
senza difficoltà. Così, dopo una fuga dettata dal timore, ma al contempo piena di astuzia, senza aver subito alcuna perdita, i nemici
procedettero per non più di dieci miglia e si attestarono in una zona ben munita. Da lì, appostandosi di continuo con i cavalieri e i fanti,
infliggevano gravi perdite ai Romani in cerca di foraggio.
XVII
Mentre gli agguati si facevano sempre più frequenti, da un prigioniero Cesare venne a sapere che Correo, il capo dei Bellovaci, aveva
scelto seimila fanti tra i più forti e mille cavalieri tra il numero totale, per tendere una trappola nella zona in cui presumeva che si sarebbero
spinti i Romani, vista l'abbondanza di grano e foraggio. Avvertito del piano, Cesare guida fuori dal campo più legioni del solito e manda in
avanti la cavalleria, che, come di consueto, scortava i soldati in cerca di foraggio. Inserisce tra i cavalieri gruppi di ausiliari armati alla
leggera. Dal canto suo, si avvicina il più possibile con le legioni.
XVIII
I nemici, in agguato, dopo aver scelto una pianura non più ampia di un miglio in tutte le direzioni, circondata su ogni lato da selve o da un
fiume inguadabile, si erano disposti tutt'attorno, per accalappiare la preda. I nostri, al corrente delle intenzioni nemiche, erano pronti alla
lotta sia con le armi, sia nell'animo, e visto l'arrivo imminente delle legioni, non avrebbero rinunciato a nessun tipo di scontro: sul luogo
dell'imboscata giunsero squadrone per squadrone. Al loro arrivo, Correo pensò che gli si offrisse l'occasione di agire: cominciò a mostrarsi
con pochi uomini e attaccò i primi squadroni. I nostri resistono saldamente all'assalto, non si ammassano in un sol luogo, cosa che, quando
si verifica negli scontri di cavalleria per un senso di paura, determina un grave danno proprio per il numero dei soldati.
XIX
I nostri, divisi in squadroni, si impegnavano a turno e in ordine sparso, senza permettere che il nemico aggirasse dai fianchi la fanteria. Ed
ecco che, mentre Correo combatteva, altri rincalzi erompono dalle selve. Si scatenano accese mischie qua e là. Mentre la lotta si protraeva
incerta, a poco a poco dalle selve avanza a ranghi serrati il grosso della fanteria nemica, che costringe alla ritirata i nostri cavalieri. In loro
soccorso interviene rapidamente la nostra fanteria leggera, che precedeva le legioni, come avevo già detto: mescolati ai nostri squadroni di
cavalleria affrontano con fermezza gli avversari. Per un certo tratto ci si batte con pari ardore; poi, conforme a una legge dei fatti d'arme,
chi aveva resistito ai primi assalti dell'imboscata, ha la meglio, proprio perché non aveva patito lo svantaggio della sorpresa. Nel frattempo,
le legioni si avvicinano e pervengono, di continuo, ai nostri e ai nemici notizie sull'arrivo del comandante con l'esercito in assetto di guerra.
Di conseguenza, i nostri, rassicurati dal sostegno delle coorti, moltiplicano gli sforzi per non dover dividere l'onore del successo con le
legioni, nel caso in cui la battaglia fosse andata troppo per le lunghe. I nemici si perdono d'animo e cercano da ogni parte vie di salvezza.
Invano: vengono intrappolati dalle difficoltà dei luoghi, in cui avevano voluto rinserrare i Romani. Vinti e travolti, dopo aver perso il grosso
delle truppe, scappano in preda al terrore, dirigendosi verso le selve o verso il fiume, ma tutti i fuggiaschi vengono massacrati dai nostri che
li inseguivano con accanimento. Al contempo nessuna traversia piegò Correo: né si risolse a lasciare la mischia e a cercar riparo nelle selve,
né acconsentì alla resa, che pure i nostri gli offrivano. Anzi, poiché combatté con estremo valore e ferì parecchi dei nostri, i vincitori, pieni
d'ira, furono costretti a bersagliarlo di frecce.
XX
Conclusasi così l'operazione, Cesare sopraggiunse mentre erano ancora freschi i segni della battaglia e pensò che i nemici, alla notizia di
una tale disfatta, avrebbero spostato il campo, non distante - a quanto si diceva - oltre le otto miglia, più o meno, dal luogo della strage;
perciò, nonostante il serio ostacolo rappresentato dal fiume, lo varca con l'esercito e avanza. I Bellovaci e gli altri popoli, intanto,
accolgono i fuggiaschi, pochi e per di più feriti, che avevano evitato il peggio grazie alle boscaglie: apprendono che era stata una catastrofe,
Correo era morto, la cavalleria e i fanti più valorosi annientati. Convinti che i Romani sarebbero ben presto sopraggiunti, al suono delle
trombe radunano rapidamente l'assemblea e chiedono a gran voce di inviare a Cesare emissari e ostaggi.
XXI
Poiché tutti approvano la proposta, l'atrebate Commio ripara presso le genti germaniche da cui aveva ricevuto rinforzi per la guerra in
corso. Gli altri inviano lì per lì un'ambasceria a Cesare e gli chiedono di accontentarsi, come punizione, dei danni che avevano subito: non
l'avrebbe certo mai riservata, nella sua clemenza e umanità, neppure a nemici nel pieno delle forze e ai quali la potesse infliggere senza
colpo ferire; le forze di cavalleria dei Bellovaci erano state distrutte; avevano perduto la vita molte migliaia di fanti scelti, a stento si erano
salvati i pochi che avevano dato la notizia della strage. Comunque, pur di fronte a una disfatta così grave, dalla battaglia i Bellovaci un
vantaggio lo avevano conseguito: Correo, il fautore della guerra, l'agitatore della folla, era morto. Finché lui era in vita, infatti, il senato non
aveva mai avuto tanto potere, quanto la plebe ignorante.
