Ludovico Ariosto: appunti su vita e opere

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Testo

LUDOVICO ARIOSTO

LA VITA (1474-1533)
Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia, l ‘8 settembre 1474, dal conte Niccolò (nominato dagli Estensi capitano della rocca di quella città) e da Maria Malaguzzi Valeri. Nel 1848, appena decenne, si trasferi con i suoi genitori a Ferrara, che era allora –per via degli Estensi- un importante centro di cultura e di vita cortigiana .
A Ferrara il giovane Ariosto proseguì nella sua educazione e si indirizzò poi, per volontà del padre, allo studio delle leggi, a cui si dedicò, con sempre più palese insofferenza, per ben cinque anni (1489-1494). Egli stesso ebbe più tardi, in una sua satira, di essere stato costretto ad occuparsi “ cinque anni in quelle ciance”.
Infine, il padre gli concesse di seguire la sua inclinazione e di dedicarsi completamente agli studi letterari, che proseguì poi per vari anni (1494-1499) sotto la guida del dotto umanista Gregorio Elladio da Spoleto, approfondendo specialmente la conoscenza della letteratura latina.
La morte del padre, nel 1550, segnò per Ariosto la fine di un’epoca serena, tutta dedita agli studi e alle attività letterarie. Egli dovette allora abbandonare, almeno in parte, i suoi studi prediletti per far fronte –nella sua qualità di primogenito di ben dieci figli- alle necessità della famiglia, provvedendo alla sistemazione delle sorelle e all’ educazione dei quattro fratelli (dei quali uno , Gabriele, colpito fina da piccolo dalla paralisi, che lo aveva impedito “de li piedi e de le braccia”). Oltre a pensare all’amministrazione dl discreto, ma insufficiente patrimonio paterno, decise pertanto di cercare una dignitosa e stabile occupazione presso gli Estensi; e nel 1502 potè ottenere l’incarico di capitano della rocca di Cannosa (1502-1503).
Nel 1503 Ariosto entrò, come “familiare” (o gentiluomo di corte), al servizio del cardinale Ippolito d’Este, figlio del duca Ercole I. Contemporaneamente prese gli ordini minori, necessari per poter ottenere dei benefici ecclesiastici. Nello stesso anno egli nacque, da una relazione passeggera, il figlio Gian Battista; e alcuni anni più tardi (nel 1509) il prediletto Virginio, che visse poi sempre con lui.
Il cardinale, uomo di natura energica e violenta e poco propenso ad ammirare le opere di poesia, impiegò di frequente Ariosto in fastidiose e pesanti mansioni di carattere pratico, valendosi di lui, in genere, per varie missioni e ambascerie, poco congeniali alla sua indole e al suo desiderio di una vita più raccolta e serena. Lo stesso Ariosto ebbe a ricordare più tardi, in una sua satira, di essersi sentito come oppresso “dal giogo- del Cardinal da Este”, lamentandosi appunto d’essere stato ridotto da poeta a “cavallaro”(“di poeta cavallar mi feo”).
Tra le varie missioni e ambascerie, nelle quali venne assiduamente impegnato il poeta, si può ricordare, per esempio, un viaggio a Roma, nel 1509, quando Ariosto fu inviato in gran fretta presso il papa Giulio II per chiedere soccorsi contro Venezia, che-durante la guerra della “Lega di Cambrai”- minacciava con le armi il territorio ferrarese. In quello stesso anno gli Estensi erano, peraltro, già riusciti a sbaragliare le navi veneziane nello scontro della Polesella, al quale fu presente Ariosto.
Nel 1510, poi, il poeta dovette recarsi ancora Roma presso il papa Giulio II, per tentare di placarne la collera contro gli Estensi, che si erano alleati ai francesi nel conflitto in corso contro lo Stato pontificio. Lo stesso Ariosto riportò in una sua satira, le difficoltà e i pericoli incontrati in questa ambasceria, intrapresa per “placar la grande ira” di Giulio II. Fu proprio in questa occasione, infatti, che dovette rinunciare precipitosamente ad un’udienza per evitare il rischio di essere gettato nel fiume su ordine dello sdegnato pontefice.
Tra le varie incombenze dell’Ariosto, nel suo servizio presso l’Estense si può ricordare ancora un ulteriore viaggio a Roma, nel 1512, quando raggiunse nei pressi della capitale – con una scorta di armati- il duca Alfonso I d’Este, che si era recato dal papa Giulio II per farsi togliere la scomunica (inflittagli a causa dell’alleanza coi francesi nella guerra dell”Lega Santa”), ma era stato costretto ad abbandonare rapidamente la città. Si trattò, anche in questo caso, di un incarico pieno di rischi e di pericoli, conclusosi con un’avventurosa fuga attraverso gli Appennini per sottrarsi al minaccioso sdegno del pontefice.
Nel 1513, salito sul trono pontificio il papa Leone X (che si era mostrato, in più occasioni, benevolo nei confronti del poeta), Ariosto si recò a Roma, per rendere omaggio al pontefice a nome degli Estensi; ma anche con la sottintesa speranza di poter ottenere qualche incarico presso la curia o qualche occupazione comunque più congeniale ai suoi studi e alla sua vocazione poetica. Ma il papa, pur ricevendolo con espressioni di affetto, non gli offrì nulla di concreto, lasciandolo piuttosto deluso. Ariosto stesso ricordò più tardi in una sua satira, con sorridente ironia, l’incontro con Leone X, che gli diede affettuosamente il “santo bacio” su ambedue le gote, ma lasciò il poeta del tutto deluso nelle sue speranze, non trattenendolo neppure la cena (“la notte andai sin a Montone a cena”).
Ritornando a Roma Ariosto si fermò a Firenze, dove-sempre nello stesso anno (1513) –conobbe Alessandra Benucci (moglie del ferrarese Tito Strozzi) che,rimasta vedova due anni dopo, divenne ben presto la fedele ed amata compagna della sua vita. Solo parecchi anni più tardi, peraltro, Ariosto s’indusse al matrimonio (non prima del 1527), che rimase inoltre segreto, perché Benucci non perdesse ‘usufrutto del patrimonio del primo marito.
Nel 1517, quando il cardinale Ippolito dovette recarsi in Ungheria, per raggiungere la sua nuova sede vescovile di Agria, presso Buda, Ariosto (che l’anno prima gli aveva dedicato la prima edizione del suo “Orlando Furioso”) si rifiutò risolutamente di seguirlo nella lontana destinazione, non volendo allontanarsi dalla sua città e dal cerchio dei suoi affetti più vivi (l’amore per la sua donna; l’attaccamento alla vecchia madre, ecc.); e non esitò a licenziarsi e a lasciare, ben dopo quattordici anni, l’ingrato servizio.
