De bello gallico: Libro II

Materie:Versione
Categoria:Latino

Voto:

1 (2)
Download:109
Data:21.02.2007
Numero di pagine:22
Formato di file:.doc (Microsoft Word)
Download   Anteprima
de-bello-gallico-libro-ii_2.zip (Dimensione: 17.44 Kb)
readme.txt     59 Bytes
trucheck.it_de-bello-gallico:-libro-ii.doc     62.5 Kb


Testo

Libro II
Mentre Cesare era negli accampamenti invernali nella Gallia Citeriore, come sopra abbiamo dimostrato, frequenti arrivavano delle
chiacchiere ad egli, ed era informato con lettere da Labieno, che tutti i Belgi, che come abbiamo detto sono la terza parte della Gallia,
congiuravano contro il popolo romano e si scambiavano prigionieri. Queste erano le ragione della congiura: la prima poiché temevano che il
nostro esercito venisse spinto contro di loro, una volta pacificata tutta la Gallia; quindi, perché erano ispirati da alcuni Galli, che, da una
parte, come volevano che i Germani non rimanessero più in Gallia, così mal sopportavano che l'esercito del popolo romano svernasse e si
stabilisse in Gallia, e altri di loro per una naturale instabilità desideravano nuovi domini, e non di meno poiché in Gallia i regni erano
solitamente occupati, quelli che avevano la possibilità di assoldare più uomini, i quali meno facilmente potevano conseguire il loro obiettivo
sotto il nostro comando.
II
Le notizie e la lettera di Labieno spinsero Cesare ad arruolare in Gallia cisalpina due nuove legioni, e il legato Q. Pedio, all'inizio dell'estate,
ricevette l'incarico di condurle in Gallia transalpina. Cesare stesso raggiunse l'esercito non appena cominciò a esservi foraggio a sufficienza.
Ai Senoni e agli altri Galli confinanti con i Belgi diede incarico di informarsi e di comunicargli che cosa i Belgi stessero preparando. Tutti,
concordemente, gli riferirono che erano in corso reclutamenti e che le truppe venivano concentrate in un sol luogo. Solo allora Cesare
ritenne che non c'era da esitare a muovere contro di loro. Preparate le scorte di grano, toglie le tende e in circa quindici giorni giunge nella
regione dei Belgi.
III
Il suo arrivo fu improvviso e più rapido di ogni previsione. I Remi, il popolo belga più vicino alla Gallia, gli inviarono in veste di
ambasciatori Iccio e Andocumborio, i più insigni tra i cittadini: si ponevano con tutti i loro beni sotto la protezione e l'autorità del popolo
romano; non avevano condiviso i sentimenti degli altri Belgi, né aderito alla lega contro Roma; erano pronti a consegnare ostaggi, a
eseguire gli ordini, ad accogliere i soldati romani nelle loro città. a rifornirli di grano e di tutto il necessario; gli altri Belgi erano già in armi e a
essi si erano uniti i Germani stanziati al di qua dei Reno; li aveva presi tutti una smania e follia tale, che i Remi non erano riusciti a dissuadere
neanche i Suessioni, dei fratelli, dei consanguinei: eppure avevano in comune leggi e diritto, dipendevano da un unico comandante militare e
magistrato civile.
IV
Cesare chiese ai Remi quanti e quali popoli si trovassero in armi e quanto valessero in guerra. Ecco che cosa seppe: la maggior parte dei
Belgi discendeva dai Germani; anticamente avevano varcato il Reno attratti dalla fertilità della regione e l'avevano occupata, scacciando i
Galli che l'abitavano; all'epoca dei nostri padri erano stati gli unici a impedire ai Cimbri e ai Teutoni, che avevano messo a ferro e fuoco
tutta la Gallia, di penetrare nei loro territori; perciò, memori di tale impresa, i Belgi si attribuivano un'enorme importanza ed erano molto
fieri della loro forza militare. Circa il numero dei partecipanti alla lega, i Remi sostenevano di avere tutti dati sicuri, perché grazie ai legami di
vicinanza e parentela sapevano quanti uomini ciascun popolo avesse promesso per la guerra nell'assemblea generale dei Belgi. I più potenti
per valore, prestigio e numero erano i Bellovaci, in grado di mettere insieme un esercito di centomila uomini; ne avevano promessi
sessantamila scelti e chiedevano il comando supremo delle operazioni. Loro confinanti erano i Suessioni, che possedevano territori molto
estesi e fertili. Fu loro re, anche ai nostri giorni, Diviziaco, il sovrano più potente di tutta la Gallia, sotto il cui dominio erano cadute molte
regioni del paese e, addirittura, la Britannia; ora regnava Galba: a lui, uomo giusto e saggio, era stato conferito il comando supremo per
unanime consenso; le loro città erano dodici ed essi si erano impegnati a fornire cinquantamila uomini, come pure i Nervi, che tra i Belgi
erano i più lontani e avevano fama di essere i più indomiti; gli Atrebati ne avevano promesso quindicimila, gli Ambiani diecimila, i Morini
venticinquemila, i Menapi settemila, i Caleti diecimila, altrettanti i Veliocassi e i Viromandui, gli Atuatuci diciannovemila; inoltre, si pensava
che i Condrusi, gli Eburoni, i Cerosi e i Pemani, complessivamente designati con il nome di Germani, avrebbero fornito circa quarantamila
soldati.
