Verdi vita e opere

Materie:Riassunto
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Testo

Il più famoso compositore italiano, ancora oggi ammirato in tutto il mondo, nacque a Le Roncole, vicino Busseto (Parma) il 10 ottobre 1813, durante gli ultimi anni di dominio napoleonico. Il suo certificato di nascita originale è stato infatti stilato in francese. Il padre Carlo era un modesto locandiere di paese e la madre Luigia Uttini era filatrice. Già in tenera età il giovane Verdi manifestò la sua forte predisposizione per la musica e ricevette la sua prima educazione musicale da Pietro Baistrocchi, l'organista di chiesa di Roncole. Per alcuni anni Verdi stesso fu organista nella chiesa locale, ma appena decenne lasciò il paesino natale per Busseto: l'ambiente culturale di questa cittadina avrebbe certo avuto un effetto più benefico sulla sua educazione. A Busseto Verdi alloggiò nella casa di Antonio Barezzi, commerciante e amante appassionato di musica, che lo ingaggiò come insegnante di musica per la figlia Margherita, di cui Verdi s'innamorò. In questo periodo Ferdinando Provesi, maestro della Società Filarmonica locale, gli diede lezioni di spinetta e di composizione. Anche se non fu ammesso al Conservatorio di Musica di Milano avendo già superato il limite d'età, Verdi maturò comunque una formazione musicale più profonda soltanto nel capoluogo lombardo, dove dal 1832 al 1835 decise di studiare contrappunto con Vincenzo Lavigna che era stato clavicembalista al Teatro La Scala. Per il primo anno di studi Verdi usufruì di un finanziamento da parte di Barezzi, mentre negli anni successivi ottenne un considerevole aiuto economico da una borsa di studio del Monte di Pietà di Busseto. A Milano Verdi fu un assiduo frequentatore di teatri: in questo modo ebbe la possibilità di conoscere il repertorio operistico del suo tempo.
Una volta tornato a Busseto, nel 1836 Verdi ebbe in sposa la figlia di Barezzi e accettò il posto di Maestro nella scuola di musica locale, un incarico a cui dovette rinunciare nel 1838 quando si trasferì nuovamente a Milano con la famiglia. L'anno seguente Verdi propose la sua prima opera al Teatro alla Scala, Oberto, Conte di San Bonifacio, (chiamata originariamente Rocester). Questa rappresentazione ebbe grande successo e rappresentò quindi un forte incoraggiamento sia per l'autore sia per la casa editrice milanese Ricordi che subito si assicurò i diritti sulla sua prossima opera: questa fu la nascita di un legame duraturo che conobbe pochi momenti di contrasto. Anche l'impresario del Teatro alla Scala, Bartolomeo Merelli, offrì a Verdi un contratto per due altre opere.
Il primo di questi due melodrammi fu Un Giorno di Regno (Il finto Stanislao), un'opera comica, eseguita un'unica volta nel 1840. Che questa rappresentazione risultò essere un vero fiasco non deve sorprenderci in quanto tra il 1838 e il 1839 gli vennero a mancare i due suoi figli e nel 1840 la moglie morì improvvisamente di encefalite. Verdi perse tutta la sua gioia di vivere. Si convinse di non poter più trovare alcuna consolazione nell'arte e decise così che non si sarebbe mai più dedicato alla composizione musicale finché Merelli non lo incoraggiò a scrivere la musica per il libretto di Nabucco, i cui versi subito commossero profondamente Verdi per il loro tono biblico. L'opera, che venne rappresentata per la prima volta due anni più tardi, finalmente rivelò il vero talento di Verdi in tutta la sua magnificenza. Il coro patriottico 'Va Pensiero' presente in quest'opera diventò presto molto conosciuto e amato dal popolo italiano.
Nel 1851 Verdi e Giuseppina Strepponi, soprano e protagonista femminile di Nabucco nel 1842, con la quale lui aveva vissuto per alcuni anni, si trasferirono dal centro di Busseto, dove gli abitanti non vedevano di buon occhio la loro unione illecita, alla villa Sant'Agata, poco lontano dalla cittadina. Qui il Maestro, all'apice del successo e del benessere economico, iniziò ad alternare il suo lavoro di compositore con l'impegnativo compito di gestione di tutti i poderi che a poco a poco aveva acquisito.
Per quanto riguarda le sue composizioni, gli anni che vanno fino al 1853 rappresentarono un periodo di attività frenetica per Verdi in cui egli scrisse e mise in scena una quindicina di opere, tra la quali ricordiamo Macbeth (Firenze, 1847), il suo primo soggetto shakespeariano, e soprattutto quelle che oggi sono conosciute come "le grandi tre", 'RigTrovTrav': Rigoletto (Venezia, 1851), Il Trovatore (Roma, 1853) e La Traviata (Venezia, 1853). Questi furono gli anni del fermento patriottico del Risorgimento, animati dalle guerre per l'indipendenza nazionale e da battaglie che Verdi appoggiò e che trovarono fervida espressione in alcune delle sue opere, come per esempio in La battaglia di Legnano (Roma, 1849).
Nel 1853 Verdi si recò con Giuseppina a Parigi per dedicarsi all'allestimento de Les Vêpres Siciliennes per l'Opéra di Parigi, dove venne rappresentata due anni più tardi con modesto successo. Verdi si trattenne nella capitale francese per un certo periodo non solo per difendere i suoi diritti di fronte ai plagi del Théâtre des Italiens, ma anche per dedicarsi alla traduzione di alcune delle sue opere.
Nel 1859 Un Ballo in Maschera fu messo in scena a Roma e divenne il più grande successo di Verdi dopo Il Trovatore, proposto sei anni prima. Un Ballo in Maschera è un'opera che narra dell'assassinio di un re svedese: proprio per questo motivo fu completamente censurata e ritirata da Napoli e fu quindi possibile rappresentarla soltanto a Roma. Il 29 agosto dello stesso anno Verdi e Giuseppina si sposarono a Collonges-sous-Salève, vicino Ginevra. Tre anni dopo lui e la moglie si recarono insieme a San Pietroburgo per curare la supervisione de La Forza del Destino: la prima di quest'opera venne rappresentata al Teatro Imperiale nel novembre del 1862.
Nel 1865 Verdi lasciò il suo posto di deputato del Parlamento Italiano che aveva occupato per ben quattro anni. Nello stesso anno una versione rivista di Macbeth fu data a Parigi, anche se l'opera più famosa del compositore nella capitale francese rimase poi il Don Carlos che fu rappresentato l'11 marzo del 1867 e che venne più volte rivisto per ulteriori edizioni italiane. Sempre nel 1865 morirono sia Antonio Barezzi che Carlo Verdi, padre di Giuseppe: quest'ultimo e Giuseppina divennero tutori di Filomena Maria Cristina, la figlia di sette anni di uno dei cugini di Verdi che sarebbe diventata sua erede.
Tre anni dopo Verdi accettò di comporre un'opera per l'inaugurazione del nuovo teatro al Cairo voluto dal viceré d'Egitto: nel dicembre del 1871 finalmente si poté qui assistere alla prima di Aida. L'8 febbraio dell'anno seguente la prima europea di Aida venne invece eseguita con grande plauso al Teatro alla Scala. Al giorno d'oggi quest'opera rappresenta indubbiamente il più grande successo di Verdi e viene allestita ogni autunno alle Piramidi di Giza a Il Cairo, così come ogni estate all'Arena di Verona.
Tra le opere scritte da Verdi negli anni seguenti è doveroso ricordare La Messa da Requiem composta nel 1873 in onore ad Alessandro Manzoni, il grande poeta e patriota italiano, morto il 22 maggio dello stesso anno. Questo grande brano musicale venne eseguito e diretto dallo stesso Verdi nella chiesa di San Marco a Milano in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni. Nel 1879 il poeta-compositore Boito e l'editore Ricordi persuasero Verdi a scrivere un'altra opera, Otello, che venne però completata soltanto nel 1886. Questa fu la sua opera tragica più imponente. Un altro capolavoro, Falstaff, fu completato nel tardo 1892 e la prima, rappresentata al Teatro alla Scala alcuni mesi più tardi il 9 febbraio, fu un gran trionfo. Alla fine di questa sua intensa e gloriosa attività musicale Verdi compose i 'Quattro pezzi sacri' (Ave Maria, Stabat Mater, Laudi alla Vergine, Te Deum).
Giuseppina, per cinquant'anni l'amorevole compagna e instancabile sostenitrice di Verdi in tutte le sue alterne vicende, morì a Sant'Agata nel 1897 e da quel momento Verdi iniziò a prolungare sempre di più i suoi soggiorni a Milano. Fu proprio qui a Milano che Giuseppe Verdi morì di emiplegia alle 2.50 del pomeriggio del 27 gennaio 1901 nel Grand Hotel dove era solito alloggiare quando andava in visita alla città. Con lui quando morì si trovavano i parenti e gli amici più stretti.
Non appena la morte di Verdi fu annunciata, una folla si raccolse sulla strada di fronte al Grand Hotel che venne ricoperta di paglia in modo da smorzare lo scalpiccio degli zoccoli di cavallo e il frastuono delle ruote dei carri e delle automobili. Nel giro di ventiquattro ore tutti gli stendardi di Milano vennero listati a lutto, così come le edizioni speciali pubblicate dalle maggiori testate giornalistiche. In segno di cordoglio i negozi e i teatri della città rimasero chiusi per tre giorni consecutivi, mentre il Senato Italiano e la Camera dei Deputati (della quale Verdi stesso una volta era stato membro) si preoccuparono di organizzare i preparativi per dar omaggio a questo grande uomo. Non ci furono soltanto manifestazioni di sconcerto per l'enorme perdita, ma anche momenti dedicati alla celebrazione della statura di Verdi come uomo, musicista e cittadino italiano, un personaggio che non aveva semplicemente vissuto in un'epoca storica fondamentale per la nazione italiana, ma che in un certo senso l'aveva anche caratterizzata. Verdi aveva lasciato disposizioni per una sepoltura piuttosto semplice, ma l'umore nazionale impose di offrire un omaggio più conveniente a una delle figure più illustri d'Italia. Alle 6 del mattino di mercoledì 30 gennaio, il traffico milanese si fermò per far strada alla lunga processione che si snodava attraverso la città con migliaia di persone al suo seguito. Puccini e Leoncavallo erano alcuni dei rappresentanti più celebri della giovane generazione di compositori italiani che formarono il cuore del corteo in lutto. La salma di Verdi fu provvisoriamente sepolta vicino a quella di Giuseppina nel Cimitero Monumentale, ma ben presto fu deciso di trasferire entrambi nella cappella della Casa di Riposo, l'istituto di beneficenza per 100 musicisti in pensione meno fortunati di lui, fondato e finanziato da Verdi stesso.
Giuseppe Verdi: l'infanzia
All'anagrafe, l'atto di nascita di Giuseppe Verdi figura in francese. Nel 1813, infatti, l'Italia era ancora sotto Napoleone Bonaparte. Ma dopo la campagna di Russia e la sconfitta di Napoleone, l'Italia fu divisa dai vari dominatori in molti stati. Convivevano molte identità nazionali e molte lingue, e per passare da uno stato all'altro bisognava passare la frontiera e pagare un dazio.
Verdi visse a Le Roncole di Busseto, in campagna. Il padre era un oste e la madre una filatrice. Il bambino Verdi fu subito attratto dall'organo della chiesa e presto imparò a suonarlo. Il padre di Verdi comprese il talento del figlio e con molti sacrifici gli regalò una spinetta, oggi in esposizione alla Casa di Riposo per Musicisti, a Milano. Un accordatore chiamato a sistemare lo strumento, lasciò un suo biglietto dentro la spinetta, che vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi di imparare a suonare questo istrumento, che questo mi basta per essere del tutto pagato.