XXII
Agli emissari che così lo pregavano, Cesare ricorda che nello stesso periodo, l'anno precedente, i Bellovaci e gli altri popoli della Gallia
avevano intrapreso la guerra; ma proprio loro, più di tutti, erano rimasti ostinatamente attaccati alla decisione, né la resa degli altri li aveva
ricondotti alla ragione. Sapeva e capiva che era assai facile attribuire ai morti la colpa dell'accaduto. Nessuno, però, è così potente da
poter provocare e sostenere guerre con il solo, fragile appoggio della plebe, se incontra l'ostilità dei nobili, la resistenza del senato e
l'opposizione della gente onesta. Si sarebbe accontentato, tuttavia, della pena che si erano attirati da soli.
XXIII
La notte successiva, gli emissari riferiscono ai loro la risposta di Cesare e si radunano gli ostaggi. Si precipitano da Cesare le legazioni degli
altri popoli, che stavano a vedere cosa sarebbe successo ai Bellovaci. Consegnano ostaggi, obbediscono agli ordini, tutti eccetto Commio:
la paura gli impediva di mettere la propria vita nelle mani di chicchessia. L'anno precedente, infatti, mentre Cesare si trovava nella Gallia
cisalpina per amministrare la giustizia, T. Labieno, avendo saputo che Commio sobillava i popoli e promuoveva una coalizione contro
Cesare, pensò che si potesse soffocare il tradimento del Gallo senza venir tacciato di slealtà. Ritenne che Commio non avrebbe risposto a
una convocazione all'accampamento; allora, per non renderlo più cauto con un tentativo del genere, inviò C. Voluseno Quadrato dietro
pretesto di un colloquio, ma col solo scopo di eliminarIo. Mise a sua disposizione centurioni scelti, adatti al compito. Quando
l'abboccamento ebbe luogo e Voluseno, come erano d'accordo, afferrò la mano di Commio, il centurione, o perché turbato dal compito
insolito o per il pronto intervento del seguito del Gallo, non riuscì a ucciderlo; tuttavia, con il primo colpo lo ferì gravemente al capo. Le due
parti sguainarono le spade, non tanto con l'intenzione di affrontarsi, quanto di fuggire: i nostri credevano che la ferita di Commio fosse
mortale, i Galli avevano capito che si trattava di una trappola e temevano che le insidie non si limitassero a quanto avevano visto. Da allora,
così almeno si diceva, Commio aveva deciso di non presentarsi mai più al cospetto di un Romano.
XXIV
Dopo aver assoggettato le genti più bellicose, Cesare vide che ormai più nessun popolo preparava la guerra per resistergli e che, anzi, molti
lasciavano le città e fuggivano dalle campagne per non sottostare al dominio in atto. Decide, perciò, di inviare l'esercito in diverse zone del
paese. Unisce a sé il questore M. Antonio con la dodicesima legione. Con venticinque coorti manda il legato C. Fabio al capo opposto
della Gallia, perché gli giungeva notizia che là alcuni popoli erano in armi e stimava insufficiente il presidio delle due legioni agli ordini del
legato C. Caninio Rebilo, che si trovava nella zona. Richiama T. Labieno; la quindicesima legione, che aveva svernato con Labieno, la
spedisce nella Gallia togata, a difesa delle colonie dei cittadini romani; lo scopo era di evitare guai - dovuti alle scorrerie dei barbari - simili
a quelli capitati l'estate precedente ai Tergestini, che erano stati sorpresi da un attacco improvviso e avevano visto saccheggiate le loro
terre. Dal canto suo, punta verso la regione di Ambiorige per devastarla e far razzie; disperando di ridurre in suo potere l'uomo -
Ambiorige, atterrito, continuava a fuggire - stimava come cosa più confacente alla propria dignità devastarne i territori, con popolazione,
case, bestiame: Ambiorige, odiato dai suoi, se la sorte ne avesse risparmiato qualcuno, non avrebbe potuto ritornare nella sua città, dopo le
tante sciagure che aveva provocato.
XXV
Dopo aver inviato in ogni angolo del paese di Ambiorige legioni o truppe ausiliarie e aver seminato la desolazione con stragi, incendi,
rapine, dopo aver ucciso o catturato un gran numero di uomini, Cesare spedisce Labieno con due legioni nelle terre dei Treveri. I Treveri,
per la vicinanza con i Germani, erano abituati a far guerra tutti i giorni; per il loro grado di civiltà e la loro natura selvaggia non erano molto
diversi dai Germani stessi e non ubbidivano mai agli ordini, se non costretti da un esercito.
XXVI
Nel frattempo, grazie a una lettera e ai messi inviati da Durazio - rimasto sempre fedele all'alleanza con i Romani, mentre una parte del suo
popolo aveva defezionato - il legato C. Caninio, avvertito che un gran numero di nemici si era raccolto nelle terre dei Pictoni, si dirige alla
città di Lemono. Era sul punto di raggiungerla, quando riceve dai prigionieri informazioni più dettagliate: alla testa di molte migliaia di uomini
Dumnaco, capo degli Andi, aveva stretto d'assedio Durazio in Lemono. Così, non osando arrischiare in uno scontro coi nemici le sue
legioni, troppo deboli, stabilì il campo in una zona ben munita. Dumnaco, saputo dell'arrivo di Caninio, volge tutte le truppe contro le legioni
e comincia l'assalto all'accampamento dei Romani. Dopo aver speso diversi giorni nell'attacco, a prezzo di gravi perdite e senza riuscire a
far breccia in nessun punto delle fortificazioni, Dumnaco torna ad assediare Lemono.
