Il castello di kafka

Materie:Riassunto
Categoria:Italiano

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Testo

Il castello di kafka

Avete mai letto un’opera semplice e lineare nel suo svolgimento dall’univoco significato ? Sicuramente non è il caso de Il castello di Kafka, un libro quasi realistico ma che se si va a guardare più approfonditamente rivela molte cose, ma nel contempo è molto difficile che riesca a consegnarci una sola chiave di lettura. L’agrimensore K. si trova catapultato in un paese pervaso da un’atmosfera onirica ed ossessionante che accompagna il lettore sino alla fine. Si è catapultati in un mondo di persistente contraddizione e stravaganze dall’apparenza reali e comuni ma anche assillanti; tutto è un incubo alleggerito da un’ironia che toglie completamente il fiato. Il grottesco e la pazzia delle vicende del paese ed il correre veloce del tempo stimolano il lettore a divorare il libro nella ricerca di una fine “logica” ad un libro che, purtroppo, lascia sospeso il lettore in una conclusione mai scritta e tutt’ altro che scontata.

Il Castello, ultima opera della produzione di Kafka, è la sua opera più ambigua e paradossale.
La storia, quella dell'agrimensore K. che si trova a vivere in una cittadine sovrastata da un temuto e opprimente castello signorile, col quale lui desidererebbe entrare in "comunicazione", riassume in sé tutte le concezioni tipiche del pensiero kafkiano. Dopo questa dovuta precisazione, passiamo a addentrarci nell'analisi richiestaci del rapporto tra la personalità dell'individuo protagonista ed il castello. Il castello è il simbolo dell'incomprensibilità della legge: a Kafka appare incomprensibile e assurda la vicenda dell'uomo, che è certo dominata da una legge, ma proprio dal fatto che all'uomo non è dato conoscerla deriva la dimensione dell'assurdo e di tragedia nella quale l'uomo è immerso. Ciò che, d'altra parte, fu il costante dissidio dell'uomo Kafka che nei Diari scriveva: "Non sono la pigrizia, la cattiva volontà, la goffaggine che mi fanno fallire in tutto: vita familiare, amicizia, matrimonio, professione, letteratura, ma è l'assenza del suolo, dell'aria, della legge. Crearmi queste cose, ecco il mio compito... il compito più originale". un meccanismo complesso e inesorabile schiaccia l'uomo ed è mosso da una logica che non è fatta a misura d'uomo, la cui via è un susseguirsi di disperati tentativi per conoscere questa logica e questa legge, entrare consapevolmente in questo meccanismo, che si concludono con la sconfitta: nel Castello, malgrado ogni tentativo, il "varco", per usare un termine di Montale, non è possibile: con quel mondo non si riesce ad e entrare in comunicazione. Da quest'incomprensibilità e inaccessibilità della legge deriva tutto il ventaglio di temi della narrativa di Kafka: la solitudine dell'uomo, l'impossibilità di stabilire rapporti col mondo che lo circonda, l'impossibilità di essere autentici, la consapevolezza della sua condizione di escluso, di "straniero" (tema che tornerà negli esistenzialisti ed in Camus soprattutto), la sua alienazione, tutte tematiche che tendono a coincidere ed a delineare perfettamente la personalità dell'agrimensore K, il cui nome già fa capire la mancanza di delineazione individuale, che è il sunto, il comune denominatore, il simbolo, della situazione dell'uomo contemporaneo.
Sempre nei riguardi del rapporto protagonista - castello si inserisce la cosiddetta dimensione agonistica. Tutte le situazioni sopaelencate non sono rappresentate da Kafka come eventi di cui non resti altro che prendere atto: l'atteggiamento di chi ne è vittima non è quello della rassegnazione o del vittimismo. Da tante testimonianze risulta che Kafka amava profondamente la vita e che il fatto che lui sentisse il mondo in cui viviamo come un mondo senza luce non aveva spento in lui questo amore, quest'ansia di vita. Quale sia la scelta dell'uomo e dei suoi protagonisti per contrastare questi avvenimenti non hanno importanza o comunque è troppo intima per parlarne; l'importante è che tutta la sua opera può essere vista come un'implacabile testimonianza della volontà dell'uomo di non esser sopraffatto. "Rimane il suo no alle ragioni che umiliano l'uomo sulla terra, il no più angoscioso e più risoluto che sia risuonato nel mondo contemporaneo, deserto d'illusioni ma non abbandonato alla coscienza", affermava G. Pampaloni in una sua splendida critica al Castello, a testimonianza dell'attivismo letterario dell'autore.
