I Canti di Leopardi

Materie:Tesina
Categoria:Italiano

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Testo

CANTI – Tutti i Riassunti
Giacomo Leopardi, Ad Angelo Mai, quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della Repubblica
Scritta da Leopardi nel gennaio 1820, la canzone è incentrata sul tema patriottico ma è anche organicamente investita delle problematiche filosofico-esistenziali maturate sullo Zibaldone nel corso del decisivo 1819. Lo spunto è offerto dal ritrovamento di una cospicua parte del De re publica ciceroniano a opera dell’erudito cui il testo è dedicato. Come nelle altre canzoni civili dei Canti, la struttura logico-argomentativa insiste sul contrasto tra la grandezza degli antichi, la cui voce risuona anche nelle carte appena ritrovate, e la degenerata viltà dei contemporanei, tra i quali il poeta mira a costituire eccezione. La canzone si snoda attraverso il colloquio con alcune grandi figure esemplari di italiani (Dante, Petrarca, Cristoforo Colombo, Ariosto, Tasso, Alfieri), la cui progressione corrisponde fra l’altro alla scoperta, tipicamente moderna, della noia, dell’arido vero, del nulla come condizione reale dell’uomo, insomma di uno stato d’insanabile disagio esistenziale. Tale disagio è accresciuto dal clima asfissiante della Restaurazione di cui il poeta dà angosciata testimonianza. Esaltando il periodo classico e il Rinascimento, e condannando implicitamente il Medioevo che li separa (la «dira obblivione»), nonché il periodo seguito al Rinascimento e culminante nel presente, Leopardi disegna un’interpretazione della storia interamente contrapposta a quella cara alla cultura romantica. Quest’ultima valorizzava infatti il Medioevo quale culla delle civiltà nazionali e magari quale epoca profondamente cristiana, e puntava sulla fiducia nel presente in quanto epoca investita da un positivo moto di progresso (scientifico, sociale, ecc.).
In questa canzone Leopardi si misura con il prestigioso modello dei Sepolcri foscoliani, in parte imitandone e tentando di emularne lo spirito, in parte, soprattutto, rovesciandone alcune conclusioni in senso pessimistico. Foscoliano è il tema dell’esempio che promana dalle tombe dei grandi. Analoga alla struttura dei Sepolcri è la rievocazione dei grandi italiani, con coincidenza di tre nomi: Dante, Petrarca e Alfieri. Eguale è la rappresentazione mitica e idealizzata delle civiltà classiche. Simile, infine, è la speranza che dagli esempi gloriosi del passato giunga ai contemporanei un invito a riscattare la degradazione presente dell’Italia. Leopardi però rifiuta la visione umanistica di Foscolo, tesa a fare della poesia una garanzia di significato, di civiltà e di possibile riscatto; e contrappone alle Muse foscoliane — che «siedon custodi dei sepolcri» allietando il deserto con il loro canto anche dopo la distruzione delle opere umane — la forza sconsolata del «nulla»: «a noi presso la culla / immoto siede, e su la tomba, il nulla». La civiltà infatti non è ripercorribile a ritroso, come invece accade nei Sepolcri: la modernità ha segnato, per Leopardi, in modo indelebile la prospettiva degli uomini, mettendoli a contatto con la coscienza del vuoto di senso e del dolore. Infine, il riscatto resta assai difficile, e comunque affidato piuttosto all’azione che non all’arte: la componente titanica (e alfieriana) della sua formazione prevale di gran lunga sull’educazione classicistica.
Giacomo Leopardi, Nelle nozze della sorella Paolina
La canzone trae occasione da un progetto di nozze della sorella, poi fallito; fu composta tra l’ottobre e il novembre del 1822. Nelle nozze della sorella Paolina affronta il tema dell’educazione: la sorella è invitata dal poeta a educare i figli senza venire a compromessi con la dominante degradazione dei valori, scegliendo di fare dei propri figli dei «miseri» piuttosto che dei «codardi».È coeva a A un vincitore nel gioco del pallone (ottobre-novembre 1822), che la segue nella struttura definitiva dei Canti.
