Torquato Tasso

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Testo

TORQUATO TASSO
La vita
Torquato Tasso nacque a Sorrento nel 1544. La madre era una nobildonna toscana, ed il padre, Bernardo, di nobile famiglia bergamasca, era gentiluomo di corte e poeta, autore di un poema cavalleresco, l’Amadigi, che contemperava la materia romanzesca con le esigenze di unità imposte dalla cultura dell’epoca.
Nel ’59 seguì il padre a Venezia e lì, per suggestione dell’ambiente della città, impegnata nel conflitto contro i Turchi, a soli quindici anni iniziò un poema epico sulla prima crociata, il Gierusalemme, lasciandolo però interrotto.
Sull’esempio del padre del 1562, a diciotto anni, scrisse il poema epico di argomento cavalleresco, il Rinaldo, e cominciò a comporre rime d’amore per Lucrezia e per Laura.
Nel 1565 fu assunto a servizio del cardinale Luigi d’Este, e si trasferì a Ferrara. Qui il giovane poeta trascorse gli anni più sereni e più fecondi dal punto di vista creativo. Quella di Ferrara era una delle corti più splendide d’Italia, per una lunga tradizione che risaliva sino al Quattrocento. La corte ferrarese era stata particolarmente amante della letteratura cavalleresca: per questo probabilmente Tasso fu stimolato a lavorare al poema epico sulla crociata, che già aveva ripreso nel 1565. Vi attese dal ’70 al ’75, e nell’estate di quell’anno poté leggere il poema completo al duca Alfonso. Nel frattempo, nel ’73, per gli ozi festosi della corte aveva composto un dramma pastorale, l’Aminta, e aveva anche tentato la tragedia con il Galealto re di Norvegia, lasciato però interrotto.
Ma, con la conclusione della fatica del poema, si spezzò anche l’equilibrio felice della sua esistenza. Alla sua opera egli guardava con inquietudine e insoddisfazione, ed era tormentato dallo scrupolo di renderla perfettamente aderente ai canoni letterari e religiosi vigenti. Agli scrupoli letterari concernenti il poema si collegavano strettamente quelli religiosi. A questi sintomi inquietanti si univano manie di persecuzione; il duca lo fece rinchiudere nel convento di San Francesco, ma egli ne fuggi. Tornò a Ferrara nel 1579; non trovando l’accoglienza calorosa che si aspettava, diede in escandescenze, tanto che il duca lo fece rinchiudere come pazzo furioso nell’ospedale di Sant’Anna, dove rimase ben sette anni, sino al 1586.
Negli anni in cui il poeta era rinchiuso a Sant’Anna la Gerusalemme fu pubblicata senza il suo assenso, in un’edizione incompleta e scorretta, e questo lo turbò profondamente. Non solo ma, nonostante il grande successo di pubblico, il poema scatenò una violenta polemica tra i suoi sostenitori e quelli che ritenevano superiore il Furioso. Il poeta ne fu amareggiato, e scrisse un’Apologia della “Gerusalemme liberata”, dedicandosi nel contempo ad una revisione radicale dell’opera, al fine di renderla più conforme ai precetti retorici e moralistici. La prigionia ebbe termine nel 1586, ma l’irrequietezza che ormai gli era propria non consentì al Tasso di restare a lungo a Mantova. Nel 1594 il papa Clemente VIII gli propose l’incoronazione poetica a Roma; ma Tasso, ammalatosi gravemente e ritiratosi nel convento di Sant’Onofrio sui Granicolo, vi morì nell’aprile del 1595.
Il Rinaldo
Il Tasso diciottenne riprende la materia del romanzo cavalleresco e nel 1562 pubblicò il Rinaldo, che narra in 12 canti la giovinezza del famoso paladino della leggenda carolingia e le imprese d’armi e d’amori. Tasso dichiara nella prefazione al poema di voler imitare in parte gli “antichi”, i parte i “moderni”. Tuttavia rifiuta la molteplicità di personaggi e di azioni che caratterizzava il Furioso e si concentra su un unico protagonista, in obbedienza quelle esigenze di unità che erano proposte dal contemporaneo aristotelismo e che erano già state seguite dal padre nel suo poema. Manca anche, nel Rinaldo, il gioco ironico che era proprio del poema ariostesco, e tutto appare serio ed elevato. Nell’eroe il giovane Tasso rispecchia se stesso, il proprio sogno di gloria e d’amore, che si iscrive tutto nella cornice mondana della corte. E’ un’opera acerba, ancora priva di originalità, ma in essa compaiono già alcuni temi e toni fondamentali che caratterizzavano il poema maturo. Vi si ritrovano già una rappresentazione ardente e insieme languida della passione amorosa, unitamente alla contemplazione dei sereni paesaggi idillici o di scenari tempestosi e notturni, secondo un gusto che assumerà le sue forme compiute nel capolavoro.
Le Rime
L’esercizio della poesia lirica ha inizio per Tasso in una stagione assai precoce, e abbraccia poi l’intero arco della sua attività. Negli anni della prigionia a Sant’Anna il poeta iniziò un riordino generale che si concretò in un’edizione della Prima parte delle Rime, comprendente le liriche d’amore, e in una Seconda Parte, contenente la produzione encomiastica. Il progetto di riunire una Terza parte destinata alle rime religiose e una Quarta parte di rime per musica non fu realizzato.
