Machiavelli: vita e opera

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Testo

Niccolò Machiavelli
(Firenze 1469-1527)
La vita
Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 da una famiglia borghese di modesta agiatezza e di buone tradizioni culturali. Ebbe un’educazione umanistica, basata sui classici latini, ma non apprese il greco. Una copia di suo pugno del De rerum natura di Lucrezio testimonia il suo interesse per una cultura materialistica ed epicurea: sin dagli anni giovanili si coglie perciò il suo indirizzo fortemente laico, che resterà a connotare il suo pensiero in tutta la sua opera.
Nel Febbraio del 1498 concorse alla segreteria della seconda cancelleria del Comune, ma fu superato dal candidato del partito savonaroliano. Poté ottenere la carica solo dopo la caduta del frate, nel giugno di quell’anno; e nel luglio divenne anche segretario di un’altra magistratura. I suoi incarichi gli conferivano grandi responsabilità nel campo della politica interna, estera e militare della Repubblica. Era anche il collaboratore di fiducia del gonfaloniere a vita Pier Soderini. Gli anni della segreteria gli consentirono di accumulare un’esperienza diretta della realtà politica e militare del tempo, da cui egli poté trarre lo spunto per le riflessioni, le teorie, le analisi trasferite poi nelle sue opere.
Nel giugno del 1502 compì una missione presso Cesare Borgia, il duca Valentino, e restò molto colpito dalla sua figura di politico audace e spregiudicato, che aspirava a costruirsi un vasto Stato nell’Italia centrale, sino a dominare la stessa Toscana. La figura del Valentino viene assunta come esempio della “virtù” che deve possedere un principe nuovo, che voglia costruire una forte compagine statale, capace di opporsi alla crisi che stava travolgendo l’Italia. Successivamente fu di nuovo presso Cesare Borgia in Romagna: si trovava a Senigaglia quando il Borgia attirò astutamente in un agguato e fece sterminare i partecipanti ad una congiura ordita contro di lui da vari di questi signorotti: la freddezza e la decisione spietata del personaggio compirono di nuovo fortemente Machiavelli, che del fatto stese una relazione.
Nel frattempo maturarono in lui le teorie, poi sostenute nel Principe e nell’Arte della guerra, sulla necessità di evitare le infide milizie mercenarie e di creare un esercito permanente, alle dirette dipendenze dello Stato, composto non di soldati di ventura ma di cittadini in armi.
Nel settembre 1511 si profila inevitabilmente lo scontro tra la Francia, di cui Firenze era alleata, e la Lega Santa capeggiata dal papa; con la battaglia di Ravenna (1512) i Francesi sono sconfitti dagli spagnoli, ed anche le truppe fiorentine sono battute dalle milizie pontificie e spagnole a Prato: la Repubblica cade, i Medici tornano a Firenze e Machiavelli viene licenziato da tutti i suoi incarichi. L’esclusione dalla vita politica fu per lui un colpo durissimo; si ritirò, in una sorta d’esilio forzato, nel suo podere dell’Albergaccio. Lì, nell’inattività a cui era costretto, si dedicò agli studi, tenendo però i contatti con la vita politica attraverso la corrispondenza con Francesco Vettori, ambasciatore a Roma.
La lontananza dalla vita politica era però per lui intollerabile, quindi cercò un riavvicinamento ai Medici, al fine di riottenere qualche incarico. Con quest’intento il Principe fu dedicato nel 1516 a Lorenzo de’Medici, a cui il papa aveva affidato il governo di Firenze. Tuttavia i Medici continuarono a guardarlo con diffidenza. Nel 1519, morto Lorenzo, il governo della città fu assunto dal cardinale Giulio de’Medici, più favorevole a Machiavelli, che vide così rinascere la speranza di un rientro nella vita politica.
Il cardinale gli procurò l’incarico, da parte dello Studio fiorentino, di stendere una storia di Firenze, con adeguato compenso. Nel 1525, Machiavelli offrì le Istorie fiorentine. Nel 1527 i Medici vengono di nuovo scacciati e si ristabilisce la Repubblica: Machiavelli spera di riottenere l’antica segreteria, ma viene guardato con sospetto e ostilità per il suo riavvicinamento alla signoria medicea. La delusione è amara. Ammalatosi all’improvviso, muore nel 1527.