V
Cesare incoraggiò i Remi e rivolse loro parole di benevolenza. Ordinò che tutti i senatori si recassero da lui e che gli fossero consegnati in
ostaggio i figli dei più nobili. Tutte le sue disposizioni vennero puntualmente eseguite nel giorno fissato. Cesare moltiplicò le pressioni
sull'eduo Diviziaco, spiegandogli quanto fosse vitale, per la repubblica e l'interesse di tutti, tenere divise le forze nemiche, per non dover
affrontare in un solo scontro un esercito così numeroso. E ciò era possibile se gli Edui avessero invaso i territori dei Bellovaci,
incominciando a devastarli. Affidatogli tale incarico, lo congedò. Quando vide che tutte le truppe dei Belgi, concentrate in un unico luogo,
muovevano contro di lui e apprese, su informazione dei Remi e degli esploratori inviati, che i nemici erano ormai vicini, si affrettò a tradurre
l'esercito al di là del fiume Aisne, che si trova nei più lontani territori dei Remi, e qui si attestò. Così difendeva un lato dell'accampamento
per mezzo della riva del fiume, metteva al riparo dai nemici la zona alle sue spalle e garantiva la sicurezza dei rifornimenti inviati dai Remi e
dagli altri popoli. Sul fiume c'era un ponte. Su una sponda pone un presidio e lascia, sull'altra, il legato Q. Titurio Sabino con sei coorti. Dà
ordine di fortificare l'accampamento con un vallo di dodici piedi d'altezza e una fossa larga diciotto.
VI
A otto miglia di distanza dall'accampamento sorgeva una città dei Remi, chiamata Bibrax. Appena giunti sul posto, i Belgi cominciarono a
stringerla d'assedio con accanimento. Per quel giorno la città, a stento, resistette. I Belgi usano la stessa tecnica di assedio dei Galli:
circondano il perimetro delle mura con un gran numero di uomini e da ogni parte iniziano a lanciare pietre, costringendo i difensori ad
abbandonare i propri posti; poi formano la testuggine, incendiano le porte e abbattono le mura. E a Bibrax una tale tecnica era facilmente
attuabile: gli attaccanti che scagliavano pietre e dardi erano così numerosi, che nessuno dei difensori poteva rimanere sulle mura. L'arrivo
della notte costrinse i Belgi a interrompere l'assedio. Il Remo Iccio, persona di nobilissima stirpe, che godeva di molta influenza tra i suoi e
all'epoca era capo della città, inviò a Cesare un messo, uno degli ambasciatori già mandati per chiedere la pace: se non gli pervenivano aiuti
da Cesare, non era in grado di resistere più a lungo.
VII
Cesare, nel cuore della notte, di rinforzo agli abitanti manda truppe della Numidia, arcieri cretesi e frombolieri delle Baleari, sotto la guida
dei messi inviati da Iccio. L'arrivo dei Romani riaccese le speranze dei difensori e la loro voglia di combattere, mentre per lo stesso motivo
gli assedianti disperarono di poter prendere Bibrax. Perciò, rimasero per un certo periodo nei pressi della città, devastando i campi dei
Remi e incendiando tutti i villaggi e gli edifici che avevano potuto raggiungere, poi, al gran completo, puntarono sul campo di Cesare e
posero le tende a meno di due miglia di distanza. Il loro accampamento, a giudicare dal fumo e dai fuochi accesi, si estendeva per più di
otto miglia.
VIII
In un primo tempo, considerando sia il numero dei nemici, sia la loro fama di soldati estremamente valorosi, Cesare decise di evitare lo
scontro aperto. Ogni giorno, però, con attacchi di cavalleria saggiava il valore dei nemici e il coraggio dei Romani. Si rese conto che i nostri
non erano inferiori. Il terreno di fronte all'accampamento era vantaggioso e adatto per schierare l'esercito, perché il colle su cui si trovava il
nostro campo sovrastava leggermente la pianura, si estendeva per uno spazio equivalente a quello che poteva occupare l'esercito in
formazione da combattimento, aveva entrambi i fianchi scoscesi e la cima arrotondata, che digradava dolcemente verso la pianura. Perciò
ordinò di scavare, alla base di entrambi i fianchi del colle, due fosse trasversali di circa quattrocento passi, in cima alle quali comandò di
costruire ridotte e collocare macchine da lancio: voleva evitare che, una volta dispiegate le truppe, i nostri durante la battaglia venissero
aggirati dal nemico, che era così numeroso. Attuate tali disposizioni, lasciò nell'accampamento, pronte a intervenire in caso di necessità, le
due legioni arruolate per ultime e schierò di fronte al campo le altre sei. Allo stesso modo i nemici fecero uscire le loro truppe e le
disposero per lo scontro.