Le rime amorose sono innanzitutto un esercizio di squisita letteratura, in cui il poeta via via raffina il proprio stile. Il fondo linguistico è petrarchesco, scelto e levigato, ma su di esso si innesta un gusto della complicazione metaforica che dà origine a lambiccate ingegnosità. un’altra caratteristica saliente è l’intensa sensualità, che si traduce in immagini pittoriche ricche di colore e in voluttuoso abbandono musicale. I temi sono convenzionali, in fondo puri pretesti per il dispiegarsi del virtuosismo delle immagini e della musica. Le più suggestiva sono le liriche che evocano sentimenti delicati e impalpabili, atmosfere indefinite, stati d’animo perplessi e fuggevoli, oppure paesaggi fantasticamente trasfigurati, notturni lunari, albe luminose, una natura fresca e ricca di profumi. Le immagini femminili che il poeta evoca tendono a confondersi con il profilo della natura, e la natura a sua volta assume una fisionomia femminile.
Nella lirica encomiastica mutano i modelli: il poeta si rifà alla lirica classica del greco Pindaro e del latino Orazio, ed il tono si fa più elevato, sostenuto e maestoso. Tasso, come è proprio della sua età, sente fortemente il fascino del potere regale e principesco e ama rappresentarlo nelle sue forme più scenografiche. Tuttavia in questa poesia encomiastica compaiono accenti più sofferti, il motivo autobiografico del dolore e della virtù errabonda, il senso della fugacità del tempo, il pensiero della morte. I potenti sono visti come coloro che possono offrire rifugio, sicurezza e consolazione al poeta errante e afflitto dalla sventura.
La lirica sacra ha accenti meno profondi. Il sentimento oscilla tra un’ornamentazione lussuosa e la riflessione sulla precarietà e vanità delle cose.
La produzione drammatica: l’Aminta, il Galealto, il Re Torrismondo.
L’Aminta è un testo drammatico che si colloca in un preciso genere, quello della favola pastorale che metteva in scena vicende ambientate nel mondo dei pastori; d’altro lato però riprende una lunga tradizione di poesia pastorale. Dal punto di vista formale il genere della favola pastorale differisce dalla commedia in quanto non presenta situazioni comiche collocate in un contesto cittadino non contemporaneo realisticamente rappresentato, ma temi seri, patetici e sentimentali, ambientati in un mondo favoloso; differisce peraltro anche dalla tragedia in quanto non raggiunge il livello sublime nei personaggi e nello stile e si conclude col lieto fine anziché con la catastrofe.
L’Aminta è un testo teatrale, fondato sul dialogo, però nessuno degli episodi principali dell’azione si volge direttamente sulla scena e tutto viene raccontato dai personaggi: si tratta quindi di una drammaticità affidata alla parola più che all’azione, sicché il testo assume più una dimensione narrativa e lirica. Si tratta di un’opera scritta per un divertimento di corte, e all’ambiente cortigiano ammicca continuamente, in quanto dietro ai pastori sono facilmente riconoscibili personaggi della corte ferrarese. Ne nasce una sottile ambiguità: da un lato l’opera si propone di idealizzare e celebrare la vita di corte, dall’altro rivela una profonda insofferenza per i suoi rituali, le sue ipocrisie e convenzioni, i suoi sordi conflitti interni, le gelosie, le invidie, i rancori, insofferenza che si traduce in un bisogno di vita semplice, di sentimenti e comportamenti spontanei a contatto e in armonia con la natura, in un bisogno di evasione in un mondo di favola, fuori della realtà e della storia. Vi si coglie cioè quell’atteggiamento ambivalente verso la corte che era proprio dell’anima tormentata e intimamente conflittuale del poeta. Affiora in Tasso una componente edonistica, voluttuosa e paganeggiante, che collega ancora il poeta al clima del pieno Rinascimento, ma che si accompagna a un senso doloroso di impossibilità e di irraggiungibilità, alla consapevolezza di una perdita irreparabile del libero godimento. Lo stile adottato dal poeta è volutamente semplice, percorso da una vena melodica scorrevole e un po’ facile, che dissimula però un sapiente gioco letterario nella costruzione del verso, nel ritmo degli accenti, nell’uso delle immagini.
Negli anni ferraresi Tasso si rivolge anche al genere drammatico per eccellenza: la tragedia. Nel 73-74 inizia una tragedia intitolata Galealto re di Norvegia, ma la lascia interrotta; dopo la liberazione da Sant’Anna la riprende e la conclude, cambiando il nome dei personaggi e dandole un nuovo titolo, Re Torrismondo. Il testo mira a riprodurre gli schemi della tragedia classica, obbedendo puntualmente ai precetti di Aristotele, ma risente particolarmente del clima della tragedia senechiana diffuso nel secondo Cinquecento, il gusto per una materia torbida e cupa, sconvolta da passioni e di feroce e barbarica violenza. Se l’Aminta rappresentava il vagheggiamento dell’illusione giovanile d’amore, il Torrismondo segna il crollare di quell’illusione, la vanità d’ogni speranza di fronte alla morte e al nulla. E se nella favola pastorale il linguaggio fluiva con musicale scorrevolezza, qui prevale una lingua rotta e scabra, tutta punteggiata da esclamazioni e interrogazioni.