Giacomo Leopardi, A un vincitore nel pallone
La canzone A un vincitore nel pallone, dedicata a un campione di calcio recanatese, rilancia un tema già presente in Ad Angelo Mai e tipico della riflessione di Leopardi già nel 1819: la centralità dei valori corporali quale premessa della felicità e della nobiltà d’animo. Nella sfida agonistica al destino e nel rischio dell’avventura viene prospettata l’unica possibilità di sottrarsi al nulla e all’insensatezza della vita, soprattutto presente. La virtù è dunque definita in termini assai poco tradizionali: non come saggezza e moderazione, ma come radicale messa in discussione dei consueti punti di riferimento esistenziali e come sfida estrema.
Giacomo Leopardi, Bruto minore
Composta da Leopardi nel dicembre 1821, il Bruto minore è, insieme all’Ultimo canto di Saffo, una delle due canzoni del suicidio dei Canti. Chi parla è un personaggio storico fittizio, la cui riflessione delinea un’allegoria della disillusione e della rinuncia. Leopardi scrive così il proprio Werther (o il proprio Ortis), ricollegandosi originalmente al fortunato tema romantico del suicidio eroico, in Italia già solidamente presente nel teatro preromantico di Vittorio Alfieri (il modello forse più rilevante per i testi leopardiani).
Del Bruto minore è protagonista l’ispiratore dell’assassinio di Giulio Cesare, poi sconfitto a Filippi da Ottaviano e da Antonio.Deluso dai valori repubblicani in nome dei quali ha guidato la congiura, e travolto dall’avverso destino storico, Bruto rinnega la «stolta virtù» fin allora seguita, accusa l’indifferenza dell’universo e degli dei ai casi infelici dell’uomo, rifiuta ogni illusione di immortalità religiosa o di durata nella memoria degli uomini (tema antifoscoliano e originalmente antiumanistico), e infine esprime il desiderio di riconfondersi, morto e da tutti dimenticato, nella materia inerte. Ancora molti anni dopo, Leopardi indicherà nell’ateismo materialistico e disilluso di questa canzone il nucleo del proprio atteggiamento filosofico riguardo alle illusioni religiose e al senso della vita.
Giacomo Leopardi, Alla Primavera, o delle favole antiche
Alla Primavera, o delle favole antiche fu composta nel gennaio 1822 e occupa la settima posizione nel libro dei Canti di Leopardi. La canzone esalta la funzione dell’immaginazione ripercorrendone le incarnazioni storiche negli antichi miti ovidiani, e nello stesso tempo sottolinea il doloroso distacco dell’uomo moderno da tale rapporto di confidenza e di intrinsechezza con la natura. Le «favole antiche» possono ora essere rievocate con nostalgia, ma da un punto di vista smaliziato e distante. Leopardi si collega, per questo rimpianto dei miti antichi, a un significativo filone della grande poesia europea romantica (da Keats a Schiller a Hölderlin); e tuttavia se ne differenzia per una più acuta consapevolezza del distacco irrecuperabile dalla natura e dalla sensibilità antica.
Giacomo Leopardi, Inno ai patriarchi, o de’ principii del genere umano
L’Inno ai Patriarchi (composto da Leopardi nel luglio 1822) rientra in una progettata serie di inni cristiani, poi non realizzata. È l’ottavo testo dei Canti. Esso rappresenta il tema della felicità primitiva e originaria dell’uomo, nello stato di natura, in termini biblici, non senza utilizzare però l’influsso del pensiero di Rousseau. Il cammino della civiltà coincide con una progressiva perdita di contatto con la natura e con la scoperta dell’infelicità. Si tratta di un cammino inesorabile, che ormai stringe d’assedio gli ultimi popoli incontaminati, per esempio sterminando gli indigeni americani, cui è dedicata l’ultima strofe, in una prospettiva memore della condanna illuministica della colonizzazione europea del nuovo mondo.