Il piccolo Verdi prende lezioni dal maestro Trovesi di Busseto, suona l'organo, studia in biblioteca, dirige la banda e a 15 anni è considerato un ottimo pianista. Probabilmente sarebbe rimasto sempre a Busseto se non avesse conosciuto Antonio Barezzi, un ricco commerciante di Busseto, appassionato di musica, mecenate della filarmonica del posto. Giro turistico a Busseto: la chiesa di San Bartolomeo, in cui Verdi suonava l'organo, la piazza principale - piazza Verdi - col monumento in sua memoria e il Teatro Verdi. Infine, vediamo ricostruzioni di carrozze reali e virtuali, i mezzi di locomozione dei tempi di Verdi.
Giuseppe Verdi: Gli studi e la formazione
Antonio Barezzi fu una figura chiave nella vita di Verdi. Aveva una drogheria e viveva con agio. Era un appassionato di musica e in casa propria dava asilo alle prove della Filarmonica di Busseto.
Barezzi comprese subito il talento di Verdi e lo mandò a Milano a studiare, sostenendolo economicamente. A 18 anni Verdi affronta l'esame in conservatorio, ma non lo supera. La commissione ritiene che, come pianista, abbia superato di due anni il limite d'età per l'ammissione. Verdi infatti si presentò per studiare pianoforte e non composizione. Barezzi gli paga le lezioni private, lo abbona alla Scala, gli compra un pianoforte e provvede a tutto quello che occorre a Verdi per la sua formazione musicale e intellettuale. Piero Angela sottolinea l'importanza del sostegno per le persone di talento che non possono permettersi di studiare. A questo proposito cita la fondazione
Mac Arthur, statunitense, che sguinzaglia esperti in tutto il mondo per scoprire geni in ogni campo. A queste persone la fondazione Mac Arthur regala soldi che gli permettono di svilupparsi come meritano.
Barezzi concede a Verdi anche la mano di sua figlia Margherita. Verdi concorre per diventare Maestro di Cappella della chiesa di Busseto e direttore della filarmonica, ma la nomina scatena una battaglia. Il parroco sostiene un candidato che non è Verdi, e i paesani conducono un valoroso sciopero, rifiutandosi persino di andare a messa.
Interviene Maria Luigia di Parma, finché Verdi viene nominato direttore della filarmonica, incarico che gli permette di dedicarsi alla composizione.

Giuseppe Verdi: l'approdo alla Scala
La vita a Busseto è serena, ma Verdi ha la mente alla Scala, il tempio in cui si misurano i compositori di valore, approdo e passaporto per il suo futuro di artista. Già nel primo soggiorno a Milano, Verdi aveva frequentato il caffè Martini, dove erano passati Bellini, Rossini, Donizetti, e aveva conosciuto molti artisti. Ma da Busseto non gli era possibile curare le relazioni col mondo intellettuale milanese. Nascono i suoi due figli. Margherita lo spinge a trasferirsi a Milano. A Milano iniziano anni duri. Muoiono i due figli, Virginia e Ilicio, ancora molto piccoli. La morte dei neonati era un fenomeno molto comune nell'ottocento, come dimostra il professor Corsini, docente di demografia, intervistato da Angela. "Oberto conte di San Bonifacio", prima opera di Verdi, viene rappresentata alla Scala. A quei tempi l'orchestra non era nella buca ma occupava parte della platea. Non sempre c'era il direttore d'orchestra, ed era il primo violino a dare indicazioni di movimento. Le poltrone non esistevano, e i posti migliori erano i palchi di prim'ordine. C'era anche una fila di sedili, sotto i plachi, destinati alle signore. Alla prima dell'Oberto tutta la filarmonica di Busseto è presente. L'Oberto è un discreto successo e l'editore Ricordi pubblica la partitura. Ma i compensi non bastano a pagare i debiti. Margherita impegna al Monte di Pietà alcuni gioielli personali. L'amata moglie di Verdi muore poco dopo di meningite: aveva ventisei anni. Verdi è distrutto. Su commissione, scrive l'opera "Un giorno di regno", opera comica che si rivela un totale fallimento. Verdi decide "di non comporre mai più", come risulta dalla sua autobiografia.
Giuseppe Verdi: Le prime opere
Oberto conte di San Bonifacio è la prima opera scritta da Verdi, su libretto di Temistocle Solera, e fu rappresentata alla Scala nel 1839. E' inevitabile sentire l'influsso dei suoi celebri contemporanei, Rossini, Bellini, Donizetti. L'opera però contiene anche i tratti tipicamente verdiani che emergeranno in seguito.
Oberto ebbe 14 repliche. Meno di tre mesi dopo andò in scena Un giorno di regno, su libretto di Felice Romani, e fu un totale insuccesso. Fu l'unica rappresentazione di quell'opera, e fu per Verdi l'ennesimo dispiacere. In quel tempo infatti la sua vita fu attraversata da terribili lutti in famiglia. Nel giro di un anno erano morti i suoi due figli, e la moglie Margherita, figlia del suo amato tutore Barezzi - per lui un vero padre d'adozione - era morta una settimana prima dell'Oberto. Verdi dichiara: "con l'animo straziato dalle sventure domestiche, esacerbato dall'insuccesso del mio lavoro, decisi di non comporre mai più".
Giuseppe Verdi: Nabucco
Verdi discute con l'impresario Merelli la realizzazione di Nabuccodonosor, su libretto di Temistocle Solera. Per risparmiare sull'allestimento, l'impresario decide di utilizzare scene e costumi di altre opere, risistemati. Assistiamo a una pratica comune del teatro: con vera arte, sarte, costumisti e scenografi sono capaci di creare, con pochi interventi, effetti magnifici. Si prova il coro Va pensiero. Attratti dall'irresistibile forza di quelle armonie, donne delle pulizie, macchinisti, e perfino gli orchestrali cantano sottovoce. Va pensiero è il canto con cui gli ebrei, tenuti in cattività, sognano di tornare nella patria lontana. E' incontenibile la suggestione e il potere identificativo che ha quella musica e quel testo, sugli italiani del tempo. Si prova il finale del primo atto. Il teatro si riempie di pubblico improvvisato, attratto dalla musica. Prima rappresentazione: teatro alla Scala 1842. Giuseppina Strepponi, presente nel cast, famoso soprano e donna di grandi talenti, sostenitrice della musica di Verdi, si rivela al di sotto della propria arte. La sua voce, consumata dall'eccesso di recite, è stanca. Alla prima di Nabucco è presente Gaetano Donizetti, uno dei più importanti compositori italiani, contemporaneo di Verdi. Grande successo: Nabucco possiede una forza selvaggia e trascinante, adatta ai sentimenti italiani del tempo. Era la forza, non solo la bellezza che aveva trascinato il pubblico; la sua brutalità. L’italia allora aveva bisogno di questa forza. Alla terra della bellezza divenuta tema di schiavitù questa schiavitù iniziava a pesare; il canto accurato di Bellini non poteva più essere la sua voce, la nuova voce che i fermenti in lei si agitavano era VERDI.
Giuseppe Verdi: Il trionfo del Nabucco
Milano è oppressa dagli austriaci; Verdi è straziato dal dolore per aver perso in brevissimo tutta la sua famiglia. I due figli e l'amata moglie Margherita, sono morti. E' infelice perché la sua ultima opera, Un giorno di regno è stato un totale insuccesso. E' infelice perché vive in una patria amata ma prigioniera degli odiosi austriaci. Ha già rispedito i mobili a Busseto, sta per tornare definitivamente in campagna.
Nevica fitto, Verdi è depresso, passeggia in galleria De' Cristoforis a Milano e incontra per caso l'impresario Merelli che subito gli propone un libretto. Verdi gli risponde che con la musica ha chiuso, non ne vuole più sapere. Merelli insiste, Verdi è irremovibile, ma Merelli riesce a lasciare nelle mani di Verdi il libretto di Nabucco. Verdi, suo malgrado, passa la notte a leggere il libretto, fin quasi a impararlo a memoria, come ci raccontano le sue memorie. In breve tempo la musica è pronta. Iniziano le prove, e Giuseppina Strepponi, prestigioso soprano del tempo, è nel cast. Strepponi prova una grande ammirazione per Verdi, e lui per lei. Qualche anno più avanti inizierà la loro intensa storia d'amore, che durerà tutta la vita.
Giuseppe Verdi e il risorgimento: Nabucco e I Lombardi alla Prima Crociata
con il trionfo riscosso dal Nabucco, rappresentato alla Scala nel 1842. Librettista del Nabucco fu Temistocle Solera. Verdi aveva certamente in mente e nel cuore un forte sentimento della libertà, e forse anche un messaggio profondo. La storia degli ebrei che si ribellano all'oppressore assiro Nabuccodonosor cela tra le righe il desiderio del popolo italiano di liberarsi dagli austriaci. Gli ebrei quasi diventavano gli italiani e Gerusalemme, la patria perduta, diventava l’Italia. Giovani repubblicani sognavano di fare del’Italia una nazione che soo una voce legava: la Musica, riunificandola nel sentimento.
Nel cast del Nabucco fu presente Giuseppina Strepponi, grande soprano del tempo e futura moglie di Verdi.
Dalla musica alla storia. A Milano, il salotto della contessa Clara Maffei riunisce gli intellettuali più importanti del tempo: si discute il problema dell'Italia spezzata. La rappresentazione de I Lombardi alla prima crociata, nel 1843, quarta opera di Verdi, innesca nuovi fermenti, tanto che il librettista Solera e l'impresario Merelli sono costretti a sottoporre la nuova opera di Verdi alla censura politico-religiosa . Il successo è grande: la lettura patriottica de I lombardi è ancora più marcata che nel Nabucco, presentandosi i crociati come 'lombardi'. Nelle ultime scene dell'unità si vede il teatro alla Scala e il suo pubblico, che acclama dal loggione.
Giuseppe Verdi e il Risorgimento: Giovanna d'Arco e Attila
Un pianoforte a rulli gira per le strade di Milano, suonando le arie dell'opera Giovanna D'Arco. Ciò serve a testimoniare che la musica di Verdi è diventata la bandiera della protesta italiana contro l'oppressore. Il popolo ne approfitta per trasformare il testo:
Viva l'eroica vergine che l'Anglia (Inghilterra) debellò diventa Viva l'eroica vergine che l'Austria debellò. Ne nascono disordini. I soldati austriaci intervengono per sciogliere i capannelli di cittadini ribelli. Con lo stesso spirito patriottico è accolta nel 1846 l'opera Attila (su libretto di Temistocle Solera e Francesco Maria Piave). E' un trionfo, prima al Teatro La Fenice, poi alla Scala. Nell'ultima parte dell'unità si vedono scene dal teatro. Il pubblico entusiasta canta le arie dell'Attila. Assistiamo dietro le quinte al funzionamento di alcune macchine di scena che creano il magico effetto del sole nascente
Giuseppe Verdi: censura e moralità alla metà dell'800
Nel 1844 Verdi si trasferisce a Venezia per tre mesi e lì incontra Francesco Maria Piave, il librettista con cui collaborerà per molte opere. Ai poeti Verdi chiedeva concisione, perché, in un opera, il vero messaggio è la musica a darlo. Dallo sceneggiato di Castellani vediamo la ricostruzione della prima di '"Ernani", girata al Teatro La Fenice prima dell'incendio del 1996. Nel 1848 la musica di Verdi era diventata la colonna sonora del Risorgimento, soprattutto a Milano. Vediamo scene dalle "cinque giornate", una provvisoria vittoria dei milanesi contro gli austriaci. La censura avvelena continuamente il lavoro di Verdi. Inizialmente Rigoletto viene bocciato: un gobbo buffone di corte non può attentare al Duca di Mantova, l'odioso libertino che gli ha sedotto la figlia. Anche "Un ballo in maschera" viene sottoposto a censura, arrivando persino in tribunale. Giuseppina Strepponi è diventata la compagna di Verdi. La loro relazione è molto discussa, soprattutto a Busseto, dove Verdi compra Palazzo Cavalli. Strepponi è una donna di grande cultura, parla molte lingue, vera artista e dama di grandissimo stile. Angela intervista Carla Fracci, la "Giuseppina Strepponi" nello storico film di Renato Castellani su Giuseppe Verdi. Fracci e Angela discutono sulla relazione privata tra Verdi e Strepponi, basandosi sui documenti pervenuti e su ricostruzioni ipotetiche, che la storiografia non ha ancora siglato. Verdi e Strepponi si trasferiscono nella Villa di Sant'Agata, vicino Piacenza. E' un grande podere con una bellissima residenza per la coppia. La bambina Filomena Verdi, nipote del compositore, è molto amata dalla coppia Verdi, che la adotta.