La Gerusalemme liberata
Genesi, composizione e prime edizioni
La prima idea di comporre un poema epico sulla liberazione del Santo Sepolcro era venuta a Tasso nel 1559, quando aveva solo quindici anni; fra il 1159 e il 1561 aveva composto le 116 ottave del Gierusalemme, in cui era descritto con slancio baldanzoso l’arrivo dei crociati in vista della città. L’ispirazione era però venuta ben presto a mancare, e il giovanissimo poeta aveva abbandonato l’impresa. Tasso tornò al progetto tra il 1565 e il 1566, dopo l’arrivo a Ferrara. Dopo un’interruzione il lavoro riprese nel ’70 e fu portato a termine nell’aprile nel ’75.
Durante la prigionia del poeta a Sant’Anna circolavano copie manoscritte dell’opera: da una di esse nel 1580 fu tratta un’edizione non autorizzata dall’autore, che comprendeva solo i primi 14 canti e recava il titolo di Goffredo. In risposta a questa edizione scorretta Tasso decise di dare alle stampe integralmente il poema, che uscì a Ferrara col titolo di Gerusalemme liberata. Più tardi, nel 1584, Scipione Gonzaga, letterato amico di Tasso, approntò una nuova edizione, che appare diversa dalla precedente per alcuni interventi di censura, operati sia dal curatore sia dall’autore stesso.
La poetica
Formatosi in un’età in cui dominava una concezione normativa e precettistica della letteratura e si affermavano rigide codificazioni, Tasso accompagnò costantemente la creazione poetica con la riflessione teorica. Fin dal 1565 aveva elaborato tre Discorsi dell’arte poetica e in particolare del poema eroico,e li aveva poi letti pubblicamente nell’Accademia Ferrarese.
Possiamo formulare l’ipotesi che tra teoria e realizzazione poetica vi sia stato un rapporto di reciproca interferenza, di mutuo scambio, per cui la creazione abbia contribuito all’arricchimento della teoria,e viceversa la teoria abbia stimolato e illuminato la creazione. Più tardi poi Tasso riprese questi discorsi, rimaneggiandoli e ampliandoli con una maggior peso di dottrina aristotelica, e li pubblicò nel 1594 come Discorsi del poema eroico. A parte la maggiore ampiezza e differenza particolari, al tesi di fondo tuttavia non mutano sostanzialmente.
Nelle sue teorizzazioni Tasso si preoccupa di delineare l’immagine di un poema “eroico”, che si uniformi ai canoni della precettistica contemporanea e diverga dal modello cavalleresco di Ariosto, ritenuto troppo libero e irregolare. Partendo da Aristotele, come è d’obbligo, Tasso afferma che mentre la storiografia tratta dal vero, di ciò che è realmente avvenuto, al poesia tratta dal verisimile, di ciò che avrebbe potuto avvenire. Il poema epico, per ottenere l’effetto del verisimile, deve trarre materia dalla storia, al sola che può dare la necessaria autorità a ciò che viene narrato,ma deve riservarsi un immagine di finzione. Perciò non deve assumere una materia troppo vicina, che impedirebbe l’intervento creativo de poeta, e neppure una materia troppo remota, che risulterebbe estranea al lettore. Le teorie contemporanee assegnavano alla poesia compiti morali e pedagogici. Tasso però riconosce che la poesia non può essere separata da diletto, come affermavano le poetiche edonistiche del pieno Rinascimento. Per conciliare l’antitesi, afferma che il diletto deve esser finalizzato al giovamento: le bellezze poetiche devono rendere gradevole al lettore l’astratta e arida materia morale e religiosa. Il diletto è assicurato dal meraviglioso. Tasso respinge il meraviglioso fiabesco e fantastico del romanzo cavalleresco, poiché comprometterebbe irreparabilmente il verisimile, mentre il meraviglioso del poema eroico col verisimile deve potersi conciliare perfettamente. La soluzione proposta da Tasso è il meraviglioso cristiano: gli interventi soprannaturali di Dio, degli angeli, ma anche delle potenze infernali, che appaiono verisimili al lettore in quanto fanno parte delle verità della fede.
Tasso affronta poi il problema della costruzione formale del poema eroico. Respinge anche per questo aspetto il modello ariostesco, caratterizzato dalla molteplicità delle azioni tra loro intrecciate, che comprometterebbero il principio irrinunciabile dell’unità dell’opera; d’altro lato però riconosce che la varietà è indispensabile al diletto. Anche in questo caso, dinanzi ad un’antitesi, arriva ad una conciliazione: il poema deve essere vario, deve contenere le realtà più diverse, battaglie, amori, tempeste, ma il tutto deve essere legato in una struttura rigorosamente unitaria.
Infine Tasso tratta il problema dell’elocuzione, dello stile. Dei tre livelli indicati dalla tradizione retorica classica, sublime, mediocre e umile, quello che conviene al poema eroico è senza dubbio quello sublime. Lo stile deve essere splendido. I concetti devono riguardare le cose più grandi, Dio, gli eroi, le gesta straordinarie. Le parole devono essere lontane dall’uso comune, pur senza cadere nell’oscurità. La sintassi avrà lunghi periodi e lunghe frasi che compongono i periodi. Fonte di magnificenza dello stile è anche l’asprezza, ottenuta con spezzature e pause all’interno del verso, enjambements, scontri di consonati e vocali.
