Creazione linguistica di Plauto

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CREAZIONE LINGUISTICA
La beffa è così importante per Plauto, che egli la mette anche dove nel modello greco non c’è, o la potenzia considerevolmente dove già c’è. In una di queste due possibilità rientra certamente il finale farsesco della Casina, cioè le “nozze maschie”, ma può anche capitare che Plauto raddoppi addirittura la beffa (Miles gloriosus: beffa al servo di fiducia del soldato, Sceledro, in aggiunta a quella al soldato stesso) e che giunga persino a concepire più beffe giocate contemporaneamente a personaggi diversi (Pseudolus) e beffe sempre diverse ai danni di uno stesso personaggio (Mostellaria).
Già da un quarto di secolo la pubblicazione delle sezioni meglio conservate di un papiro trovato ad Ossirinco ci consente un coni diretto tra una commedia di Plauto, le Bacchides («Le [due] Bacchidi»), e il modello attico, il Dìs exapaton («Il doppio inganno») di Menandro. Plauto non si è certo limitato a cambiare il titolo dell’originale: ha cambiato il metro di alcune scene (dai trimetri giambici ai più lunghi e musicalmente mossi settenari trocaici), ha costantemente trasformato il tono medio menandreo in esuberanze verbali, ora concettose ora patetiche, ha inserito un monologo, ha tagliato e ricucito, anche un po’ bruscamente, per semplificare taluni passaggi un po’ troppo sottili e psicologicamente complessi di Menandro, ha potenziato la figura del servo furbo, facendone il protagonista.
In linea con tali innovazioni appare anche il trattamento riservato ai nomi dei personaggi. Siro, il servo furbo di Menandro, in Plauto diventa Crisalo, nella cui radice è riconoscibile il riferimento al termine greco che significa «oro», un materiale che il servo per ben due volte si impegna a far saltar fuori (opus est chryso Chrysalo «Crisalo ha bisogno d’oro», v. 240), riuscendovi due volte. Diversa sorte tocca invece a Lido (Lydòs), il pedagogo, che resta Lydus: ma in latino questo nome si prestava a bisticci (particolarmente indovinati, trattandosi di un uomo di scuola) con ludus, che significa «gioco», ma anche appunto, «scuola» (entrambi i significati nella battuta non omnis aetas, Lyde, ludo convenit, v. 129).
Di fatto, ancor prima che nelle modifiche apportate alle trame dei modelli, è nell’invenzione metrico-musicale e in quella più propriamente linguistica (ad esempio, come qui, nell’ambito dei nomi propri) che è possibile cogliere la misura dell’arte di Plauto.
La commedia nuova ateniese non contemplava, di regola, parti cantate (se non, al di fuori della vicenda, negli intervalli tra un atto e l’altro): nel corpo della commedia comparivano solo, e s’alternavano, trimetri giambici, meramente recitati, e versi più lunghi, recitati e con accompagnamento musicale (di flauti). In Plauto, troviamo parti recitate in senari giambici, dette deverbia (nei codici indicate con la sigla DV) e parti recitate con possibilità di accompagnamento musicale in settenari trocaici, dette cantica (sigla C); troviamo parti musicate e cantate, vere e proprie “arie”, dette mutatis modis contica (sigla MMC), nelle quali a versi lunghi si alterna una gran varietà di versi più brevi.
Si pensa che il teatro latino fosse in questo debitore al teatro comico siceliota e italiota (più libero di quello attico) e che tali metri avessero avuto una loro storia latina anteriore all’introduzione del teatro attico. È comunque probabile che agisse in qualche modo anche il diretto influsso della pratica teatrale greca d’età ellenistica, che sappiamo volta a musicare parti non liriche della tragedia euripidea e della commedia di tipo menandreo: ma è certo che la responsabilità di gran parte della stupefacente complessità, arditezza e maestria, in particolare dei mutatis modis contica, sia da imputare ai poeti drammatici latini, su tutti a Plauto stesso.
Ma quel che forse è ancor più notevole è che l’impegno metrico-musicale non si riduce, in Plauto, ad un fatto di puro abbellimento, ma corrisponde ad una musicalità più interiore, ad un ritmo mentale e di reinvenzione letteraria e drammatica che si traduce in musica, se così si può dire, anche nelle commedie in cui di musica in senso proprio (in particolare di “arie”, di MMC) ce n’è ben poca o non ce n’è affatto. Plauto ama infatti procedere per metafore-guida (o motivi-guida): pone all’inizio una serie di temi (denaro e guadagno, sesso e cibo, vista e odorato, diritto e punizioni, guerra e caccia, arte di navigare e di costruire, far teatro) che poi sviluppa e varia, con attitudine veramente “musicale”, per l’intero svolgimento dell’azione, sino al termine.