L’agrimensore K., protagonista del romanzo, giunge nel villaggio ai piedi del castello del conte Westwest, dove è accolto con ostilità e sospetto. Tuttavia, non ci si può disfare di lui, poiché il castello l’ha chiamato, né si può lasciargli svolgere le mansioni affidategli. Il romanzo è la storia dei vani tentativi di K. di spezzare il mistero della sua chiamata e legittimare di fronte alla comunità la propria venuta al villaggio. Che cos’è Il castello, oltre che una vicenda caratterizzata da un realismo perfettamente irreale e animata da personaggi contrastanti? E’ in primo luogo l’amara allegoria della vita, di quella particolare condizione di perenne vanità degli sforzi umani che Kafka descrisse con assoluta lucidità in tutta la sua opera. E in secondo luogo uno dei pochi libri memorabili della letteratura del Novecento

Il Castello

Un agrimensore, K., giunge in un villaggio governato da un Conte che trascorre la sua vita in un Castello che, dall'alto della collina su cui è costruito, incombe sul circostante territorio.
Al desiderio dell'agrimensore di lavorare in quelle terre, difficoltà insormontabili si oppongono: il castello è la sede di una mostruosa burocrazia, ordinata con una complicata e inesorabile gerarchia, che amministra il villaggio con un groviglio di leggi contrarie alla morale e alla logica. E tuttavia gli abitanti del villaggio le accettano e se ne fanno scudo, quasi, per re- spingere nell'isolamento il nuovo venuto il quale si trova cosi circondato da un impenetrabile muro di diffidenza.
Eppure K. non desiste, si attacca a qualsiasi espediente per superare questa condizione e penetrare, "comunicare" col mondo del Castello, sintetizzato per lui in Klan, uno dei tanti signori che vi abitano.
Riesce a sedurre – per realizzare il suo piano – Frieda che gode i favori di Klan, ma poi purtroppo viene da lei abbandonato. Proprio quella notte K. entra casualmente in un albergo dove i signori del Castello alloggiano quando scendono al villaggio: per la prima volta, uno degli innumerevoli funzionari gli offre benevolmente aiuto. Ma K-, stanco, si addormenta e non ode il discorso del funzionario. Qui il romanzo s'interrompe.
Genesi e struttura dell'opera

Le edizioni Brod nella sua Biografia dell'amico scrive: « Il 15 marzo 1922 Franz mi lesse l'inizio del suo romanzo Il Castello » e in una nota aggiunge: « Non riesco a stabilire con precisione l'epoca in cui Kafka scrisse Il Castello. Il mio diario conferma solo la data della prima lettura (che non sarà stata molto lontana dall'inizio della stesura) ». Dopo aver rilevato che K. esemplifica la sorte dell'ebreo costretto a difendersi in una comunità estranea, Brod accenna a un frammento narrativo intitolato Lusinga nel villaggio, inserito nei Diari in data 11 giugno 1914, dove in prima persona si parla dell'arrivo del protagonista in un villaggio che non 10 accoglie volentieri: respinto da una locanda, lo sconosciuto trova rifugio in una casa di contadini. I rapporti di questo inserto con Il Castello sono piuttosto labili, molti particolari non coincidono (per esempio la stagione estiva in cui si svolge Lusinga nel villaggio), non possiamo quindi riconoscere con certezza assoluta nel breve racconto del 1914 il nucleo del futuro romanzo.
Quanto all'arco di tempo, Brod accenna, sempre nella Biografia, alle esperienze dello scrittore a Zurau, nel 1917, ma una occasione decisiva per la genesi del Castello fu l'incontro avvenuto a Merano nel 1920 con Milena Jesenska e si presume che la stesura del Castello risalga in massima parte al gennaio e al settembre 1922. In una lettera a Brod, del luglio 1922, troviamo un accenno al carattere demoniaco delle figure del romanzo, anche se il discorso verte genericamente sull'esercizio dello scrivere: « Questa discesa alle potenze delle tenebre, questo scatena- mento di spiriti legati per natura, i problematici amplessi e tutto quanto può avvenire laggiù, di cui qua sopra non si sa nulla quando si scrivono racconti alla luce del sole ».
E in una successiva lettera a Brod (timbro d'arrivo 11 settembre 1922) in una parentesi Kafka confessa: « (infatti ho dovuto mettere da parte evidentemente per sempre la storia del Castello) ».