IX
Tra il nostro esercito e il nemico c'era una palude non molto estesa. I Belgi aspettavano i Romani al varco; i nostri, invece, si tenevano
armati, pronti ad assalire il nemico in difficoltà, se avesse tentato per primo il passaggio. Nel frattempo, le cavallerie dei due eserciti si
scontravano. Nessuno osò attraversare per primo il fiume, perciò, dopo che i nostri cavalieri ebbero la meglio, Cesare ricondusse i suoi
nell'accampamento. I nemici si diressero immediatamente al fiume Aisne, che scorreva - lo si è già detto - dietro il nostro campo. Trovati
alcuni guadi, tentarono di tradurre sull'altra sponda parte delle truppe. La loro intenzione era, nel migliore dei casi, di espugnare la ridotta
comandata dal legato Q. Titurio e di distruggere il ponte, altrimenti di devastare i campi dei Remi, che per noi erano di vitale importanza al
fine di proseguire la guerra, e di tagliarci i rifornimenti.
X
Cesare, informato della situazione da Titurio, portò tutta la cavalleria, i Numidi armati alla leggera, i frombolieri e gli arcieri al di là del ponte
e marciò contro il nemico. Lo scontro fu violento. I nostri li assalirono mentre stavano attraversando il fiume ed erano in difficoltà. Ne
uccisero la maggior parte e respinsero con un nugolo di frecce gli altri che, con estrema audacia, tentavano di passare sui corpi dei caduti,
circondarono con la cavalleria e uccisero i primi giunti sull'altra sponda. I nemici si resero conto di non aver più speranze di espugnare la
città, né di attraversare il fiume e videro che i nostri non avanzavano, per dare battaglia, su un terreno sfavorevole. Perciò, dato che anche
le loro scorte di grano incominciavano a scarseggiare, convocarono l'assemblea e decisero che la cosa migliore era tornare tutti in patria.
Sarebbero accorsi in difesa del primo popolo attaccato dai Romani: così avrebbero combattuto nei propri territori, non in quelli altrui, e si
sarebbero serviti delle scorte di grano che avevano in patria. Giunsero a tale decisione, tra l'altro, perché avevano saputo che Diviziaco e
gli Edui si stavano avvicinando ai territori dei Bellovaci. E non si poteva convincere questi ultimi ad attardarsi e a non soccorrere i loro.
XI
Presa la decisione, prima di mezzanotte i Belgi lasciarono l'accampamento con grande strepito e tumulto, senza seguire ordini precisi o
comandanti. Ognuno voleva raggiungere la testa della colonna e si affrettava a rientrare in patria, tanto che la loro partenza sembrava
piuttosto una fuga. Gli osservatori riferirono immediatamente il fatto a Cesare, ma egli, temendo una trappola, poiché non aveva ancora
capito il motivo della loro partenza, trattenne l'esercito e la cavalleria nell'accampamento. All'alba, quando gli esploratori confermarono la
notizia, Cesare mandò in avanti tutta la cavalleria agli ordini dei legati Q. Pedio e L. Aurunculeio Cotta, col compito di ostacolare la
retroguardia nemica. Ordinò al legato T. Labieno di seguirli con tre legioni. I soldati romani assalirono la retroguardia avversaria e
protrassero l'inseguimento per molte miglia, facendo strage dei Belgi in fuga. Gli ultimi della colonna nemica, raggiunti, si fermarono e
ressero con vigore all'urto dei nostri; i primi, invece, ritenendosi fuori pericolo e non essendo trattenuti né dalla necessità, né da
comandanti, non appena udirono i clamori della battaglia, ruppero l'ordine di marcia e si diedero tutti alla fuga, cercando di salvarsi. Così,
senza correre alcun pericolo, i nostri uccisero tanti nemici, quanti ne consentì la durata del giorno. Al tramonto posero fine al loro
inseguimento e, secondo gli ordini ricevuti, rientrarono all'accampamento.