Il Principe
Il 10 dicembre 1513 Machiavelli annunciava all’amico Vettori di aver composto un “opuscolo De Principatibus”.
Per quanto riguarda i rapporti con i Discorsi, si è pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente nel corso del 1513 e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del trattatello, che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza, agganciandosi direttamente ai problemi attuali della situazione italiana. Si è anche cercato di cogliere il punto in cui i Discorsi sarebbero stati interrotti, e lo si è individuato al capitolo XVIII del libro I in cui si parla della decadenza degli Stati e dei mezzi per porvi rimedio: qui può inserirsi appunto la trattazione del Principe, che viene a fornire una soluzione ad una simile situazione attraverso la sua straordinaria virtù, che può dar forma ad uno Stato nuovo. Come apprendiamo sempre della lettera citata al Vettori, in un primo momento Machiavelli intendeva dedicare il trattato a Giuliano de’Medici, figlio del Magnifico; può tardi invece la dedica fu indirizzata a Lorenzo. La dedica sembra testimoniare la volontà da parte dello scrittore di cercare un avvicinamento ai Medici e di offrire la collaborazione in un momento in cui la famiglia aveva conquistato una posizione di grande potere e mirava a costruire un forte dominio nell’Italia centrale.
Pur essendo un’opera rivoluzionaria nell’impostazione del pensiero, il Principe si può collegare ad una precedente tradizione di trattatistica politica. Già nel Medio Evo erano diffusi trattati intesi a tracciare il modello del principe e ad indicare le virtù che egli doveva possedere. Venivano chiamati specula principis, perché dovevano fornirgli lo “specchio” in cui riflettersi e conoscersi, apprendendo quali dovevano essere i suoi comportamenti.
Se da un lato il Principe di Machiavelli si riallaccia a questa tradizione, dall’altro però la rovescia radicalmente: mentre tutti questi trattati mirano a fornire un’immagine ideale ed esemplare del regnante, consigliandoli di praticare tutte le più lodevoli virtù, la clemenza, la mitezza, la giustizia, la liberalità, la fedeltà della parola data, la magnificenza, Machiavelli propone al principe quei mezzi che possono consentirgli effettivamente la conquista e il mantenimento dello Stato, e, con coraggiosa spregiudicatezza, arriva a consigliargli d’essere anche non buono, crudele, mentitore, dissimulatore, quando le esigenze dello Stato lo impongano.
Il Principe è un’operetta molto breve, scritta in forma concisa e incalzante, ma densissima di pensiero. Si articola in 26 capitoli, di lunghezza variabile, che recano dei titoli in latino, secondo la consuetudine trattatistica dell’epoca. La materia è divisa in diverse sezioni. I capitoli I-XI esaminano i vari tipi di principato e mirano ad individuare i mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo, conferendogli forza e stabilità. I capitoli XII-XIV sono dedicati al problema delle milizie. Machiavelli giudica negativamente l’uso degli eserciti mercenari, abituale nell’Italia del tempo, perché essi, combattendo solo per denaro, sono infidi e pertanto costituiscono una delle cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte da essi subite nelle recenti guerre; di conseguenza, per lui, la forza di uno Stato consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie, su un esercito composto dagli stessi cittadini in armi, che combattono per difendere i loro averi e la loro vita stessa. I capitoli XV-XXIII trattano dei modi di comportarsi del principe con i sudditi e con gli amici.
Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi italiani, nella crisi successiva al 1494, hanno perso i loro Stati. La causa per lo scrittore è essenzialmente l’“ignavia” dei principi, che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si preparava e porvi i necessari ripari. Di qui scaturisce naturalmente l’argomento del capitolo XXV, il rapporto tra virtù e fortuna, paragonata ad un fiume in piena che quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati. L’ultimo capitolo, il XXVI, è invece un’appassionata esortazione ad un principe nuovo, accorto ed energico, che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare l’Italia dai “barbari”.