Il Castello fu pubblicato postumo, da Brod, nel 1926, con un poscritto che sosteneva la sua tesi teologica e una nota che spiegava i criteri dell'edizione. L'autore aveva lasciato il manoscritto senza titolo, ma lo aveva sempre denominato Il Castello. Inoltre, in un foglio a parte, aveva elencato quindici titoli di capitoli: 1 Arrivo, 2. Barnabas, 3. Frieda, 4. Primo colloquio con l'ostessa, 5. Dal sindaco, 6. Secondo colloquio con l'ostessa, 7 Il maestro, 8. In attesa di Klamm, 9. Battaglia contro l'interrogatorio, 10. Per la strada, 11. (La notte) A scuola, 12. (Il mattino) Gli aiutanti, 13. Hans, 14. Il rimprovero di Frieda, 15. Da Amalia. Il manoscritto non s'interrompe mai; solo in ventuno pagine Kafka aveva segnato uno stacco o inserito la parola "Kapitel".
Per la prima edizione Brod corresse alcune sviste, introdusse in qualche punto una divisione in capitoli, omise le ultime pagine del manoscritto, in modo che la vicenda avesse un senso compiuto, e poche altre nel contesto che, a suo parere, non influivano sulle linee essenziali dell'intreccio.
Nella seconda edizione eliminava parzialmente le gravi omissioni della prima, ma solo nella terza, in appendice, pubblicava la parte finale, interrotta, del manoscritto.
Le ragioni che hanno indotto l'autore a lasciare incompiuto Il Castello che era stato oggetto di un lavoro assiduo, non sono chiare. Tutto un complesso di circostanze sfavorevoli deve avere contribuito a tale decisione: la malattia che, diagnosticata nel 1917, progrediva e si aggravava; la relazione con Milena, l'ispiratrice del personaggio di Frieda, che era finita per sempre, e Kafka, se escludiamo i racconti che richiedono uno sforzo di concentrazione minore, interruppe Il Castello, così come aveva interrotto America e lasciato Il processo senza dargli l'ultima mano.
E infine la perenne insoddisfazione di fronte ai suoi risultati, che provocava in lui continue crisi di sconforto e di sfiducia nelle proprie capacità artistiche.
Significato dell'opera

Il Castello, come nessun altro classico della letteratura del Novecento, ha dato origine a una pluralità ermeneutica, che al tempo stesso affascina; e turba profondamente. Ma per una lettura corretta di questo testo così dibattuto si deve, innanzitutto, evitare un errore di metodo: la pretesa di scoprirvi un significato univoco.
L'autore, con espedienti bizzarri e maliziosi, invita, anzi costringe, chi presume di avere rintracciato il filo d'Arianna, a deviare dalla strada fino allora seguita e ad assumere un contegno più cauto e possibilista.
Citiamo alcuni esempi illuminanti in proposito. Quando (all'inizio del capitolo II) K. vede per la prima volta i due aiutanti, gli chiede dove sono gli strumenti. Loro rispondono di non averne e di non intendersi di agrimensura: « Ma se siete i miei vecchi aiutanti [come prima avevano sostenuto gli interessati] dovete conoscere il mestiere ». Qui si offende volutamente la logica, perché se erano vecchie conoscenze come faceva K. a non riconoscerli? In realtà a Kafka premeva lasciare nella sfera del dubbio più nebuloso le identità di Artur e Jeremias e mettere all'erta gli esegeti troppo sottili e raziocinanti.
Durante il primo sgradevole incontro con il maestro (capitolo I) questi si meraviglia della domanda di K.: « Come? Lei non conosce il Conte? ». « Come potrei conoscerlo » risponde il maestro, e aggiunge forte in francese: « Abbia riguardo alla presenza di bambini innocenti».
Qui si potrebbe suffragare la tesi che al Castello si commettono chissà quali infamie e turpitudini, ma tutto il decorso posteriore dell'azione contraddice questo sospetto: del conte Westwest non si farà più parola, i funzionari passano il loro tempo dormendo, sbrigando di malavoglia le loro pratiche o seducendo le donne di più bassa estrazione, come in qualsiasi (cattiva) amministrazione. ma il loro status dagli abitanti del villaggio viene invidiato e circondato da un'aureola di prestigio.
Non c'era nessuna necessità di circondare il nome del conte di un così esoterico silenzio, anche perché la sua natura, benefica o malefica che sia, non viene neppure accennata. Infine la spia più rivelatrice: Amalia lacera la lettera di Sortini, K. (capitolo XIX) durante la notte trascorsa nell'" Albergo dei Signori ", vede nel corridoio su un carrello un foglietto strappato da un taccuino. Nonostante la stanchezza che lo opprime intuisce che potrebbe essere la sua pratica, la carta che suggella il suo destino. Allora l'inserviente distrugge senza perché il documento in minutissimi pezzi, deludendo sia l'aspettativa di K. sia la curiosità del lettore. Così la vicenda rimane immersa nell'ombra, in una suspense che ricorda la tecnica del romanzo poliziesco.