XXVII
Nello stesso tempo il legato C. Fabio accetta la resa di parecchi popoli, la sancisce mediante ostaggi e viene avvisato di ciò che stava
accadendo tra i Pictoni da una lettera di Caninio. A tale notizia, muove in soccorso di Durazio. Appena lo informano dell'arrivo di Fabio,
Dumnaco dispera ormai della salvezza, perché avrebbe dovuto, a un tempo, affrontare sia i Romani, sia i rinforzi esterni, nonché
sorvegliare e temere gli abitanti di Lemono. Con rapidità, dunque, ripiega con tutte le truppe e pensa di non poter essere abbastanza al
sicuro, se non dopo aver condotto l'esercito oltre la Loira, un fiume che, per la sua imponenza, poteva essere varcato solo su ponte. Fabio,
anche se non aveva ancora avvistato i nemici, né si era ricongiunto a Caninio, avvalendosi delle informazioni di chi conosceva la natura
della zona, ritenne assai probabile che i nemici, atterriti, si sarebbero diretti là, dove effettivamente si stavano dirigendo. Così, con le sue
truppe muove verso lo stesso ponte e ordina alla cavalleria di precedere l'esercito, ma a una distanza di marcia tale, che le consentisse il
rientro nell'accampamento comune senza affaticare i cavalli. I nostri cavalieri, secondo gli ordini, partono all'inseguimento e si rovesciano
sulla schiera di Dumnaco: avendo aggredito i nemici, già in fuga e atterriti, mentre erano ancora carichi di bagagli e in marcia, ne uccidono
molti, si impadroniscono di un ricco bottino. Eseguita con successo la missione, rientrano al campo.
XXVIII
La notte successiva Fabio manda in avanscoperta i cavalieri, pronti allo scontro e a ritardare la marcia di tutto l'esercito nemico fino
all'arrivo di Fabio stesso. Perché le cose procedessero secondo gli ordini, Q. Azio Varo, prefetto della cavalleria, uomo di straordinario
coraggio e senno, sprona i suoi e, dopo aver inseguito le schiere nemiche, dispone una parte degli squadroni in zone favorevoli, mentre con
il resto attacca battaglia. La cavalleria nemica si batte con particolare audacia, perché a essa subentravano i fanti, che, piazzatisi lungo tutta
la colonna, recavano aiuto ai propri cavalieri contro i nostri. Si accende un'aspra battaglia. I nostri, infatti, disprezzavano i nemici già
sconfitti il giorno precedente e, ben sapendo che le legioni erano in arrivo, combattevano contro i fanti con straordinario ardore, sia per la
vergogna di un'eventuale ritirata, sia per il desiderio di risolvere da soli la battaglia; i nemici, dal canto loro, in base all'esperienza del giorno
precedente, credevano che non sarebbero giunte altre truppe romane e pensavano di avere trovato l'occasione per annientare la nostra
cavalleria.
XXIX
La battaglia proseguiva già da un pezzo, violentissima. Dumnaco schiera in formazione i fanti, in modo che loro e i cavalieri potessero darsi
reciproco aiuto. Ma ecco apparire, all'improvviso, le legioni a ranghi serrati. A tale vista gli squadroni nemici sono colti da terrore, si
diffonde il panico tra i fanti, lo scompiglio regna tra le salmerie: con alti clamori corrono qua e là, si danno a una fuga disordinata. Allora i
nostri cavalieri, che poco prima si erano battuti con estremo valore contro la resistenza degli avversari, trascinati dalla gioia per la vittoria,
levano alte grida da ogni parte e circondano i nemici in rotta: finché i cavalli hanno la forza di inseguire e le destre di tirar fendenti, seminano
morte. Così, dopo aver ucciso più di dodicimila nemici, che fossero in armi oppure che le avessero gettate per il panico, catturano tutta la
colonna delle salmerie.
XXX
Si viene a sapere che, dopo la fuga, il senone Drappete aveva raccolto non più di duemila fuggiaschi e puntava contro la provincia (costui,
all'inizio dell'insurrezione in Gallia, aveva raccattato dovunque dei furfanti, spinto gli schiavi alla libertà, chiamato a sé gli esuli di tutte le
genti, riuscendo poi, con razzie improvvise, a intercettare le salmerie e i rifornimenti dei Romani). Con lui aveva preso l'iniziativa il cadurco
Lucterio, che all'inizio della defezione della Gallia aveva deciso di attaccare la provincia, come sappiamo dal precedente commentario. Il
legato Caninio, alla testa di due legioni, parte al loro inseguimento, per evitare che, per via dei danni o dei timori nutriti dalla provincia, su di
noi ricadesse grave onta per le scorrerie di un gruppo di criminali.
