Ars Amatoria

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Testo

ARS AMATORIA

Nella prima elegia del libro terzo degli “Amores” Ovidio, fingendo un contrasto fra l’Elegia e la Tragedia venutegli accanto, dalla Tragedia si fa rivolgere molti rimproveri per il troppo tempo e la troppa attività da lui data fin qui agli amori suoi e alla celebrazione di essi, tempo ed attività per cui egli è diventato “la favola di tutta l’Urbe”, e si fa incitare ad intraprendere “un’opera maggiore”:

“Ciò che tu canti opprime il genio; canta
le imprese degli eroi”

A questo incitamento il poeta risponde dichiarando di voler obbedire tra breve, cioè dopo che sarà finita la “tregua” che la Tragedia gli concede; allora correrà “più vasto arringo” “con validi cavalli”.
Ma non attenne, pare, la promessa. Nei circa dieci anni che, a quanto si può calcolare, intercorsero tra la pubblicazione degli “Amores” (e forse anche delle “Heroides”) e l’inizio dell’era volgare, cioè fin verso il suo quarantesimo anno, il poeta sulmonese continuò a fare all’amore, ad analizzare l’arte, a notare l’essenza e gli aspetti: anche se, ad intervalli, veniva preparando il materiale e forse tracciando episodi per il grande poema delle Metamorfosi: poema in cui l’amore doveva pur avere, ancora e sempre, sì larga e sì splendida parte. Ed il frutto di tale attività, pratica e poetica, fu l’ “Ars Amatoria”, che l’autore stesso dichiara nata ed ispirata dalla propria esperienza:

“Guida è l’esperienza; al Vate esperto
or si obbedisca; cose vere io canto”
(I, 43-44)

Nel primo proposito dovevano essere tre libri dedicati ammaestramento degli uomini.

“Tu che a nuova battaglia or per la prima
volta qui vieni, innanzi tutto attendi
a trovare colei che amar tu voglia.
Seconda impresa è quella di piegare
La donna che ti piacque; ultima cura
Far che lunga durata abbia l’amore.

Ecco i limiti nostri”
(I 52-58)

Ma questo piano dell’opera fu, durante l’esecuzione, modificato; nel primo libro fu adunata tutta la materia che doveva essere trattata nei primi due (“dove trovare la donna e come conquistarla”); al 2° libro il poeta destinò la trattazione dei modi con cui si può e si deve “conservare l’amore”. Ed i due libri, che così venivano a ridurre in teoria gran parte degli episodi degli Amores, furono pubblicati, quasi certamente, fra l’anno primo e secondo dell’era volgare, tra gran clamore di consensi e di dissensi: consensi del bel mondo maschile, dissensi del femminile. E furono questi ultimi, come è facile supporre, che indussero Ovidio a mutare la materia che si era proposto di trattare nel Libro 3°, e a dedicarlo invece alle donne:
“Armi contro le Amazoni agli Achei
diedi; armi ancor mi restano ch’io porga
a te e alle schiere tue, Pentesilea.

…Alle donne
il modo insegnerò di farsi amare”
(III, 1-3 e 41-42)

Quanto poi ai dissensi e, peggio, alle sdegnate disapprovazioni dei nuovi zelatori di una nuova e più rigida morale, i quali, in conformità anche con l’azione di risanamento e di restaurazione religiosa e sociale intrapresa da Augusto, dovevano gridare allo scandalo, il poeta aveva già nel prologo del libro primo messe innanzi le mani, col dichiarare che l’opera sua non si rivolgeva alle matrone né alle vergini destinate al matrimonio, e anzi le invitava a tenersi lontane dal suo libro:

“Noi la sicura Venere cantiamo
ed i furti concessi; e non alcuna
riprovevole cosa avrà il mio carme”
(I, 49-51)

E parecchi anni dopo, dal suo doloroso esilio, con simili parole ma con l’aggiunta di vivaci e non in tutto speciose argomentazioni, diceva rivolgendosi ad Augusto:

“Ho rispettato quello che lo stato verginale e maritale comporta; e se la matrona vorrà mio malgrado servirsi delle arti non dettate per lei, io non ne ho colpa; perché una donna vaga di mal fare potrà da ogni carme, anche di Ennio, anche di Lucrezio, ricavare le lusinghe del peccato. Ogni genere di poesia potrà in tal modo essere incolpato; e nessuna cosa è tanto giovevole che non possa far danno. Se si deve distruggere tutto ciò che può indurre in peccato d’amore, si distruggano i teatri, il Circo, si chiudano i portici, i templi. Tutto può corrompere un animo che abbia tendenza al mal costume”.