Ancor più fuorvianti sono le analogie che si possono dedurre dai prestiti letterari, spunti, motivi, figure. In una celebre lirica del Libro d'ore di Rilke, che all'epoca della stesura del Castello era patrimonio acquisito nei paesi di lingua tedesca, si legge questa quartina: « Ich kreise um Gott, um den uralten Turm / und ich kreise jahrtausend- [ang, / und ich weiss noch nicht: bin ein Falke, ein Sturm / oder ein grosser Gesang » (Volo intorno a Dio, intorno alla torre antichissima / e volo intorno da millenni; / e non so ancora se sono un falco, una tempesta / o un grande cantico).
Alla fine del capitolo IX, in un inno all'inaccessibilità di Klamm si dice che K. pensava « ...ai cerchi indistruttibili, troppo alti perché K. dal suo abisso li potesse turbare, che descriveva secondo incomprensibili leggi e che solo per qualche attimo si potevano intravedere: tutto questo era comune a Klamm e all'aquila ».
Nonostante la somiglianza dell'immagine, sarebbe del tutto arbitraria l'identificazione tra l'anima del poeta alla ricerca vorticosa di Dio e il privilegio di Klamm di sollevarsi fino alle sfere precluse ai comuni mortali; Kafka intende solo magnificare, con questa iperbole, la sublime lontananza dell'alto funzionario dai problemi meschini di K.
Se dunque si deve rinunciare a individuare un contenuto simbolico in ogni particolare del Castello, non si deve per questo ritenerlo il semplice arbitrio di una fantasia onirica, senza agganci con la realtà concreta dell'uomo Kafka.
Nei suoi tre romanzi l'autore ha variato sempre la stessa istanza, il problema esistenziale da tre prospettive diverse. In America: Karl Rossmann sperava invano di affermare i propri diritti nell'ambito della comunità sociale, nel Processo Josef K. soggiace al suo senso primigenio di colpa, che si estingue soltanto con l'esecuzione finale. K. nel Castello unifica in sé le due esigenze espresse nei romanzi precedenti perché, mentre da un lato tenta disperatamente di inserirsi nella vita del villaggio con la qualifica di agrimensore, dall'altro non riesce a sottrarsi alla volontà caparbia di essere accolto con tutti gli onori al massimo livello, di conquistare a tutti i costi la certezza in un contesto dove tutto è fluido, problematico, ambiguo. L'incarico di bidello, che è costretto ad accettare, richiama alla memoria il compromesso riservato a Karl Rossmann nel Teatro naturale di Oklahoma, che costituisce l'ultimo capitolo di America.
Dalla nota di Brod alla prima edizione dell'opera, sappiamo quale doveva essere la conclusione. Kafka non ha scritto un capitolo finale «ma una volta, su mia domanda, mi ha spiegato come doveva terminare il romanzo. Il cosiddetto agrimensore finirà per ottenere soddisfazione, almeno in parte. Non rinuncia alla lotta, ma muore d'esaurimento. Intorno al suo letto di morte si raccoglie la comunità, e in quel momento giunge dal Castello la decisione che non dà a K. diritto di cittadinanza nel villaggio, ma per riguardo a certe circostanze accessorie, gli concede tuttavia di viverci e di lavorarci ». Una soluzione intermedia e, se vogliamo, meno tragica di quella di America e del Processo, aperta all'unico spiraglio di speranza possibile su questa terra.
L'azione si svolge nello spazio di una sola settimana, in un paesaggio gelido. Quando K. arriva, il villaggio è affondato nella neve e alla fine Pepi rivela che l'inverno da loro dura a lungo e anche nella bella stagione qualche volta cade la neve. AI suo primo contatto con la gente del luogo K. nota che « il cranio di quegli uomini sembrava fosse stato appiattito a mazzate e i lineamenti formati nel dolore dei colpi ».
Come non riconoscere in questa frase quell'idea di un'umanità rattristata e sofferente che si dispiega in mille accenni e riferimenti nelle pagine autobiografiche di Kafka? Eppure K. ha lasciato il paese nativo proprio per questa località squallida, proprio per libera elezione.