XII
Nei giorni successivi, prima che i nemici potessero ristabilirsi dal loro terrore e dalla loro fuga, Cesare condusse il suo esercito nel territori
dei Suessoni, che sono vicini ai Remi, e avendo compiuto una lunga marcia, si ferma alla città di nome Noviodunum. Avendo tentato di
prenderla d'assedio durante la sua marcia, avendo sentito che aveva difensori insufficienti, non fu capace di prenderla d'assalto, sul conto
della larghezza del fossato e dell'altezza del muro, nonostante lo difendessero in pochi. Quindi, dopo aver fortificato l'accampamento,
cominciò ad innalzare le vineae, e a procurare tutte le cose che fossero necessarie all'assedio. Nel frattempo tutto l'esercito dei Suessoni,
dopo la fuga, arrivò nella città la notte successiva. Essendo state innalzate velocemente le vineae contro la città, fatto un terrapieno, e
costruite delle torri, i Galli, sorpresi dalla grandezza delle opere, come non avevano mai visto o sentito prima, e colpiti dalla spedizione dei
Romani, mandarono degli ambasciatori a Cesare chiedendo di arrendersi, e riuscirono in seguito nel richiedere ai Remi che fossero
risparmiati. Cesare, avendo ricevuto come prigionieri gli uomini più grandi dello Stato, ed anche i due figli del Re Galba stesso; ed essendo
state cacciate tutte le armi dalla città, concedette ai Suessoni una resa, e guidò il suo esercito contro i Bellovaci.
XIII
Cesare, ricevuti in ostaggio i cittadini più nobili, tra cui due figli del re Galba stesso, dopo la consegna di tutte le armi che vi erano in città,
accettò la resa dei Suessioni e guidò l'esercito contro i Bellovaci, asserragliati con tutti i loro beni nella città di Bratuspanzio. Quando
Cesare e le sue legioni distavano circa cinque miglia, tutti i più anziani uscirono dalla città e iniziarono a esprimere, a parole e con le mani
protese verso Cesare, l'intenzione di porsi sotto la sua protezione e autorità e di non combattere contro il popolo romano. Allo stesso
modo, quando Cesare si era avvicinato alla città e poneva le tende, dall'alto delle mura i bambini e le donne, con le mani protese, secondo
il loro costume, chiedevano pace ai Romani.
XIV
In loro favore parlò Diviziaco, che dopo la ritirata dei Belgi aveva rimandato in patria le truppe edue e raggiunto Cesare: i Bellovaci in ogni
circostanza si erano dimostrati alleati e amici degli Edui; a spingere il popolo erano stati i capi con i loro discorsi, sostenendo che gli Edui,
ridotti in servitù da Cesare, subivano umiliazioni e offese di ogni sorta; perciò, si erano staccati dagli Edui e avevano dichiarato guerra al
popolo romano. I responsabili della decisione, consapevoli del danno provocato alla loro gente, erano fuggiti in Britannia. Alle preghiere
dei Bellovaci, che chiedevano a Cesare clemenza e generosità, si aggiungeva l'intercessione degli Edui. E se Cesare avesse risparmiato i
Bellovaci, avrebbe accresciuto l'autorità degli Edui presso tutti i Belgi, che erano soliti fornire, in caso di guerra, truppe e mezzi per farvi
fronte.
XV
Cesare disse che, per aumentare il prestigio di Diviziaco e degli Edui, avrebbe accolto e tenuto sotto la sua protezione i Bellovaci. Poiché
erano un popolo di grande autorità tra i Belgi e molto numerosi, chiese seicento ostaggi. Gli furono consegnati insieme a tutte le armi della
città. Da lì passò nella regione degli Ambiani, che senza indugio si posero con tutti i loro beni sotto la sua autorità. Gli Ambiani confinavano
con i Nervi. Cesare prese informazioni sul carattere e sui costumi di quest'ultimi e seppe quanto segue: i mercanti non avevano alcun
accesso e i Nervi non permettevano che si introducessero vino o altri prodotti di lusso, perché ritenevano che indebolissero gli animi e
diminuissero la loro forza; gente rude e molto valorosa, accusavano duramente gli altri Belgi di essersi arresi al popolo romano e di aver
rinnegato la virtù dei padri; assicuravano che non avrebbero inviato ambascerie. né accettato la pace, a nessuna condizione.
XVI
Cesare, dopo tre giorni di marcia nella regione dei Nervi, veniva a sapere dai prigionieri che il fiume Sambre non distava più di dieci miglia
dal suo accampamento: al di là del fiume si erano attestati tutti i Nervi e aspettavano l'arrivo dei Romani insieme agli Atrebati e ai
Viromandui, loro confinanti (li avevano persuasi, infatti, a tentare la stessa sorte in guerra); attendevano anche le truppe degli Atuatuci, che
erano in marcia; le donne e chi, per ragioni d'età, non poteva essere impiegato in guerra, erano stati ammassati in un luogo che le paludi
rendevano inaccessibile a un esercito.