Giacomo Leopardi, Ultimo canto di Saffo
Scritto nel maggio 1822, è una delle due canzoni del suicidio dei Canti di Leopardi. Tema della canzone è il conflitto tra l’infelice poetessa greca, spiritualmente sensibile ma fisicamente brutta, e l’armonia di una natura che ella può percepire ma alla quale resta estranea. Ne nasce un’accusa fiera al destino dell’uomo e agli dei, casuali distributori di felicità e d’infelicità. Qui, a differenza dell’altra canzone del suicidio, Bruto minore, la denuncia delle illusioni perde qualsiasi connotazione storica per definirsi in termini squisitamente esistenziali e filosofici. Se nel contrasto tra interiorità sensibile e appassionata e aspetto fisico brutto Leopardi poteva proiettare la propria personale esperienza, bisogna tuttavia guardarsi dal ridurre a ragioni biografiche il contrasto qui istituito tra soggetto e mondo: esso risponde a un solido esito filosofico della ricerca leopardiana, rilanciando sia il tema dell’insensatezza della virtù e della indifferenza degli dei al destino umano, sia quello della mancanza di armonia tra la condizione naturale e l’uomo (già saggiato in Alla Primavera e nell’Inno ai Patriarchi).
A differenza che nel Bruto minore, dove il protagonista è introdotto a parlare dopo una premessa narrativa, l’intero testo è qui occupato dal discorso di Saffo, della quale è, come annuncia il titolo, riprodotto l’«ultimo canto». Ciò è tanto più notevole, in quanto Leopardi trova modo di inserire all’interno del discorso diretto della poetessa anche le indimenticabili descrizioni di paesaggio iniziali e finali (cfr. Il paesaggio nei Canti di Leopardi).
Giacomo Leopardi, Il passero solitario
Legata all’ambientazione recanatese e al tema ricorrente della giovinezza sprecata è una canzone di datazione assai incerta, Il passero solitario. Assente dalla prima edizione dei Canti (1831), fu collocata da Leopardi, a partire dalla seconda (1835), ad apertura degli idilli. La composizione dovrebbe risalire dunque agli anni tra il 1831 e il 1835; ma non si può escludere che il testo fosse già in gestazione negli anni che precedono tale periodo (benché la struttura metrica e l’arditezza stilistica facciano escludere l’attribuzione agli anni della giovinezza recanatese). Il passero solitario è scritto dal punto di vista della giovinezza, presagendo il rimpianto vano degli anni maturi: ciò ne ha determinato la collocazione, quasi con funzione di anticipazione prospettica dello sviluppo complessivo del libro. La strutturazione del canto per accostamento di descrizione-evocazione, da una parte, e argomentazione-riflessione, dall’altra, è prossima a quella di A Silvia, con la variante di uno slittamento nei nessi temporali: in A Silvia il contenuto filosofico si sprigiona dal contatto tra passato e presente; nel Passero solitario dal contatto tra presente e futuro. Diversa è poi la conclusione, non riguardante, qui, la vanità delle illusioni giovanili ma, in forma complementare, il rimpianto per non averle sapute vivere fino in fondo. Paragonando la propria vita a quella del passero solitario del titolo, il poeta vi riscontra numerose analogie: l’amore della solitudine, la propensione al canto, il rifiuto dei piaceri della primavera e della giovinezza. Ma più forte e significativa risulta poi la differenza tra le due esistenze: mentre infatti il passero, guidato da un inconsapevole istinto naturale, non rimpiangerà, trascorse la primavera e la giovinezza, di aver sprecato il tempo migliore della propria vita senza goderne, il poeta invece si rivolgerà indietro con rimpianto, pentendosi inutilmente. Ancora una volta viene messa in risalto la contraddizione che attraversa l’essere umano, il quale per un verso è il prodotto di una condizione naturale e materiale e per un altro è però legato alla facoltà ragionativa con tutte le conseguenze che ciò comporta.