L’anno seguente, nel 1518, Ariosto entrò, come gentiluomo di corte, al servizio del duca Alfonso I
D’Este, fratello del cardinale Ippolito. Il nuovo incarico risultò indubbiamente, almeno nei primi anni, meno gravoso per il poeta, che fu costretto solo raramente ad allontanarsi da Ferrara e potè cosi dedicarsi più intensamente ai suoi studi e alle sue opere letterarie (tra cui è da ricordare la seconda edizione dell’”Orlando Furioso”, uscita nel 1521).
Nel 1522, però, Ariosto fu costretto ad accettare la carica di commissario ducale nella Garfagnana, venuta proprio allora in possesso degli Estensi. Recatosi contro voglia in quella regione, a quei tempi particolarmente turbolenta e infestata dai briganti, il poeta prese dimora nella rocca di Castelnuovo, e –pur essendo poco assecondato dal duca, che riluttava ad inviargli forze sufficienti per dominare i banditi e i ribelli – governò molto abilmente e saggiamente, con singolare senso pratico, come si può rilevare dal nutrito carteggio col duca.
Finalmente, nel 1525, dopo tre anni di tale gravoso e impegnativo incarico, veramente poco conforme ai suoi desideri, Ariosto potè lasciare la Garfagnana e ritornare nell’ambiente a lui famigliare della sua Ferrara.
Finalmente, nel 1525, dopo tre anni di tale gravoso e impegnativo incarico, veramente poco conforme ai suoi desideri, Ariosto potè lasciare la Garfagnana e ritornare nell’ambiente a lui famigliare della sua Ferrara.Tornato a Ferrara, potè comperarsi coi suoi risparmi una modesta casetta in contrada Mirasole, sulla cui facciata si poteva leggere la nota iscrizione latina: “Parva, sed apta mihi, sed nulli obnoxia, sed non – sordida;parta meo sed tamen aere domus” ( una casa piccola,ma conforme ai miei gusti, non soggetta ad alcuno, tenuta ben pulita; e comperata con il mio denaro).Qui il poeta- confortato dall’affetto della sua donna e dalla compagnia del figlio Virginio- trascorse serenamente gli ultimi anni della sua vita, dedicandosi con ardore ai suoi studi e proseguendo a correggere, con assidua e incontenibile cura, il suo “Orlando Furioso” (la cui terza edizione uscì nel 1532).In questi ultimi anni Ariosto non si allontanò quasi mai da Ferrara:l’unico viaggio degno di nota fu quello che intraprese nel 1532, quando accompagnò il duca a Mantova per rendere omaggio all’imperatore Carlo V. Tornato a Ferrara, il poeta cadde gravemente ammalato e morì dopo pochi mesi, il 6 luglio 1533, per un’infezione polmonare. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa del monastero di San Benedetto, e più tardi (nel 1801) trasferito, con solenni onoranze, nella Biblioteca Comunale intitolata al suo nome.

LA CULTURA E LA PERSONALITA’ DELL’ARIOSTO

Ariosto fu dotato di una cultura organica e personale; ma, tutto sommato – almeno a prima vista- non molto complessa, né profonda.
Conobbe in modo piuttosto approfondito e studiò poi sempre con appassionato interesse i classici della letteratura latina (Orazio, Virgilio, Ovidio, Catullo, ecc.). Non potè invece dedicarsi_come avrebbe voluto il modello dell’educazione umanistica- allo studio della lingua greca.
Ariosto, scrisse più tardi in una sua satira, il rimpianto per aver dovuto rinunciare ben presto alla conoscenza del greco, in seguito alla partenza del suo maestro Gregorio da Spoleto (chiamato a Milano da Isabella d’Aragona come precettore dl giovane Francesco Sforza, figlio di Gian Galeazzo).
Per passare nell’ambito della nuova cultura volgare è poi da dire che Ariosto ebbe familiari, oltre ai poemi del ciclo carolingio e ai romanzi brettoni, le opere della più recente tradizione della letteratura cavalleresca e in special modo l’”Orlando innamorato” di Boiardo, la cui materia poetica diede certo più di uno spunto alla composizione dell’”Orlando Furioso”.
Tra gli elementi più vivi e più fecondi della cultura ariostesca sono, infine, da porre in particolare rilievo i modelli insuperabili della poesia e dell’arte di Dante e Petrarca, che esercitarono una loro concreta influenza sull’opera dell’Ariosto, particolarmente nel campo della lingua e dello stile.
Come giudizio conclusivo, è da precisare in ogni modo che”Ariosto ebbe una cultura più vasta di quel che si potrebbe pensare: e, soprattutto, egli assimilò veramente gli autori che aveva letti, li trasformò…in vivo possesso del suo spirito”.
Ariosto ebbe un carattere semplice, modesto, e privo di ambizioni, che lo rendeva –come sappiamo – poco propenso alle fastidiose, e a volte non facili incombenze del servizio di corte peraltro sempre assolto con scrupolo e con maturo senso di responsabilità);mentre la sua indole pacata e riflessiva lo portava a desiderare una vita più intima e raccolta, confortata dai sentimenti e dagli affetti famigliare, tutta dedicata agli studi e alle vaghe immaginazioni poetiche.
Come giudizio sintetico, è da rilevare che Ariosto fu uno spirito sostanzialmente sereno ed equilibrato, ricco di umanità e di sentimento, naturalmente predisposto a riconoscere ed ad accogliere in sé gli aspetti più contrastanti della vita con un garbato ed ironico atteggiamento di bonaria saggezza, che nasceva in lui da un profondo e veramente umano senso della realtà.

LE OPERE MINORI
Ariosto, nella sua giovinezza (tra il 1494 e il 1504), compose una serie di eleganti poesie latine. Si tratta di circa settanta liriche (odi, elegie, epigrammi, ecc.), che riecheggiano – con finezza d’arte e vivacità di sentimento- i modelli letterari di Catullo, di Tibullo e di Orazio.