XVII
Avute tali informazioni, mandò in avanscoperta alcuni esploratori e centurioni con l'incarico di scegliere una zona adatta per accamparsi. Al
seguito di Cesare c'erano parecchi Belgi che avevano giurato sottomissione e altri Galli. Alcuni di essi, come si seppe in seguito dai
prigionieri, dopo aver osservato l'ordine di marcia fin lì tenuto dal nostro esercito, di notte raggiunsero i Nervi e riferirono che tra le singole
legioni procedeva un gran numero di salmerie, per cui non era affatto difficile assalire la prima legione non appena fosse giunta al campo,
mentre le altre erano lontane e i soldati ancora impacciati dagli zaini. Una volta messa in fuga la prima legione e saccheggiate le salmerie, le
rimanenti legioni non avrebbero osato opporre resistenza. Un altro elemento giocava a favore del piano degli informatori: fin dai tempi più
antichi i Nervi non avevano contingenti di cavalleria (neppure ai giorni nostri si preoccupano di averne, ma tutta la loro forza risiede nella
fanteria); così, per ostacolare, in caso di razzia, i cavalieri dei popoli limitrofi, incidevano gli alberi ancora giovani e li piegavano,
costringendo i rami a crescere, fitti, in senso orizzontale; tra gli alberi, poi, piantavano rovi e arbusti spinosi in modo che le siepi formassero
una barriera simile a un muro, impedendo non solo il passaggio, ma anche la vista. Dato che il nostro esercito avrebbe trovato sulla sua
strada tali ostacoli, i Nervi ritennero di non dover scartare il piano proposto.
XVIII
La conformazione naturale del luogo, scelto dai nostri per l'accampamento, era la seguente: un colle, che digradava in modo uniforme,
scendeva fino alla Sambre, fiume di cui abbiamo già fatto cenno. Sulla riva opposta, proprio di fronte, sorgeva un altro colle che aveva
identica pendenza: in basso, per un tratto di circa duecento passi, era brullo, mentre sulla cima aveva fitti boschi, impenetrabili alla vista.
Qui i nemici si tenevano nascosti; nella zona senza vegetazione, lungo il fiume, si vedevano poche squadre di cavalleria. La profondità del
fiume era di circa tre piedi.
XIX
Cesare, mandata in avanti la cavalleria, la seguiva con tutte le truppe. La disposizione e l'ordine di marcia, però, erano diversi da quelli che
i Belgi avevano riferito ai Nervi. Infatti, trovandosi in prossimità del nemico, Cesare, secondo la sua abitudine, faceva avanzare libere da
carichi le sei legioni, ponendo dietro di esse i bagagli di tutto l'esercito; le due legioni di recente arruolate chiudevano lo schieramento e
presidiavano le salmerie. La nostra cavalleria, insieme ai frombolieri e agli arcieri, attraversò il fiume e si scontrò con i cavalieri avversari. I
nemici sistematicamente si ritiravano nei boschi presso i loro e, da lì, attaccavano i nostri, che non osavano inseguire i fuggitivi oltre il limite
segnato dalla zona pianeggiante e senza vegetazione. Nel frattempo, le sei legioni che erano in testa, tracciato lo spazio, iniziarono a
fortificare il campo. I nemici, nascosti nelle selve, avevano già formato le linee di attacco e le file, spronandosi alla lotta: non appena videro i
primi carri del nostro esercito - era il segnale convenuto per l'attacco - in massa si lanciarono in avanti e puntarono contro i nostri cavalieri.
Li volsero in fuga e dispersero con facilità, poi scesero di corsa verso il fiume, velocissimi: sembrava quasi che fossero, nello stesso istante,
sul limitare dei boschi, nel fiume e già addosso ai nostri. Poi, con altrettanta rapidità, salirono il colle opposto dirigendosi contro il nostro
accampamento e i legionari intenti ai lavori di fortificazione.
XX
Cesare si trovò a dover far tutto contemporaneamente: inalberare il vessillo, con cui si dava l'avviso di correre alle armi, ordinare gli squilli
di tromba, richiamare i soldati dai lavori, comandare il rientro ai legionari che si erano un po' allontanati in cerca di materiale, formare la
linea di combattimento, esortare i soldati e dare il segnale d'attacco. La mancanza di tempo e l'incalzare dei nemici impedivano di eseguire
la maggior parte delle suddette operazioni. A fronte di tali difficoltà due fattori erano d'aiuto: primo, la perizia e l'esperienza dei nostri
soldati, che, addestrati dalle precedenti battaglie, erano in grado di imporsi da soli la condotta necessaria non meno tranquillamente che se
avessero ricevuto precise istruzioni da altri; secondo, l'obbligo imposto da Cesare ai vari legati di non allontanarsi dalla propria legione
prima del termine dei lavori. I legati, vista la vicinanza e la rapidità dei nemici, non stettero ad aspettare ordini da Cesare, ma prendevano
personalmente le disposizioni che ritenevano opportune.
XXI
Cesare, impartiti gli ordini necessari, corse a spronare i soldati, guidato dal caso: capitò dalla decima legione. Si limitò a incitare i soldati a
ricordarsi dell'antico valore, a non lasciarsi turbare, a reggere con vigore all'assalto nemico. Dato che i Nervi erano quasi a tiro e i nostri
potevano colpirli con le frecce, diede il segnale d'attacco. E poi si precipitò in un'altra direzione, sempre con lo scopo di incoraggiare i
soldati, ma li trovò che stavano già combattendo. Il tempo fu talmente breve e i nemici così risoluti che i nostri non riuscirono non solo ad
applicare i fregi, ma neppure a mettersi in testa gli elmi o a togliere le fodere dagli scudi. Chi tornava dai lavori si fermò dove capitava,
presso le prime insegne che vide, per non perdere tempo alla ricerca della sua unità di appartenenza.