Giacomo Leopardi, L’infinito
L’infinito, composto da Leopardi nel 1919, è uno dei cinque idilli che nell’edizione definitiva dei Canti occupano i numeri 12-16. In soli quindici versi, la poesia presenta un complesso itinerario immaginativo e conoscitivo. L’infinitamente grande nello spazio e nel tempo è definito attraverso il confronto con una situazione di limite sensoriale: la visione di un colle e di una siepe che ostacolano lo sguardo del poeta. Riferimenti alla realtà materiale, alle percezioni sensoriali e a sentimenti e riflessioni si fondono mirabilmente, con uno scambio tra sensazioni ed emozioni che risente della formazione sensistica leopardiana. Il dato materiale è una siepe posta su un colle poco lontano dall’abitazione del poeta; tale siepe, impedendo la vista di ciò che sta al di là di essa, mette in moto un processo immaginativo e fantastico assai piacevole, permettendo al poeta di fantasticare sul concetto-limite di infinito proprio a partire da quella sensazione di limitatezza. Il vicino rumore delle foglie mosse dal vento, confrontato con le immagini di infinito evocate dal poeta, chiama in causa un secondo concetto-limite, quello di eterno. E l’abbandono al vortice di sensazioni e di immaginazioni provocato da questa esperienza fantastico-sensoriale coincide con il raggiungimento di un piacere indefinito. La scelta dell’endecasillabo sciolto risente anche di alcune composizioni di Monti, da porre all’origine letteraria di queste prove leopardiane insieme a un filone non solo italiano di poesia sentimentale ambientata in un paesaggio naturale (per quest’ultimo tema, cfr. Il paesaggio nei Canti di Leopardi).
Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa
Scritto da Leopardi nel 1820, è uno dei cinque idilli dei Canti. La sera del dì di festa alterna il confronto con un intenso paesaggio notturno dominato dalla luna e dalla distanza indifferente della donna amata e la riflessione turbinosa sull’immensità del passato (individuale e storico) perduto e irrecuperabile. Questo idillio presenta una articolazione più ampia e mossa dell’Infinito, del quale riprende in parte il tema, confrontando i segni del presente con l’infinità del tempo entro il quale essi sono collocati. Inoltre qui trova luogo una riflessione sul tema della perdita e della vanità di ogni cosa (il biblico tema dell’ubi sunt?), misurato tanto sul riferimento colto e collettivo dei «popoli antichi» scomparsi, quanto sul riferimento alla personale esperienza dell’io, a cui rimanda anche il canto di un artigiano che torna a casa, alla fine del giorno festivo. Il tema erotico presente nella sezione iniziale del testo rende meglio individuabile la tradizione fra Monti e il Werther di Goethe del componimento, imperniato su una vicenda sentimentale e su una ricerca interiore del significato della vita.
Giacomo Leopardi, Alla luna
Alla luna (composta forse nel 1819) è uno dei cinque idilli di Leopardi. Presenta, come altri testi dei Canti presenta un paesaggio notturno rischiarato dalla luce lunare; ma la ricorrenza di un anniversario rende questa volta con leggerezza la sofferta solitudine del poeta, che può abbandonarsi al piacere del ricordo e dell’immaginazione.
Giacomo Leopardi, Il sogno
Il sogno (1820 o 1821) è uno dei cinque idilli presenti nei Canti di Leopardi. Come La vita solitaria (1821), ha un impianto narrativo più spiccato e uno svolgimento conseguentemente più ampio rispetto agli altri idilli. Il testo narra di un sogno avente a oggetto l’incontro con una giovane donna, ora morta, amata in passato dal poeta; il taglio poetico e l’abbandono sentimentale infondono un evidente pathos romantico al tema petrarchesco.