Ed è appunto in questa complessa tramatura di immagini e motivi che si collocano le più notevoli e divertenti invenzioni verbali dei personaggi plautini, in particolare dei personaggi-poeti per antonomasia, i servi furbi. A cominciare dai loro stessi nomi. Se il Crisalo delle Bocchides deve il suo nome alle magiche capacità che possiede di procurarsi cospicue quantità di denaro in «oro» sonante, lo Pseudolo della commedia omonima si chiama così perché è come un poeta: come un poeta inventa cose che non esistono nella realtà e dunque sono cose non vere, «menzogne» (in greco menzogna è pseudos), così Pseudolo “inventa” il denaro che non c’è e di cui ha bisogno il padroncino per riscattare la cortigiana del suo cuore.
Si tratta, in sostanza, di “nomi d’arte”, che si collegano perfettamente coi motivi-guida, rispettivamente, di Bacchides e Pseudolus, ne costituiscono il motivo-conduttore. Nel Persa, il cui tema principale è quello del «guadagno», l’anonima figlia di parassita che, sotto le mentitissime spoglie di schiava araba, sta per essere venduta all’incauto ruffiano, quando questi le chiede: «Come ti chiami?», gli risponde: «Mi chiamo Guadagnina (Lucris)!», provocandone l’ovvio commento: «Se ti compro, spero che sarai guadagnina anche per me!» (Persa 624-627).
Ancora nel Persa, l’esotismo su cui è imperniata la beffa favorisce anche un’altra invenzione. A vendita compiuta, prima di congedare il sedicente «persiano» (in realtà il servo Sagaristione), il ruffiano, sempre lui, gli chiede — tanto così, per sapere — come si chiama. «“Sta a sentire”, risponde Sagaristione, “e lo saprai: Regalavuoteparòlide Vendivergìnide Contabàllide Trapanargèntide Dicoquelchetimerìtide Menzògnide Ruffiànide Quelchetihoprèside Maipiùteloripìglide. Eccoti accontentato!”. “Per Ercole, questo tuo nome, ci vuole un’ora per scriverlo tutto!”. “Beh, questo è l’uso persiano: abbiamo nomi 1unghi e tutti aggrovigliati”» (vv. 701-708). Come si vede, la desinenza greca del patronimico (quella del Pelide Achille...) serve a “generare” una serie di finti nomi propri dal significato latino che nel loro insieme costituiscono un discorso perfettamente chiaro, equivalente di fatto ad un riassunto della trama (della beffa).
Nelle invenzioni nominali plautine anche altre desinenze greche danno prova di notevole creatività. Ad esempio, quella aggettivale -inus, -ina (con la -i- breve). Sebbene nettamente sovrastata da quella in -inus, -ina (con la -i- lunga), essa non era ignota al latino: già al tempo di Plauto si era inserita nel sistema morfologico facendosi diretto tramite di numerosi aggettivi greci di materia come crocinus («di croco»). Plauto se ne servì per trovate come le fustitudinae e ferrcrepinae insulae (le «Isole Prendibastonie e Stridiferraie») di Asinaria 33, ma soprattutto per l’invenzione di Casina, l’invisibile protagonista della commedia omonima, l’avvenente trovatella contesa tra padre e il figlio: Casina significa infatti «la ragazza che profuma di cannella (casia)», ed è nome particolarmente adatto ad un personaggio che affascina e innamora di sé (la casia era un profumo molto caro e ricercato), e che, pur non comparendo mai in scena, vi aleggia, come invisibile e penetrante profumo (qual era di fatto la casia), grazie al suo continuamente ripetuto, anzi ardentemente invocato, dal principio alla fine dell’azione. Casina è, di fatto, il tema conduttore della commedia, di cui segue anche le peripezie finali: in conformità con delle “nozze maschie” (il servo Calino si traveste da Casina e ne prende il posto anche nel mistero dell’alcova), alla fine sentiamo parlare non più di Casina, bensì di Casinus...
L’abilità di Plauto nell’inserire l’elemento romano (e italico) in un contesto ufficialmente greco e la sua felicità nella scelta di argomenti antropologicamente nodali come la lotta per la donna e/o il denaro, non sarebbero state nulla, non sarebbero mai arrivate — come invece arrivarono – al cuore della gente, senza il sostegno di quest’invenzione linguistica continua. Lo stile di Plauto ebbe la straordinaria capacità di cogliere nella vita pubblica e privata, solenne o d’ogni giorno, tutte le voci, tutti i gerghi e gli stili, facendone il pretesto per una vera e propria “festa di parole”, nella quale la città si mostrava capace, pur al di fuori dei Saturnali, di ridere salutarmene – catarticamente – di sé.

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