XXII
L'esercito fu schierato tenendo presente non tanto i dettami della tecnica militare, quanto la conformazione naturale del luogo, il pendio del
colle e le circostanze. Le legioni, operando separate, resistevano ai nemici in zone diverse. Siepi fittissime, come si è detto in precedenza,
erano frapposte e impedivano la vista. Non era possibile predisporre adeguati contingenti di riserva e provvedere alle necessità di ciascun
settore, era esclusa l'unità di comando. Perciò, in tanta disparità di situazioni, era inevitabile che la fortuna giocasse ruoli diversi sul campo
di battaglia.
XXIII
I soldati della nona e della decima legione, schierati all'ala sinistra, lanciarono i giavellotti e respinsero rapidamente i nemici che avevano di
fronte, gli Atrebati, rimasti senza fiato per la corsa e sfiniti dalle ferite; li costrinsero a retrocedere dall'alto fino al fiume e qui, mentre
tentavano il guado e si trovavano in difficoltà, li inseguirono con le spade in pugno e ne fecero strage. Poi senza esitazione attraversarono il
fiume e avanzarono, anche se la posizione era sfavorevole; i nemici, a loro volta, opposero resistenza, riaprendo la battaglia, ma i nostri li
volsero in fuga. E anche in un altro settore, due legioni, l'undicesima e l'ottava, agendo separatamente, avevano respinto dalla sommità del
colle i Viromandui, con i quali si erano scontrate, e combattevano ormai sulla riva del fiume. Ma quasi tutto l'accampamento sulla fronte e
sulla sinistra era rimasto sguarnito (la dodicesima legione e, non lontano, la settima avevano preso posto all'ala destra), perciò lì puntarono
tutti i Nervi in formazione compatta, sotto la guida di Boduognato, il comandante in capo. Parte di essi iniziò una manovra di aggiramento
per sorprendere le legioni dal fianco scoperto, parte si diresse verso la sommità del nostro campo.
XXIV
In quel mentre, rientravano nell'accampamento i nostri cavalieri e i fanti armati alla leggera, che a essi si erano affiancati (entrambi erano
stati messi in fuga, come avevamo detto, al primo assalto dei Nervi). Trovandosi di fronte i nemici, si sbandarono di nuovo, in un'altra
direzione. I caloni, invece, che dalla porta decumana e dalla sommità del colle avevano visto i nostri, vittoriosi, portarsi oltre il fiume,
uscivano dall'accampamento per far bottino, ma, dopo essersi voltati e aver scorto i nemici nel nostro campo, scapparono
precipitosamente. Nello stesso istante si levavano le grida e gli strepiti degli addetti alle salmerie: in preda al panico, si lanciarono dove
capitava. Scossi da tale confusione, i cavalieri dei Treveri, che pure rispetto agli altri Galli godono di una fama di straordinario valore e che
erano stati mandati dal loro popolo a Cesare come rinforzo, quando videro il campo romano pieno di nemici, le legioni pressate da vicino e
quasi circondate, i caloni, i cavalieri, i frombolieri e i Numidi dispersi in fuga disordinata, si diressero in patria, convinti che la nostra
situazione fosse disperata; al loro popolo annunciarono che i Romani erano stati sconfitti e debellati e che i nemici si erano impossessati
dell'accampamento e delle salmerie.
XXV
Cesare, terminato il suo discorso alla decima legione, si diresse verso l'ala destra, dove vide che i suoi erano alle strette e che i soldati della
dodicesima legione, vicini l'uno all'altro, si impacciavano a vicenda, perché le insegne erano state raccolte in un sol luogo; tutti i centurioni e
un vessillifero della quarta coorte erano caduti, il vessillo perduto, quasi tutti i centurioni delle altre coorti morti o feriti; tra di essi il primipilo
P. Sestio Baculo, soldato di grandissimo valore, non riusciva più a reggersi in piedi, sfinito com'era dalle numerose e gravi ferite; gli altri
andavano esaurendo le forze e alcuni della retroguardia, rimasti senza comandanti, lasciavano la mischia e si sottraevano ai colpi; il nemico
non cessava di avanzare dal basso frontalmente e di premere dai lati. Quando vide che la situazione era critica e che non aveva truppe di
rincalzo, prese lo scudo a un soldato della retroguardia (perché era giunto fin lì senza), avanzò in prima linea, si rivolse ai centurioni
chiamandoli per nome, uno per uno, arringò i soldati e diede l'ordine di muovere all'attacco e di allargare i manipoli, perché i nostri
potessero usare le spade con maggior facilità. Il suo arrivo infuse fiducia nei soldati e restituì loro il coraggio: ciascuno, pur in una situazione
di estremo pericolo, voleva dar prova di valore agli occhi del comandante, per cui l'impeto dei nemici per un po' venne frenato.