Giacomo Leopardi, La vita solitaria
La vita solitaria (1821) è, dei cinque idilli presenti nei Canti di Leopardi, il più vicino al modello dell’idillio campestre preromantico, rappresentando l’immersione del poeta all’interno di un paesaggio naturale ora vagheggiato con affetto, ora osservato con doloroso distacco.
Giacomo Leopardi, Consalvo
Consalvo presenta gli stessi temi di Amore e Morte, ma diversissima strutturazione formale. Si tratta di una narrazione in endecasillabi sciolti che risente in profondità della novella romantica in versi, rappresentando in Consalvo la figura del poeta e in Elvira l’amata. Per Consalvo la morte coincide con il primo e unico momento felice della vita. Informata infine dell’amore di cui è da tempo oggetto, la bellissima Elvira si decide infatti a coprire il volto dell’innamorato morente di baci pietosi. La eccentricità rispetto agli altri testi del ciclo di Aspasia spinse Leopardi a dislocare il testo tra il gruppo degli idilli e la canzone Alla sua donna, allontanandolo dalle composizioni cronologicamente e tematicamente affini. Consalvo costituisce senza dubbio, all’interno dei Canti, una direzione di ricerca secondaria e subito interrotta, oltre che artisticamente meno interessante; significativa tuttavia della vivacità sperimentale dell’autore in questi anni.
Giacomo Leopardi, Alla sua donna
Collocata da Leopardi al centro del libro dei Canti, la canzone Alla sua donna (settembre 1823), diversamente dalle canzoni civili del 1818-1822, si ricollega alla tradizione della lirica amorosa petrarchesca; tuttavia, questo richiamo alla tradizione non è privo di un intento polemico e negativo, che ne sconvolge i termini. La «donna» cui Leopardi si rivolge è per costituzione assente e anzi non esistente; è cioè una pura immaginazione, o illusione, del soggetto poetico. Il canto d’amore si rivolge dunque a un’immagine, di cui viene negata non solo la realtà ma anche la possibilità. In questo modo a essere cantata è la forza di quelle illusioni che la conoscenza del reale distrugge: la cara immaginazione afferma la propria funzione consolatoria nel confronto con l’arido vero del mondo. Tuttavia, più forte ancora del risarcimento illusorio è il peso dell’accusa che si leva da questo testo: l’assenza e l’impossibilità di ciò che l’uomo concepisce quale unica possibile consolazione ai mali della vita valgono a provare la negatività e l’orrore di un mondo dove «son gli anni infausti e brevi». Alla sua donna propone infine l’ultima forma possibile di poesia d’amore, delineando una passione senza oggetto e senza speranza; così da mettere un punto fermo alla stessa tradizione del petrarchismo, che pure molti critici vedono confluire in Leopardi. Lo stile sostenuto e colloquiale insieme, l’originale soluzione metrica (innovativa e mossa rispetto alla struttura tradizionale della canzone), il pacato intento dimostrativo fanno di questa canzone un’anticipazione suggestiva dei risultati leopardiani più tardi.
Giacomo Leopardi, Al conte Carlo Pepoli
L’epistola in endecasillabi sciolti Al conte Carlo Pepoli fu letta presso un’accademia bolognese il 28 marzo 1826. Essa testimonia in modo esplicito la volontà di distacco dalla poesia e dalle illusioni che essa porta necessariamente con sé, costituendo uno dei documenti più interessanti del peculiare atteggiamento di Leopardi in questi anni di primo contatto con la società italiana fuori da Recanati: di fronte alle grandi speranze delle ideologie progressiste e liberali, egli si pone in un atteggiamento disincantato e scettico, facendo ricorso a una continua corrosione critica delle consuetudini culturali e sociali. Nel pacato tono raziocinante dell’epistola, spicca la scelta dell’«acerbo vero», cui il poeta dichiara di voler dedicare tutti i propri studi, rinunciando alle illusioni e alle consolazioni comuni agli altri uomini.