Quando (capitolo XIII) Frieda si augura di vivere sotto cieli mediterranei più tersi, K. non ha dubbi e risponde con una domanda: « Che cosa avrebbe potuto attirarmi in questo paese così tetro, se non il desiderio di rimanervi? ». Un'autoconfessione rivelatrice del significato implicito, sotteso, in tutto il romanzo: in questa dimora irrigidita e inospitale, l'uomo si dibatte nel tentativo di restare proprio in questo clima e di afferrare la sua personalità, contro tutti i decreti di un'autorità che si erige ad arbitro della sua sorte, nella sfera fisica o metafisica.
Il conte Westwest e i suoi intermediari, nei quali la critica ha intravisto un riflesso del progressivo deteriorarsi dello spirito nella materia di derivazione cabalistica, non sono né depositari di un ordine soprannaturale, Dio e i suoi angeli, né i detentori del potere su questa terra, ma lasciando impregiudicata qualsiasi distinzione, impersonano quella gerarchia alla quale è oscuramente demandato di decidere del destino dell'uomo al di sopra del suo arbitrio e delle sue aspirazioni.
In questa prospettiva l'inserto di K., che da piccolo sale sull'orlo del muro che circonda il cimitero del villaggio nativo e viene rimproverato dal maestro, allude in termini sfumati alla smania, appagata solo in un attimo illusorio, di poter gettare uno sguardo indagatore nel regno della morte, precluso alla comprensione razionale.
I personaggi principali

« Era tarda sera quando K. arrivò. » Così, all'inizio del romanzo, in un paesaggio di gelo si presenta il protagonista che, come il Josef K. del Processo, ha la stessa iniziale del cognome di Kafka: l'espediente allude, senza insistere, a una possibile identità tra personaggio e autore; del resto il romanzo era stato iniziato in prima persona.
Sono particolari che rivelano, o meglio lasciano nella penombra, le intenzioni dello scrittore, il quale si diverte sempre a suggerire un'ipotesi per confonderne subito dopo i caratteri probanti.
Così K. si carica, ma fino a un certo limite, di tratti autobiografici, perché la sua vicenda terrena assume un valore, che trascende l'esperienza di chi la muove e non coincide affatto con una rievocazione letteraria della realtà, quale si trova ad esempio nei Buddenbrook o in Disordine e dolore precoce di Thomas Mann.
Il passato di K., che altrove ha lasciato il paese natale, non incide affatto sul suo presente, tutto teso ad affermare i suoi diritti alla funzione di agrimensore del Castello, un incarico che, non si sa in quali circostanze, K. dice gli sia stato affidato.
Le costanti del suo carattere sono l'ostinazione e l'impazienza di raggiungere la sua meta, in mezzo a un groviglio di difficoltà, perché deve lottare su due fronti: da un Iato la paura, l'ostilità o l'indifferenza degli abitanti del villaggio e delle sue autorità, dall'altro la tenace risoluzione degli alti funzionari del Castello di non lasciarsi coinvolgere nel concedergli un colloquio chiarificatore e di deviare le sue richieste, o comunque di persuaderlo dell'assurdità delle sue pretese.
Ma anche qui si tratta di atteggiamenti ambigui, non definitivi e assoluti: la freddezza degli abitanti si scioglie nel rapporto erotico di Frieda, che lascia un'« aquila » come Klamm, capo della X sezione del Castello, per un « lombrico » come K., secondo le parole dell'ostessa del Ponte.
Talora le potenze inaccessibili del Castello mandano a K. segni favorevoli: al suo arrivo, quando all'osteria del Ponte, Schwarzer telefona al Castello per accertarsi che K. abbia il permesso di soggiorno, prima riceve una risposta negativa: « Mai sentito parlare di agrimensori », poi positiva: « Come debbo spiegare la cosa al signor agrimensore? ». K. riceve in tempi diversi due lettere da Klamm: la prima lo informa dei particolari, come se la sua assunzione non fosse più materia controversa, la seconda l'elogia per una attività che non ha mai svolto.
Queste parvenze di verità lo inducono a perseverare nell'errore, nonostante i sensati piccolo - borghesi del villaggio cerchino di dissuaderlo. Gli dice il sindaco (capitolo V): « Tutti i rapporti di cui mi parla sono soltanto apparenti, ma lei li considera reali per la sua ignoranza della situazione » e alla fine dell'episodio di K. che ha aspettato invano Klamm nel cortile innevato dell'"Albergo dei Signori" (capitolo VIII) e presume di avere toccato i vertici della sua libertà negativa, Kafka commenta: « Nulla era così assurdo, così disperato come quell'indipendenza, quell'attesa, quel1'invulnerabilità ».