L’argomento, il genere e l’organizzazione della materia
La scelta del poema risponde puntualmente ai principi che tasso enuncia nei Discorsi dell’arte poetica. Egli abbandona i temi cavallereschi e romanzeschi adottati da Ariosto e si rivolge ad una materia storica, la sola che possa garantire la verosimiglianza richiesta dalle leggi del poema eroico. L’argomento della prima crociata consente anche di introdurre nel poema un meraviglioso che sia verisimile e credibile, un meraviglioso che proviene dal soprannaturale cristiano. Inoltre è una materia storica abbastanza lontana nel tempo da consentire al poeta un margine di libertà nell’invenzione poetica, ma anche abbastanza vicina da interessare il pubblico moderno. La necessità di una nuova crociata era un motivo era diventato di estrema importanza con l’avanzata dei Turchi nel mediterraneo nel secondo Cinquecento.
La materia trattata da Tasso non è quindi costituita da belle favole collocate in un tempo mitico, in cui il lettore si possa perdere in una deliziosa evasione, ma da una storia vera, seria, che deve stimolare la coscienza cristiana del pubblico dinanzi a problemi di grande urgenza,e, narrando lo scontro tra fedeli e infedeli con la vittoria della croce, spingere l’Occidente cristiano ad una riscossa.
Anziché ai poemi moderni Tasso guarda al modello dei poemi epici classici, l’Iliade, l’Eneide. Come il Tasso stesso lo definisce, il poema eroico è imitazione d’azione illustre, grande e perfette tutta. Il poema abbandona quindi il tono medio del Furioso e punta decisamente verso il sublime, nell’argomento come nello stile, che è lontano da ogni caduta verso il realistico quotidiano e verso il comico così come da ogni mossa colloquiale del linguaggio. Oltre all’intento celebrativo delle idealità religiose, della maestà della Chiesa e dell’eroismo guerriero, il poeta punta scopertamente ad un fine didascalico e pedagogico. Il “dialetto” causato dalla poesia vuole essere finalizzato al “giovamento” morale del lettore. Le bellezze poetiche servono solo ad allettare chi legge e a disporlo ad assimilare agevolmente la lezione morale di cui il testo è veicolo. Questa tensione verso il sublime eroico e questa serietà d’intenti moralistici danno luogo ad una struttura formale molto diversa da quella del “romanzo” cavalleresco. Tasso mira ad una rigorosa unità, secondo i precetti desunti da Aristotele e secondo quanto egli teorizza nei Discorsi. Anche se la materia vuole essere varia, non vi è molteplicità di azioni, ma un’azione unica, costituita dall’assedio di Gerusalemme e dalla conquista del Santo Sepolcro, e vi è un eroe centrale, Goffredo. A lui si affiancano bensì molti altri eroi, che sono spinti da forze centrifughe ad allontanarsi dall’impresa ma Goffredo riesce a contrastare queste tendenze disgregatrici e garantisce l’unità del campo cristiano, e con essa l’unità della struttura del poema. Pertanto quella della Gerusalemme è una struttura chiusa, che ha un principio, un mezzo ed una fine. La narrazione della Gerusalemme è tutta rigorosamente racchiusa entro i suoi termini estremi: tutto quanto precede l’arrivo dei crociati dinnanzi a Gerusalemme non è rilevante per l’azione, e viene evocato solo di scorcio; dopo la conquista del Santo sepolcro l’azione del poema non avrebbe più alcun motivo di continuare.
La visione della realtà e il “bifrontismo” tassesco
Con il suo poema, carico d’intenti pedagogici, edificanti e morali, Tasso si presenta come il perfetto poeta cristiano. Vuol essere il celebratore della maestà della vera religione e delle istituzioni della Chiesa che n’è depositaria, del potere regale assoluto che riceve la sua investitura direttamente da Dio. Questa celebrazione da vita ad una serie di scenografie fastose e magnifiche, permeate da uno spiccato senso coreografico dello spettacolo e del decoro, che è proprio del gusto dell’età controriformistica e che investe sia la sfera della politica e del principe sia quella della religione. Un’analoga scenografica maestosità presentano certe cerimonie liturgiche.
Entro le coordinate della civiltà di corte del tempo si iscrive parimenti il gusto della tecnica e della regola, che domina molte pagine del poema, come ha persuasivamente indicato Getto: la tecnica del governo e della ragion di Stato, i numerosi duelli descritti sulla base di un’attenta conoscenza delle leggi della cavalleria e della scherma, le battaglie rappresentate con la precisione dei trattati di tattica e di strategia negli schieramenti, nei movimenti, nell’uso delle macchine belliche, i discorsi costruiti sull’ossequio più scrupoloso delle norme della retorica.