Giacomo Leopardi, Il risorgimento
Composto nell’aprile 1828, è il primo dei canti pisano-recanatesi e prende le mosse dalla crisi che aveva provocato il precedente silenzio poetico, ripercorrendone i sintomi sulla base dell’esposizione di Al conte Carlo Pepoli, che non a caso la precede nella meditata struttura dei Canti. Divenuto insensibile alle bellezze della natura e alle sollecitazioni della vita sociale, il poeta aveva perso ogni capacità di appassionarsi e di illudersi. Ora quella capacità rinasce, i sentimenti tornano a manifestarsi con forza; benché nella perfetta coscienza della sordità e della insensibilità della natura alle emozioni (positive o negative) degli uomini. È questa la grande novità della nuova poesia di Leopardi; novità dalla quale si sviluppano anche i testi successivi. Da essa deriva una tensione più forte ancora che in passato tra desideri, speranze, bisogni dell’uomo e reali possibilità di soddisfacimento. La condizione umana nega il piacere, cui l’uomo aspira con tutte le forze. Leopardi si appresta dunque a cantare questa aspirazione sullo sfondo della sua costitutiva irrealizzabilità; si appresta a essere poeta delle illusioni sulle rovine di ogni possibile illusione. La sua sarà quindi la poesia appassionata degli slanci tipici dell’uomo (l’amore) e, al tempo stesso, la poesia che definisce con nettezza, in termini filosofici, la vanità di quegli slanci, comunque destinati al fallimento. Il risorgimento ha una chiara funzione programmatica e, nella prospettiva del libro, strutturale; ma resta formalmente irrisolto, segnando un momento di isolata ripresa, da parte del Leopardi maturo, del metro della canzonetta di settenari caro all’Accademia dell’Arcadia, con l’inevitabile seguito di lessico e stile derivati da Metestasio.
Giacomo Leopardi, A Silvia
A Silvia, composta da Leopardi a Pisa tra il 19 e il 20 aprile 1828, è il primo esempio, nella poesia leopardiana, di canzone libera. La libertà del metro e delle rime, che porta alle estreme conseguenze l’esperimento di Alla sua donna, si associa a una sensibilità musicale di altissima suggestione; ed è soprattutto a componimenti come questo che si appoggia il titolo complessivo di Canti. Il tema riporta alla giovinezza recanatese, rievocata con tenerezza e abbandono nel momento stesso in cui ne viene impietosamente diagnosticato il fragile destino di disillusione e di morte; la tisi che uccide Silvia e la delusione che colpisce tutte le speranze di Giacomo sono i referti portati a testimonianza di un destino generale dell’uomo; in ogni caso irrealizzate restano le illusioni e le speranze della giovinezza, la cui estinzione suona quale inesorabile condanna rivolta al destino e alla condizione umana. L’esperienza dell’io supera il confine esistenziale prevalente negli idilli giovanili, e viene ad assumere un significato generale e filosofico, in linea con la poesia del Leopardi maturo. Forse nessun altro poeta ha saputo ritrarre con altrettanta intensità l’autentico sapore dell’adolescenza di quanto faccia qui Leopardi, in un componimento dove di quella stagione vengono poi svelati la crudeltà e il necessario disinganno. Il rivelarsi tragico della verità, con la morte di Silvia, suscita la protesta del poeta nei confronti della natura, crudele ingannatrice e persecutrice degli uomini. Così che la verità della condizione umana, infine svelata, coincide con la perdita di ogni speranza e con il fissarsi dello sguardo sulla morte.