L'antagonista principale di K. è Klamm, l'enigmatico capo della X sezione, che non sarà mai in grado di raggiungere ma soltanto di intravedere dal buco della serratura la sera del suo arrivo all'"Albergo dei Signori": gli appare come un burocrate sonnacchioso, con il volto cascante per l'età matura e un paio di baffi austroungarici, non diverso dagli esemplari di capiufficio che Kafka dovette frequentare nella sua attività di impiegato.
Klamm, secondo alcuni, si riconnette al tedesco "klamm" = stretto, rigido (per lo Heller il suono di questa parola produce un senso di angoscia, quasi di claustrofobia), secondo altri con il ceco "klam", che significa illusione.
Nella tipologia dei solerti funzionari del Castello si distingue solo per essere l'addetto alla sezione che si occupa dell'affare K. e per essere stato in anni lontani l'amante dell'ostessa del Ponte e, prima di K., di Frieda, che portano impresso nell'anima il ricordo di quel rapporto erotico.
Anche gli altri colleghi di Klamm hanno nomi simbolici o vagamente allusivi alle loro mansioni: Biirgel, che K. incontra per sbaglio nella sua camera da letto alI'« Albergo dei Signori", da «biirgen"= garantire, Erlanger, che convoca K. per trasmettergli l'ordine di lasciare Frieda, da « erlangen " = ottenere, usati entrambi per ironica distorsione, in quanto che Biirgel riesce a rassicurare K. solo in modo fittizio e seguita a parlare a un interlocutore sopraffatto dal sonno, mentre Erlanger ottiene il suo scopo, ma senza concedere nulla alle speranze di K.
Altre etimologie meno convincenti sono state proposte per Sordini, Sortini, Galater, mentre non sarà senza motivo lo strano nome del conte, signore del Castello, citato del resto solo fuggevolmente. Si chiama Westwest (Occidenteoccidente), il che ha suggerito sia il richiamo all'hotel Occidental di America, simbolo del nostro sistema di vita, sia il concetto di tramonto o della morte che annulla se stessa. Sono tutte relazioni possibili anche se indimostrabili, che ci introducono in un contesto tanto più intricato quanto più ci si ostina, come l'eroe del romanzo, a volere dare di ogni dettaglio una spiegazione univoca.
Evidente invece il significato di Momus, il segretario rurale di Klamm, che porta lo stesso nome del dio greco della maldicenza, mentre Barnabas equivale in ebraico a "figlio del conforto". I personaggi maschili minori presentano tutta la gamma della meschinità filistea: lo Schwarzer che si fa rigido custode della legge solo per volontà di persecuzione, Lasemann che scaccia K. da casa sua per non compromettersi, Gerstiicker che addirittura, per sgravio di responsabilità, lo accompagna in slitta fino all'osteria del Ponte, sfidando i rigori della notte invernale.
E poi il sindaco, evasivo e succubo della moglie intraprendente, e il maestro, deciso a valersi fino in fondo della sua autorità di minidespota. Mentre gli aiutanti, Artur e Jeremias, si staccano dal grigiore degli abitanti del villaggio, perché adombrano, in chiave grottesca, le forze irrazionali dell'istinto che tentano di sviare K. dalla sua meta.
Su un altro versante le figure femminili rivelano, in tutte le varianti, l'abilità kafkiana di un'analisi psicologica rigorosa. Frieda (U Frieden " in tedesco equivale a pace) per capriccio abbandona Klamm, che dava prestigio alle sue mansioni d'inserviente al banco di mescita dell'Albergo dei Signori", per uno straniero che non le darà nessuna sicurezza: in seguito lo rimprovererà di avere usato di lei per puro calcolo, come strumento per accedere a Klamm.
La scena della seduzione, sul pavimento della mescita non lontano dalla stanza dove sonnecchia Klamm, anticipa quella tematica dell'eros rimedio e delusione supremi della solitudine, che ha un'enorme fortuna nella letteratura e nel cinema di oggi: « ...come i cani raspano disperatamente il terreno, così essi scavano l'uno il corpo dell'altro, e poi delusi, smarriti, per trovare un'ultima felicità, si lambivano a volte con la lingua vicendevolmente il viso ».
Frieda, biondina gracile e insignificante, assurge qui al mito della donna divoratrice di uomini, che Wedekind, in un'atmosfera carica di tensione espressionista, aveva inaugurato nella sua dilogia di Lulu.
A Frieda si contrappone non tanto l'ingenua Pepi, che la sostituisce alI'"Albergo dei Signori ", quanto Gisa la maestra, che per un atto di crudeltà gratuita, con un pretesto futile, costringe prima il suo gatto a graffiare la mano di K., e poi Frieda a lavare il gatto in una bagnarola.