XXVI
Cesare, quando si accorse che anche la settima legione, lì a fianco, era in difficoltà, comandò ai tribuni militari di avvicinare gradualmente le
due legioni e, operata una conversione, di muovere all'assalto. La manovra permise ai soldati di aiutarsi reciprocamente e i nostri, adesso
che non temevano più l'accerchiamento, iniziarono a resistere con maggior coraggio e a combattere con più vigore. Nel frattempo, i soldati
delle due legioni della retroguardia, che presidiavano le salmerie, non appena ebbero notizia dello scontro, raggiunsero di corsa la cima del
colle e lì apparvero ai nemici. E T. Labieno, conquistato il campo dei Nervi, dopo aver visto dall'alto che cosa stava accadendo nel nostro,
mandò in rinforzo la decima legione. Dalla fuga dei cavalieri e dei caloni i soldati si resero conto di come stavano le cose e di quale
minaccia incombesse sul campo, sulle legioni e sul comandante e si impegnarono al massimo per arrivare al più presto.
XXVII
Il loro arrivo capovolse la situazione: perfino i nostri feriti si rialzavano da terra appoggiandosi agli scudi e riprendevano a combattere. I
caloni, avendo visto i nemici impauriti, affrontavano anche disarmati chi era armato. I cavalieri, poi, per cancellare la vergogna della fuga
con una prova di valore, in tutte le zone dello scontro precedevano i legionari. Ma i nemici, anche ridotti quasi alla disperazione, diedero
prova di grandissimo valore, al punto che i soldati delle seconde file salivano sui corpi dei primi caduti e da lì combattevano; abbattuti
anch'essi, si formavano mucchi di cadaveri, dai quali i superstiti, come da un tumulo, lanciavano frecce sui nostri e scagliavano indietro i
giavellotti da essi intercettati. Non era da ritenersi senza ragione che uomini così valorosi avessero osato attraverso un fiume larghissimo,
scalare un monte tanto alto e muovere all'attacco da una posizione assolutamente sfavorevole: il loro eroismo aveva reso facili delle imprese
estremamente difficili.
XXVIII
Con la battaglia era pressoché annientata la stirpe e il nome dei Nervi. I più anziani, che con le donne e i bambini, come si era detto, si
trovavano negli stagni e nelle paludi, non appena seppero l'esito dello scontro, considerando che nulla avrebbe ostacolato i vincitori o
tutelato i vinti, con il consenso di tutti i superstiti mandarono a Cesare dei messi e si arresero. Menzionando la disfatta subita, gli dissero
che di seicento senatori tre soli erano sopravvissuti e che di sessantamila uomini in grado di combattere se ne erano salvati a malapena
cinquecento. Cesare, per render palese la sua clemenza nei confronti dei miseri e dei supplici, li tutelò con ogni cura, permise ai Nervi di
mantenere territori e città, ingiunse ai popoli limitrofi e ai loro alleati di non provocare offese o danni.
XXIX
Gli Atuatuci - ne abbiamo parlato prima - stavano accorrendo con l'esercito al completo in aiuto dei Nervi, ma, non appena fu loro riferito
l'esito dello scontro, senza neppure fermarsi rientrarono in patria. Abbandonata ogni città o torre fortificata, si asserragliarono con tutti i
loro beni in una sola roccaforte, molto ben difesa per posizione naturale. Da ogni lato la circondavano altissime rupi, da dove la vista
dominava; in un solo punto si apriva un accesso, in lieve pendio, non più largo di duecento passi: lo avevano fortificato con un duplice
muro, altissimo, e ora vi collocavano massi enormi e travi molto acuminate. Gli Atuatuci discendevano dai Cimbri e dai Teutoni, i quali
all'epoca della loro penetrazione nella nostra provincia e in Italia avevano lasciato al di qua del Reno le salmerie che non si potevano
portare dietro, affidandole a seimila dei loro, incaricati di custodirle e proteggerle. Costoro, dopo l'annientamento dei Cimbri e dei Teutoni,
per molti anni tormentati dai popoli di confine, sostennero guerre attaccando o difendendosi. Fatta la pace, con il consenso generale delle
genti limitrofe, si erano scelti come sede la regione in cui si trovavano.
XXX
In un primo tempo, dopo l'arrivo del nostro esercito, gli Atuatuci effettuavano spesso sortite e si misuravano con i nostri in scaramucce di
poco conto; in seguito, quando vennero circondati da un vallo di quindici miglia di perimetro con numerose ridotte, si tenevano entro le
mura della città. Le vinee erano già state spinte in avanti e il terrapieno costruito; ma, quando videro che stavamo preparando, lontano, una
torre, dalle mura incominciarono subito a deriderci e a gridare perché mai un marchingegno così grande veniva costruito a tanta distanza: su
quali mani e quale forza i Romani, piccoletti com'erano (tutti i Galli, infatti, per lo più disprezzano la nostra statura a confronto
dell'imponenza del loro fisico), facevano conto per avvicinare alle mura una torre così pesante?