Tra i carmi latini più degni di nota si possono ricordare l’ode “Ad Philoroen” ( scritta probabilmente nel 1494, quando si stava preparando la spedizione di Carlo VIII in Italia), in cui si rivela il temperamento idillico dell’Ariosto e la sua aspirazione alla quiete; l’elegia “ De Diversis amoribus”, in cui il poeta descrive, con l’amabile spunto autobiografico, la propria incostanza d’amore; e il sorridente e pur malinconico “Epitaffio” per sé stesso e per il suo sepolcro.
In linea di massima, peraltro la lirica latina d’ Ariosto, pur notevole per una certa immediatezza e sincerità di sentimenti ( ispirazione sensuale; desiderio di pace e solitudine, ecc.), non supera quasi mai i limiti di un decoroso esercizio letterario, in cui si manifesta l’educazione umanistica del poeta.

LE “RIME”
Ariosto compose anche diverse poesie italiane, che vennero poi raccolte e pubblicate dopo la sua morte. Si tratta di circa novanta liriche ( canzoni, sonetti, capitoli. Ecc) che riecheggiano i temi e le forme della poesia petrarchesca.
La maggior parte di esse cantano – con vivacità di sentimenti- l’amore del poeta per Alessandra Benucci; ma non mancano poesie di diversa intonazione (come, per esempio, le due commoventi canzoni per Filiberta di Savoia, rimasta vedova di Giuliano de’ Medici).
Tra le rime italiane più degne di nota si possono ricordare la conzone “ Non so s’io ben chiudere in rima”, che rievoca il giorno dell’innamoramento per la Benucci, il sonetto “Occhi miei belli, mentre ch’i’ vi miro”, che descrive con efficacia stilistica l’ineffabile dolcezza e gli amari tormenti dell’amore; e il capitolo in terza rima “ Meritamente ora punir mi veggio”(scritto quasi sicuramente nel 1522, quando l’Ariosto si era recato, come commissario ducale in garfagnana), in cui il poeta esprime il suo pentimento per essersi allontanato dalla sua donna.
Importante per le sue risonanze storiche è poi un’egloga drammatica, in cui l’Ariosto descrisse la tragedia scoppiata presso gli Estensi, quando il cardinale Ippolito fece accecare il fratello don Giulio d’Este, il quale spinto dall’odio, decretò poco dopo una congiura contro il duca Alfonso; ma venne scoperto e rinchiuso in carcere per tutta la vita.
Come giudizio sintetico, bisogna dire che le rime italiane di Ariosto ì, pur notevoli per una certa vivacità di accenti, sono in genere prive di effettiva originalità poetica, e presentano un interesse quasi esclusivamente letterario.

Le “commedie” A partire dagli ultimi anni del secolo XV, alla corte di Ferrara divennero sempre più frequenti le rappresentazioni teatrali, e si diffuse in tal modo la conoscenza delle commedie latine di Plauto e di Terenzio, rappresentate nella lingua originale, o, più spesso, tradotte in volgare.
Ariosto, che si sentì sempre particolarmente interessato all’esperienza teatrale, fu il primo scrittore a comporre le prime commedie regolari del teatro italiano: commedie che vogliono avere un loro carattere nuovo e originale, pur essendo sostanzialmente modellate sullo schema classico del teatro latino.
Per quanto riguarda i caratteri e gli schemi del teatro latino, su cui sono modellate le commedie ariostesche, si possono rilevare, per esempio, l’introduzione del 2prolodo”; la divisione della commedia in cinque atti; il rispetto delle tre unità drammatiche; l’uso dell’endecasillabo sciolto sdrucciolo ( che mira a riecheggiare il metro delle commedie latine); e l’imitazione dei tipici personaggi ed intrecci della tradizione comica platina ( il vecchio amaro; il servo astuto; il parassita; la cortigiana avida; gli scambi di persona; il riconoscimento finale atto a risolvere le situazioni più complicate ecc.).
Per quanto riguarda, invece, gli elementi nuovi che si possono rintracciare nelle commedie ariotesche, è da rilevare che non mancano spunti satirici e riferimenti realistici alla vita e ai costumi del tempo, rappresentati con vivo spirito di osservazione (ed è significativo che la scena sia quasi sempre ambientata nella Ferrara di quel tempo).
Come giudizio conclusivo, bisogna dire che le commedie Di Ariosto hanno notevole importanza di documento storico ( come interessanti tentativi nel genere teatrale); ma sono quasi del tutto prive di effettivo valore artistico (scarso rilievo psicologico; povertà dei temi e delle situazioni; ispirazioni; ispirazione piuttosto superficiale, ecc.).
Aristo compose le seguenti cinque commedie:
a) la Cassaria composta in una redazione in prosa nel 1507, rappresentata per la prima volta a Ferrara nel 1508; e rifatta poi, in endecasillabi sciolti sdruccioli, nel 1503.
Il titolo, latineggiante, deriva da una cassa piena d’oro, che costituisce in pratica il motivo centrale di tutta l’azione e del complesso intreccio di situazioni e di colpi di scena, attraverso cui due giovani scapestrati riescono ad ottenere l’amore di due belle schiave. La scenaè ambientata a Mitilini, nell’isola di Lesbo (è invece trasportata a Sibari nella seconda redazione).
L’imitazione delle commedie latine è di certo più che evidente, e si possono notare in più luoghi precisi richiami ai testi di Plauto e di Terenzio; ma l’intreccio resta- tutto sommato- abbastanza originale (soprattutto nella vena satirica e nel vivace realismo di certe scene e descrizioni).
b) i “Suppositi”, composti in una prima redazione in prosa nel 1508, rappresentati per la prima volta a Ferrara nel 1509; e rifatti poi, in endecasillabi tra il 1528 e il 1531.
Il titolo, che latinamente vuol dire gli “scambiati”, si riferisce ai casi di un giovane studente, che si sostituisce al proprio servo per aver così modo di entrare più facilmente nella casa della fanciulla amata. La scena è ambientata a Ferrara, nei tempi moderni.