XXXI
C. Fabio, con il resto delle truppe, si dirige verso i Carnuti e gli altri popoli, perché sapeva che le loro truppe avevano registrato gravi
perdite nella battaglia da lui combattuta contro Dumnaco. Non dubitava che dopo la recente disfatta avrebbero abbassato la testa; ma
passato un certo periodo di tempo, avrebbero anche potuto riprendere la rivolta per istigazione dello stesso Dumnaco. Nella circostanza
C. Fabio agisce con la più felice e rapida prontezza nel sottomettere i vari popoli. I Carnuti, che nonostante i ripetuti rovesci non avevano
mai chiesto pace, adesso gli consegnano ostaggi e si arrendono; le altre genti, stanziate nelle regioni più lontane della Gallia, che si
affacciano sull'Oceano e si chiamano aremoriche, indotte dal prestigio dei Carnuti, obbediscono agli ordini senza frapporre indugi, appena
arriva C. Fabio con le legioni. Dumnaco, cacciato dalle sue terre, è costretto a vagare, solo e nascosto, e a dirigersi verso le regioni
estreme della Gallia.
XXXII
Ma Drappete e Lucterio, appreso l'arrivo di Caninio e delle legioni, convinti di non poter entrare in provincia senza andar incontro a una
sicura disfatta - tanto più che li inseguiva l'esercito romano - e di non aver più la libera possibilità di spostarsi e di compiere razzie, si
fermano nei territori dei Cadurci. Un tempo, quando le cose erano tranquille, Lucterio aveva presso i suoi concittadini grande potere e
anche adesso, instancabile fautore di piani di rivolta, godeva tra i barbari di grande autorità. Perciò, con i soldati suoi e di Drappete,
occupa la città di Uxelloduno, molto ben protetta per posizione e che era già stata in passato sotto la sua tutela, e guadagna alla sua causa
gli abitanti.
XXXIII
C. Caninio giunge lì in tutta fretta e si accorge che la città, su tutti i lati, era difesa da rocce a picco, di modo che, pur in assenza di
difensori, la scalata risultava comunque difficile per degli armati. D'altro canto, vede la quantità di salmerie degli assediati: se i barbari
avessero cercato di portarle via di nascosto, non avrebbero potuto sfuggire non dico alla cavalleria, ma neppure alle legioni. Allora divide
in tre gruppi le coorti e pone tre distinti campi in un luogo molto elevato. Da qui, a poco a poco, per quanto permetteva il numero delle sue
truppe, cominciò a circondare la città con un vallo.
XXXIV
Appena se ne accorgono, gli assediati, inquieti per il tristissimo ricordo di Alesia, temono l'eventualità di un blocco simile. Tra tutti Lucterio
in particolare, che quel pericolo lo aveva corso, invita a preoccuparsi del grano. Decidono, per consenso generale, di lasciare lì parte
dell'esercito e di recarsi personalmente in cerca di frumento con truppe leggere. Approvata la decisione, la notte successiva Drappete e
Lucterio lasciano duemila armati in città e si allontanano con i rimanenti. Si trattengono pochi giorni e raccolgono una gran quantità di grano
nelle terre dei Cadurci, che in parte desideravano aiutarli nell'approvvigionamento, in parte non potevano impedirne la raccolta. Di tanto in
tanto, poi, attaccano le nostre ridotte con assalti notturni. Per tale motivo, Caninio rallenta i lavori di fortificazione tutt'intorno alla città, nel
timore di non poterli difendere, una volta terminati, oppure di essere costretto a dislocare in più settori guarnigioni troppo deboli.
XXXV
Dopo essersi procurati grandi scorte di grano, Drappete e Lucterio si attestano a non più di dieci miglia dalla città, nell'intento di portare da
qui, a poco a poco, il grano entro le mura. Si dividono le incombenze: Drappete con parte delle truppe rimane al campo per difenderlo,
Lucterio guida verso la città le bestie da soma. Dispone dei presidi e, verso l'ora decima della notte, comincia a introdurre il grano in città
per anguste strade tra i boschi. Ma i rumori della colonna in movimento erano stati uditi dalle sentinelle del nostro campo: quando gli uomini
mandati in esplorazione riferiscono cosa stava accadendo, dalle ridotte più vicine Caninio esce rapidamente con le coorti già pronte e, sul
fare dell'alba, attacca i nemici occupati nel trasporto del grano. I Galli, sconvolti dall'attacco improvviso, fuggono verso i loro posti di
difesa; non appena i nostri videro i nemici armati, con furia ancora maggiore si lanciarono su di essi e non ne fecero prigioniero nessuno. Da
qui Lucterio cerca scampo con pochi dei suoi, senza neppure rientrare al campo.
XXXVI
Condotta a termine con successo l'operazione, Caninio apprende dai prigionieri che parte delle truppe, con Drappete, era rimasta
nell'accampamento a non più di dodici miglia. La cosa gli viene confermata da diverse fonti ed egli si rende conto che, dopo la rotta di uno
dei due capi, poteva con facilità schiacciare gli altri nemici atterriti, ma riteneva ben difficile l'eventualità per lui più fortunata, ossia che
qualche superstite fosse rientrato all'accampamento nemico, portando a Drappete la notizia della disfatta subita. Fare un tentativo,
comunque, gli sembrava che non comportasse alcun rischio: manda in avanti, verso il campo nemico, la cavalleria al completo e i fanti
germanici, uomini straordinariamente veloci; dal canto suo, sistema una legione nei tre diversi accampamenti, l'altra la porta con sé senza
bagagli. Quando è ormai vicino al nemico, gli esploratori, mandati in avanscoperta, lo avvisano che i barbari, secondo la loro consuetudine,
avevano lasciato le alture e posto il campo lungo le rive del fiume; inoltre, i Germani e i cavalieri erano piombati all'improvviso sui nemici
che non se l'aspettavano e avevano attaccato battaglia. Appena lo sa, avanza con la legione in armi e schierata. Così, al segnale, da tutte le
parti repentinamente i nostri occupano le alture. Subito i Germani e i cavalieri, avendo visto le insegne della legione, combattono con
estremo ardore. Le coorti si lanciano immediatamente all'attacco da ogni lato: tutti i nemici vengono uccisi o catturati, i nostri si
impadroniscono di un grande bottino. Nella battaglia cade prigioniero lo stesso Drappete.