XXXI
Come videro che esso era spostato, e si stava avvicinando alle loro mura, spaventati dalla vista nuova e non abituale, mandarono degli
ambasciatori a Cesare per trattare la pace; i quali parlarono a questo modo; essi non credono che i Romani non portano la guerra senza
aiuto divino, poiché sono in grado di muovere macchine di così grande altezza con così grande velocità; essi dissero che i loro
possedimenti erano suoi. Chiedevano e pregavano una cosa: che se per caso, per la sua clemenza ed umanità, che essi avevano udito da
altri, gli Aduatuci fossero risparmiati, non fossero privati delle loro armi. Poiché tutti i popoli con loro confinanti erano loro nemici, ed
invidiavano il loro coraggio; dai quali essi non si possono difendere prese le armi. Era meglio per loro, se fossero stati ridotti in quello stato,
che avessero patito qualsiasi destino dal popolo Romano, piuttosto che essere torturati a morte da coloro tra i quali erano abituati a
dominare.
XXXII
Alle loro richieste Cesare rispose: avrebbe risparmiato il popolo degli Atuatuci, per proprio costume più che per loro merito, se si fossero
arresi prima che l'ariete avesse toccato le mura: ma l'unica condizione di resa era la consegna delle armi. Si sarebbe regolato come con i
Nervi, ordinando ai popoli confinanti di non infliggere torti a chi si era arreso al popolo romano. Le parole di Cesare furono riferite e gli
Atuatuci si dichiararono disposti a obbedire. Dal muro gettarono nel fosso, che correva davanti alla città, una tale quantità di armi, che il
cumulo raggiungeva quasi la sommità del muro e l'altezza del nostro terrapieno: e tuttavia - lo si scoprì in seguito - si erano tenuti e avevano
nascosto in città circa un terzo delle armi. Aperte le porte, per quel giorno rimasero tranquilli.
XXXIII
Verso sera Cesare ordinò che le porte venissero chiuse e che i soldati romani lasciassero la città, perché non si verificassero atti di violenza
nei confronti della popolazione. Gli Atuatuci, come si capì in seguito, avevano architettato un piano, pensando che i nostri, dopo la resa,
avrebbero tolto i presidi o, almeno, avrebbero allentato la sorveglianza. Perciò, con le armi che si erano tenute e avevano nascosto oppure
con scudi di corteccia o vimini intrecciati, ricoperti di pelli sul momento, come richiedeva l'esiguo tempo a disposizione, dopo mezzanotte
tentarono in massa un'improvvisa sortita, puntando contro le nostre fortificazioni per la via meno erta. Rapidamente, come da ordine
precedente di Cesare, furono fatte segnalazioni coi fuochi e dalle ridotte più vicine accorsero i nostri. Il nemico si batté con accanimento,
come si addice a guerrieri valorosi che, costretti a lottare, nel momento estremo e in una posizione difficile, contro avversari che
scagliavano su di loro frecce dal vallo e dalle torri, ripongono ogni speranza di salvezza solo nel proprio valore. Ne furono uccisi circa
quattromila, gli altri vennero ricacciati in città. Il giorno seguente furono abbattute le porte, ormai sguarnite, e i nostri soldati entrarono in
città. Cesare vendette all'asta tutto quanto il bottino. I compratori gli riferirono il numero dei prigionieri: cinquantatremila.
XXXIV
Nello stesso tempo P. Crasso, che era stato mandato con una legione nelle terre dei Veneti, degli Unelli, degli Osismi, dei Coriosoliti, degli
Esuvi, degli Aulerci e dei Redoni, popoli marittimi che si affacciano sull'Oceano, informò Cesare di averli sottomessi tutti all'autorità e al
dominio di Roma.
XXXV
Portate a termine tali imprese e pacificata la Gallia, si diffuse tra i barbari una tale fama di questa guerra, che i popoli d'oltre Reno inviarono
a Cesare ambascerie impegnandosi alla consegna di ostaggi e all'obbedienza. Cesare, che aveva fretta di partire per l'Italia e l'Illirico, invitò
i messi delle legazioni a ripresentarsi all'inizio dell'estate successiva. E, condotte le legioni negli accampamenti invernali, nelle terre dei
Carnuti, degli Andi, dei Turoni e dei popoli vicini ai luoghi in cui avevano combattuto, se ne partì per l'Italia. In seguito alle sue imprese,
comunicate per lettera da Cesare stesso, furono decretati quindici giorni di feste solenni di ringraziamento, onore mai tributato a nessuno
prima di allora.

Esempio