È particolarmente degna di nota, in questa commedia, la figura del vecchio Cleandro

Orlando Furioso
Ariosto inizia a comporre il Furioso nel 1505 come continuazione dell’Orlando Innamorato del Boiardo e lavorerà su quest’opera per tutta la vita. La prima versione è del ’16, la seconda del ’21 (ritocchi formali), l’ultima, del 1532, uscita pochi giorni prima della sua morte, è quella definitiva. I canti nella rielaborazione salgono dai 40 ai 46 con l’aggiunta di nuovi episodi e la lingua si raffina per avvicinarsi alle teorie di Bembo (ed è questa l’operazione più difficile da seguire). Guerra e amore sono uniti in un grande intreccio che ha per scopo la celebrazione degli Este e in particolare del cardinale Ippolito. La storia tratta proprio della nascita della casata di Ferrara iniziata da Ruggero e Bradamante. Il titolo è ripreso dal poema di Boiardo enfatizzandone il significato (e sarà così per tutti gli elementi ripresi dal predecessore) ma anche dall’Ercole furioso di Seneca e punta sul paradosso che vede anche un eroe colpito nella ragione a causa dell’amore. La trama non è lineare e non si ha un solo protagonista e la storia di ognuno di questi è ripresa ed interrotta dalle altre. Si hanno comunque due filoni: il racconto d’armi e le vicende romanzesche. Il primo inizia con l’assedio a Parigi che vede Carlo Magno contro Agramente (Saraceno) e Marsilio (Spagnolo). Carlo, per far combattere Orlando e Rinaldo, innamorati di Angelica, la trattiene promettendola in premio a chi dei due avesse combattuto meglio. Angelica all’inizio del Furioso scappa e molti dei cavalieri cominciano a seguirla. Intanto a Parigi Rodomonte, re saraceno, distrugge l’esercito di Carlo finché non interviene Rinaldo con rinforzi. I Pagani si ritirano ma sono annientati in una battaglia navale. Astolfo, intanto, conquista il regno di Agramante che però propone a Carlo una sfida tra tre eroi delle due fazioni per la vittoria della guerra. Si sfidano Orlando, Brandimante e Oliviero da una parte, Agramante, Gradasso e Sobrino dall’altra. Brandimante muore ma i cristiani vincono. Le principali vicende romanzesche sono quelle di Orlando e Ruggiero. Orlando, alla ricerca di Angelica, salva per due volte Olimpia, prima da un tiranno e poi da un sacrificio (a qui poco prima era stata sottratta Angelica). Come altri eroi è vittima del trucco del castello di Atlante ma riprende il suo viaggio liberando Isabella, combattendo con Mandricardo, trovando in un bosco i segni dell’amore di Angelica e Medoro e impazzendo per questo. Pazzo, comincia a vagare arrivando infine in Africa (dopo aver anche incontrato Angelica senza riconoscerla) dove Astolfo, che aveva recuperato il senno dell’amico sulla luna, lo rinsavisce. Orlando infine torna a combattere. Il cugino Rinaldo dopo varie peripezie beve alla fontana dell’Odio e si disamora di Angelica. Astolfo, che era stato trasformato in mirto, torna uomo e con l’ippogrifo compie viaggi che lo portano anche all’Inferno, al Paradiso, sulla luna. Ruggiero invece è innamorato di Bradamante ed è ricambiato nell’amore ma Atlante, che conosce il suo destino che lo porterà a morire, non vuole che Ruggiero si sposi. Bradamante però lo libera ma l’ippogrifo porta via il suo amato. Ruggiero arriva sull’isola della fata Alcina, dove si trova il mirto Astolfo, e si innamora di lei (amore voluto da Atlante). Guidato da Melissa e Logistilla (che rappresenta la ragione) il giovane si libera e libera Astolfo per poi ripartire con l’ippogrifo. Libera Angelica dal sacrificio e cade nella trappola di Atlante che gli fa vedere l’amata nel castello (in cui arriva anche Orlando con altri eroi). Astolfo però, grazie ad un anello magico, li libera. Ruggiero si reca dal suo re Agramante e qui incontra Marfisia. Bradamante, nell’accampamento cristiano, lo spia e si ingelosisce finendo con lo sfidarlo a duello. Ma l’anima di Atlante li ferma rivelando che Ruggiero e Marfisia sono fratello e sorella. I due si possono ora sposare ma prima Ruggiero vuole compiere il suo dovere verso il suo re. Deve ritirarsi e naufraga su un isola dove si battezza e dove incontra Orlando e Rinaldo. Bradamante però viene promessa dal padre al figlio dell’imperatore bizantino Leone. Lei prende tempo offrendo la sua mano a chi la avesse vinta in duello. Ruggiero però diventa schiavo di Leone che lo convince a battersi per lui. Alla fine Ruggiero rivela tutto e Leone, ormai suo amico, gli lascia Bradamante in sposa. Durante i banchetto delle nozze arriva Rodomonte che si batte con Ruggiero ma viene ucciso. Già dal proemio l’autore indica la varietà dell’intreccio che ha creato. La storia inizia dal filone romanzesco con la fuga di Angelica che con il suo comportamento rivela subito come la passione amorosa sia insoddisfabile. Angelica si rivela come il centro, la causa di ogni azione nel romanzo che nel primo capitolo comprendono la corsa di Rinaldo, il combattimento con Ferraù, che evidenziano come i personaggi di Ariosto siano eroi attivi, creatori del proprio destino, e un altro esempio è Bradamante che insegue (e non è inseguita) da Ruggiero. Nel primo capitolo non si trova l’eroismo che contraddistingue le guerre: Ferraù cerca il suo elmo, Rinaldo rincorre il proprio cavallo, Sacripante è sconfitto da una donna e non gli riesce il compito di difendere Angelica. Il vero valore è quello dell’individualismo, la ricerca dell’utile personale in ogni situazione che porta per esempio all’accordo tra Ferraù e Rinaldo per rinviare lo scontro e cercare Angelica. I due cavalieri sono icona del cortigiano del ‘500, che devono avere un galateo e riconoscere il primato del buon senso. Il dinamismo del primo capitolo infatti porta Angelica da Ferraù che deve però sfidare Rinaldo per averla. Mentre lei scappa i due combattono per poi decidere di seguirla. Angelica trova Sacripante, anch’egli in cerca di lei, e decide di usarlo per scappare. Ma Sacripante è disarcionato da Bradamante e Rinaldo riesce a ritrovare Angelica, anche se ora cercava il suo cavallo Baiardo. Il primo canto si apre quindi con il proemio, diviso in tre parti: argomento, invocazione e dedica. Qui Ariosto modifica alcuni schemi tradizionali: l’argomento era la storia del personaggio principale, Ariosto invece individua due filoni: quello di Orlando e quello di Ruggiero. In più come garanzia di unità promette che il personaggio l’innamorato che lui rappresenta, manterrà unita la trama. Si dice pazzo ma non come Orlando, in grado ancora di ragionare (e quindi superiore ai suoi personaggi). Non invoca più i Santi o Dio, ma la donna amata. In più la dedica ad Ippolito si estende a tutto il pubblico, perché questo perdoni se l’autore, guidato dall’amore, sbaglia. Ariosto non presenta i personaggi (accenna solo una descrizione di Angelica) perché l’antefatto si ricollega all’Innamorato e il rapporto tra pubblico e autore consente ad Ariosto di evitare la presentazione. Le sequenze sono ben individuabili: la prima con la fuga di Angelica e il duello, la seconda che inizia con le due diverse strade che intraprendono Rinaldo e Ferraù, il bivio che porta Ferraù a tornare sul fiume dove cercava l’elmo e dove invece trova lo spirito del suo amico a cui apparteneva l’elmo che si è ripreso per seppellirlo. Rinaldo invece insegue il cavallo Baiardo mentre la terza sequenza vede Angelica con Sacripante. Tutti i personaggi sono alla ricerca di qualcosa (la quête cavalleresca); questo pretesto narrativo mette in luce il tema della fortuna e dell’affermazione del valore umano su questa; qua i personaggi sono vittime del caso mentre il più libero sembra chi li guida: il narratore, ironico occhio sulla scena, che vede la realtà mantenendosi nel suo mondo. Un celebre episodio è quello del palazzo di Atlante, creato per fermare Ruggiero ma che alla fine raccoglie molti eroi. Ripreso dal filone di re Artù, Ariosto crea un’allegoria: i personaggi, guidati dalle passioni, non arrivano al loro scopo, il destino non è che un vano affaticarsi: Ariosto riprende vari topos e da loro un valore universale. Orlando è attirato da una figura femminile che sembra Angelica e che lo porta nel castello. Arriva anche Ruggiero e dopo di lui i più famosi paladini. Solo Angelica e poi Astolfo li libereranno. Si trovano due sequenze parallele: quella di Orlando e quella di Ruggiero che indicano anche come il destino dei due sia strettamente collegato. Ci sono due temi: il destino dell’uomo (con l’allegoria del palazzo di Atlante) che vede le passioni come una visione, impossibile. Questo tema si ritrova in tutto il Furioso, sintetizza l’opera, anzi. Ariosto analizza anche il comportamento di Atlante, patetico, destinato all’insuccesso: egli combatte ciò che è già stato stabilito, il destino, cerca di rimandare la fine, quasi come Ariosto. Atlante però alla fine ottiene una piccola vittoria: Ruggiero infatti non muore nel romanzo, ma resta in vita. Il linguaggio si ricollega in modo stretto al tema dell’illusorietà e dell’affanno. Altro episodio importante è quello di Cloridano e Medoro, prefazione dell’amore di quest’ultimo con Angelica. E’ un passo epico, la scena e la guerra tra cristiani e saraceni, e il topos è ripreso da Virgilio e l’avventura di Eurialo e Niso. Ma l’epica di Virgilio è differente: infatti Ariosto non da la descrizione di due eroi ma di due cortigiani, ricollega la tradizione al suo tempo. L’eroismo è qui fedeltà al proprio signore. Cloridano e Medoro sono soldati semplici, il loro re Dardinello è morto e loro vogliono indietro il suo corpo. Di notte entrano nell’accampamento cristiano, fanno strage e riprendono il corpo del loro re. Ma nel ritorno sono scoperti da Zerbino. Cloridano si nasconde ma Medoro non vuole lasciare il suo re, viene ferito ma Cloridano interviene, uccide il cristiano e muore per l’amico che è risparmiato per la sua nobiltà d’animo. La struttura non è più quella della parte romanzesca, piena di intrecci ma ha una sua continuità (come in Virgilio). Lo stile è alto e Ariosto sperimenta uno schema simile a quello di Virgilio con l’uso del suo volgare, allontanandosi dalle ottave del Pulci e di Boiardo, monotone e ripetitive. Resta comunque ironico e scettico e passa dalla lirica all’eloquenza.

Scrittura e interpretazione
Il filone epico e quello d’amore sono da ricondurre a due diverse tradizioni. Il primo deriva dall’epica carolingia, nata con la Chanson de Roland, che tratta della guerra tra Carlo e i Saraceni con la morte di Orlando. Il successo è rapido anche per la situazione del tempo con le lotte antimussulmane del periodo. Ma con il tempo l’epica di queste composizioni (scontro tra diverse civiltà) viene meno. In Italia l’attrattiva verso queste composizioni è data dagli intrecci avventurosi dei paladini. Nel ‘400 si ha grande produzione di cantari (in ottave, recitati) rivolti ad un pubblico analfabeta. Con la stampa l’interesse per queste composizioni si propaga verso le corti e i nobili. Pulci per primo riprende questo tema ironizzando nel Morgante per la sua semplicità, creando quindi una parodia che negli ultimi canti però si affievolisce sviluppando ideali cristiani e populisti, ritornando allo spirito epico. Questo a Firenze. A Ferrara invece i letterati non si trovano nelle file della borghesia che deve mantenere le distanze dal popolo, ma tra i nobili, a corte, e può quindi vedere la materia di Francia (come si chiama il filone carolingio) con simpatia e interesse, mantenendo le distanze e inserendo in esso la mentalità cortigiana. Ci si avvicina a Virgilio ma si inserisce anche il filone romanzesco, di stampo arturiano (saga di re Artù). Questo filone ha la sua origine nei miti celtici ma nasce propriamente con i romanzi arturiani (XII sec.). In queste opere al centro non è la vita di un popolo ma di un cavaliere che affronta le prove della sua quête che lo porta al compimento del suo destino. Questo tipo di romanzo traccia la formazione della aristocrazia feudale. I componimenti nel ‘200 vengono raccolti in una vulgata in cui il finale vede la scoperta del sacro Graal grazie alla tecnica (inventata da de Troyes) dell’entrelacement, l’intreccio di storie diverse. Questa tecnica viene ripresa dalle composizioni carolinge del ‘400, mentre la materia arturiana resta di moda solo nel ‘300. Boiardo non unisce ma alterna questi filoni. L’opera di Boiardo è ripresa da più