Giuseppe Verdi e il risorgimento: 1848
Mentre in Italia accadono gli eventi che innescheranno i moti del '48, Verdi sta lavorando all'estero. Nel luglio del 1847 va in scena a Londra I masnadieri. Nel novembre dello stesso anno, a Parigi, Jerusalem che è l'adattamento in grand-opéra dei Lombardi alla prima crociata. A Parigi restò fino al 1849, a parte il breve soggiorno italiano fatto con Giuseppina Strapponi, in occasione del quale comprò una casa a Busseto. A Parigi scrisse anche l'opera Il corsaro che fu rappresentata a Trieste senza l'intervento di Verdi. Torniamo a Milano. Dopo le famose Cinque giornate, Milano si libera dagli austriaci. La contessa Clara Maffei trasforma il suo salotto intellettuale in un ambulatorio d'emergenza. Mazzini, fervente repubblicano, entra a far parte del salotto repubblicano della contessa Maffei. Per liberare la Lombardia dagli austriaci si chiede aiuto all'esercito piemontese. La guerra che ne sorge è sfavorevole per gli italiani. Lo scrittore Giulio Carcano si reca a Parigi da Verdi con una richiesta: che il Maestro, molto considerato da Napoleone III di Francia, sottoscriva una petizione di richiesta di alleanza francese, contro gli austriaci. Alla fine dell'unità si vede che l'esercito austriaco è rientrato a Milano. La guerra con le armi è stata un fallimento. Da questo momento in poi diventerà soprattutto diplomatica.
Giuseppe Verdi: Il Trovatore
"Il Trovatore", melodramma in quattro atti del 1853 (prima rappresentazione al Teatro Apollo di Roma), appartiene, con "Rigoletto" e "Traviata", alla famosa trilogia popolare. Nell'unità vediamo una ricostruzione storica: la sera della prima il pubblico si recò in teatro nonostante le strade fossero state allagate dallo straripamento del Tevere. Verdi scrisse al suo amico Arrivabene "Quando andrai nelle Indie e nell'interno dell'Africa, sentirai Il trovatore". In realtà "Il trovatore" da lì a pochi anni fu rappresentato in tutte le principali capitali europee, e poi New-York, Buenos Aires, Havana, Alessandria d'Egitto, Bratislava, San Pietroburgo, fino a Bombay.
E' un'opera in cui regnano le tinte scure, magiche e quasi selvagge d'un mondo antico e misterioso. I musicologi sono sempre stati divisi nel giudizio, soprattutto per quanto riguarda l'azione. Il libretto di Salvatore Cammarano destò incertezze nello stesso Verdi, che all'inizio, come risulta dal loro carteggio, era scontento del lavoro del poeta. Verdi era esigentissimo, e talvolta interveniva personalmente apportando modifiche. Ma dove Verdi avrà letto o sentito parlare di "El trobador" di Antonio Garcìa Gutiérrez, tanto da volerlo mettere in musica? La curiosità intellettuale di Verdi per la narrativa e la drammaturgia era infaticabile. Si faceva arrivare da tante parti i testi più nuovi, che leggeva nella lingua originale, con tanto di vocabolario accanto.
La storia è piena di contrasti drammatici. Una zingara, la cui madre è stata fatta bruciare sul rogo dal Conte di Luna, ha taciuto la vera identità a Manrico, Il trovatore, di cui è innamorata Leonora. Manrico non sa che la zingara Azucena non è davvero sua madre. Il conte rapisce Leonora e imprigiona la zingara Azucena, che lui crede colpevole di aver gettato nel rogo il proprio fratello. In realtà Azucena, per errore, gettò tra le fiamme il proprio figlio, risparmiando Manrico.
Il contrasto porterà al suicidio di Leonora, e alla morte di Manrico per mano del Conte di Luna, che solo quando è troppo tardi apprende d'aver ucciso il fratello. La zingara ha così vendicato la propria madre.
Giuseppe Verdi: la casa di Sant'Agata
Villa Verdi, a Sant'Agata, appartiene ai discendenti di Filomena Verdi, nipote del compositore, da lui adottata proprio nella bellissima residenza nel parco della villa. Angela ci guida tra le stanze di casa Verdi, dove tutto è originale rispetto ai tempi in cui fu abitata dalla coppia Verdi.
Vediamo la sala del biliardo, dove Verdi giocò molte partite con Boito e Ricordi, a cui era legato per stima e affetto oltre che per lavoro. La residenza è un luogo di grande signorilità, con moltissime stanze. Ci lavoravano tredici persone di servizio addette alle più diverse mansioni. La vita era comunque semplice e frugale. Si cenava alle cinque del pomeriggio, e si andava a letto presto. Verdi si alzava alle quattro del mattino e teneva per ore la sua fitta corrispondenza col mondo. Sembra abbia scritto 25.000 lettere. Vediamo la camera di Giuseppina Strepponi. E' facile intuire a quanto l'artista Strepponi abbia rinunciato per vivere accanto al suo "Mago", come lei chiamava Verdi. Lei amava moltissimo viaggiare, conoscere luoghi e persone, parlava correttamente molte lingue, era stata una stella dell'opera, e amava moltissimo Parigi. Tutte le volte che poteva, pregava Verdi di portarla a Parigi, dove ritrovava il mondo intellettuale artistico e borghese che le apparteneva. Strepponi accettò di vivere nell'isolamento di Sant'Agata perché sapeva che questo era indispensabile all'arte di Verdi.
Vediamo la camera di Verdi, con la grande scrivania su cui componeva. In un angolo c'è il pianoforte. Sembra che Verdi usasse poco il pianoforte per comporre, scriveva direttamente la partitura.
Nel parco della villa, di oltre sette ettari, Verdi poté soddisfare la sua natura di 'contadino'. Vediamo il frigorifero naturale, una grotta che in inverno veniva riempita da lastroni di ghiaccio prelevati dal laghetto, che rimanevano intatti fino all'estate, e permettevano la conservazione di molti alimenti. Infine, nel giardino, la lapide di un grande amico di Verdi, da lui stesso seppellito: il suo amato cagnolino maltese.
L'Italia nel secolo di Verdi
All'anagrafe, l'atto di nascita di Giuseppe Verdi figura in francese. Nel 1813, infatti, l'Italia era ancora sotto Napoleone Bonaparte. Ma dopo la campagna di Russia e la sconfitta di Napoleone, l'Italia fu divisa dai vari dominatori in molti stati. Convivevano molte identità nazionali e molte lingue, e per passare da uno stato all'altro bisognava passare la frontiera e pagare un dazio. Verdi visse a Le Roncole di Busseto, in campagna. Il padre era un oste e la madre una filatrice. Il bambino Verdi fu subito attratto dall'organo della chiesa e presto imparò a suonarlo. Il padre di Verdi comprese il talento del figlio e con molti sacrifici gli regalò una spinetta, oggi in esposizione alla Casa di Riposo per Musicisti, a Milano. L'accordatore chiamato a sistemare lo strumento, lasciò dentro la spinetta un biglietto che recitava: "vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi di imparare a suonare questo istrumento, che questo mi basta per essere del tutto pagato". Il piccolo Verdi prende lezioni dal maestro Trovesi di Busseto, studia in biblioteca, dirige la banda e a 15 anni è considerato un ottimo pianista. Probabilmente sarebbe rimasto sempre a Busseto se non avesse conosciuto Antonio Barezzi, un ricco commerciante di Busseto, appassionato di musica, mecenate della filarmonica del posto. Barezzi fu una figura chiave nella vita di Verdi. Lo mantenne agli studi per molti anni, lo sostenne spiritualmente e lo incoraggiò anche nei momenti più difficili.
Giuseppe Verdi e il risorgimento: I Vespri siciliani
Anno 1853: Verdi e Giuseppina Strepponi tornano a Parigi. A Verdi è stato affidato l'incarico di inaugurare con un'opera l'Esposizione universale, evento del secolo, di enorme prestigio. L'opera fu Les Vêpres siciliennes, su libretto di Scribe e Duveyrier, nello stile del grand-opéra. E' un'opera colossale, in cinque atti, su soggetto storico dalle forti tinte drammatiche. In questa occasione Verdi fu presentato a Napoleone III, che nel frattempo era diventato imperatore. Il successo fu tale che Verdi fu invitato a stabilirsi definitivamente a Parigi, ma lui non accettò. L'opera fu rappresentata alla Scala l'anno successivo col titolo Giovanna di Guzman. In Italia, Cavour, primo ministro, chiede ancora aiuto all'imperatore di Francia per cacciare gli austriaci dal Veneto. A Milano, nel salotto della contessa Clara Maffei, si discute di politica. Abbandonare l'idea di repubblica o accettare quella di monarchia? Mazzini, sostenitore della repubblica, non ha un esercito. Abbandonare l'idea di repubblica diviene quindi il male minore. Anche Verdi lo accetta e sostiene Cavour
Giuseppe Verdi e il Risorgimento: Un ballo in maschera
L'opera qui rappresentata è Un ballo in maschera, del 1859, su libretto di Antonio Somma. Inizialmente si intitolò Una vendetta in domino, ma venne subito censurata da Napoli, che l'aveva commissionata. Il motivo della severa opposizione risiede nel soggetto. Un marito che si crede tradito uccide il presunto rivale, un re, durante un ballo in maschera. Ciò per i Borboni era troppo oltraggioso. Si apre un contenzioso che Verdi supera introducendo alcune modifiche: la figura di Gustavo di Stoccolma viene sostituita con quella meno compromettente di un governatore del Massachusetts, il Conte di Warwick. L'opera viene "acquistata" da Roma nel 1859 e diviene subito popolare. Il popolo italiano si sente sostenuto dalle scelte poetiche dell'opera verdiana. Il motto "Viva V.E.R.D.I." - Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia - lo testimonia ampiamente. Dalla musica alla storia. Cavour propone la candidatura di Vittorio Emanuele II, piemontese, come Re d'Italia, e chiede il sostegno di Napoleone III per liberare l'Italia dagli austriaci. L'Austria attacca il Piemonte e la Francia interviene. Vittorio Emanuele e Napoleone III entrano a Milano. Vittorie di Solferino e San Martino contro gli austriaci. Ma Napoleone III, all'insaputa degli italiani, firma a Villafranca un concordato con l'Austria: la Lombardia è annessa al Piemonte ma il Veneto resta all'Austria. Infine, Cavour propone il plebiscito. Nel frattempo Garibaldi, senza l'aiuto di alcun esercito, conquista tutto il sud dell'Italia e lo consegna a Vittorio Emanuele II. Al primo Parlamento italiano, nel 1860, Vittorio Emanuele II viene proclamato Re d'Italia. Verdi viene eletto deputato, su invito di Cavour, del borgo di S. Donnino, oggi Fidenza, carica che esercitò con grande attenzione.