XXXVII
Caninio, dopo aver compiuto con grande successo la missione, quasi senz'alcun ferito, ritorna ad assediare la città. Adesso che aveva
annientato il nemico esterno, per timore del quale prima non aveva potuto dividere i presidi e stringere d'assedio gli abitanti con un'opera di
fortificazione, ordina di procedere ai lavori su tutta la linea. Il giorno seguente giunge C. Fabio con tutte le truppe e assume il comando
delle operazioni d'assedio per un settore della città.
XXXVIII
Cesare, frattanto, lascia il questore M. Antonio tra i Bellovaci con quindici coorti, per togliere ai Belgi la possibilità di scatenare altre
rivolte. Dal canto suo, visita gli altri popoli, impone nuovi ostaggi, tranquillizza e rassicura la gente tutta in preda alla paura. Poi, giunge nelle
terre dei Carnuti, dove era scoppiata l'insurrezione, come Cesare ha esposto nel precedente commentario. Siccome intuiva che i Carnuti,
consci della loro colpa, nutrivano forti apprensioni, al fine di liberare al più presto la popolazione da ogni timore esige la punizione del
responsabile del crimine e istigatore della guerra, Gutuatro. Tutti, anche se non si era mai messo nelle mani dei suoi concittadini, gli dettero
rapidamente la caccia con zelo, e fu condotto al nostro campo. Cesare, contro la propria natura, è costretto a giustiziarlo per l'accorrere in
massa dei soldati, che in Gutuatro vedevano il responsabile di tutti i pericoli e le pene patite in guerra; colpito a nerbate fino a perdere la
conoscenza, fu poi decapitato con la scure.
XXXIX
Mentre era ancora dai Carnuti, grazie alle frequenti lettere di Caninio viene informato delle novità di Drappete e Lucterio e dell'irriducibile
resistenza degli abitanti di Uxelloduno. Cesare, sebbene ne disprezzasse lo scarso numero, giudicava di dover infliggere a tanta pervicacia
una dura lezione, perché la Gallia intera non pensasse che nella resistenza ai Romani le era mancata non la forza, ma la costanza, oppure
per evitare che, seguendo l'esempio, gli altri popoli cercassero di rendersi liberi, confidando sui vantaggi dei luoghi; inoltre, a tutti i Galli -
ben lo sapeva - era noto che gli restava una sola estate da passare in provincia, e se per quel lasso di tempo riuscivano a resistere, non
avrebbero più dovuto temere alcun pericolo. Così, lascia il legato Q. Caleno con due legioni e lo incarica di seguirlo a tappe normali; dal
canto suo, si dirige il più velocemente possibile alla volta di Caninio con tutta la cavalleria.
XL
Dopo aver raggiunto Uxelloduno contro le aspettative di tutti, vede che la città è già serrata dalle nostre fortificazioni e si rende conto che
non si può più recedere dall'assedio. Saputo dai fuggiaschi che in città c'erano abbondanti scorte di grano, cercò di tagliare i rifornimenti
idrici. Un fiume scorreva in mezzo a una valle profonda, che attorniava quasi tutto il monte su cui sorgeva Uxelloduno. La conformazione
naturale della zona impediva di deviarlo: scorreva, infatti, così vicino ai piedi del monte, che non era assolutamente possibile scavare canali
di derivazione. Ma gli assediati, per raggiungere il fiume, dovevano discendere una china disagevole e molto ripida: se i nostri li
ostacolavano, non sarebbero riusciti né ad arrivare al fiume, né a ritirarsi per l'erta salita, senza il rischio di ferite o addirittura di morte.
Appena Cesare si rese conto di tale difficoltà dei nemici, appostò arcieri e frombolieri e dispose anche macchine da lancio proprio nelle
zone di fronte ai sentieri più praticabili, impedendo agli abitanti di attingere acqua dal fiume.
XLI
Allora tutta la gente della città scese a prendere l'acqua in un solo luogo, proprio ai piedi delle mura, dove sgorgava una grande fonte, in
corrispondenza della zona in cui, per un intervallo di circa trecento piedi, il fiume non chiudeva il suo anello intorno al monte. Tutti
avrebbero voluto impedire agli assediati di avvicinarsi alla fonte, ma solo Cesare ne vide il modo: proprio dirimpetto cominciò a spingere le
vinee sulle falde del monte e a costruire un terrapieno, a prezzo di grandi fatiche e continui scontri. Gli assediati, infatti, correvano giù dalle
loro posizioni dominanti e dall'alto combattevano senza rischi e colpivano molti dei nostri che continuavano ad avanzare con tenacia; i nostri
soldati, comunque, non si lasciano distogliere dal sospingere le vinee e dal superare le difficoltà del terreno con faticosi lavori. Al
contempo, scavano gallerie sotterranee verso le vene e l'alveo della sorgente, un'operazione che si poteva effettuare senza alcun rischio. né
sospetto da parte dei nemici. Viene costruito un terrapieno alto sessanta piedi, su cui è posta una torre di dieci piani, che doveva non tanto
raggiungere l'altezza delle mura (un risultato impossibile con qualsiasi tipo di costruzione), quanto sovrastare il luogo dove nasceva la
sorgente. Dalla torre le macchine da lancio scagliavano dardi verso l'accesso alla fonte e gli abitanti non potevano rifornirsi senza pericolo.