autori ma perdono il loro carattere encomiastico e l’ideologia cortigiana. Solo Ariosto può riprendere interamente questo schema. Nel periodo di Boiardo non si aveva uno stile simile all’Eneide, Ariosto invece vive nel periodo in cui l’imitazione dei classici è alla base di un buono stile e quindi può seguire il filone epico con disinvoltura rispetto a Boiardo. In più Ariosto ha a disposizione una lingua aulica da utilizzare. E’ questa la prima grande innovazione di Ariosto: un epica illustre. Questo linguaggio è possibile grazie alla vicinanza che vuole Ariosto che lo porta a copiare schemi da Omero, Luciano, Stazio e soprattutto Virgilio. Ariosto da autorità al suo testo e ritrova questa autorità nell’epica latina e da autorità ideologica nella celebrazione degli Este. Il Furioso è dunque da considerare epico per la sua impronta che ricalca l’epica latina nello stile e perché innalza la propria società, il proprio Stato, come giusto e la sua libertà. L’epica infatti si presenta come celebrazione di una situazione storica contemporanea. Ariosto però può allargare questo discorso a tutta l’Italia, per questo la sua opera è da considerare nazionale. L’epica di Ariosto però è differente: non è rivolta a tutti, ma ai soli cortigiani, in quanto la società è di stampo individualistico. I personaggi del poema mantengono la mentalità epica ma Ariosto non la impone come giusta ma ironizza anzi su alcuni suoi aspetti e a volte discosta i personaggi da questa ideologia. Solo gli ultimi canti, dove si sviluppa la materia encomiastica, sono vicini all’epos vero e proprio. Alla fine il tratto romanzesco risulta quello in primo piano. E’ la quête infatti che muove la narrazione e da dinamicità ad un racconto altrimenti statico e con pochi sbocchi (struttura chiusa). Le quêtes di Ariosto però si discostano dal loro solito schema: non hanno un compimento, infatti, spesso sono vane. La quête come inseguimento di un fantasma interiore. Per Ariosto quindi la vita risulta come l’inseguimento di un sogno che a volte risulta impossibile da raggiungere, tanto da portare alla pazzia, ma quindi pazzia è l’esistenza umana e questo è evidenziato dal senno dagli uomini, ormai tutto sulla luna. Grazie a questo episodio Ariosto critica la società rinascimentale, attaccata a un sogno impossibile (e qui si ha il contrario dell’epica, l’ironizzazione della società). Quindi Ariosto disillude, nega gli ideali rinascimentali ma non in modo tragico (mantenendo quindi la sua mentalità rinascimentale e il suo compito encomiastico). Da quindi comunque una figura esemplare: quella di Ruggiero, vero cortigiano dell’opera: egli nell’opera si forma, dall’inconsapevolezza passa alla realizzazione di sé. Grazie anche all’amore, vissuto però senza grandi passioni, riesce a superare ogni difficoltà. Con la ragione riesce a vincere per esempio le passioni di Alcina e con la conversione compie una grande prova interiore. Secondo i piani di Boiardo l’opera doveva terminare con la morte di Ruggiero ma Ariosto segue lo schema del romanzo e decide che la sua morte non può rientrare nella composizione. E’ l’equilibrio rinascimentale, che porta a non mostrare l’aspetto più tragico degli eventi. Il romanzo è aperto anche ad altri generi, primo fra tutti la lirica, presenta nei monologhi dei personaggi e in varie parti dell’opera, ripresa da Boccaccio e da Boiardo, già aperto a vari generi nel suo Innamorato. Si riprendono gli schemi del Canzoniere petrarchesco, svuotandoli dalle tensioni interiori. Ariosto inserisce quindi lamenti amorosi senza spezzare la trama e segue lo stile di Petrarca anche in tutto il resto dell’opera. L’apertura alla lirica produce anche l’inserimento di un introspezione psicologica dei personaggi, già presente in Ovidio, Boccaccio, Boiardo, ma inaugurazione del romanzo moderno con Ariosto. Aristo sperimenta anche parti pastorali (riprese da Sannazaro e la sua Arcadia). Nell’episodio di Angelica e Medoro infatti i due personaggi sembrano al di fuori del mondo, nella loro felicità che non è influenzata da niente. Infine nel poema Ariosto inserisce parti a loro autonome come novelle (di solito usati come antefatti), che mantengono così la loro caratteristica di exemplum. Tutte queste caratteristiche sono tenute insieme da Aristo che ha una doppia veste nel romanzo: è narratore onnisciente che controlla i personaggi e sotto le sue ali li riconduce all’unità, intervenendo nel entrelacement con affermazioni personali, non lasciando la narrazione a se stessa. E’ come un demiurgo, plasma la realtà creando modelli e perfezione. Come il demiurgo non crea dal niente ma riprende schemi e opere già create, rielaborandole soprattutto sotto l’aspetto stilistico, come costume del tempo. Non ricerca l’originalità ma vuole esser lodato per la capacità di plasmare, modellare a suo piacimento un episodio. Nell’elaborare questo ‘edificio’ che non è altro che la sua opera, Ariosto interviene spesso con ironia verso i fatti che narra ma anche verso se stesso. Infatti anche lui si ritrova confuso nel ritrovare i suoi personaggi, anche lui compie una quête: insegue i suoi eroi. Anch’egli è parte del romanzo, ma il suo distacco lo porta a non soffrire per quello che gli capita, ad ironizzare invece. Ma qualcosa inclina la sua posizione: è l’amore che prova e che paragona a quello di Orlando, provocando l’avvicinamento del pubblico al narratore, formando un dialogo e non restando alla semplice ironia, banale, in fin dei conti. Ariosto non partecipa ai problemi del suo tempo, egli trova la serenità in una vita domestica, equilibrio sopra le contingenze storiche. Come uomo di corte deve sottostare al volere del principe ma cerca sempre di mantenere la propria dignità, la propria autonomia, non con la rivolta ma con l’eloquenza e l’ironia. Ironia che è rivolta a tutto ma in particolare alla corte: lo si nota quando Ariosto fa l’elenco del senno perduto dai cortigiani a lui vicini e trovati da Astolfo sulla luna, e il discorso di san Giovanni che individua nella corte pochi veri artisti (cigni) e molti poeti mediocri che approfittando del rapporto inscindibile tra arte e politica, pur di raggiungere il benessere cambiano