Giuseppe Verdi: Don Carlos
Per l'Opera di Parigi, nel 1867 Verdi scrisse Don Carlos, su libretto francese di Mèry e Du Locle, tratto dal Don Carlos di Schiller. Don Carlos è un grand-opéra. La versione italiana, rivisitata da Zanardini, è in cinque atti, e narra vicende storico-politico e sentimentali di notevole complessità. Per ragioni politiche Filippo II di Spagna ha sposato la giovane principessa fidanzata del figlio Carlo. La tragedia si consuma lentamente, con toni estremi: padre e figlio sono innamorati della stessa donna. Dall'opera vediamo la scena in cui Filippo, solo, vecchio e infelice, è tormentato dalla gelosia e dal rimpianto. Molte sono le passioni distruttive che regnano in questo dramma, che si conclude con la morte di Carlo, causata dall'Inquisizione e dal padre Filippo II. E' una vicenda assai dolorosa. A giudicare dall'intensità della musica sembra che anche Verdi si sia sentito vecchio, davanti al vuoto inutile della vita.
Giuseppe Verdi: Aida
Aida non fu rappresentata a Il Cairo, durante l'inaugurazione del canale di Suez, nel novembre del 1869, come avrebbe dovuto, secondo la commissione data a Verdi da parte del governo egiziano. Verdi la scrisse di getto, ma Aida dovette aspettare quasi due anni, a causa della feroce guerra tra Prussia e Francia nel 1870. I tedeschi avevano assediato Parigi, creando enormi problemi. L'allestimento dell'opera, che il governo de Il Cairo aveva commissionato all'Opera di Parigi, che era oltretutto sfarzoso e dispendioso, fu bloccato dalla guerra, e non poté essere trasferito in Egitto. D'altra parte il contratto imponeva che la prima rappresentazione avvenisse a il Cairo, e così fu nel 1872. Dopo un mese, l'opera Aida fu trasferita a Milano, dove andò in scena alla Scala. Aida, in quattro atti, segue l'impianto colossale del grand-opéra francese, con cori e impianti scenici di grande effetto e sensualità. Anche in Aida, come in Nabucco, c'è un fiume, che nella vicenda ha una grande importanza simbolica. Ma il Nilo, a differenza del fiume del Nabucco, è un fiume magico e splendente.
Giuseppe Verdi: Otello
Assistiamo ad alcune scene dall'Otello, opera del 1887, su libretto di Arrigo Boito, tratta dalla nota tragedia di William Shakespeare. La composizione di Otello è la più faticosa e lunga durante la carriera di Verdi. Verdi e Boito, quando ne parlano, lo chiamano "il progetto di cioccolata". L'unità si apre con la scena in cui i veneziani attendono al porto il condottiero Otello, reduce dalle vittorie contro i saraceni. Arriva la nave del generale al servizio della Serenissima: Otello, orgoglioso e glorioso canta la celebre Esultate. Possiamo vedere nei particolari il funzionamento alcune macchine teatrali, dietro le quinte, che creano la tempesta sul mare. La seconda scena è l'ultima della tragedia. Otello, lentamente avvelenato dai perfidi sospetti contro la fedeltà di Desdemona che Iago gli sa insinuare con arte perversa, impazzisce di dolore. Strangola Desdemona, la moglie che lo ha sempre amato e rispettato, e quando scopre di essere caduto in un tragico gioco di inganni, si uccide, davanti agli occhi impietriti dei suoi servitori. Otello è un successo immenso. La città di Milano nomina Verdi cittadino onorario.
Giuseppe Verdi: gli ultimi anni
Dopo "Otello", Verdi dà l'addio alle scene, ma dopo sei anni, ottantenne, scrive la sua ultima opera, "Falstaff". Nel 1897 muore Giuseppina Strepponi. Negli ultimi anni della sua vita, memore delle difficoltà vissute in gioventù e desideroso di aiutare i musicisti anziani e non benestanti, Verdi si dedica alla realizzazione di quella che definisce la sua "opera migliore": la Casa di Riposo per musicisti, a Milano. Nelle sue intenzioni la Casa di Riposo doveva essere sostenuta con i diritti di autore delle sue opere. Ma la legge vuole che dopo settanta anni dopo la morte dell'artista i diritti diventino di pubblico dominio. Le spese per la manutenzione della Casa sono ora sostenute dallo Stato e dai generosi lasciti di benefattori, tra molti quello di Arturo Toscanini.
Alberto Angela ci conduce attraverso una ricostruzione storica delle invenzioni tecnologiche di cui Verdi fu testimone durante la sua lunga vita: la luce elettrica, il telegrafo Morse, la macchina da scrivere - o "cembalo scrivano" come si chiamava inizialmente -, il telefono, la locomotiva a vapore, l'automobile, la radio. Verdi muore il 27 gennaio 1901. Aveva voluto che i suoi funerali fossero semplici, all'alba, senza canti, né cortei. Ma una grande folla silenziosa non può fare ameno di dargli l'ultimo saluto. Due mesi dopo, i feretri di Verdi e Strepponi furono tumulati nella Casa di Riposo per musicisti. Vediamo un breve film originale della traslazione delle salme.
Giuseppe Verdi (1813-1901)
di Pierluigi Petrobelli


1886 - Giuseppe Verdi
Nato a Le Roncole, vicino a Busseto (Parma), il 10 ottobre 1813 da un oste e da una filatrice, Giuseppe Verdi manifestò precocemente il suo talento musicale, come testimonia la scritta posta sulla sua spinetta dal cembalaro Cavalletti, che nel 1821 la riparò gratuitamente "vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d'imparare a suonare questo istrumento"; la sua formazione culturale ed umanistica avvenne soprattutto attraverso la frequentazione della ricca Biblioteca della Scuola dei Gesuiti a Busseto, tuttora in loco.
I principi della composizione musicale e della pratica strumentale gli vennero da Ferdinando Provesi, maestro dei locali Filarmonici; ma fu a Milano che avvenne la formazione della sua personalità.
Non ammesso a quel Conservatorio (per aver superato i limiti d'età), per la durata di un triennio si perfezionò nella tecnica contrappuntistica con Vincenzo Lavigna, già "maestro al cembalo" del Teatro alla Scala, mentre la frequentazione dei teatri milanesi gli permise una conoscenza diretta del repertorio operistico contemporaneo.
L'ambiente milanese, influenzato dalla dominazione austriaca, gli fece anche conoscere il repertorio dei classici viennesi, soprattutto quello del quartetto d'archi. I rapporti con l'aristocrazia milanese e i contatti con l'ambiente teatrale decisero anche sul futuro destino del giovane compositore: dedicarsi non alla musica sacra come maestro di cappella, o alla musica strumentale, bensì in modo quasi esclusivo al teatro in musica.
La prima sua opera, nata come Rocester (1837), frutto di lunga elaborazione, e poi trasformata in Oberto, conte di San Bonifacio, venne rappresentata alla Scala il 17 novembre 1839, con esito tutto sommato soddisfacente.
L'impresario del massimo teatro milanese, Bartolomeo Merelli, gli offerse un contratto per altre due partiture: Un giorno di regno (Il finto Stanislao), opera buffa, ebbe una sola rappresentazione (5 settembre 1840), e solo con Nabucco, la cui prima ebbe luogo il 9 marzo 1842, il talento verdiano si rivelò appieno. Il modello dello spettacolo grandioso, dove la vicenda è disegnata a grandi tinte, si ripete nell'opera successiva, I lombardi alla prima crociata (Milano, Scala, 11 febbraio 1843); ed è con Ernani (Venezia, La Fenice, 9 marzo 1844) che l'esperienza drammatica si concretizza nel conflitto tra le passioni dei personaggi. Questa scelta stilistica prosegue con I due Foscari (Roma, Teatro Argentina, 3 novembre 1844), ed è ulteriormente raffinata in Alzira (Napoli, San Carlo, 12 agosto 1845). Tutte le opere della prima fase creativa verdiana si differenziano fra loro perchè in ciascuna di esse viene esplorato questo o quel particolare aspetto dell'esperienza drammatico-musicale. Così, in Giovanna d'Arco, dalla tragedia di Schiller (Milano, Scala, 15 febbraio 1845), l'elemento soprannaturale gioca un ruolo determinante nella vicenda, di nuovo attagliata soprattutto sul grandioso; mentre in Attila (Venezia, La Fenice, 17 marzo 1846) la sperimentazione riguarda tanto la spettacolarità sulla scena quanto l'organizzazione complessiva dei singoli atti che compongono la partitura. Con Macbeth (Firenze, La Pergola, 14 marzo 1847) Verdi affronta per la prima volta un modello shakespeariano, e soprattutto mette in evidenza le connessioni drammaticamente rilevanti tra momenti cruciali della vicenda, e questo con mezzi esclusivamente musicali.
A trentaquattro anni il compositore ha ormai raggiunto una fama internazionale; le sue opere si rappresentano con frequenza in tutti i teatri del mondo, e vengono commissionate dai principali teatri italiani.
Ma questo a Verdi non basta. La trasformazione de I lombardi in Jérusalem (Parigi, Opéra, 26 novembre 1847) costituisce il primo incontro con le esigenze (ma anche con gli imponenti mezzi a disposizione) del grand opéra francese, e di questa esperienza sono evidenti le tracce ne La battaglia di Legnano (Roma, Argentina, 27 gennaio 1849), in cui conflitti individuali ed aspirazioni patriottiche, sollecitate dal contemporaneo esplodere dei moti risorgimentali, si alternano nella partitura. Con Luisa Miller (Napoli, San Carlo, 8 dicembre 1849), di nuovo su modello schilleriano, i conflitti si spostano anche tra differenti livelli sociali, alla fine dei quali l'innocenza soccombe.
Con Stiffelio (Trieste, Teatro Grande, 16 novembre 1850) l'ambientazione borghese di una setta religiosa mette in luce il conflitto tra i sentimenti individuali e il dovere che la carica spirituale impone. Con Rigoletto (Venezia, La Fenice, 11 marzo 1851) l'arte verdiana raggiunge uno dei suoi vertici più alti grazie alla perfetta concatenazione drammatica (frutto anche della fedeltà al modello di Victor Hugo), realizzata con altrettanto perfetto equilibrio dei mezzi musicali impiegati: la vendetta del buffone di corte per l'oltraggio inflitto dal duca libertino alla figlia ricade spaventosa su di lui tra lo scatenarsi degli elementi naturali in tempesta. Sempre sulla dimensione degli individui si atteggia La traviata (Venezia, La Fenice, 6 marzo 1853), partitura accentrata sull'eroina, una cortigiana che alle convenzioni ipocrite della società in cui vive oppone il totale sacrificio di sé. A queste due vicende direzionali, nelle quali lo sviluppo dell'azione avviene con un ritmo intensissimo, si contrappone quella del Trovatore (Roma, Teatro Apollo, 19 gennaio 1853), ricavata dall'omonimo dramma di García Gutiérrez, in cui le motivazioni che determinano lo svolgimento dell'azione sono continuamente eluse; l'azione drammatica si sublima costantemente nel gesto musicale, realizzando una forma di teatralità pura per la quale non esistono modelli o confronti.