I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Il nucleo originario dell’opera dovette essere costituito dalle carte “liviane”, cioè dagli appunti a cui Machiavelli affidava le riflessioni politiche suggeritegli dalla lettura dei primi dieci libri della Storia di Livio, in cui si tratta principalmente degli inizi della Roma repubblicana. Tra il 1517 e il 1518 lo scrittore riprese e rifuse quelle annotazioni, e vi antepose alcuni capitoli scritti precedentemente sulle repubbliche; ne risultarono i Discorsi.
L’opera fu divisa in tre libri, ciascuno ordinato intorno ad una precisa tematica: nel primo si tratta delle iniziative di politica interna di Roma, intraprese per deliberazione pubblica; nel secondo delle iniziative di politica estera e dell’espansione dell’Impero; nel terzo delle azioni di singoli cittadini, che contribuirono alla grandezza di Roma.
Il libro si presenta come una serie di riflessioni su singoli temi, suggeriti via via dal racconto di Livio, senza una rigorosa architettura generale. È quindi un’opera che appare, dall’esterno, profondamente diversa dal Principe: tanto questo è conciso, teso, incalzante, altrettanto i Discorsi si abbandonano alla riflessione, si direbbe divagante e diffusa. Se nel Principe Machiavelli affronta la forma di governo monarchica ed assoluta, e celebra la “virtù” del principe, nei Discorsi lascia trasparire chiaramente forti simpatie repubblicane, ed indica la repubblica come la forma più alta e preferibile d’organizzazione dello Stato.
L’orientamento di fondo di Machiavelli è certamente repubblicano, come è inevitabile data la sua formazione e la lunga esperienza politica nella Repubblica fiorentina; ma il Principe è scritto sotto l’urgenza immediata di una situazione gravissima, a cui era indispensabile porre rimedio, la catastrofica crisi italiana che minacciava l’integrità e la stessa indipendenza degli Stati della penisola: allo scrittore sembrava necessaria la costruzione di uno Stato abbastanza forte da opporsi all’espansione delle grandi potenze europee che si stavano contendendo l’Italia.
Le contraddizioni tra le due opere sono dunque più apparenti che reali, e sono il frutto della loro diversa destinazione: il Principe ha il carattere dell’opera militante, destinata ad incidere direttamente nello scenario politico, a fornire strumenti concreti e immediatamente applicabili a chi vi opera, mentre i Discorsi hanno più il carattere di riflessione teorica generale, meno rispondente ad esigenze contingenti.
Il pensiero politico
Teoria e prassi
Le concezioni di Machiavelli scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica, in cui egli è impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella repubblica fiorentina, e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà, modificandola secondo determinate prospettive. Il suo pensiero si presenta così come una stretta fusione di teoria e prassi: la teoria nasce dalla prassi e tende a risolversi in essa. Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli vi è la coscienza che l’Italia contemporanea sta attraversando: una crisi politica; una crisi militare; ma anche una crisi morale.
Per Machiavelli l’unica via d’uscita da una così straordinaria “gravità de’tempi” è un principe dalla straordinaria “virtù”, capace di organizzare le energie che potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche degli Stati vicini. A quest’obiettivo storicamente concreto è indirizzata tutta la teorizzazione politica di Machiavelli, la quale perciò si riempie del calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento decisivo della storia del proprio paese.
Machiavelli elabora una teoria che aspirava ad avere una portata universale, a fondarsi su leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi. Le radici pratiche immediate danno al suo pensiero quel calore, quella passione che lo rendono affascinante e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario, ma poi la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica.
Il metodo della scienza politica
Machiavelli è stato indicato come il fondatore della moderna scienza politica. La teoria politica del Medio Evo era subordinata all’etica, nel senso che il giudizio sull’operato di un politico era soggetto al criterio del bene o del male. Machiavelli rivendica invece vigorosamente l’autonomia del campo dell’azione politica: essa possiede delle proprie leggi specifiche, e l’agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in base a tali leggi: occorre cioè, nell’analisi dell’operato di un principe, valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere propri della politica, rafforzare e mantenere lo Stato, garantire il bene dei cittadini.
Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica, non di delineare degli Stati ideali.
Oltre al campo autonomo su cui si applica la nuova scienza, Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha il suo principio fondamentale nell’aderenza alla “verità effettuale”, come si è appena sentito, Machiavelli, proprio perché vuole agire sulla realtà, ne deve tenere conto, quindi per ogni costruzione teorica parte sempre dall’indagine sulla realtà concreta, empiricamente verificabile, mai da assiomi universali e astratti. Solo mettendo insieme tutte le varie esperienze si può giungere a costruire principi generali. Se ne potrebbe ricavare l’idea che il pensiero di Machiavelli sia tutto deduttivo, cioè sia ricavato per deduzione da principi primi universali e indimostrati. Ma è un’impressione erronea: in realtà dietro ognuna di quelle massime così perentorie è accumulata una massa enorme di dati ricavati dall’esperienza.
L’esperienza per Machiavelli può essere di due tipi: quella diretta, ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti, e quella ricavata dalla lettura degli autori antichi.
Alla base di questo modo di accostarsi alla storia vi è na concezione tipicamente naturalistica: Machiavelli è convinto che l’uomo sia un fenomeno di natura al pari di altri, e che quindi i suoi comportamenti non varino nel tempo, come non variano il corso del sole e delle stelle o i cicli delle stagioni. Per lui gli uomini “camminano sempre per vie battute da altri”, perciò propone il principio tipicamente rinascimentale dell’imitazione. Auspica che gli uomini di oggi guardino ai grandi esempi, li prendano a modello e si sforzino di riprodurli. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di Machiavelli in una teoria razionale dell’agire politico, che sappia individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente, e quindi sappia suggerire le sicure linee di condotta allo statista.
Le leggi dell’agire politico
Punto di partenza per la formulazione di tali leggi è una visione crudamente pessimistica dell’uomo come essere morale. Gli uomini per Machiavelli sono malvagi: egli non ne teorizza filosoficamente le cause, non indaga se lo siano per natura o in conseguenza di una colpa originaria da essi commessa, si limita a constatarne empiricamente gli effetti nella realtà. In un passo famoso del Principe afferma che la molla che li spinge è l’interesse materiale ed egoistico, non sono i valori e i sentimenti disinteressati e nobili.
Le leggi della convivenza umana sono dure e spietate, perciò il principe non può seguire sempre l’ideale e la virtù: deve sapere anche essere “non buono”, dove lo richiedano le esigenze dello Stato, deve essere umano oppure feroce come una bestia, a seconda delle circostanze: per questo Machiavelli propone per il politico l’immagine del centauro, che è appunto mezzo uomo e mezza bestia.
In Machiavelli c’è un profondo, sofferto travaglio morale. Egli sa bene che certi comportamenti del principe, come venir meno alla parola data o uccidere senza pietà i nemici, sono atti riprovevoli, ripugnati moralmente. Ma ha il coraggio di andare sino in fondo nella sua distinzione del giudizio politico da quella morale: questi comportamenti, che sono “malvagi” secondo la morale, sono “buoni”, cioè efficaci e produttivi, in politica, perché assicurano il bene dello Stato, e con esso anche il bene dei cittadini. Viceversa altri comportamenti, che sarebbero “buoni” moralmente, risultano “cattivi” in politica, perché indebolirebbero lo Stato e comprometterebbero la sua sicurezza. Machiavelli non vuole giustificare questi comportamenti: il principio basilare del suo pensiero non è “il fine giustifica i mezzi”, perché il verbo “giustificare” introdurrebbe proprio quel criterio morale che Machiavelli vuole escludere dal giudizio politico inteso autonomamente. Machiavelli non “giustifica”, constata solo che certi comportamenti, buoni o cattivi che siano, sono indispensabili per conquistare e mantenere lo Stato. Non solo ma Machiavelli distingue tra “principi” e “tiranni”: principe è chi opera a vantaggio dello Stato, e, se usa metodi riprovevoli, lo fa per il bene pubblico; tiranno è chi è crudele senza necessità, e solo a suo vantaggio.