idee, stili mentre cambiano i principi (corvi). Ariosto, in questo caso molto pessimista, accusa anche Omero e Virgilio, perché nelle loro opere non scrivevano le cose come stavano e le fanno passare per vere, senza ironizzare. Ariosto sa che non può far altro che dedicare l’opera agli Este, esaltandoli, ma vuole esporre a tutti l verità e il perché della sua scelta, cerca quindi l’armonia anche in questo aspetto. Armonia che si trova anche nella trama, in cui fantastico e reale si intrecciano nel rispetto per gli schemi classici e nella voglia di innovazione. Il magico è espediente letterario, metodo per alimentare la narrazione, ma Ariosto sottolinea questo, indicando nella letteratura solo un qualcosa di fittizio. Non accetta la magia come scienza e resta ancorato al razionalismo (avvicinandosi all’illuminismo). Con l’ironia verso la magia si sviluppa l’ironia verso le composizioni che prendevano per serie le magie e gli eventi straordinari e vede quindi in Turpinio, fondatore di questo tipo di narrazioni, il fondatore della tradizione cavalleresca, che non ha niente a che fare con la realtà. Ariosto fa metaletteratura: letteratura ripresa da altri e senza volontà di veridicità. In lui lo spirito di critica umanistico è ai massimi livelli. Come tutti gli autori del ‘500 Ariosto da alla sua opera una revisione soprattutto nella struttura con ottave spostate già nella seconda edizione e con nuovi episodi nella terza. Questo per evitare alcuni scompensi nella trama o per approfondire alcuni significati. In più il Furioso è aggiornato rispetto ai fatti storici che sono intercorsi in quel periodo con il ducato sempre più schiacciato dagli altri stati. Dall’ottica nazionale, italiana, si passa ad un ottica europea, con il consolidamento degli stati moderni. Boiardo scrive in una lingua (koinè) che è un misto tra i vari dialetti lombardi e emiliani sotto le regole del toscano. Ariosto già dalla prima edizione tende come già detto alla clasicizzazione linguistica, evitando forme popolari e ispirandosi a Petrarca, Dante, Boccaccio, Poliziano, Pulci. Nelle edizioni egli si adatta sempre più al toscano letterario, come voleva Bembo, e cioè al toscano del ‘300 e soprattutto a quello di Petrarca e Boccaccio. Ariosto non irrigidisce però la sua opera, la mantiene elegante, a volte anche colloquiale. Ariosto traspone la teoria di Bembo in pratica e questo è importante poiché la sua opera avrà un grande successo in tutta la società, finendo con l’essere la prima opera nazionale moderna.

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varie su ariosto
I) Senso concreto e realistico dell’esistenza: si piega alle esigenze economiche dei suoi familiari; cerca un compromesso coi “potenti” (laici ed ecclesiastici) per avere non solo di che vivere, ma anche per ottenere il riconoscimento del suo valore artistico (che in effetti si verificherà nei circoli letterari borghesi). Non infierisce sui vinti quand’era governatore in Garfagnana, anche se non lo si vede mai opporsi alla volontà dei suoi superiori (l’unico caso è quello in occasione del trasferimento a Buda del card. Ippolito).
II) Rapporto di amore-odio verso la corte: di “amore” perché, anch’egli, in quanto intellettuale di origine nobiliare, faceva parte di quegli ambienti: poi perché sperava di ottenere buoni uffici, incarichi e riconoscimenti letterari; di “odio” perché si sentiva strumentalizzato, non valorizzato come intellettuale ma solo come diplomatico; inoltre non gli piacevano le corti che si combattevano tra loro, disposte persino ad allearsi con lo straniero, senza tener conto degli interessi nazionali. Infine era consapevole dei valori superficiali delle corti, anche se non riteneva di aver la forza sufficiente per opporvisi: lui stesso dirà d’aver scritto il Furioso per il divertimento dei Signori. Ariosto non pensò di scrivere un poema che servisse a una causa ideale o politica: sapeva benissimo che i suoi lettori non sarebbero stati capaci di recepirla. Egli in un certo senso dava per scontato che la classe borghese, pur ricca sul piano economico e potente su quello politico, non aveva molto da dire su quello ideale.
III) Interesse per ogni aspetto della vita degli uomini: rispetta e comprende i sentimenti dell’uomo, che mette sempre al centro delle sue preoccupazioni e della sua produzione letteraria. Contesta gli aspetti deteriori della sua epoca: attivismo frenetico, culto della ricchezza e amore per il lusso, ambizioni sfrenate e sete di potere, mercato delle cariche e corruzione ad ogni livello. Rifiuta gli atteggiamenti da eroe e da moralista: piuttosto guarda con ironia e indulgenza i difetti propri e altrui.
O R L A N D O F U R I O S O
I) La prima edizione è del 1516, la terza del 1532. La differenza sta nello stile e soprattutto nella lingua, in quanto nell’ultima sono state tolte le espressioni emiliane e gli elementi dialettali, sostituiti con i modelli toscani, sulla lezione del Bembo. Con Ariosto, in pratica, la toscanità comincia ad imporsi anche nell’Italia settentrionale.
II) E’ un poema cavalleresco, in quanto la materia narrativa è tratta dalla tradizione epico-cavalleresca (romanzo cortese, cantàri, chanson de geste...: tradizione questa ripresa dal Boiardo con l’Orlando innamorato). Le fonti del poema vanno ricercate anche nei poemi classici (Iliade, Eneide, ecc.: ad es. la pazzia d’Orlando ricorda l’ira di Achille). I tre contenuti fondamentali sono: epico (lotta tra cristiani e musulmani), erotico (la passione d’Orlando per Angelica) ed encomiastico (Ariosto fa discendere la casa d’Este dall’amore di Bradamante e Ruggero).
III) Ariosto riprende il poema del Boiardo laddove questi l’aveva lasciato, quando Carlo Magno, preoccupato delle rivalità che Angelica accende tra i cavalieri cristiani, sottraendoli così alla difesa di Parigi assediata dai musulmani, la affida al duca Namo di Baviera, perché la custodisca, promettendola a chi (fra Orlando e Rinaldo) si fosse distinto di più nella battaglia imminente. Ma Angelica, approfittando della confusione che segue alla sconfitta dei cristiani, fugge, sicché i cavalieri ricominciano a cercarla, imbattendosi in varie avventure.