All'esperienza del grand opéra Verdi ritorna con Les Vêpres siciliennes (Paris, Opéra, 13 giugno 1855), affrontando per la prima volta le esigenze della declamazione in lingua francese, e mettendo a confronto ancora una volta conflitti tra individui con aspirazioni e sentimenti di un intero popolo. Oltre alla traduzione del Trovatore in Trouvère e l'impoverita trasformazione (soprattutto per esigenze di censura) di Stiffelio in Aroldo, con Simon Boccanegra (Venezia, La Fenice, 12 marzo 1857) Verdi sperimenta in maniera nuova tematiche e opposizioni politiche, mentre con Un ballo in maschera i conflitti sono in primo luogo all'interno di ciascuno dei principali personaggi, e sono rappresentati attraverso un gioco costante di simmetrie di situazioni e di travestimenti che trovano corrispondenza nelle continue variazioni della cellula ritmica che sta alla base dell'intera partitura. Analoga sperimentazione strutturale ritorna ne La forza del destino (San Pietroburgo, Teatro Imperiale, 10 novembre 1862) dove ancora una volta le improbabili peripezie degli individui e le loro sofferenze si stagliano contro l'indifferenza delle scene collettive.
Il ritorno all'orbita francese porta alla riscrittura di Macbeth (Paris, Théâtre Lyrique, 21 aprile 1865) e alla composizione di Don Carlos (Paris, Opéra, 11 marzo 1867), dove le esigenze spettacolari del genere vengono piegate alle necessità della più complessa fra tutte le realizzazioni drammatiche verdiane: i conflitti tra gli individui - e al loro interno - sono connessi tra loro in una vorticosa spirale, nella quale la concezione politica liberale del Marchese di Posa si confronta con quella assoluta di Filippo; ma su di entrambe prevale il potere della Chiesa impersonato dal Grande Inquisitore.
Verdi, che era stato eletto deputato nel primo Parlamento italiano e che su richiesta di Cavour aveva composto l'Inno delle nazioni per l'inaugurazione dell'Esposizione universale di Londra del 1862, vide con crescente preoccupazione l'assenza di un sentimento di appartenenza nella nazione appena creata; e non cessò di additare modelli nei quali riconoscere un patrimonio culturale comune; alla morte di Rossini (13 novembre 1868) propose una Messa da Requiem, omaggio collettivo dei maestri italiani al massimo esponente dell'arte loro (1869) e, rielaborando La forza del destino, scrisse una Sinfonia la cui articolazione è modellata su quella del rossiniano Guglielmo Tell.
La creazione di Aida (Il Cairo, Teatro dell'Opera, 24 dicembre 1871), voluta come opera "nazionale" egiziana da Ismail Pascià, portò ad una originalissima interpretazione, in chiave italiana, delle esigenze spettacolari e drammatiche del grand opéra; ancora una volta in quest'opera il conflitto tra il potere e l'individuo porta all'annientamento di quest'ultimo attraverso una caleidoscopica alternanza di esperienze stilistiche, musicali e spettacolari.
Davanti al diffondersi in Italia della musica strumentale d'Oltralpe Verdi reagì componendo un Quartetto (Napoli, 1 aprile 1873) per dimostrare che sapeva combattere il "nemico" con le sue stesse armi e, alla morte di Alessandro Manzoni, decise di comporre lui stesso, sviluppando il già fatto nell'ultimo movimento della collettiva Messa per Rossini, un Requiem, che di quella composizione ritiene l'articolazione testuale e l'alternanza di spessori sonori.
Ma il Requiem, ulteriore messaggio politico che identifica nel destinatario la massima gloria letteraria contemporanea e in Palestrina il modello storico secondo il quale si svolgono alcuni momenti cruciali della partitura, è una solitaria, totalmente soggettiva, meditazione sul mistero della morte, con tensioni costantemente frustrate verso una trascendenza avvertita come improbabile.
Ad un periodo piuttosto prolungato di apparente stasi ed inattività creativa seguirono il radicale rifacimento del Simon Boccanegra (1880-81), che segna fra l'altro l'inizio della collaborazione con Arrigo Boito, e la trasformazione di Don Carlos da grand opéra in cinque atti ad opera italiana (Milano, Scala, 10 gennaio 1884).
Con la composizione di Otello (Milano, Scala, 5 febbraio 1887) Verdi riporta il dramma al livello dell'individuo - il protagonista - che si dibatte e soccombe tra l'astrazione assoluta del bene - Desdemona - e quella del male - Jago -. Se in Otello sono ancora riconoscibili, pur nel flusso continuo del discorso sonoro e drammatico, nuclei statici nei quali si intravedono le forme musicali chiuse del passato, in Falstaff, l'estrema fatica operistica verdiana, l'azione si trasforma in puro gioco dell'intelletto, al quale corrisponde un altrettanto sottile e raffinato procedere di simmetrie sonore.
La parabola artistica di Verdi si chiuse con la composizione dei tre pezzi sacri, uno Stabat Mater ed un Te Deum per coro e grande orchestra, che incorniciano la preghiera alla Vergine dall'ultimo canto della Divina commedia, affidato a quattro voci femminili soliste e, a questi tre brani venne in seguito aggiunta, all'inizio, un'Ave Maria per coro a cappella, composta precedentemente. Anche qui, come nel Requiem, le aspirazioni ad una trascendenza si alternano ad una visione pessimistica della realtà umana, la sola alla quale Verdi crede veramente. E per i musicisti anziani Verdi dà vita in Milano ad una casa di riposo che egli definirà "l'opera mia più bella".
La morte di Verdi, il 27 gennaio 1901, segna la conclusione di un'era della vita italiana; l'apoteosi del suo funerale coincide invece con l'inizio della parabola crescente della fortuna dell'opera sua, mai come oggi viva ed attuale sulle scene di tutto il mondo.
Nabucodonosor


COPERTINA DEL LIBRETTO DEL «NABUCODONOSOR».
Caratteristiche:
Dramma lirico in quattro parti su Libretto di Temistocle Solera
Prima: Milano, Teatro alla Scala, 9 marzo 1842
Trama:
Parte I Gerusalemme. All`interno del tempio di Gerusalemme, i Leviti e il popolo lamentano la triste sorte degli Ebrei, sconfitti dal re di Babilonia Nabucco, che ora è alle porte della città. Il gran pontefice Zaccaria rincuora la sua gente. In mano ebrea è tenuta come ostaggio, infatti, la figlia di Nabucco, Fenena, la cui custodia Zaccaria affida a Ismaele, nipote del re di Gerusalemme. Questi, tuttavia, promette alla giovane di restituirle la libertà, perché un giorno a Babilonia egli stesso, prigioniero, era stato liberato proprio da Fenena, di lui innamorata. I due stanno organizzando la fuga, quando giunge nel tempio Abigaille, supposta figlia di Nabucco, a comando di una schiera di Babilonesi. Anch`essa è innamorata di Ismaele e minaccia Fenena di riferire al padre che ella ha tentato di fuggire con uno straniero; infine si dichiara disposta a tacere a patto che Ismaele rinunci a Fenena. Ma egli si rifiuta di soggiacere al ricatto. A capo del suo esercito irrompe Nabucco, deciso a saccheggiare la città. Invano Zaccaria, brandendo un pugnale sopra il capo di Fenena, tenta di fermarlo, poiché Ismaele si oppone e consegna Fenena salva nelle mani del padre.
Parte II. L`empio. Nella reggia di Babilonia. Abigaille è venuta a conoscenza di un documento che rivela la sua identità di schiava: dunque erroneamente i Babilonesi la ritengono erede al trono. Nabucco, in guerra, ha nominato Fenena reggente della città e ciò non fa che accrescere l`odio di Abigaille verso di lei. Il gran sacerdote di Belo alleato di Abigaille, riferisce che Fenena sta liberando tutti gli schiavi Ebrei. Abigaille coglie l`occasione e medita di salire sul trono di Nabucco. Zaccaria, intanto, annuncia festante al popolo che Fenena, grazie all`amore di Ismaele, si è convertita alla religione ebraica. Essa viene raggiunta da Abdallo, vecchio ufficiale del re, che svelate le ambizioni di Abigaille, le consiglia di fuggire per non incorrere nella sua ira. Ma non c`è tempo, poiché irrompe Abigaille che ha con sé i Magi, il gran Sacerdote e una folla di Babilonesi. Giunge però, inaspettato, anche Nabucco che si ripone la corona sul capo, maledicendo il dio degli Ebrei. Quindi minaccia di morte Zaccaria. Alla dichiarazione di Fenena che rivela la propria conversione, egli replica imponendole di inginocchiarsi e di adorarlo non più come re, ma come dio. Il dio degli Ebrei lancia un fulmine. Nabucco, atterrito, cade agonizzante, mentre Abigaille si pone sul capo l`agognata corona.
Parte III. La profezia. Orti pensili nella reggia di Babilonia. Abigaille sul trono riceve gli onori di tutte l`autorità del regno. Nabucco tenta invano di riappropiarsi della corona, ma viene fermato dalle guardie. Nel successivo dialogo fra i due, Abigaille ottiene, sfruttando le instabili condizioni mentali di Nabucco, di fargli apporre il sigillo reale convalidante il documento di condanna a morte per gli Ebrei. In un momento di lucidità, Nabucco si rende conto di avere condannato anche la figlia Fenena e inutilmente implora la sua salvezza. Anzi, Abigaille straccia il documento che attesta il suo stato di schiava, dichiarandosi unica figlia ed erede. Ordina infine alle guardie di imprigionere Nabucco. Sulle sponde dell`Eufrate, gli Ebrei invocano la patria lontana e tocca ancora a Zaccaria consolare il suo popolo con una profezia che li esorta ad avere fede.
Parte IV. L`idolo infranto. Dalla propria prigione Nabucco vede tra gli Ebrei condotti a morte anche Fenena. Disperato si rivolge, convertendosi al Dio degli Ebrei. Abdallo e un manipolo di guerrieri rimasti fedeli al re, vedendo Nabucco rinsavire e rinvigorire, decidono di insorgere guidati dal vecchio re. Negli orti pensili risuona una marcia funebre: stanno giungendo gli Ebrei condannati a morte. Zaccaria benedice Fenena martire. Ma all`irrompere di Nabucco, cade l`idolo di Belo e i prigionieri vengono liberati. Nabucco torna sul trono. Abigaille, avvelenatasi, chiede perdono, morente, a Fenena e auspica il matrimonio di lei con Ismaele. Zaccaria predice a Nabucco il dominio su tutti i popoli della terra.
Storia:
Dopo l’insuccesso di Un giorno di regno l’ancor giovane compositore prende un’affrettata decisione: cambiare mestiere e non comporre mai più. In questo precoce gettare la spugna, Verdi è fermamente contrastato da Merelli il quale, nonostante il fiasco, non gli consente di rompere la scrittura, e di lì a poco lo costringe a leggersi un libretto di Temistocle Solera che Otto Nicolai, il futuro autore delle Allegre comari di Windsor, aveva rifiutato. Il titolo dell’opera èNabucodonosor. e Verdi legge, si entusiasma, ma ribadisce il rifiuto riportando il manoscritto in teatro all'impresario, che però glielo rinfila immediatamente in tasca, e spinge energicamente fuori dal camerino il povero Verdi.
Passano cinque mesi, e finalmente Verdi si mette al pianoforte e affronta, per prima, l'ultima scena, cioè l'aria della morte di Abigaille. In agosto l'opera è già compiuta e il 9 marzo del 1842 va in scena al Teatro alla Scala di Milano: con il soprano Giuseppina Strepponi nel ruolo di Abigaille, il baritono Giorgio Ronconi protagonista, e il basso Prosper Dérivis nelle vesti di Zaccaria. È un successo colossale. Se le repliche non sono più di otto, è solo perché si è giunti alla fine della stagione. Ripresa la stagione il 13 agosto del 1842, l'opera conta altre cinquantasette repliche ad andare alla fine dello stesso anno.