Lo stato e il bene comune
Solo lo Stato può costituire un rimedio alla malvagità dell’uomo, al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in un caos di spinte individualistiche contrapposte le une alle altre. La durezza e la violenza del principe devono sempre avere per fine questo bene comune, cioè la salvaguardia della convivenza civile dalle spinte bestiali alla disgregazione alla violenza. Per mantenere lo Stato sono indispensabili certe virtù civili, l’amore di patria, l’amore per la libertà, la solidarietà, l’onestà, che costituiscono il cemento del vivere collettivo. Ma per radicare tali virtù sono necessarie precise istituzioni: la religione, le leggi, le milizie. A Machiavelli non interessa, nella prospettiva del discorso politico, la religione nella sua dimensione concettuale, come contenuto di verità, né nella sua dimensione spirituale, come garanzia di salvezza, non solo come instrumentum regni, come strumento di governo. La religione obbliga i cittadini a rispettarsi gli uni con gli altri, a mantenere la parola data. Questa era la funzione rivestita dalla religione dei Romani che indiceva alla forza virile, al coraggio, allo sprezzo del pericolo, quindi era uno dei fondamenti più saldi del vivere civile dell’antica repubblica. In un capitolo famoso dei Discorsi rimprovera invece alla religione cristiana di aver avuto un’influenza negativa, inducendo gli uomini alla mitezza e alla rassegnazione, a svalutare le cose del mondo per guardare solo al cielo. In secondo luogo, in ogni Stato ben ordinato sono le buone leggi il fondamento del vivere civile, perché disciplinano il comportamento dei cittadini, inibiscono i loro istinti bestiali, li indirizzano a fini superiori. Infine le milizie sono il fondamento della forza dello Stato. Esse devono essere composte di cittadini, da un lato perché solo così si possono avere truppe fedeli e valorose, dall’altro perché assumere le armi rinsalda i legami del cittadino con la sua patria, contribuisce a stimolare in lui le virtù civili.
La forma di governo che meglio compendia in sé quest’idea di Stato ordinato e sicuro è quella repubblicana. Il principato è per Machiavelli una forma d’eccezione e transitoria, indispensabile solo in determinate contingenze, come quella che l’Italia sta vivendo, per costruire uno stato sufficientemente saldo.
Virtù e fortuna
Si delineano così due concezioni della “virtù”: la virtù eccezionale del singolo, del politico-eroe, che brilla nei momenti d’eccezionale gravità, e la virtù del buon cittadino, che opera entro stabili istituzioni dello Stato, e che non è meno eroica della prima. Machiavelli ha comunque una visione eroica dell’agire umano. In lui viene a confluire quella fiducia nella forza dell’uomo, che era stato patrimonio della civiltà comunale, ed è stata poi ereditata e consapevolmente teorizzata dalla civiltà umanistica. Ma Machiavelli sa bene che l’uomo nel suo agire ha precisi limiti, e deve fare i conti con una serie di fattori a lui esterni, che non dipendono dalla sua volontà. Questi limiti assumono il volto capriccioso e incostante della fortuna. È questo un altro grande tema della civiltà umanistico – rinascimentale, che fa anch’esso la sua comparsa sin da Boccaccio. Dalla tradizione umanistica Machiavelli eredita la convinzione che l’uomo può fronteggiare vittoriosamente la fortuna. Egli ritiene che essa sia arbitra solo della metà delle cose umane, e lasci regolare l’altra metà agli uomini. Vi sono per Machiavelli vari modi in cui l’uomo può contrapporsi con felice esito alla fortuna. In primo luogo essa può costituire l’“occasione” del suo agire, la “materia” su cui egli può imprimere la “forma” da lui voluta. La “virtù” del singolo e l’“occasione” s’implicano a vicenda.