Giacomo Leopardi, Le ricordanze
Le ricordanze (scritto da Leopardi nell’agosto-settembre 1829) è una sorta di originale poemetto narrativo in endecasillabi sciolti; occupa la ventiduesima posizione nel libro dei Canti. Tanto il metro, quanto l’ondeggiare delle sensazioni e della memoria, quanto infine il tema squisitamente recanatese fanno di questo testo il più prossimo, tra i canti pisano-recanatesi, agli idilli giovanili, e l’unico al quale potrebbe adattarsi la definizione (comunque non leopardiana) di “grande idillio”. La rievocazione del passato, delle sue attese e delle successive delusioni si affida a un «andamento a onde di ricordo» (Binni), originate a partire da specifiche sensazioni del presente o per associazione di idee. La funzione del ricordare, come già è annunciato dal titolo, occupa il centro creativo, suscitando una serie di rievocazioni, il cui contatto con il presente può essere di continuità o, più spesso, di contrasto. Eguali, cioè, sono le apparenze da cui il ricordo muove ed è facilitato (i ritmi ritrovati della casa natale e di Recanati); ma diversissima risulta poi, su tale sfondo immutato, la posizione del soggetto, ovvero la sua risposta interiore. L’introduzione nell’ultima strofe di una fanciulla morta, Nerina, stabilisce un punto di contatto con A Silvia, della quale è tuttavia qui assente il rigore dimostrativo. Al taglio tragico di A Silvia si sostituisce qui un tono malinconico, non senza ampi squarci di abbandono trasognato e quasi di recupero provvisorio e parziale di quelle medesime illusioni di cui si rievoca la breve e intensissima vicenda. L’impianto narrativo suggerito dal metro e dalla estensione del componimento (ben 173 versi) è segnato da una decisa intenzione di musicalità: il prevalere di periodi lunghi e sinuosi, la frequenza degli enjambements, il trascolorare dei temi, delle immagini e delle sensazioni nel passaggio da un ricordo a un altro, la scelta di un lessico nobile ma intimo e di una sintassi sostenuta ma scorrevole determinano l’eccezionale comunicatività del testo.
Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia
Composto da Leopardi tra l’ottobre dal 1829 e l’aprile del 1830, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia introduce a parlare un uomo vissuto lontano dalla civiltà occidentale, così da sottolineare la base antropologica dei suoi interrogativi, del suo bisogno di significato e di valore. In un colloquio notturno e solitario con la luna e in una riflessione sulla propria vicenda e sulla condizione umana in generale, il pastore formula varie ipotesi di senso, giungendo infine a tratteggiare una rappresentazione desolata e pessimistica della vita. Il desiderio di ricevere risposte dalla natura (simboleggiata dalla luna) e lo slancio comunicativo verso di essa si scontrano con l’indifferenza assoluta dell’universo, l’unica eventuale coerenza del quale sembra finalizzata alla sofferenza dell’uomo.
Rispetto al tono piano ma appassionato di A Silvia e al patetico colloquio con se stesso delle Ricordanze, il Canto notturno presenta un andamento più distaccato e severo. La presenza di numerosi rimandi alla tradizione petrarchesca corrisponde a un rovesciamento della prospettiva di Petrarca: alla corrispondenza tra io e mondo del poeta medievale si sostituisce la separazione irreparabile del poeta moderno. Nella canzone Ne la stagion che ‘l ciel rapido inchina del Canzoniere di Petrarca, ad esempio, la «vecchierella pellegrina» «oblia» nel «riposo» la fatica del lungo cammino, mentre nel Canto notturno il «vecchierel», cadendo infine nell’«abisso orrido immenso» della morte, «obblia» di essere esistito, cioè risprofonda nel nulla; in Petrarca il «pastor», dopo aver guidato la sua greggia durante il giorno, a sera si riposa e «senza pensier s’adagia e dorme», con tutt’altra serenità dell’inquieto e insonne pastore leopardiano; in Petrarca, infine, l’irrequietezza del poeta innamorato funge da eccezione all’armonia rasserenata del creato, laddove nel canto di Leopardi l’irrequietezza costituisce la cifra ineliminabile della condizione umana.