La relegazione di Ovidio durò quasi un decennio, ed ebbe termine soltanto con la vita del poeta, che no aveva più riveduto la patria e la famiglia. Il motivo “ufficiale” di quel terribile provvedimento era appunto il Carmen amatorio, accusato di lascivia corruttrice, e nello stesso tempo escluso dalle pubbliche biblioteche; il motivo reale era, secondo le affermazioni di Ovidio stesso nelle elegie “Tristia”, un ERROR, del quale egli però non rivelò mai la natura per non esasperare l’animo addolorato di Augusto; sì che ben si può accettare la supposizione che il poeta, frequentatore della corte imperiale, si fosse trovato implicato negli scandalosi amori di Giulia, figlia di Augusto, o in quelli più recenti della figlia di lei, Giulia minore, che, si noti, veniva relegata dall’imperatore nello stesso tempo della relegazione di Ovidio.

“Perché io vidi? Perché resi colpevoli i miei colpi? Perché, imprudente, venni a conoscenza di una colpa? Atteone vide Diana spoglia delle sue vesti senza saperlo; e fu ugualmente sbranato dai propri cani. Sì, verso gli dei anche ciò che è fortuito si deve pagare; agli occhi della divinità offesa anche il caso non può trovare perdono”.

Così si confessava e si rammaricava il poeta nella lunga elegia unica del Lib. II dei Tristia, nella quale pur si diffondeva poi a difendersi dall’accusa (che dunque gli era stata fatta verbalmente da Augusto nel tempestoso colloquio che precedette l’ordine della partenza) di aver esaltato e favorito l’ adulterio:
“arguor osceni doctor adulterii: mi accusa maestro di inverecondo adulterio”.
Certamente, l’amore “in Grecia nudo e nudo in Roma” non aveva mai trionfato e non trionfò più nella letteratura antica pur sì ricca di pagine licenziose quando non turpemente triviali (quali in Catullo, prima, e poi in Marziale, in Petronio, in Apuleio), pur sì spregiudicata e libera nelle sue espressioni, come in questo poema. Il titolo stesso ne annunziava chiaramente la materia: ars amatoria. Non dunque l’amore nel senso più intero del termine, non la passione in cui spirito e sensi hanno egualmente parte e avvicendamento, non la “dolcezza” che “per gli occhi” va prima che altrove “al core”, anche se poi invada e soggioghi tutto l’essere; ma l’arte di amare; ma i mezzi accorti e ben ponderati di sedurre le donne, per conquistarle, per goderle sicuramente e durabilmente; ma le regole di un procedimento che parte dalla volontà per giungere alle mete della lascivia.

Prima nel cuore tuo sia la certezza
Che tutte aver si possono le donne;
le avrai, ma bene sappi ordir le insidie.
(I, 403-405)