Vi è insomma nel Tasso una volontà conformistica, di totale adeguazione ai codici dominanti nella sua epoca. E questo non solo a livello dei contenuti affrontati, a anche a quello delle forme: Tasso con la Gerusalemme vuol dare non solo il perfetto poema cristiano secondo i canoni controriformistica, ma anche il perfetto poema epico in obbedienza all’autorità di Aristotele e alle leggi della sua Poetica. Il progetto del poema è un insieme coerente, in cui ogni livello deve corrispondere esattamente a tutti gli altri. Ma la realtà effettiva è qualcosa di ben diverso e di infinitamente più complesso. Si manifesta in primo luogo un’ambivalenza nei confronti della corte, che del discorso poetico della Gerusalemme è il riferimento ideale e il privilegiato ambiente di risonanza. Da una lato Tasso è attratto dalla corte come sede del potere regale, come luogo di magnificenza e di fasto, di pompa e di lusso, il solo che consenta il raggiungimento delle gloria, dove solo può nascere e brillare l’eccellenza poetica; dall’altro lato però prova un’incontenibile insofferenza per tutto quanto in essa vi è di rigido e artificioso, il peso dell’autorità, il rispetto delle gerarchie, i rituali dell’etichetta, gli intrighi, le invidie e i sordi rancori, e si rifugia nel segno idillico di un mondo pastorale remoto dalla storia e conforme solo a natura, libero, semplice e autentico. È il sogno affidato alla favola pastorale dell’Aminta, che ritorna anche all’interno di un’opera appartenente ad un genere così diverso come la Gerusalemme.
In secondo luogo all’intento di costruire un’opera tutta ispirata ad un rigoroso didascalismo moraleggiante, che esalti il sacrificio eroico dei guerrieri tesi al loro santo fine, si contrappone l’attrazione per il voluttuoso, per un amore svincolato da ogni legge morale, ispirato solo ad una ricerca del piacere dei sensi. In altri casi invece l’amore si presenta come sofferenza; è il caso degli amori impossibili e infelici che sono la regola del poema. La sofferenza d’amore è raffigurata coi toni di un morbido patetismo, percorso dalla voluttà delle lacrime e reso dal poeta con musicale abbandono. In entrambi i casi ne nasce una poesia lontanissima da ogni ispirazione eroica e moraleggiante, una poesia fortemente soggettiva ed autobiografica, che vede la forte immedesimazione emotiva del poeta nei suoi personaggi.
La stessa ambivalenza investe il grande tema della guerra, che occupa tanta parte del poema: all’esaltazione della guerra come manifestazione di eroismo e di forza si contrappone una considerazione più grave e dolorosa, che vede nella lotta e nella strage una necessità inevitabile, ma anche qualcosa di atroce e disumano, che genera sofferenza e lutto.
Contraddizioni analoghe si manifestano sull’altro versante fondamentale del poema, quello religioso. Alla celebrazione scenografica della maestà della religione si contrappone una religiosità meno esplicita e più intima, autentica e sofferta, che si manifesta nell’avvertimento della precarietà dell’esistenza e della vanità delle belle apparenze, nel senso della colpa e del peccato, nel bisogno di purificazione interiore. Alla religione fondata su verità razionalmente definite dalla teologia e su riti consacrati si contrappone poi un’attrazione per un sovrannaturale magico e demoniaco, tenebroso e arcano, irrazionale e inquietante, come si coglie nei numerosi episodi in cui intervengono le potenze infernali, di regola in lugubri scenari notturni.
Queste ambivalenze di fondo si manifestano anche a livello formale, e vengono ad incrinare lo stesso modello dle perfetto poema epico conforme alle regole aristoteliche. La sublimità epica è continuamente negata dalle note idilliche, voluttuose e patetiche; la costruzione centripeta è costantemente messa in pericolo da tendenze centrifughe.
La struttura unitaria, percorsa da queste spinte, sembra sempre sul punto di dissolversi e di disperdersi in vari filoni indipendenti, proprio secondo i moduli di quel “romanzo” cavalleresco che Tasso si proponeva di superare.
Sono questi gli atteggiamenti che Caretti ha definito con la fortunata formula del “bifrontismo spirituale”. Si tratta di contraddizioni non solo individuali del poeta, ma proprie di tutta un’epoca e di tutta una civiltà, che sta vivendo un tormentato processo di transizione: in questo Tasso si rivela un interprete sensibilissimo delle tendenze della sua età. Di conseguenza quelle contraddizioni conferiscono alla poesia del Tasso tutta la sua straordinaria profondità e la sua forza di suggestione.
Uno e molteplice nella struttura ideologica della Gerusalemme
Questo bifrontismo tassesco investe la struttura più profonda del poema, lo scontro stesso tra cristiani e pagani. Non si tratta in realtà di uno scontro da due religioni e due culture diverse, come vorrebbe l’impianto intenzionale dell’opera, ma del conflitto tra due codici all’interno della stessa cultura, quella occidentale e cristiana. I pagani infatti sono i portatori di una visione laica, che si rifà ai valori rinascimentali: esaltazione dell’individualismo energico, della forza dell’uomo che è artefice del proprio destino. Al contrario i cristiani sono portatori del codice culturale tipico dell’età della Controriforma: rigida subordinazione di ogni fine individuale al fine religioso. L’antagonista della religione cristiana non è un’altra religione, ma una negazione ad essa interna, l’errore, il male, l’eresia. Contro Dio si colloca Satana. I valori rinascimentali e laici vengono visti come prodotti di forza demoniache, che minacciano di disgregare la salda unità dell’universo cristiano. Tali valori si delineano anche nel campo cristiano: alcuni eroi si sviano dal loro alto compito e perseguono fini di gloria mondana puramente individuale, o ricercano l’amore e il piacere dei sensi. Queste spinte dispersive sono sentite come errori, e sui traviamenti dei “compagni erranti” agisce la forza repressiva dei rappresentanti del codice cristiano.