Innumerevoli teatri italiani e alcuni stranieri la accolgono negli anni immediatamente successivi. In uno di questi, il San Giacomo di Corfù, nel settembre 1844 il nome del protagonista e del titolo, diventano definitivamente Nabucco
Il libretto, Temistocle Solera l'aveva liberamente tratto dall'omonimo dramma di Anicet-Bourgeois e Francis Cornue, andato in scena nel 1836 all'Ambigu-Comique di Parigi, e anche dall'omonimo ballo che il coreografo Antonio Cortesi ne aveva ricavato nel 1838 per la stessa Scala di Milano.
"Va pensiero": il testo poetico
1. Va, pensiero, sull'ali dorate;
2. Va, ti posa sui clivi, sui colli,
3. Ove olezzano tepide e molli
4. L'aure dolci del suolo natal!
5. Del Giordano le rive saluta,
6. Di Sionne le torri atterrate...
7. Oh, mia patria si bella e perduta!
8. O membranza sì cara e fatal!
9. Arpa d'or dei fatidici vati,
10. Perché muta dal salice pendi?
11. Le memorie nel petto raccendi,
12. Ci favella del tempo che fu!
13. O simile dei Solima ai fati
14. Traggi un suono di crudo lamento,
15. O, t'ispiri il Signore un concento
16. Che ne infonda al patire virtù.
I paradossi sembrano pensieri sofisticati. Ma non è così, anzi il maggior paradosso riguarda i saperi sul mondo della vita quotidiana. Conoscenze che diamo per scontate e che ci comunicano la sensazione d'assoluta certezza sulle cose a cui fare affidamento e su come farlo (il savoir faire). Sicurezza pre-riflessiva che è molto difficile poi trasformare in conoscenza esplicitata (il sapere del savoir faire).
Succede così, agli italiani in patria e all'estero, con l'aria del Va Pensiero, che ciascuno è supposto sapere, e sopratutto con il suo testo verbale, che sono pochi a conoscere per intero. E' l'eccesso d'intimità che ce ne ha allontanati: canticchiando, le parole emergono nella memoria come frammenti d'un naufragio cognitivo.
Eppure l'inno del Nabucco è uno dei testi sacri o per lo meno canonici della cultura italiana, l'emblema nazionale della nostra araldica sonora. Mi propongo quindi di render estraneo questo testo troppo familiare, per poterlo meglio guardare da dentro. Per farlo dovrò isolare il testo linguistico e letterario, - con le sue proprietà lessicali e grammaticali, ma anche retoriche e stilistiche- dalla comunicazione sincretica dell'opera, la quale è musicale e scenica. Operazione che lo stesso Verdi potrebbe legittimare.
E' lui infatti a raccontare quanto l'avesse colpito il testo di Temistocle Solera, capitatogli fra le mani - guarda caso! - alla pagina dell'inno; quella stessa notte avrebbe andare a mente tutto il libretto. Agiografia a parte, è vero che dal testo, con la sua particolare musicalità verbale, Verdi ha preso le mosse per comporre, mentre in altre occasioni accadrà piuttosto il contrario: "Camillo - scriveva il Maestro a Boito durante il lavoro comune, ai diversi piani della casa di Busseto - mettimi questa musica in endecasillabi".
Quali sono le caratteristiche testuali di questa conosciutissima poesia, la cui efficacia simbolica, emozione, senso e valore non finirà di sorprenderci? Partiamo da un nuovo paradosso: la maggior parte del lessico, com'è il caso di tanta prosa e poesia ottocentesca, è difficilmente riconoscibile. Sono parole "difficili": clivi, olezzano, membranza, favella, fatidici, traggi, concento, e sono incomprensibili nomi propri quali Sionne e Solima, cioé Sion e Gerusalemme. Potremmo però sostituirle con colli, odorano, memoria, parola, ecc., ma qualcosa andrebbe perduto. Cioè lo stile elevato che corrisponde ad una scelta lessicale classica, di sapore latino e sopratutto la prosodia, la lunghezza dei versi e le rime, che contrassegna la composizione.
Ma osserviamo prima la sintassi di questa filza di 16 versi. Per constatarne subito la notevole simmetria. L'inno sembra costruito a specchio: i primi quattro versi (1-4) e gli ultimi quattro (13-16) sono raccolti in una frase unica. Mentre i versi (5-7) e (11-12) sono di una sola frase. Troviamo una lieve dissimetria tra i versi centrali (7-8), con un verso per frase, (ma frasi parallele) e (9-10) dove la frase occupa due versi.
La perizia artigianale di Temistocle Solera non si ferma lì. E' nella prosodia, cioè nella musicalità interna al testo verbale, che troveremo poi gli aspetti costruttivi che inquadrano il senso del testo e ne determinano l'efficacia.
Osserviamo in primo luogo che si tratta di un'Inno, con una struttura metrica ben nota nella letteratura italiana ed europea. Si tratta infatti di 16 decasillabi, divisi in 4 quartine. Strofe a ritmo detto anapestico, con accenti che cadono sulle sillabe 3-6-9. (Ecco perché ad es. il verso 13 si legge "O simìle" con accento sulla terza sillaba e non sulla seconda: simile). Come nei manzoniani "S'ode a destra uno squillo di tromba", nel Carmagnola, ricordate? L'ultimo verso d'ogni quartina è però tronco, cioè di nove sillabe (natal-fatal; fu-virtù).
Vale la pena di ricordare che questo formato, il quale risale alle conzonette da melodramma (lo trovate nelle Nozze di Figaro di Da Ponte), è quello del'Ode, che con l'inno condivide delle caratteristiche semantiche che oggi, dopo la rivoluzione del verso libero, sono diventate illeggibili. L'Ode-Inno infatti era un genere poetico codificato, cioè riservato per convenzione a testi di alto senso e valore civile e religioso, epico e pariottico, com'è appunto il caso del Va Pensiero. Il tono oratorio doveva essere solenne e ingiuntivo, destinato ad ottenere la persuasione e trascinare all'azione. Di qui la ricchezza di interiezioni (Oh mia patria, Oh membranza), di esclamazioni (va,ti posa, saluta, raccendi, ci favella, traggi, t'ispiri) che punteggiano le due narrazioni: il percorso del Pensiero e il suono dell'Arpa.
Le figure retoriche parallele che dominano il testo sono appunto l'Appello al Pensiero dalle ali dorate e l'Apostofre all'Arpa d'oro. Figura di passione, l'Apostrofe, che - come i manifesti in cui un personaggio punta il dito e gli occhi verso di noi - suppone una forte emozione e un coinvolgimento intenso. La relazione comunicativa che si instaura è espressa dai pronomi di persona. Il coro si rivolge col "tu" prima al pensiero, la patria e la membranza, poi all'arpa e solo alla fine assume il plurale della prima persona :"ci favella, ne infonda".
All'argomentazione retorica, sostenuta dalla solida architettura della sintassi, s'accompagna un'attenzione particolare all'eufonia, che ne allevia la grandiloquenza e dà all'Inno il tono lirico d'una elegia monumentale. E' in primo luogo l'effetto dell'alternanza delle rime. Ricordiamone la distribuzione, che è sonora quanto spaziale.
1 quartina
1.1 dorate
1.2 colli
1.3 molli
1.4 natal
2 quartina
2.1 saluta
2.2 atterrate (v. 1.1)
2.3 perduta (v. 2.1)
2.4 fatal
3 quartina
3.1 vati
3.2 pendi
3.3 raccendi
3.4 fu
4 quartina
4.1 fati
4.2 lamento
4.3 concento
4.4 virtù
Risulta e risalta che ogni quartina comprende i due versi centrali che rimano unicamente tra loro, mentre il primo e l'ultimo verso rimano col primo della quartina seguente. L'effetto è un legame sonoro interno a ciascuna delle coppie di quartine (1-2 e 3-4), ma anche una dissonanza tra le prime due e le ultime. La disposizione regolare è però falsata nella seconda quartina che inverte la posizione del primo e del secondo verso (ci aspetteremmo atterrate e poi saluta). Prima di optare per la debolezza metrica di Soleri - i libretti dell'opera sono tutti brutti ?- osserviamo che si tratta della stessa quartina in cui è irregolare la distribuzione versi/sintassi: due frasi parallele per ogni verso, dove ce ne aspetteremmo due per uno. Per la creazione di ritmi "informativi" la metrica dell'ode prevedeva infatti l'uso sistematico del "difetto retorico", che è possibile riscontrare ai diversi livelli della testualità. Si v. ad es. il parallelismo tra le particelle all' inizio del verso: Va e Va nei primi due; Oh! e Oh! nel 7 e 8, mentre alternano gli O del 13 e 15. I parallelismi sono fatti di differenze che si assomigliano.
Lo stesso criterio di assimilazione e dissimilazione sonora si trova a tutti i livelli del Va Pensiero: come nelle assonanze, paranomasi e anagrammi che possono trovarsi vicine (torri-atterrate, simili-Sollima) o distanti (come patria e patire; fati e fatidici). E per quanto riguarda la morfologia, si veda come nel primo ottastico i nomi e gli aggettivi sono più numerosi e pochi i verbi, mentre nel secondo troviamo meno aggettivi e più verbi. Anche al livello fonetico complessivo si riscontra una sensibile dissimmetria tra la presenza marcata delle liquide nei primi otto versi e la netta diminuzione in quelli seguenti.
A tutti i livelli d'organizzazione del significante, direbbe il semiologo, troviamo dunque una messa in parallelo e una trasformazione del significato. L'Appello al Pensiero rende possibile l'esperienza immaginaria del contatto (ti posa, tepide e molli), del profumo e del gusto (olezzano, dolci) e poi della vista (il Giordano, le torri) della patria. Il ricordo, riacceso dai sensi, si trasforma in Apostrofe (dagli Oh agli O) rivolta all'Arpa, cioè al potere della musica di parlare, riscaldare la memoria, dar voce alla sofferenza e, per divina ispirazione, infondere nel dolore il coraggio.
Se ho così parafrasato il testo è solo per mostrare come il racconto del Va Pensiero sia lontano dai significati biblici di superficie, che si usa attribuire allo stesso Verdi. E quanto sia semplificata la versione di M. Mila: "la realtà vissuta e quella sperata, il lamento e la preghiera accettano di adunarsi ad un passo comune e costante, pacato e virile: secondo pulsazioni dichiaratamene elementari (sic!)".
Quel che ha impressionato Verdi in questo testo è, a nostro avviso, il racconto, fatto col suono e col senso, dell'insufficienza del pensiero all'azione quando manchi la mediazione e l'apporto della musica. Il potere illocutivo dell'Arpa non è soltanto quello di dare linguaggio alla memoria, ma di trasformare la passione e provocare all'azione. Passare dagli stati d'animo (il lamento) al fare, attraverso il "concento" che è "armonia dell'anima" (Della Casa). Chi ha ascoltato, una volta ancora il Va Pensiero conosce questa efficacia che ci fatto alzare in piedi o trattenere le lacrime. E' certo che il testo di Soleri non basta. Alla deformazione coerente che la sua metrica impone alla prosodia dell'italiano si aggiunge l'altra, decisiva, della melodia di Verdi. Ma il testo verbale non è un mero accessorio di scena. Al contrario: è un esempio della tensione di senso tra unità metrica e significato, di quell'integrazione poetica tra ritmo e movimento del pensiero che fa anche d'un sonetto un "sillogismo lirico". Poi parola e musica hanno scambiato felicemente le loro proprietà.
E' più facile ora, sapendo che l'efficacia del Va pensiero sta nel modo riflessivo con cui mette in scena l'efficacia della musica, interrogarsi sulla tentazione ricorrente di fare di questa ode d'esilio ebraico - il destino dell'arpa è simile a quello di Gerusalemme - l'inno nazionale italiano. E' una pretesa malformata: i nazionalismi sono costruiti su quel senso di lutto e di perdita che qui troviamo solo nel primo ottastico. E' malinconia nostalgica, piacere d'essere tristi. Nelle due quartine finali invece, è la musica che immette nel "patire per la patria" una virtù senza risentimenti, orientata all'azione. Il nazionalismo è contro, mentre lo spirito di quest'inno, che non dichiara nemici, è per.