Così, non solo il bestiame e i giumenti soffrivano la sete, ma anche la grande massa dei nemici.
XLII
Atterriti dal pericolo, gli abitanti riempiono barili di sego, pece, assicelle, gli danno fuoco e li fanno rotolare sulle nostre costruzioni. Nello
stesso tempo attaccano risolutamente, in modo che la lotta minacciosa distolga i Romani dall'estinguere l'incendio. Subito alte fiamme si
levano in mezzo alle nostre opere di difesa. Infatti, i barili, dovunque rotolassero a precipizio lungo la china, bloccati dalle vinee e dal
terrapieno, appiccavano il fuoco agli ostacoli sul loro cammino. Tuttavia, i nostri soldati, benché costretti a un genere di combattimento
pericoloso e in posizione sfavorevole, tenevano testa a tutte le avversità con indomito coraggio. Lo scontro difatti si svolgeva in alto,
davanti agli occhi del nostro esercito; da entrambe le parti si levavano alte grida. Così, quanto più uno era conosciuto per il suo coraggio,
tanto più si esponeva ai dardi dei nemici e alle fiamme, per rendere ancor più noto e provato il suo valore.
XLIII
Cesare, vedendo che parecchi dei suoi venivano colpiti, ordina alle coorti di scalare il monte da tutti i lati della città e di levare dappertutto
violenti clamori, simulando di dover occupare le mura. Gli abitanti, terrorizzati dalla nostra manovra, inquieti su ciò che succedeva altrove,
richiamano i soldati che attaccavano le nostre costruzioni e li dispongono sulle mura. Così, i nostri, chiusosi lo scontro, presto in parte
domano, in parte isolano l'incendio che si era propagato sulle nostre difese. Eppure gli assediati continuavano testardamente la difesa e, pur
avendo perso per sete gran parte dei loro, rimanevano fermi nel loro proposito; alla fine i nostri, con le gallerie, riuscirono a tagliare le vene
della sorgente e a deviare l'acqua. Il che inaridì all'improvviso una fonte perenne e provocò negli abitanti la caduta di ogni speranza, al
punto che pensarono si trattasse non di opera umana, ma della volontà divina. Così, costretti dalla necessità, si arresero.
XLIV
Cesare sapeva che a tutti era nota la sua mitezza e non temeva di apparire un individuo crudele se avesse assunto provvedimenti piuttosto
severi; d'altronde, non vedeva sbocco ai suoi disegni, se in diverse zone i Galli avessero continuato a prendere iniziative del genere. Ritenne
opportuno, allora, dissuadere gli altri con un castigo esemplare. Dunque, mozzò le mani a chiunque avesse impugnato le armi, ma li
mantenne in vita, per lasciare più concreta testimonianza di come puniva i traditori. Drappete, catturato da Caninio, come ho detto, o per
l'umiliazione e il dolore delle catene o per la paura di un supplizio ancor più atroce non toccò cibo per un po' di giorni e così morì. Nello
stesso tempo Lucterio, che era fuggito dopo la battaglia, come ho scritto in precedenza, aveva affidato la propria persona all'arverno
Epasnacto (infatti, mutando luogo di frequente, si metteva nelle mani di molti, poiché gli sembrava rischioso dimorare troppo a lungo in
qualsiasi posto, ben conscio di quanto doveva essergli nemico Cesare). L'arverno Epasnacto, però, fedelissimo alleato del popolo romano,
senz'alcuna esitazione lo mette in catene e lo consegna a Cesare.
XLV
Labieno, nel frattempo, giunge a uno scontro di cavalleria nelle terre dei Treveri, con successo; uccisi molti dei Treveri e dei Germani, che
non negavano a nessuno rinforzi contro i Romani, ridusse in suo potere, vivi, i capi nemici, tra cui l'eduo Suro, che godeva di straordinaria
fama quanto a valore e nobiltà ed era il solo tra gli Edui a non aver ancora deposto le armi.
XLVI
Appena ne è informato, Cesare, constatato che in tutte le parti della Gallia le operazioni erano state condotte con successo, giudicando che
dopo la campagna estiva dell'anno precedente il paese era ormai vinto e piegato, visto che non si era mai recato in Aquitania, ma l'aveva
solo parzialmente sconfitta grazie a P. Crasso, con due legioni si dirige in quella regione della Gallia, per spendervi l'ultimo periodo della
campagna estiva. Come in tutti gli altri casi, porta a termine le operazioni con rapidità e successo. Infatti, tutti i popoli dell'Aquitania
inviarono a Cesare emissari e gli consegnarono ostaggi. Quindi, con la scorta della cavalleria parte per Narbona e incarica i legati di
condurre l'esercito ai quartieri d'inverno. Stanziò in Belgio quattro legioni con M. Antonio e i legati C. Trebonio e P. Vatinio; due le trasferì
nelle terre degli Edui, di cui ben conosceva il prestigio in tutta la Gallia; presso i Turoni, al confine coi Carnuti, ne collocò due per tenere a
bada tutta quella regione che si affacciava sull'Oceano; le due rimanenti le pose nei territori dei Lemovici, non lontano dagli Arverni, per
non lasciare sguarnita nessuna parte della Gallia. Si trattenne in provincia pochi giorni, toccò rapidamente tutti i centri giudiziari, venne
informato dei conflitti politici, attribuì premi ai benemeriti (del resto, per lui era assai facile capire quali sentimenti ciascuno avesse nutrito
durante l'insurrezione di tutta la Gallia, a cui aveva potuto far fronte grazie alla lealtà e al sostegno della suddetta provincia). Sistemate tali
faccende, rientrò presso le legioni stanziate in Belgio e svernò a Nemetocenna.