Cedendo ai loro impulsi, i crociati “erranti” si collocano oggettivamente nel campo della paganità. Nel poema è in atto quindi un triplice scontro, che si svolge su tre piani diversi:
1. Cielo contro inferno
2. Cristiani contro pagani
3. Il capitano contro i compagni erranti
Il rapporto che si insatura tra i vari piani e le varie forze è un processo di riduzione dal molteplice all’uno, dal discorde al concorde, dalla disperazione alla concentrazione.
La contrapposizione molteplice-uno ha radici profonde nel poeta. Si è visto come sincera e convinta sia la sua volontà si conformismo, di adeguazione ai codici politici, religiosi, letterari della sua età, che si fondano appunto sul principio di autorità e di unità che nega ogni devianza e dispersione. Ma sappiamo anche come in lui si contrapponessero forze di segno opposto, centrifughe e anarchiche, insofferenti dell’autorità.
Tasso è in realtà affascinato dalla devianza che si manifesta nelle forme della molteplicità: sente il fascino dei valori rinascimentali, il pluralismo, la tolleranza del diverso, l’edonismo naturalistico, l’individualismo teso alla gloria e all’amore. Si è sempre rilevato come nel poema vi sia un’evidente simpatia per i devianti, per i nemici, per gli sconfitti. L’identificazione emotiva profonda del poeta è con loro, e ciò fa si che i personaggi “devianti” siano anche quelli più felici. Tasso insomma vuole essere il poeta cristiano per eccellenza, cantore della verità della fede che deve trionfare in tutto il mondo, ma sente l’attrazione per ciò che è fuori dall’universo totalizzante della Controriforma, ed in esso proietta tutti quei valori della civiltà rinascimentale che la nuova civiltà stava cancellando.
Prendendo le distanze rispetto a valori presentati come negativi e condannabili, il poeta può farli passare nel testo e proporli segretamente alla solidarietà del lettore. La negazione del diverso è in realtà la sua affermazione, l’unico modo per consentire ad esso legittima cittadinanza nella sua poesia. Nella Gerusalemme non vi è mai equilibrio ma conflitto sempre aperto. La Gerusalemme non è il poema dell’armonia ma della divisione, della lacerazione: e proprio in questa dinamica perenne consiste il suo fascino.
La struttura narrativa
La struttura narrativa del poema è omologa a questa struttura ideologica: anche a livello formale vi è una perenne tensione tra molteplicità e unità. Tasso aspira costruire un’azione rigorosamente unitaria, concentrata intorno all’impresa dei crociati e alla figura di Goffredo; ma in realtà dalla linea centrale divergono molti altri fili narrativi, che fanno capo ai vari eroi sia cristiani che pagani, soggetti di azioni fortemente individualizzate, che assumono una spiccata autonomia narrativa. Come il poeta sente il fascino dei valori opposti del pluralismo così, pur vagheggiando una fedeltà assoluta ai canoni aristotelici, sente il fascino della molteplicità e della dispersione romanzesca. Tuttavia come Goffredo contrasta le forze dispersive e riesce a ricondurre i compagni erranti al proprio dovere, così il poeta riesce a contenere le spinte disgregatrici entro la struttura unitaria.
Il “bifrontismo” che è proprio della struttura ideologica del poema e della sua struttura narrativa si manifesta anche nell’organizzazione del punto di vista da cui la narrazione è condotta. Poiché il poema vuole celebrare il trionfo della religione cristiana sul mondo pagano ci si aspetterebbe un punto di vista unico, fisso sui crociati. Invece non è così: il punto di vista della narrazione è continuamente mobile, e si colloca alternativamente nel campo cristiano e in quello pagano. Questo scambio di prospettiva si verifica costantemente nel poema. Inoltre ad essere presentati dall’interno non sono solo gli eroi cristiani, ma anche quelli pagani. Se i pagani fossero presentati solo dall’esterno, dalla prospettiva dei cristiani, la loro statura di personaggi risulterebbe ridotta ed essi rimarrebbero nei limiti di figure del tutto secondarie e subordinate. Invece anche i pagani sono contrassegnati da una profonda psicologia, che conferisce loro alta dignità narrativa.
L’alternanza dei punti di vista conferma, sul piano delle tecniche narrative, che il dominio del codice controriformistica nel poema non è assoluto, e che trovano spazio istanze ad esso contrarie. Il privilegio della “focalizzazione interna” ai personaggi pagani traduce perfettamente, in termini di costruzione narrativa, quella “simpatia” per i nemici e gli sconfitti che la critica ha sempre riconosciuto nel poema.