Ma bisognerebbe prima leggere comparativamente l'altro candidato al ruolo simbolico della nostra appartenenza nazionale, quel Canto degli Italiani, che sfoggia il titolo di Inno di Mameli. La prosodia anche in questo caso ci istruisce.
I versi del Canto di Mameli sono di sei sillabe (senari), divisi in 5 strofe di 11 versi. L'undicesimo è sempre tronco e termina con "chiamò", poiché gli ultimi tre versi formano un ritornello. Anche l'ottavo verso di ogni strofa, termina sempre tronco e in ò. Mentre rimano, alternati il 2 e il 4 verso e baciati il 6 e il 7, invece il 1, il 3 e il 5 verso di ogni strofa non rimano. Il nome Italia, non rimato, ricorre 7 volte. Dunque non è un Inno, come è invece il Va Pensiero.
Come Rouget de Lille, l'autore della Marseillese, il torrenziale Solera, è rimasto l'uomo d'un solo testo. Il quale possiede però, come ci sembra d'aver mostrato, se non proprio la poesia almeno la poeticità: la qualità cioè di codificare, ai diversi livelli del discorso, quelle qualità di lingua e di stile che permetteranno a chiunque li legga o li ascolti di trovare sensi nuovi.
Il Va pensiero è un dispositivo di segni che contiene memorie future.
Bibliografia
- AAVV., L'inno di Mameli, Mondadori, Milano, 2002.
- Gilles de Van, Verdi, un théatre en musique, Fayard, Paris, 1992.
- A. Julien Greimas, "Per una teoria del discorso poetico", sta in AAVV., Semiotica in nuce, vol. 1, a cura di P. Fabbri e G. Marrone, Meltemi ed., Roma, 2000.
- Massimo Mila, Nabucco "...quasi una parafrasi della Bibbia", Teatro della Scala ed., Milano 1986.
- Cesare Segre, "La Cançao do esilio di G. Dias, ovvero le strutture del tempo", sta in Le strutture e il tempo, Einaudi, Torino, 1974 (per la lettura di un poema che è entrato a far parte dell'inno nazionale brasiliano).
- Jury Tjnianov, "L'ode", Strumenti critici, 1976.

Spesso è accaduto, nello scrivere di qualche opera musicale, che mi soffermassi prima di tutto sulla storia del musicista, onde comprendere quale spinta emotiva abbia potuto portare l’artista a scrivere il suo, o i suoi capolavori. Questa volta, invece, mi viene di parlare subito della grande opera, del capolavoro che ha fatto di Verdi il musicista italiano più famoso in Italia ed in Europa.
Non credo ci sia qualcuno che ignori quest’opera sublime, almeno nel nome. Di essa viene facile parlarne anche per il numero di narrazioni (non meno di tre), autorizzate o compiute dallo stesso autore in tempi diversi, che concordano tutte nel descrivere la nascita di questo capolavoro della musica. Il più famoso di questi racconti si deve a Giulio Ricordi che lo pubblicò nel 1881 come appendice alla prima narrazione ufficiale della vita di Giuseppe Verdi. In questo racconto si narra della lettera che lo stesso musicista ha inviato ad un amico ed in cui racconta di come l’impresario Merelli ha insistito affinché Verdi leggesse il libretto del Nabucco ed a quest’episodio fa riferimento anche Lessona nel suo libro “Volere e Potere” scrivendo che Verdi gli ha raccontato di quest’insistenza da parte dell’impresario mentre passeggiano per le colline di Tabiano. In pratica nel suo libro Lesiona racconta che Verdi dall’ottobre del 1840 al gennaio del 1841, appartatosi da tutti, non fa altro che leggere pessimi libri, “romanzacci” di cui grande stampa se ne fa in quel tempo a Milano. Una sera, però, mentre esce dalla galleria De Cristoforis s’imbatte nell’impresario Merelli con il quale comincia a passeggiare verso la Scala. Il Merelli gli racconta di essere in un grave impiccio in quanto il maestro Nicolai si rifiuta di scrivere le musiche per un libretto scritto da Solera ed intitolato Nabucco. Verdi propone, allora, uno scambio. Prenderà lui il Nabucco e consegnerà a Nicolai un libretto che lo stesso Merelli gli aveva dato perché lo leggesse e che si intitola “Il Proscritto”. Lo scambio avviene e quindi Giuseppe Verdi si trova a leggere il libretto del Nabucco in casa sua, alla fioca luce di un lume e subito gli occhi gli cadono sul coro del terzo atto degli ebrei in schiavitù. È il “Và pensiero sull’ali dorate” che così famoso diventerà negli anni a venire.
La notte pensa e ripensa a quel coro e la mattina successiva finisce di leggere il libretto prima di presentarsi a Merelli che gli chiede cosa ne pensa. «Musicabilissimo» risponde il musicista «stupendo argomento». L’impresario insiste allora perché Verdi lo tenga e si dia da fare per ricavarne un’opera, ma il maestro esita e solo su insistenza dell’impresario, che di slancio gli caccia il libretto in tasca, lo costringe, in qualche modo ad accettare.
Verdi ignora il Nabucco per cinque mesi seguitando nella sua attività di lettore di “romanzacci”, fino a quando, sul finire di maggio, quel libretto gli ritorna fra le mani e accostatosi quasi macchinalmente al pianoforte che era muto da tempo, cominciò a scrivere le musiche di quest’opera. Impiega tre mesi ma riesce a completare il Nabucco nel modo in cui, tale e quale, lo conosciamo noi oggi.
Ciò che ha colpito in modo notevole il compositore è il tono biblico del tema: legge tutto il dramma e andando con la mente oltre i versi del libretto, vede – egli appassionato lettore della Bibbia – tutto quello che di grandioso c’è in quel messaggio.
Il successo dell’opera è dato incontestabile ma solo dopo l’Unità d’Italia il famoso coro, che così tanto ha colpito Verdi nella lettura del libretto, diviene il simbolo dell’epoca risorgimentale: finite ormai le sanguinose battaglie, il coro entra nella memoria di tutti gli italiani come l’allegoria di quegli anni ormai lontani e idealizzati.
Emerge nelle note di questo dramma il Verdi “risorgimentale” soprattutto in uno scorcio dell’opera che viene recepito dagli italiani di allora come richiamo alla vita di tutti i giorni, visto che dall’inizio dell’Ottocento gli italiani vedono entrare nei loro paesi e città gli eserciti d’occupazione preceduti da una banda militare. È quindi l’ingresso trionfale nel tempio di Nabucco, preceduto proprio da una banda che entra in scena, ad evocare una situazione reale a cui gli italiani, nel 1842, sono così tanto abituati da poterlo identificare come quel «montaggio d’un frammento di realtà sonora» che Carl Dahlhaus individua parlando di musica di scena con risvolti di propaganda antiaustriaca più marcati rispetto ad altri episodi dell’opera più celebrati. È un Verdi che infiamma gli animi dei contemporanei, divenendo con lo stesso suo nome un potente mezzo di propaganda politica. Ed ancora oggi quel coro, il “Và pensiero sull’ali dorate”, fa discutere – non solo a livello politico – visto che molti lo vorrebbero volentieri al posto di quello di Mameli come nuovo inno d’Italia.
NABUCCO
Dramma lirico in quattro parti
Libretto di Temistocle Solera
Musica di Giuseppe Verdi
PERSONAGGI:
Nabucco Re di Babilonia
Ismaele nipote di Sedecia, Re di Gerusalemme
Zaccaria Gran pontefice degli ebrei
Abigaille Schiava, creduta figlia primogenita di Nabucco
Fenena Figlia di Nabucco
- Il gran Sacerdote di Belo
Abdallo Vecchio ufficiale del Re di Babilonia
Anna Sorella di Zaccaria
Temistocle Solera ha preso come modello per il suo Nabucco un “Ballo storico in 5 parti” rappresentato alla Scala nel 1838 ed intitolato “Nabuccodonosor” che, a sua volta, si era ispirato ad un dramma francese in quattro atti ad opera di Anicet-Bourgeois e Francis-Cornu che a Parigi aveva avuto un discreto successo ed il cui titolo era “Nabuchôdonosor”.
C’è da dire che l’elemento amoroso che nella pièce francese aveva un ruolo fondamentale nello svolgimento del dramma ed era accentrato nel rapporto fra Fenena ed Ismaele, nell’opera verdiana diviene volutamente, invece, un fattore del tutto secondario. A questo proposito è lo stesso Verdi che racconta un aneddoto significativo: Solera nel terzo atto ha riportato un duetto amoroso fra Fenena ed Ismaele che al maestro, però, non piace affatto perché raffredda l’azione e toglie qualcosa alla grandiosità biblica che caratterizza il dramma. Verdi raccomanda al librettista di sostituire tale scena con una profezia del Profeta Zaccaria, cosa che Solera prontamente attua. C’è da rilevare che in nessuna delle due opere da cui il Nabucco verdiano prende spunto, la figura di Zaccaria è vista come Profeta ma è semplicemente il “gran pontefice degli ebrei”, senza alcuna particolare capacità di preveggenza. Nell’opera di Verdi, invece, sin dall’inizio Zaccaria s’impone come protagonista, capace di confortare ed esortare il suo popolo. È il capo che conduce, come guida spirituale e politica, la massa debole rappresentata dal coro degli ebrei. E man mano che si procede nel dramma diventa figura sempre più presente fino ad avere un numero rilevante di episodi solistici, più di ogni altro personaggio, insomma, e Verdi ad egli riserva un “linguaggio” musicale che nettamente lo contraddistingue. Per caratterizzare drammaticamente la figura di Zaccaria, Verdi si rifà al modello rappresentato dal Mosé di Rossini: così come quest’ultimo è guida e conforto per il popolo ebraico esule in Egitto, altrettanto lo è Zaccaria per gli israeliti condotti in cattività sulle sponde dell’Eufrate. È proprio per questo che al “Và pensiero” segue la profezia di Zaccaria che comunica al suo popolo rassegnato nuove speranze, nuovo vigore. E si ritorna a parlare del coro… Ma come no si potrebbe, visto che rappresenta una delle pagine più emozionanti della musica italiana. Se si chiede agli intenditori, direbbero che si tratta di un coro di organizzazione musicale molto più semplice dei contemporanei cori d’opera ma di indubbia ed eccezionale funzionalità espressiva. Rossini stesso ebbe a magnificarlo definendolo “una grande aria per soprani, contralti, tenori e bassi”. Prima di concludere con il sunto del libretto, mi rimane da dire che Giuseppe Verdi, parlando del Nabucco, era solito dire che “con quest’opera, veramente, ebbe principio la mia carriera artistica”.
La storia del Nabucco è ambientata nel 568 a.C. e ci troviamo a Gerusalemme. L’esercito di Babilonia, guidato dal Re Nabucco, sta per abbattere le porte della città rimaste senza difesa. Tutti i notabili ed i sacerdoti si sono rifugiati nel tempio di Salomone in preghiera ed il pontefice Zaccaria cerca di confortarli esortandoli a non perdere la speranza nella salvezza. Ricorda loro, Zaccaria, che ha Fenena – figlia di Nabucco – nelle sue mani come prezioso ostaggio e da lui stessa fatta prigioniera. Se il Re babilonese tiene alla vita della figlia dovrà accettare la pace. Custode di Fanena è Ismaele, nipote del Re di Gerusalemme e non sconosciuto alla fanciulla, visto che quando egli era ambasciatore a Babilonia si era innamorato, corrisposto, della bella Fenena che non aveva esitato un istante a liberarlo e a farlo fuggire quando l’israelita era stato fatto prigioniero.