Questo ammonimento, tra cinico e sorridente, enunciato così, e con buona copia di argomentazioni e di esempi svolto subito dopo, può bene essere considerato come il motivo fondamentale del poema, e ad esso dà il tono. Né importa che il poeta abbia avvertito nel prologo, e ripeta poi altrove, che egli canta per la gioventù, maschile e femminile, non legata dalle sacrosante leggi del matrimonio. In realtà i suoi precetti si risolvono facilmente in una didascalia buona per tutti, e a tutti si propongono di dare norme ed ausilio in tutte le situazioni, anche quelle dove il sentimento ha preponderanza sul senso. “Io canto il vero”, ha dichiarato l’autore iniziando l’opera; e con questo, in sostanza, viene a dire: il tenore dei rapporti fra l’uomo e la donna, nell’amore, è quello che io mostro: in ogni caso, anche nel caso della passione più intensa e più nobile. Se nell’amore ci sono particolarità volgari o tristi, patteggiamenti umilianti, insincerità tanto maggiori quanto meno confessabili, trionfo reale della carne sotto le più seducenti apparenze del sentimento, non è colpa mia; l’amore nella sua immutabile verità è questo. E dal momento che è questo, poiché, nonostante le proteste degli zelatori della moralità, è praticato sostanzialmente da tutti (anche dagli zelatori della moralità) così, nella sua eterna ed immutabile verità io lo celebro, senza ipocrisia e senza veli, per me e per tutti gli uomini del mio tempo. E ad essi dico:

con pronta mano
questi frutti fuggevoli cogliete!
(III, 863-864)

e ad essi raccomando:

fin che gli anni consentono e le forze,
la fatica si affronti; ahi verrà presto
con muti passi la curva vecchiaia!
(II, 1003-1005)

E’ un po’ la giustificazione (si parva licet) del Machiavelli all’acerbità dei propri precetti: “ Se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma, poiché sono tristi e non la vorrebbero [la fede]a te, tu ancora non l’ hai ad osservare a loro…Quello che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio capitato…Colui che inganna troverà chi si lascerà ingannare”.
Ed Ovidio:

Prometti arditamente; le promesse
Vincono le donne; e testimoni chiama
Alle offerte quanti dei tu vuoi.

Degli spergiuri di un amante ride
Giove dall’alto, e li fa render vani
E sperder lungi dagli eoli Noti.

A Giunone solea giurare il falso
Giove per l’acque dello Stige; ed ora
Con l’esempio suo stesso lui ci asseconda…

Le ingannatrici ingannisino! Razza
Son quasi tutte perfida; nei lacci
Cadono dunque che esse avevano tesi!
(I, 943-951 e 964-966)

Non “amore”, dunque, ma galanteria? La società per cui il poeta scrive è ben atta a ricevere e seguire i precetti del suo “segretario galante”, il quale glieli “condisce” in sì “molli versi”, i più “molli”, forse, della poesia antica. Le conquiste d’Oriente, i costumi di cento regioni del soggiogato mondo trapiantati in Roma, le ricchezze, i profumi, tutte le cose belle portate dai conquistatori nella capitale, la spregiudicatezza e la licenza create e avvivate dal bisogno di godere, lo scetticismo religioso, tutte queste forme di vita e di costume, sì contrastanti con la vita e con i costumi dei faticosi e duri tempi primitivi, che invano Augusto tenta di restaurare con le sue riforme, hanno determinato e foggiato la natura della società che lo ha prodotto. Esso è quindi il portato spontaneo della sua età, l’espressione di un mondo per cui l’apogeo della grandezza coincide con gli inizi del crollo non ha la più lontana preveggenza, e che della propria grandezza e della propria pienezza si compiace con oblioso abbandono. E Ovidio è veramente uomo del suo tempo (“altri ami l’antichità; io mi compiaccio d’esser nato ora; questa età piace al mio gusto”); egli stesso, come si era già proclamato negli Amores e come ripete qui, è “soldato” dell’amore che viene celebrano e quale lo viene insegnando.
Lo insegna, ben s’intende, ai novellini e ai timidi. Il Foro, i portici, il teatro, il circo con le corse dei cavalli sono i luoghi pubblici ove si può scegliere un’amante, o la si voglia giovanissima o già giovane o già matura; anche gli antichissimi Romani non trovarono nel teatro, con il ratto delle Sabine, le loro donne? I modi di avvicinarla sono quelli di tutti i luoghi e di tutti i tempi: ristrettezza dello spazio, argomento dello spettacolo o nomi dei cavalli, cure d’ogni specie perché possa trovarsi a proprio agio…