Il bifrontismo si riflette ancora nella struttura spaziale del racconto. L’organizzazione dello spazio in un’opera letteraria è estremamente significativa poiché riflette la concezione del mondo del poeta. Nella Gerusalemme si intersecano uno spazio orizzontale, teatro dello scontro tra cristiani e pagani, e uno spazio verticale, a suo volta diviso in due piani contrapposti, il cielo e l’inferno. Si ripropone quindi nuovamente, nel poema tassesco, la dimensione del trascendente, e vi assume un ruolo determinante in coerenza con la religiosità controriformistica che lo pervade. Lo spazio orizzontale è lo spazio della terrestrità, dle multiforme, dello scatenarsi delle forze centrifughe del desiderio. La prospettiva verticale che è propria del cristianesimo vale a svalutarne il significato.
Lo spazio verticale è fortemente polarizzato, secondo un’opposizione di valore: cielo e inferno, bene e male,autorità di Dio ordinatrice dell’universo e pluralità immonda delle forze demoniache. Lo spazio orizzontale è ugualmente polarizzato, tra Gerusalemme, sede dei pagani, e il campo dei crociati che la fronteggia ed anche qui l’opposizione spaziale traduce in termini sensibili l’opposizione di valori, tra bene e male, molteplice e uno.
Lo spazio terrestre è anche uno spazio limitato quantitativamente: la breve estensione spaziale in cui si collocano la città assediata e l’accampamento crociato è il centro dell’azione, in cui si svolge la parte preponderante degli avvenimenti narrati. Lo spazio ristretto è la proiezione delle aspirazioni del poeta alla rigorosa unità epica; ma sappiamo che a tale tendenza si oppongono forze centrifughe: ed esse naturalmente vengono a collocarsi in spazi eccentrici rispetto al teatro principale dell’azione. I luoghi centrifughi sono quelli verso cui si dirigono i personaggi che, spinti dalla forza del desiderio individuale, si allontanano dal centro della guerra.
Alla fondamentale unità spaziale si affianca la linearità di quella temporale. Non si ha più nella Gerusalemme il tempo sinuoso del poema ariostesco, determinato dalla pluralità delle azioni che costringevano il narratore a continui salti nel tempo, per tornare indietro a riprendere vicende svolgentisi contemporaneamente. Anche lo sviluppo temporale nella Gerusalemme è unitario, teso tra l’inizio e la fine. Vi si inseriscono solo brevi flash-back, per informare sulle vicende degli eroi che si sono allontanati dal campo.
La lingua e lo stile
Nelle scelte linguistiche messe in atto nel poema Tasso applica fedelmente i principi da lui enunciati nei Discorsi del poema epico: nel tessuto poetico si ravvisa quindi costantemente una tensione verso il grande, il magnifico, il sublime.
Il livello stilistico riflette direttamente questa onnipresente ambiguità, questo “bifrontismo” . al magnifico e al sublime si contrappone la ricerca di una suggestività indefinita, che si avvolge in morbide cadenze musicali e si armonizza con le tendenze voluttuose e patetiche.
Il prevalere del sentimento sulla chiara e distinta visione degli oggetti si esprime nell’uso sovrabbondante degli aggettivi, che quasi mettono in ombra i sostantivi a cui si accompagnano. Inoltre i frequenti enjambements non solo valgono a creare un effetto di magnificenza e sublimità, ma possono anche assumere un valore lirico. La stessa funzione assumono i versi spezzati da pause forti, che esprimono il pathos, l’intensa partecipazione emotiva del poeta alle passioni e alla sofferenze di suoi personaggi, e la sua visione tragica della condizione umana.
Il modello linguistico tassiano viene così a infrangere il modello petrarchesco, che il classicismo rinascimentale aveva profondamente assimilato. All’equilibrio armonico di Petrarca, fondato su simmetriche architetture di parole e di immagini, e alla levigatezza quasi astratta dei suoi materiali verbali, Tasso contrappone un modello nuovo, uno stile percorso da tensioni interne.
Secondo il gusto del tempo Tasso non evita però di impiegare artifici come il “concettismo”, che è un procedimento poetico consistente nell’istituire un contrasto forzato tra il livello metaforico e quello letterale, al fine di stupire il lettore.
La revisione del poema e la Gerusalemme conquistata
Appena terminata la stesura del poema, Tasso cominciò a preoccuparsi della sua revisione, al fine di renderlo perfettamente conforme ai principi di poetica e al clima religioso dominanti in quegli anni.
Il lavoro di revisione proseguì accanitamente negli anni successivi ed approdò ad una stesura del poema completamente diversa, che fu intitolata Gerusalemme conquistata. Il numero dei canti fu portato da 20 a 24, in ossequio al modello dell’Iliade di Omero; ma soprattutto il poema venne totalmente uniformato ai principi aristotelici e al moralismo controriformistica. Furono soppressi episodi che sembravano poter attentare alla rigorosa unità; furono eliminati tutti gli spunti erotici e voluttuosi; viceversa furono accentuati i toni eroici e sublimi e gli aspetti pomposi e celebrativi della materia religiosa. L’opera fu accompagnata da una visione dei giovanili Discorsi dell’arte poetica, che furono ampliati a sei libri e pubblicati nel 1594 come Discorso del poema eroico. Dopo un lavoro tormentato e affannoso Tasso era convinto di aver finalmente raggiunto una perfetta coerenza tra teoria poetica e realizzazione pratica, e sperava che la sua fama sarebbe stata consacrata senza più alcun contrasto dalla sua nuova stesura.