XLVII
Qui lo avvertirono che l'atrebate Commio era venuto a battaglia con la sua cavalleria. Quando Antonio era giunto agli accampamenti
invernali, il popolo degli Atrebati era rimasto fedele. Ma Commio, da quando era stato ferito - l'ho ricordato in precedenza - era sempre a
disposizione dei suoi concittadini, pronto a ogni sollevazione, perché non mancasse, a chi voleva la guerra, un fomentatore e un capo.
Adesso, poiché il suo popolo obbediva ai Romani, Commio viveva di scorrerie con i suoi cavalieri e, infestando le strade, intercettava
spesso le colonne di rifornimenti dirette ai quartieri d'inverno dei Romani.
XLVIII
Ad Antonio era stato assegnato il prefetto della cavalleria C. Voluseno Quadrato, che svernava con lui. Antonio lo manda a inseguire la
cavalleria nemica. Voluseno, allo straordinario valore, accompagnava un odio feroce nei confronti di Commio, perciò obbedì all'ordine
ancor più volontieri. Così, tendendo imboscate, attaccava con notevole frequenza i cavalieri nemici e dava vita a scontri coronati da
successo. In ultimo, mentre si combatteva con particolare asprezza, Voluseno, con pochi dei suoi, insegue Commio con eccessiva
ostinazione, per la smania di catturarlo; e quello, fuggendo a precipizio, costringe Voluseno ad allontanarsi troppo. Poi, nemico com'era di
Voluseno, all'improvviso fa appello alla fedeltà e all'aiuto dei suoi, chiede loro di non lasciar invendicate le ferite che gli erano state inferte a
tradimento: volge il cavallo e, spingendosi davanti a tutti, si lancia inaspettatamente contro il prefetto. Altrettanto fanno i suoi cavalieri:
costringono i pochi nostri a volgere le spalle e li inseguono. Commio, pungolando ferocemente coi talloni il cavallo, affianca il destriero di
Quadrato e, lancia in resta, gli trapassa con violenza la coscia. Vedendo il prefetto colpito, i nostri non esitano a bloccarsi di colpo,
volgono i cavalli e respingono il nemico. Subito molti degli avversari, scombussolati dall'impetuoso assalto dei nostri, vengono feriti; alcuni
cadono sotto gli zoccoli dei cavalli mentre cercavano la fuga, altri sono catturati. Il comandante nemico, grazie alla velocità del suo cavallo,
riesce a scamparla; in quella battaglia vittoriosa, però, il prefetto romano rimase gravemente ferito, al punto che sembrava dovesse morire,
e fu riportato all'accampamento. Ma Commio, vuoi, che sentisse placato il proprio rancore, vuoi per la perdita della maggior parte dei suoi,
invia una legazione ad Antonio: sarebbe rimasto dove gli avesse ordinato e avrebbe obbedito a ogni comando, sancendo la promessa con
l'invio di ostaggi; di una sola cosa lo pregava, che, in ragione del suo timore, gli fosse concesso di non comparire al cospetto di nessun
romano. Antonio, giudicando che la richiesta nasceva da una giusta paura, accordò il permesso e accolse gli ostaggi. So che Cesare ha
composto singoli commentari per ciascun anno, ma non ho ritenuto il caso di fare altrettanto, perché l'anno seguente, durante il consolato di
L. Paolo e C. Marcello, non si verificarono in Gallia imprese di rilievo. Tuttavia, perché si sappia in quali zone rimasero in quell'anno
Cesare e l'esercito, ho deciso di scrivere poche pagine e di unirle al presente commentario.
XLIX
Cesare, mentre svernava in Belgio, mirava a un unico scopo: tener legate all'alleanza le varie genti e non fornire a nessuno speranze o motivi
di guerra. Infatti, niente gli pareva meno auspicabile, alla vigilia della sua uscita di carica, che trovarsi costretto ad affrontare un conflitto;
altrimenti, al momento della sua partenza con l'esercito, si sarebbe lasciato alle spalle una guerra che tutta la Gallia avrebbe intrapreso con
entusiasmo, liberata dal pericolo della sua presenza. Così, distribuendo titoli onorifici ai vari popoli, accordando grandissime ricompense ai
loro principi, non imponendo nuovi oneri, la Gallia, prostrata da tante sconfitte, riuscì con facilità a tenerla in pace, garantendo più lieve
l'assoggettamento.
L
Alla fine dell'inverno, contro la sua abitudine, si diresse a marce forzate in Italia, per rivolgersi ai municipi e alle colonie, a cui aveva
raccomandato la candidatura al sacerdozio di M. Antonio, suo questore. Da un lato, ben volentieri faceva valere tutto il suo prestigio per
un uomo a lui così legato, che poco prima aveva mandato a presentare la sua candidatura; dall'altro voleva colpire duramente il potente
partito di quei pochi che, con una sconfitta elettorale di M. Antonio, desideravano minare l'autorità di Cesare, allo scadere della sua carica.