Se, come avviene, alla fanciulla in seno
È per caso un pulviscolo caduto,
pronto col dito scuoterlo dovrai,

e se nessun pulviscolo vi cada,
pur tu scuoti quel nulla…
(I 223-227)

Agli incontri gioveranno anche i conviti, ma qui tu non devi credere troppo “alla fallace lampada”; di giorno devi far giudizio del volto e del corpo di una donna. Alle donne, naturalmente, darà poi il consiglio di mostrarsi piuttosto la notte. E’ utile la complicità dell’ancella; bisogna quindi procacciarsela.
E utile anche sedurre questa “mediatrice”? Ciò è pericoloso; se però è molto carina si può fare anche questo, ma solo dopo di aver compiuto la conquista della padrona. E i precetti si susseguono fitti e numerosi. “Scrivi molte lettere, da’ molte promesse; avvicinala spesso, come e dove puoi; siedi fin che siede, levati quando si leva, consuma il tempo secondo il suo capriccio. Sii pulito ed elegante, non però effeminato; parla molto, canta, danza, piaci con tutti i mezzi nei conviti dove lei è presente, anche se con lei c’è il suo ‘drudo’ . Ma bada a non inebriarti; fingi, sì, l’ebbrezza,

onde, checchè tu dica o faccia in modi
liberi più del lecito, si creda
che causa ne sia stata il troppo vino.
(I, 895-897)

Lodala molto e sempre, piangi qualche volta, baciala anche a forza; resistendo ella brama d’essere vinta. Pregala; non sempre però lascia sospettare il desiderio carnale: “coperto- da nome di amicizia entri l’amore”.
Come poi l’uomo debba comportarsi per conservare la sua conquista Ovidio insegna nel libro II. L’ essenza dei suoi “consigli” consiste nella pieghevolezza e l’adattabilità dell’uomo alle diverse contingenze e ai diversi caratteri delle diverse donne. Dunque: amabilità almeno apparente; lodi; pazienza e condiscendenza; cautela; doni; devozione; presenza costante che crea la consuetudine (a proposito della quale è da mettere in risalto nei versi 538-558 la maliziosa grazia dell’accenno alla partenza di Menelao che lasciava la moglie Elena in balia dell’ospite troiano); e fedeltà, vera o accoratamente simulata, pur non senza qualche atteggiamento dubbio di infedeltà che ecciti un po’ la gelosia; tolleranza di qualche infedeltà da parte di lei; sopportazione dei difetti. Ed il Libro si chiude con la celebrazione delle donne mature, “più dotte nell’opra” d’amore, e con quella delle delizie dell’amplesso reciprocamente dato e goduto:

alla meta affrettatevi concordi;
pieno è il piacere quando giaccion vinti
l’uomo e la donna nello stesso istante.
(II, 1090-1092)

Nel Libro III, dedicato alle donne, Ovidio mostra di volersi far perdonare da esse tutte le armi che egli ha fornite agli uomini per conquistarle e per ingannarle, fornendone anche a loro per lo stesso scopo.
Così- pur tra frequenti scuse per il tradire che egli fa la causa dei maschi- egli acquisterà un nuovo titolo presso le donne; non dirà infatti che, se i ricchi possono dare alle donne ricchi doni, i poeti possono dare soltanto i loro carmi, ma che questi soli hanno il pregio della curabilità e valgono e rendere gloriose e immortali le loro amanti?

E siate dunque facili agli aonii
Vati, o fanciulle! Li anima un divino
Soffio, e propizie sono a loro le Muse…

E’ un delitto l’attendere lo scotto
Dai gentili poeti. Eppur nessuna
Fanciulla, ahimè, di tale delitto ha orrore!
(III, 820-822 e 826-828)

E con ciò egli renderà anche più popolare ed interessante il suo trattato, ché la maggior parte del suo pubblico è appunto femminile.
Così, dall’aggiunta di questo terzo libro che non occorre analizzare partitamene perché contiene più o meno la materia dei primi due, pur con situazioni rovesciate, il poema acquista un’unità e compiutezza, insieme pratica ed artistica, che altrimenti non avrebbe raggiunta.

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