L'ostessa del Ponte, antica amante di Klamm e protettrice di Frieda, ha, nell'economia del romanzo, una funzione duplice: da un lato confida a K. il suo eterno rimpianto per la gioventù trascorsa tra i favori di Klamm, preludendo così all'analoga nostalgia di Frieda, e dall'altro, con la sua fittizia simpatia che si tramuta poi in aperta inimicizia per K., gli ricorda la mutabilità e fragilità delle sue speranze, tanto che riappare inaspettatamente alI"' Albergo dei Signori " la notte stessa che K. tenta di risolvere il suo dilemma con un colpo di mano, entrando nella slitta aperta di Klamm.
La famiglia Barnabas. La storia della famiglia Barnabas, il messaggero occasionale ma di professione aiutocalzolaio che il Castello ha messo a disposizione di K., si colloca nel contesto del romanzo come un excursus a sé: di ogni membro del nucleo si ricostruiscono i precedenti, in modo da formare con le singole tessere l'insieme di un mosaico.
Un tempo era una famiglia serena: oltre a Barnabas le due sorelle, Olga e Amalia, la madre e il padre, ancora valido e socio del corpo dei pompieri locale; ma un giorno a una festa popolare per l'inaugurazione di una pompa nuova, dono del Castello alla comunità, un alto funzionario, Sortini, si è invaghito di Amalia, ornata di una collana di granate di Boemia, avuta in prestito. Il giorno dopo Amalia riceve una lettera con l'ordine perentorio di recarsi al Castello. redatta in termini irriferibili; indignata la giovane straccia la missiva sotto gli occhi del messaggero.
Da allora, mentre Amalia si rinchiude in una solitudine orgogliosa, la famiglia comincia a decadere, i genitori invecchiano precocemente, la gente del villaggio li evita insieme con i tre figli, come segnati dalla colpa e dalla sciagura. Barnabas accetta il posto, neppure retribuito, di messaggero per ingraziarsi con i suoi servigi le autorità del Castello e Olga, per carpire un impossibile intervento a favore dei suoi, arriva persino a prostituirsi alla masnada dei servitori dell" Albergo dei Signori".
K. sente subito una inspiegabile affinità spirituale con questi reietti e la sua amicizia per loro scatenerà le ire e la gelosia di Frieda. Max Brod, riferendosi a Terrore e tremore di Kierkegaard, ha spiegato l'episodio con il confronto tra la prova richiesta da Dio a Abramo con il sacrificio di Isacco; lo Heller, a ragione, la ritiene una trovata comica, data l'inconsistenza dell'espressione: Dio sta a Isacco come Sortini sta ad Amalia.
Senza pretendere di dare una esegesi capillare di un episodio di cui Kafka ha voluto sottolineare l'esito scandaloso, sembra legittimo inserirlo in quel clima generale di soprusi che i signori del Castello esercitano sulla gente del villaggio, uomini e donne che siano. Solo Amalia si ribella, mentre l'alternativa è impersonata dalla « ragazza del Castello » che K. vede esangue in casa di Lasemann, malata di inguaribile nostalgia.
Tanto che K., quando troverà un amico nel piccolo Hans Brunswick, che lo sostiene moralmente contro il maestro e la signorina Gisa, chiederà al ragazzo di essere messo in contatto con la madre, proponendosi di aiutarla con le sue virtù terapeutiche, ma in realtà per esplorare una via ulteriore per avvicinarsi al mistero del Castello.
I temi

Il tema fondamentale del Castello è la lotta impari, disperata, dell'individuo per inserirsi in una compagine che da un lato lo invita, o così sembra, dall'altro invece tende a emarginarlo e a escluderlo.
Non risulta mai che K. sia stato assunto, qualche volta gli altri immaginano che si tratti di un pretesto per crearsi un titolo di prestigio e di rispettabilità. Lo Heller interpreta il termine tedesco per agrimensore" Landvermesser" nel suo valore etimologico. "Vermessen " significa misurare, quindi " Landvermesser " è chi vuole " ordinare la vita terrena e farla funzionare entro confini ben definiti". Ma "Vermesser" allude anche a "Vermessenheit", hybris; all'aggettivo "vermessen", audace, al verbo "sich vermessen ", " commettere un atto di orgoglio ", e anche, inoltre, " applicare la misura sbagliata", "commettere un errore di misurazione".
Non si pensi che questa polivalenza semantica sia stata escogitata dal capriccio degli esegeti, che hanno commesso abusi incredibili nello stabilire bizzarre coincidenze simboliche o allegoriche.