E anche se durante il viaggio, prima di giungere in Italia, aveva saputo che M. Antonio era stato eletto augure, stimò di avere, nondimeno,
un buon motivo per visitare i municipi e le colonie, perché voleva ringraziarli di aver accordato ad Antonio il loro favore con un'affluenza
davvero massiccia. Allo stesso tempo voleva raccomandare la propria candidatura per il consolato dell'anno successivo, visto che i suoi
avversari con insolenza menavano vanto sia per l'elezione di L. Lentulo e C. Marcello, creati consoli, al solo scopo di spogliare Cesare di
ogni carica e dignità, sia di aver sottratto il consolato a Ser. Galba, che, nonostante godesse di maggior credito e avesse raccolto più voti,
era stato escluso per i suoi vincoli di parentela con Cesare e la lunga militanza come suo legato.
LI
L'arrivo di Cesare fu accolto con incredibili onoranze e manifestazioni d'affetto da parte dei municipi e delle colonie. Era la prima volta,
infatti, che giungeva dopo la famosa sollevazione generale della Gallia. Di tutto ciò che si poteva escogitare, niente fu tralasciato per ornare
le porte, le vie e tutti i luoghi in cui Cesare doveva passare. Tutta la popolazione, insieme ai bambini, gli si faceva incontro, dappertutto
venivano immolate vittime, le piazze e i templi erano pieni di mense imbandite: si poteva pregustare la gioia di un trionfo davvero
attesissimo. Così grande era la magnificenza dispiegata dai ricchi, l'entusiasmo manifestato dai poveri.
LII
Dopo aver percorso tutte le regioni della Gallia togata, con estrema rapidità Cesare rientrò a Nemetocenna presso l'esercito; richiamate
nelle terre dei Treveri le legioni che erano nei campi invernali, le raggiunse e passò in rassegna le truppe. Pose T. Labieno a capo della
Gallia togata, per guadagnare un maggior favore alla sua candidatura al consolato. Spostava l'esercito di tanto, quanto gli pareva utile
mutare i luoghi per ragioni igieniche. In quel periodo gli giungeva ripetutamente voce che i suoi avversari facevano pressioni su Labieno e
veniva avvertito che, per le manovre di pochi, si cercava di sottrargli parte delle truppe mediante un intervento del senato. Tuttavia, non
prestò fede alle voci su Labieno, né si lasciò indurre ad atti che contrastassero con l'autorità del senato. Era convinto, infatti, che se vi fosse
stata una libera votazione dei senatori, la sua causa avrebbe prevalso con facilità. E C. Curione, tribuno della plebe, avendo preso a
difendere le ragioni e l'onore di Cesare, aveva più volte detto al senato che, se il timore delle armi di Cesare infastidiva qualcuno, il potere
assoluto e gli armamenti di Pompeo incutevano al foro non meno terrore, e aveva proposto che entrambi deponessero le armi e
congedassero i loro eserciti: la città, così, sarebbe ritornata libera e indipendente. E non si limitò a proporlo, ma prese, lui, l'iniziativa di una
votazione per spostamento: a essa si opposero i consoli e gli amici di Pompeo e tirarono in lungo la cosa fino a che l'assemblea non si
sciolse.
LIII
Era una prova lampante dell'unanimità del senato e coincideva con quanto era accaduto in precedenza. L'anno prima, infatti, M. Marcello
aveva cercato di scalzare Cesare dalla sua carica e, contro una legge di Pompeo e Crasso, aveva tenuto al senato una relazione sulle
province di Cesare, prima della scadenza del mandato. Dopo la discussione, Marcello, che ricercava ogni prestigio politico dalla sua
ostilità contro Cesare, aveva messo ai voti la sua proposta, ma il senato, compatto, l'aveva respinta. L'insuccesso non aveva demoralizzato
i nemici di Cesare, anzi li incitava a prepararsi a misure più gravi, con cui costringere il senato ad approvare ciò che loro volevano.
LIV
Il senato, in seguito, decise che per la guerra contro i Parti Cn. Pompeo e C. Cesare inviassero una legione a testa; ma è chiaro che le due
legioni sono sottratte a uno solo. Cn. Pompeo, infatti, diede, come proveniente dalle sue, la prima legione, da lui inviata a Cesare dopo
averla arruolata nella provincia di Cesare stesso. Quest'ultimo, tuttavia, benché non ci fossero dubbi sulle intenzioni dei suoi avversari,
restituì la legione a Pompeo e, a proprio titolo, rispettando la delibera del senato, invia la quindicesima, dislocata in Gallia cisalpina. Al
posto di questa, invia in Italia la tredicesima legione, a protezione dei posti di difesa evacuati dalla quindicesima. Assegna all'esercito i
quartieri d'inverno: situa C. Trebonio in Belgio con quattro legioni e con altrettante invia C. Fabio nelle terre degli Edui. Pensava che, così,
la Gallia sarebbe stata veramente sotto controllo, se le truppe avessero tenuto a bada i Belgi, che erano i più valorosi, e gli Edui, che
godevano di grandissimo prestigio. Dal canto suo, parte per l'Italia.
LV
Appena vi giunge, viene a sapere che, per iniziativa del console C. Marcello, le due legioni da lui fornite per la guerra contro i Parti, come
da ordine del senato, erano invece state assegnate a Cn. Pompeo e trattenute in Italia. L'accaduto non lasciava dubbi su che cosa stessero
tramando contro di lui, ma Cesare decise di sopportare tutto, finché gli restava qualche speranza di risolvere la questione in termini di
diritto piuttosto che con le armi. Si diresse...

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