In secondo luogo la “virtù” umana s’impone alla fortuna attraverso la capacità di previsione, il calcolo accorto. La “virtù” di cui parla Machiavelli è quindi un complesso di varie qualità: in primo luogo la perfetta conoscenza delle leggi generali dell’agire politico; in secondo luogo la capacità di applicare queste leggi a casi concreti e particolari, prevedendo in base ad esse i comportamenti degli avversari e gli sviluppi delle situazioni: la virtù del politico è quindi una sintesi di doti intellettuali e pratiche, che conferma come nel pensiero Machiavelliano teoria e prassi non vadano mai disgiunte. Ma vi è ancora un terzo modo teorizzato da Machiavelli per opporsi alla fortuna, e quindi un’altra dote che concorre a determinare la “virtù” umana: il “riscontrarsi” con i tempi, cioè la duttilità nell’adattare il proprio comportamento alle varie esigenze oggettive che via via si presentano, alle varie situazioni, ai vari contesti in cui si è obbligati ad operare.
Realismo “scientifico” e utopia poetica
Le idee politiche di Machiavelli si organizzano in un sistema logico e coerente, che possiede i caratteri di un vero e proprio sistema scientifico. Ma si è anche notato che l’origine prima di questo sistema sia l’urgere d’interessi pratici immediati. In lui vi è un impeto eroico che non gli consente di adagiarsi all’inerzia rassegnata, per quanto lucida e consapevole, per cui al calcolo oggettivo si sostituisce lo slancio volontaristico e fideistico. Nella conclusione del Principe alla rigorosa analisi scientifica delle leggi e della politica si sostituisce un atteggiamento profetico e messianico, pervaso da un vibrante accento passionale, che si traduce in un’oratoria veemente e incalzante, e non disdegna di impiegare immagini bibliche e citazioni poetiche.
Machiavelli costruisce le fondamenta teoriche di uno Stato moderno, unito, forte, libero dalle spinte disgregatrici del particolarismo feudale e municipale, basato su istituzioni stabili, su buone leggi, su un esercito regolare e soprattutto sul consenso dei cittadini; ma le condizioni per dare vita a tutto questo in Italia non esistevano più. Ma il pensiero di Machiavelli, se era sfasato rispetto al presente, era in sintonia con il futuro: le sue idee avrebbero, infatti, trovata applicazione fuori d’Italia, in contesti più avanzati, e avrebbero contribuito a creare i fondamenti teorici dei grandi Stati moderni.
Le opere storiche
Nel 1519, riavvicinatosi ai Medici, Machiavelli riceve dallo Studio Fiorentino l’incarico di scrivere una storia di Firenze. Egli vi lavora negli anni successivi e nel maggio 1525 l’opera viene consegnata manoscritta al cardinale Giulio de’Medici, ormai divenuto papa Clementi VII. Reca il titolo d’Istorie fiorentine, è redatta in lingua volgare ed è divisa in otto libri.
Il I libro traccia una sintesi della storia d’Italia dalla caduta dell’Impero romano sino al 1434; i libri II-IV narrano la storia di Firenze sino allo stesso 1434, l’anno in cui Cosimo de’Medici instaura in città la propria signoria; i libri V-VIII si concentrano più minutamente sulla storia di Firenze e dell’Italia dal 1434 alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492.
A Machiavelli non interessa una semplice ricostruzione cronachistica dei fatti, ma la sua narrazione storica è tutta impregnata dei suoi interessi politici. Egli risale al passato, ma guarda al presente, ai suoi problemi e ai suoi conflitti. Vi è quindi uno stretto legame tra l’opera storiografica di Machiavelli e la sua trattatistica propriamente politica: vi ricompare, infatti, la polemica contro i principi italiani, i loro errori e le loro colpe, che hanno portato alla tragica situazione presente.