IV) Nell’Orlando Furioso le avventure sono più complicate ed è difficile riassumerle. I filoni narrativi principali sono tre: 1) la battaglia intorno a Parigi, che poi si sposta in Africa e si conclude con la vittoria dei cristiani (l’eroe è Orlando); 2) la storia di Angelica, che fuggita dal duca Namo, viene inseguita dai cavalieri cristiani e saraceni, invaghiti di lei. Angelica però sceglierà di sposare un giovane soldato saraceno (Medoro) ferito in battaglia e da lei curato. Orlando, accortosi del fatto, impazzisce dal dolore e distrugge, percorrendo Francia e Spagna, tutto ciò che gli si para davanti; finché il cavaliere cristiano Astolfo, salito con l’Ippogrifo (cavallo alato) sulla Luna -dove erano raccolte tutte le cose che gli uomini avevano perso sulla Terra-, vi prende il senno di Orlando racchiuso in un’ampolla che farà poi annusare ad Orlando, restituendogli la ragione. Così Orlando può tornare a combattere contro i saraceni determinando la loro definitiva sconfitta. 3) La storia di Orlando viene spesso interrotta dal poeta con l’inserimento del terzo filone narrativo: l’amore di Bradamante, sorella del cavaliere cristiano Rinaldo, per l’eroe saraceno Ruggero. Bradamante, dopo una serie di fantastiche avventure, riesce a sposare Ruggero, che intanto si era fatto cristiano. Il poema infatti si chiude con la vittoria in duello di Ruggero contro il saraceno Rodomonte. Da questa coppia sia il Boiardo che Ariosto fanno discendere gli Estensi.
Caratteristiche del poema
I) Stilisticamente è raffinato, cioè senza dialettismi ma anche senza enfasi drammatica, senza ricerca del sublime. La varietà delle vicende è notevole. Gli eventi sono intrecciati in maniera magistrale: nessun personaggio viene sacrificato a vantaggio di altri, nessuna situazione resta incompiuta. Le vicende danno l’impressione di poter continuare all’infinito. Si alternano continuamente, per evitare che un tema narrativo prenda il sopravvento, il tono drammatico con l’idillico e il comico, l’amoroso con l’avventuroso, il realistico col fantastico, le scene di forza con quelle di tenerezza. Non esiste un luogo fisso: l’azione è sempre dinamica e mutevole.
II) Vi è un quadro estremamente vario della psicologia umana: passioni e sentimenti si avvicendano di continuo, senza che mai uno prevalga sull’altro (amore, eroismo guerriero, gusto dell’avventura si armonizzando perfettamente). Tuttavia, nessun personaggio presenta un complesso sviluppo psicologico individuale, cioè un contrasto interiore di bene e male (ad es. Bradamante impersona la fedeltà e solo questa), benché Ariosto eviti con cura la figura dell’eroe invincibile, sovrumano. La stessa donna non è più un angelo o un demone (come nel Medioevo), ma un essere umano. Tuttavia i personaggi restano individualistici, generalmente incuranti dell’interesse generale.
III) Non esiste un riferimento ideale particolare: Ariosto esclude dalle vicende terrene ogni intervento provvidenziale o divino. La religione non è mai vista come fonte di dissidio interiore né come guida dell’agire umano. Essa è piuttosto una condizione che influisce esteriormente su alcune situazioni (ad es. Ruggero deve convertirsi al cristianesimo per sposare Bradamante). I personaggi si muovono sulla base dei loro istintivi impulsi vitali. I caratteri sono naturali, a volte volubili (ad es. Angelica da fredda e altera diventa dolce con Medoro; l’eroe forte e avveduto Orlando diventa pazzo d’amore).
IV) Vi sono anche alcuni temi pessimistici: l’amore non apprezzato e non corrisposto, i desideri perseguiti con affannosa tensione e mai appagati, l’inutile correre degli uomini dietro le proprie illusioni (vedi ad es. il castello di Atlante, ove viene rinchiuso Ruggero per impedirgli di sposare Bradamante. Qui i cavalieri vengono attratti dalla falsa immagine -suscitata dal mago- di un bene a lungo cercato, come ad es. una persona amata, ma una volta entrati nel castello l’immagine subito scompare, per ricomparire appena essi ne escono). La pazzia, la vanità, le illusioni dimorano stabilmente sulla Terra, mentre la ragione è sulla Luna. Infine il prevalere della “fortuna” (caso) sulla capacità dell’uomo di dominare il proprio destino. Ariosto guarda con ironia, cioè con distaccata superiorità le assurde vicende degli uomini, vittime delle loro illusioni e delle loro passioni: però è un’ironia comprensiva non sprezzante.
V) Vi sono anche elementi di critica politica: contro il malgoverno e la follia dei principi italiani che, lottando tra di loro, facevano entrare gli stranieri in patria: cosa peraltro che impediva di combattere i turchi, che allora erano molto potenti.
L’umanesimo dell’Ariosto
Chi scrive un grande poema deve per forza essere un “grande personaggio” (come ad es. Dante con la sua Commedia)? Alcuni storici della letteratura rischiano, in tal senso, di lasciarsi sedurre dal culto della personalità.
In fondo che significa “grande personaggio”: un uomo impegnato in politica? Ariosto non lo era e molti di quelli che, ai suoi tempi, lo erano, difficilmente potrebbero essere definiti dei “grandi personaggi” sul piano umano. La politica, allora (come oggi d’altronde), era solo un mezzo per far carriera o quattrini, per aumentare prestigio e potere personale.
Forse perché Ariosto ha rifiutato -seppur moderatamente- questo tipo di politica, noi non possiamo accettare ch’egli abbia potuto fare un “grande” poema? Perché alcuni critici si lamentano che la sua vita non è stata niente di particolare?
Se vogliamo, Ariosto, sul piano umano, è stato un “grande personaggio”, poiché è riuscito a conservare la propria dignità umana (come meglio ha potuto) in mezzo agli intrighi delle corti, alle lotte tra le signorie, alla corruzione del papato e della borghesia. E’ vero, ha accettato molti compromessi, ma chi li accetta non può forse scrivere grandi capolavori?
Da un uomo che ha rischiato di morire ucciso più di una volta, che è stato usato come diplomatico e ambasciatore per tante difficili missioni, che ha svolto addirittura funzioni politiche, amministrative e militari, come quando fu capitano della rocca di Canossa e governatore della Garfagnana, si vuole forse pretendere l’impossibile?
In fondo Ariosto è vissuto in un periodo di decadenza, in cui la borghesia non credeva più nella possibilità di nazionalizzare i propri ideali di libertà e autonomia, di laicità e razionalismo, di umanesimo e naturalismo, di scientificità e tecnologia (per non citare il problema dell’unificazione linguistica). La borghesia portava avanti questi ideali restando divisa fra le molte e rivali signorie. Per un intellettuale umanista doveva essere molto difficile sopportare la contraddizione tra l’affermazione teorica dei valori rinascimentali e la loro ambigua realizzazione pratica. Tutto sommato, Ariosto se la cavò egregiamente: avendo scelto una vita “borghese”, poteva andargli peggio.

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