Tutti i significati connessi al sostantivo " Landvermesser " si possono applicare senza sforzo alla vicenda di K., e corrispondono anche alla predilezione di Kafka per le sottigliezze giuridiche, per l'analisi minuziosa dei pro e dei contro di una situazione, alla sua sfiducia nella possibilità di tracciare sempre una linea netta tra la luce della certezza e la penombra del dubbio.
Nel motivo centrale del romanzo convergono, come i raggi verso il centro, gli episodi che esemplificano la velleità e la presunzione del carattere di K. Pretende a tutti i costi di parlare con Klamm, il quale non ha mai rivolto la parola alla sua ex - amante Frieda, e che perfino Barnabas, il suo messaggero, non è sicuro di conoscere.
Quando il piccolo Hans Brunswick gli parla della malattia della madre, la ragazza del Castello, K. vanta le sue virtù terapeutiche e, per convalidare la fiducia nella sua capacità, dice che al suo paese lo chiamavano « erba amara..». Invano l'ostessa del Ponte lo avverte che « è spaventosamente all'oscuro della situazione », che « è il più ignaro di tutti ». Alla fine del colloquio K. non solo non si lascia persuadere, ma sospetta che l'ostessa abbia « paura per Klamm », invertendo i termini del rapporto con una baldanza gratuita.
D'altra parte K. nella sua cecità di fronte all'ignoto, non riuscirà mai a ridimensionare le autorità del Castello nelle loro entità effettive: questi uomini grassocci o mingherlini, sempre mezzo appisolati, intransigenti e dispotici con le donne, non hanno in se nessuna maestà, ma sono un riflesso della miseria che coinvolge tutti e tutto, anche lo stesso edificio del Castello, un insieme di costruzioni a due piani e di case basse, con una torre, intorno cui svolazzano stormi di cornacchie. Klaus Wagenbach ha creduto di identificare il modello concreto che ha ispirato Kafka, nel castello di Wossek, cento chilometri a sud di Praga, accanto a un villaggio, luogo d'origine della famiglia di lui e che l'autore, nell'infanzia, doveva avere visitato, almeno in occasione dei funerali del nonno paterno, nel 1889.
Contemplato nella stagione invernale, molti particolari coincidono, ma i risultati dello studio del Wagenbach non sono probanti in modo definitivo, in quanto che il complesso (un castello che domina un villaggio su un fiume) ricorre in troppe località della Boemia; tuttavia non possiamo escludere che il castello di Wossek gli sia rimasto così impresso nella memoria da costituire il prototipo della sua futura creazione fantastica.
Nell'atmosfera che avvolge Castello e villaggio, i rapporti umani sono dominati dall'estraneità e dalla solitudine; solo, per fuggevoli intervalli, il rapporto erotico di Frieda e K., o peggio ancora tra Olga e i servitori dell'«Albergo dei Signori ", accentua, invece di eliminare, l'indifferenza reciproca. I colloqui non stabiliscono mai un flusso di simpatia tra gli interlocutori, ma seguono le leggi di una casistica capillare; anche le discussioni più pro- tratte e minuziose non si concludono mai con un dato sicuro e acquisito.
I confronti si svolgono quasi sempre in ambienti disadatti, come l'aula scolastica dove K. si è insediato, o inospitali, come la casa di Lasemann o l'osteria del Ponte, oppure in locali angusti e soffocanti, come la stanza dove K. parla con Biirgel. All'interno di questa cappa di angoscia non mancano neppure i momenti comici, causati dalla disparità tra le forze di K. e la difficoltà insuperabile del suo compito.
La seconda lettera di Klamm, che l'elogia di un lavoro mai eseguito, ha un sapore di sarcasmo. Le umiliazioni del signor agrimensore, costretto per sopravvivere alle mansioni di bidello in una piccola scuola rurale e a sottrarre la legna per riscaldarsi, esposto al mattino ai rimproveri del maestro, alle angherie della maestra e agli schiamazzi degli alunni, ha la vivacità icastica delle scene di eroi bastonati, cari alla cinematografia muta degli anni venti.
Così la scena di Barnabas padre che, pompiere benemerito, salva Galater, il funzionario ciccione, da un incendio, o quella di Biirgel nudo « molto simile alla statua di un dio greco », che cerca di ripararsi le parti scoperte, e la sequela della suddivisione delle pratiche, caotica e frenetica, nel corridoio dell"' Albergo dei Signori ", condotta con un ritmo che ricorda i primi film di Chaplin o di Buster Keaton.

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