Machiavelli sa mantenere una sua indipendenza, anche se non calca la mano nelle critiche ai Medici. Per conservare l’indipendenza di giudizio ricorre anche ad un espediente diffuso nella storiografia classica e in quella umanistica, l’inserzione di discorsi fittizi, attribuiti ai personaggi storici del passato: in tal modo può dare la parola anche agli avversari dei Medici e lasciare campo libero a posizioni contrastanti rispetto a quelle ufficiali. Se il giudizio sulla politica fiorentina del passato è duro, l’amarezza dell’autore testimonia quanto egli sia attaccato a quel mondo comunale cittadino; e, come rimedio alla situazione presente, egli prospetta un ritorno a quelle illustri tradizioni.
Machiavelli per tracciare la sua narrazione, si vale delle compilazioni storiche precedenti, senza fare ricerche d’archivio per trovare nuovi documenti; non sottopone le fonti ad un rigoroso vaglio critico, per verificare la loro attendibilità; spesso dà interpretazioni tendenziose e arriva a deformare i fatti per farli collimare con le sue tesi. Sono limiti non solo propri di Machiavelli, ma di tutta la storiografia antica e rinascimentale, che è qualcosa di profondamente diverso dalla storiografia moderna, non è ricostruzione scientifica della fisionomia di epoche passate, ma opera politica o moralistica. Inoltre, sulla scorta dei classici, anche Machiavelli ritiene la storiografia opus oratorium maxime, cioè opera essenzialmente oratoria, un componimento letterario che deve obbedire alle precise leggi retoriche di un genere.
Vita di Castruccio Castracani (1520). Si può considerare come un’esemplificazione delle teorie del Principe, composta sul modello della Vita d’Agatocle (tiranno di Siracusa), narrata da Diodoro Siculo.
Le opere letterarie
Belfagor arcidiavolo. Le doti di narratore di Machiavelli sono testimoniate dalle numerose novellette inserite all’interno delle sue lettere familiari; ma l’unico testo propriamente narrativo che ci è giunto è quello che nel manoscritto reca il titolo di Favola, e che è comunemente noto come Belfagor arcidiavolo. Attraverso lo spunto narrativo del diavolo che prende moglie vengono toccati alcuni motivi tradizionali, come quello misogino della perfidia e della malizia delle donne e quello dell’astuzia dei contadini. Belfagor arcidiavolo è inviato sulla terra per verificare se sia vero che le mogli siano un supplizio più atroce di quelli dell’inferno; si sposa e viene mandato in rovina dalla moglie, che dilapida tutte le sue ricchezze. Perseguitato dai creditori, è salvato da un contadino, che egli inganna; ma il contadino ha infine la meglio sul diavolo, minacciando di farlo tornare nella mani della moglie.
La mandragola. Il testo letterario più importante di Machiavelli è però una commedia, la Mandragola, che è un autentico capolavoro, senz’altro il testo più vivo di tutta la produzione comica cinquecentesca. Fu scritta nel 1518, a poca distanza cronologica dai primi esemplari della commedia classicheggiante, la Cassaria e i Suppositi d’Ariosto; risale quindi al periodo in cui Machiavelli era forzatamente escludo dall’attività politica, e riflette lo stato d’animo risentito e amaro di quegli anni. Fu forse rappresentata nel settembre del medesimo anno per le nozze di Morendo de’ Medici e pubblicata nello stesso 1518, ed ebbe un notevole successo, venendo più volte rappresentata e ristampata in seguito.
L’intreccio che si svolge a Firenze in anni contemporanei, ricalca gli schemi propri del teatro comico del tempo: una vicenda d’amore contrastato, che si risolve felicemente grazie all’intervento di uno scaltro parassita, sul modello della commedia latina, e, intrecciata ad essa, la vicenda di uno sciocco beffati, che risale alla novellistica toscana, in particolare a Boccaccio. È la più importante commedia del 500 per la verità dell’arte e la descrizione della società contemporanea.
La comicità di Machiavelli non è serena e distesa, ma cupa, amara, quasi sinistra. Machiavelli scaglia i suoi corrosivi umori satirici e polemici contro la corruzione e l’amoralità della società contemporanea, dall’altro però, con disincantato realismo, ammira la “virtù” di quei personaggi che con astuzia ed energica decisione, sanno commisurare perfettamente le azioni ai fini.

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