È il momento di contraccambiare il favore, dunque, e Ismaele conduce Fanena verso un passaggio segreto del tempio che le consentirà di fuggire e di andare incontro la padre. Ma prima che ciò accada, irrompono nel tempio le avanguardie dell’esercito babilonese che sono riuscite ad entrare a Gerusalemme travestiti da ebrei. Alla loro testa c’è Abigaille che tutti ritengono primogenita del re Nabucco ma che in realtà è solo la figlia di una schiava babilonese. Anche Abigaille è innamorata di Ismaele che, però, l’ha respinta. Facile immaginare come Abigaille odi tanto Fenena quanto Ismaele e siamo quasi ad un drammatico scontro quando irrompe nello stesso tempio il re Nabucco alla testa del suo esercito vincitore. Zaccaria, allora, afferra Fenena minacciandola di ucciderla. Interviene, però, Ismaele che prontamente libera la fanciulla dalle mani del pontefice e lascia che ella corra fra le braccia del padre. Per Gerusalemme è la fine. Nabucco ordina che la città sia saccheggiata ed incendiata ed il popolo ebreo incatenato. Il tutto avviene fra le invettive di Zaccaria e dei sacerdoti contro Ismaele che con il suo tradimento ha condannato il suo popolo.
Poco tempo dopo, ci troviamo fra le mura della reggia babilonese in cui Abigaille si aggira e riesce ad impadronirsi di un documento che fino a quel momento Nabucco ha gelosamente custodito. Da tale documento apprende di non essere figlia del Re ma che la sua origine la porta ad essere solo una schiava. Dopo un momento di smarrimento e sconforto trova subito la forza di reagire attraverso lo stesso odio che nutre per Fenena che vorrebbe vedere morta. Se così fosse, potrebbe conquistare l’amore di Ismaele e conquistare nello stesso tempo il trono di Babilonia. Per realizzare questo intento decide di spargere la notizia della morte del Re Nabucco sul campo di battaglia, aiutata, in questo, dal gran sacerdote di Belo.
Nel frattempo in un’altra sala del palazzo reale babilonese c’è Fenena, alla quale Nabucco ha affidato il potere durante la sua assenza per il proseguimento della guerra contro gli ebrei, che decide di liberare i concittadini di Ismaele che sono stati fatti prigionieri a Gerusalemme. Il sacerdote di Belo, però, venutolo a sapere, ne informa subito Abigaille. C’è dell’altro: Fenena si vuole convertire alla religione ebraica e di questo ne fa informare il pontefice ebraico Zaccaria. Ismaele raggiante ed innamorato, comunica questa decisione ai sacerdoti di Gerusalemme che, però, continuano a considerarlo un traditore. Sopraggiungono sulla scena Fenena, Zaccaria ed Anna, sorella di quest’ultimo, a confermare ai sacerdoti l’avvenuta conversione della stessa Fenena ma in quell’istante sopraggiunge Abballo, un vecchio ufficiale di Nabucco, che comunica la morte del Re ed informa che Abigaille intende assumere il potere. Così è infatti, in quanto Abigaille, scortata dai soldati babilonesi e con al fianco il gran sacerdote di Belo, interviene a comandare a Fenea di consegnarle la corona e le insegne del potere. La perfida Abigaille, però, non ha previsto l’improvvisa comparsa del Re Nabucco che fa tacere tutti rimettendosi la corona sul capo ed autoproclamandosi dio. A questo punto un fulmine si abbatte su Nabucco strappandogli la corona dal capo e rendendolo folle per il terrore. Il pontefice Zaccaria comincia a gridare che questa è la punizione divina per l’orgoglio del Re e ad approfittare della conseguente confusione è Abigaille che raccoglie la corona caduta dal capo di Nabucco con l’intento di sostituirsi a lui nella guida della guerra contro gli ebrei.
E così è. Adesso Abigaille è la regina di Babilonia e nei giardini del palazzo reale siede sul trono per ricevere il gran sacerdote di Belo che le propone di condannare a morte i prigionieri ebrei e la stessa Fenena. A cercare di dissuaderla interviene Nabucco seppure ancora in preda allo stato di confusa follia in cui è caduto in seguito all’episodio del fulmine. Abigaille, però, riesce ad ingannare l’ex Re babilonese e ad ottenere il suggello reale, rimasto in possesso di Nabucco, sulla sentenza di condanna a morte degli ebrei. In un attimo di ripensamento, pentito per aver contribuito alla condanna della propria figlia, Nabucco riprende la sua veste di Re ed ordina ad Abigaille, figlia di umili schiavi, di inginocchiarsi davanti a lui che è il Re. Abigaille reagisce in malo modo strappando il documento che attesta le sue umili origini ed ordina alle guardie di mettere alle catene Nabucco che la implora di salvare la figlia Fenena.
Dagli appartamenti della reggia dove è tenuto prigioniero Nabucco vede gli ebrei che vengono trascinati in catene per l’esecuzione della loro condanna a morte. Fra di essi c’è anche Fenena la cui voce, fra le grida, arriva fino a lui, fino al suo cuore di padre e di Re.
La sua mente confusa e disperata in quel drammatico momento non riesce a rivolgersi ad altri che a Jehova, il dio degli ebrei, quel dio a cui, adesso, anche sua figlia è devota. Come per miracolo ritrova tutta la sua vigoria rendendosi conto che è venuto il momento di rivendicare e di esercitare il potere di Re di Babilonia e di salvare la vita alla figlia. Chiama, dunque, Abdallo e gli ordina di riunire tutti i soldati rimastigli fedeli, si mette, quindi, alla loro testa e, spada alla mano, corre a salvare Fenena ed i prigionieri ebrei che stanno per essere uccisi e sacrificati all’idolo di Belo. Interviene, dunque, sul luogo dell’esecuzione ma, prima che possa compiere qualsiasi gesto, una potente e misteriosa forza distrugge il potente idolo di Belo. Il popolo babilonese rimane atterrito da questo segno della potenza divina mentre gli ebrei cadono in ginocchio per pregare il loro dio. Abigaille è sconfitta e comincia a sentire forte il rimorso per quanto ha fatto e quanto stava per compiere. Cerca, allora, di avvelenarsi ma i soldati l’afferrano e la conducono morente davanti a Nabucco al quale rivolge la preghiera di acconsentire alle nozze tra Fenena ed Ismaele. Chiede perdono del male che ha tentato di fare e, mentre anche lei invoca Jehova, muore.
Giuseppe Verdi nasce a Le Roncole di Busseto (Parma) nel 1813. Manifesta prestissimo evidenti capacità musicali. Dopo aver studiato con l'organista delle Roncole Pietro Baistrocchi, prosegue gli studi a Busseto e nello stesso periodo, di domenica, svolge il suo incarico di organista nella chiesa parrocchiale di Le Roncole. Fino ai diciotto anni compone una serie di marce per bande, piccole sinfonie che servono per Chiesa e per il teatro, molte serenate e cantate. Una così grande attività gli procura l’ammirazione dei suoi concittadini bussetani e la protezione di un ricco negoziante, Antonio Barezzi, che è anche presidente della filarmonica locale.
Nel 1831 Verdi viene ricevuto in casa Barezzi dove dà lezioni di canto e pianoforte alla figlia maggiore del padrone di casa, Margherita, con la quale poi si fidanzerà. Il Barezzi, che crede fortemente nelle doti musicali del giovane, gli fa ottenere una borsa di studio poter proseguire gli studi a Milano. Ma qui, nel 1832, Verdi ha la sua prima delusione in quanto non viene ammesso al Conservatorio poiché ha superato i limiti di età ma anche perché il suo esame di pianoforte viene giudicato insufficiente. Sovvenzionato da Barezzi, riesce a continuare i suoi studi per tre anni. Nel 1836 ritorna a Busseto dove viene nominato maestro di cappella del Comune e, in maggio, sposa Margherita Barezzi.
Dopo tre anni, ansioso di dedicarsi alle opere teatrali, si dimette dall'incarico di maestro di cappella e si trasferisce a Milano dove l'impresario Merelli accetta che venga rappresentata alla Scala la sua prima opera, “Oberto, conte di S. Bonifacio”. Il discreto successo ottenuto induce Merelli a commissionare a Verdi un'altra opera, questa volta comica: “Un giorno di regno o Il finto Stanislao”. Questa opera è scritta nel momento più triste e doloroso della vita del musicista in quanto è proprio in questo periodo che avviene la morte della figlia Virginia nel '38, quella del figlio Icilio nel ’39 e quella dell’amatissima moglie nel '40. L'opera, anche a causa di una infelice esecuzione, viene accolta malissimo dal pubblico presente. Amareggiato dall'insuccesso Verdi medita di abbandonare la composizione, ma Merelli riesce a farlo reagire alla crisi depressiva in cui è caduto il musicista affidandogli un nuovo libretto, “Nabucco”, già rifiutato da Nicolai. Nabucco va in scena alla Scala il 9 marzo 1842 e tra gli interpreti c’è Giuseppina Strepponi che diventerà, poi, compagna del musicista. Il “Nabucco” ha un successo strepitoso, il "Va pensiero", cosa che non è prevista dalle norme, viene bissato. L'opera già evidenzia quell'elemento palesemente patriottico che farà del dramma verdiana l'emblema del desiderio di indipendenza del popolo italiano. Lo stesso cognome, Verdi, si identifica con il grido di rivoluzione che gli italiani urlano e scrivono sui muri: W VERDI, altro non rappresenta, per i patrioti del tempo, che gridare W V(ittorio) E(manuele) R(e) D'I(talia).
Dopo il “Nabucco” l'attività di compositore di Verdi diviene frenetica tanto che egli stesso parla di "anni di galera" in cui il musicista si getta a capofitto nella stesura di diverse opere: nel '43 alla Scala viene rappresentata “I lombardi alla prima crociata”, il cui coro "O Signor che dal tetto natio", come il "Va pensiero", ben presto assume carattere patriottico e viene cantato con spirito anti-austriaco. Compone “Ernani” che viene rappresentata alla Fenice di Venezia, “Giovanna d'Arco” di nuovo alla Scala, “Macbeth” a Firenze, “I masnadieri” a Londra (primo lavoro destinato a un teatro straniero), “Luisa Miller” al S. Carlo di Napoli.
Nel '51 trionfa alla Fenice “Rigoletto”, con il quale comincia il filone romantico che prosegue con “Il trovatore” e “La traviata”, che dopo l'insuccesso della "prima" alla Fenice si impone su tutti i più grandi teatri. A questo punto della sua vita, Verdi si è stabilito a Busseto dove acquista nel '49 la Villa di S. Agata e nel ’59 sposerà Giuseppina Strepponi. Nel 1855 scrive per l'Opéra di Parigi “Les Vêpres Siciliennes”, che gli è commissionata dal governo francese per l'inaugurazione dell'Esposizione Universale. Rientrato a Busseto si dedica al “Simon Boccanegra” per la Fenice, cui seguiranno “Un ballo in maschera”, “La forza del destino” rappresentata a S. Pietroburgo, “Don Carlos” a Parigi e “Aida” rappresentata al Cairo per celebrare l'apertura del canale di Suez nel 1871. Ad Aida segue un lungo silenzio, soggetto a poche eccezioni, come la composizione della “Messa da requiem” in memoria dello scrittore Alessandro Manzoni e che Verdi stesso dirige nella chiesa di San Marco a Milano, nel 1874. Il compositore ritorna al teatro in collaborazione con il librettista Boito, per le rappresentazioni dapprima di “Otello” e poi di “Falstaff”: due grandi capolavori che chiudono degnamente la sua intensa attività teatrale. Giuseppe Verdi si spegne a Milano nel 1901.

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