I Dialoghi
Soprattutto negli anni della prigionia in Sant’Anna Tasso si dedicò alla stesura dei dialoghi in prosa, un tipo di componimento che gli stesso definiva intermedio tra poesia e filosofia.
Gli argomenti trattati oscillano tra il carattere moralistico e quello mondano: il gioco, il piacere onesto,le maschere, la precedenza, la nobiltà , la corte, l’amore, la bellezza, la virtù. Numerosi spunti sono strettamente in rapporto con motivi culturali della Controriforma e dell’imminente Barocco.
Lo spunto filosofico subisce una complessa elaborazione teorica, sorretta da una fitta rete di riferimenti culturali e di citazioni letterarie, che spesso danno origine ad un’espressione artificiosa e sovraccarica.
I più famosi dialoghi sono Il messaggero e Il padre di famiglia. Nel primo uno “spirito familiare”, che a Tasso sembrava venisse a visitarlo in carcere, gli spiega quale sia la scala degli esseri da Dio all’uomo; il secondo è intorno al governo della casa e al modo di conservare le ricchezze.
BAROCCO
In paesi come la Spagna e l’Italia, in cui la profondità della crisi latente non può esprimersi a causa dell’azione energicamente conservatrice messa in atto dalla Controriforma, le esigenze di rinnovamento si esprimono indirettamente attraverso una profonda trasformazione della sensibilità e del gusto, che va sotto il nome della tendenza artistica e letteraria destinata a caratterizzare il secolo: il Barocco.
L’origine del termine, secondo alcuni studiosi, deriverebbe dal portoghese “barocco”, indicante una perla irregolare, non sferica. Secondo altri l’origine va ricercata nel termine “barocco”, usato nella filosofia scolastica per indicare un tipo particolare di sillogismo apparentemente corretto ma privo di contenuto. Il termine “barocco” iniziò a essere riferito all’arte e alla sensibilità del Seicento soltanto un secolo più tardi, con evidente intento polemico, per metter in evidenza il suo amore per la bizzarria, per l’irregolarità per la sua intrinseca superficialità e debolezza.
All’opposto dell’età rinascimentale, l’età barocca scopre nel disegno ordinato della natura l’anomalia, l’eccezione, e su di essa concentra la sua attenzione; di tutti i procedimenti presenti nel sistema apparentemente solidissimo della logica fondata da Aristotele il nuovo secolo porta in evidenza un esempio di procedimento difettoso, ma proprio per la sua ambiguità, affascinante.
In un mondo che si rivela ogni giorno diverso da come una tradizione millenaria l’aveva presentato non è strano che l’intero sistema conoscitivo entri in crisi e il vuoto venga colmato dalla ricerca e dalla sperimentazione, in un clima di riflessione e di dubbio che stimola la riflessione critica e cerca nuove basi per nuove certezze individuali e collettive.
Il Barocco letterario nasce e si definisce come consapevole e volontaria rottura con quegli ideali di equilibrio e di composizione delle tensione che la realtà generale del mondo rende sempre meno credibili e praticabili. Al novità dirompente è l’emergere della volontà di liberarsi dell’insieme delle regole, basate su una lettura prescrittivi della Poetica di Aristotele elaborate a metà secolo precedente e fino a quel momento rispettate, anche se snaturate di fatto, dai manieristi. Preceduta e preparata dalle polemiche su Ariosto e Tasso, la polemica degli scrittori innovativi si rivolge contro l’immobilismo del modello sancito dal principio di autorità, in nome dei diritti della modernità.
ARCADIA
Nel momento in cui (1703) Muratori propone la costituzione di un’accademia nazionale che unisca e coordini gli sforzi innovativi degli intellettuali italiani, egli ha ben presente l’esperienza avviata nel 1690 con la fondazione dell’Accademia d’Arcadia, di cui Muratori appunto è socio.
Il nome prescelto per il sodalizio rinvia al mondo fittizio della poesia pastorale, o “bucolica”, secondo la terminologia greca. Il carattere d’evasione attribuito dall’Accademia all’attività poetica non potrebbe essere più chiaro e costituirà titolo di infamia per i letterati più accesamente innovatori del secondo Settecento, in cui l’esigenza del Rinnovamento assume toni sempre più perentori e suggerisce la scelta di temi di ben più scottante attualità e portata civile; ne è tenuto nascosto il carattere ufficiale e filoclericale dell’organizzazione. Ciascun accademico assumeva il nome d’un pastore della letteratura bucolica greco-latina, il presidente era “custode” e la sala di riunione il “Bosco Paraisio”; come protettore è scelto il Bambin Gesù adorato dai pastori. Tutto ciò indica la volontà di “separatezza” e d’autonomia “professionale” di questi letterati. Li accomuna l’adesione ad un programma ideologico minimo: la restaurazione del “buon gusto”, la messa al bando del “disordine” seicentesco, degli eccessi personali del “cattivo gusto” barocco. Programma più negativo che positivo. Ma la natura ideologica della proposta moralizzatrice, grazie alla vaghezza e all’indecisione teorica della soluzione, suscitò immediati e vasti consensi alle iniziative in tutta la penisola e l’Accademia d’Arcadia raccolse l’adesione di tutti i più significativi poeti del tempo.

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