Giacomo Leopardi, La quiete dopo la tempesta
La quiete dopo la tempesta, fu composto da Leopardi nel settembre 1829 come Il sabato del villaggio e come quel testo rappresenta un momento della vita recanatese caricandolo di un intenso significato simbolico: qui il ritorno del sereno dopo un temporale, nel Sabato la vigilia di una festa. A una lettura superficiale i due testi possono sembrare tutti risolti in un’affettuosa descrizione delle piccole gioie umili concesse all’uomo; ma a uno sguardo più approfondito emerge una rigorosa intenzione dimostrativa: gli unici piaceri consistono nella cessazione provvisoria di un dolore (La quiete dopo la tempesta) o nell’attesa illusoria di un bene che sta per venire (Il sabato del villaggio). Vi è cioè una perfetta coerenza con le riflessioni leopardiane sul piacere affidate allo Zibaldone già molti anni prima; il piacere non è mai presente in atto. E dunque la conclusione sarà in ogni caso desolata e amara: se la fine di un dolore (come il ritorno del sereno dopo la tempesta) è esso stesso un piacere, allora la morte sarà il piacere più grande, ponendo fine a tutti i dolori di cui la vita è intessuta.
Nella Quiete dopo la tempesta la prevalenza di un elemento descrittivo puro (da vero e proprio idillio in senso classico), nella prima parte, serve a preparare la “stoccata” finale: il veleno sta nella coda, cioè nella conclusione gnomica. È questa che funzionalizza in chiave filosofica la descrizione che precede, e le dà, attraverso l’interpretazione, un senso. In questo caso, cioè, il momento descrittivo e quello meditativo non sono intrecciati, come nel Canto notturno, nella Ginestra e in altri testi leopardiani, ma nettamente distinti.
Giacomo Leopardi, Il sabato del villaggio
Ne Il sabato del villaggio, composto nel settembre 1829, Leopardi rappresenta un momento della vita recanatese (la vigilia di una festa), caricandolo di un intenso significato simbolico, così come aveva fatto nella coeva La quiete dopo la tempesta (i due testi sono tra l’altro contigui nel libro dei Canti). Al di là dell’apparente facilità dei due testi c’è una rigorosa intenzione dimostrativa: gli unici piaceri consistono nella cessazione provvisoria di un dolore (La quiete dopo la tempesta) o nell’attesa illusoria di un bene che sta per venire (Il sabato del villaggio). Dunque, se la fine di un dolore (come il ritorno del sereno dopo la tempesta) è esso stesso un piacere, allora la morte sarà il piacere più grande, ponendo fine a tutti i dolori di cui la vita è intessuta.
Rispetto alla dura ironia della Quiete dopo la tempesta, nel Sabato del villaggio si registra una inedita partecipazione umanamente affettuosa ai semplici sentimenti comuni, nonché una trepida reticenza nei confronti del fanciullo cui è rivolto l’appello conclusivo.
Giacomo Leopardi, Il pensiero dominante
Il più antico delle poesie del “ciclo” di Aspasia è con ogni probabilità Il pensiero dominante (scritto forse nella primavera del 1831 e inserito da Leopardi al ventiduesimo posto nel libro dei Canti).
Il testo è ostinatamente dedicato a una definizione e rappresentazione concettuale dell’amore. La forza e il significato dell’amore quale esperienza del soggetto hanno più rilevanza della stessa vicenda biografica da cui tale esperienza si origina. E tuttavia è la concretezza del pensiero, cioè i suoi effetti e le sue conseguenze, a interessare al poeta. La struttura e lo stile definiscono una originale ripresa del versante tragico dello stilnovismo (Cavalcanti), benché il pensiero d’amore non venga rappresentato per ora in termini destabilizzanti, ma piuttosto quale inesorabile rafforzamento (perfino eroico) dell’io: la diversità del soggetto dal presente superbo e sciocco viene infatti esaltata al massimo grado, con implicita condanna di tutto ciò che esula dal cerchio vivificante dell’amore. Quest’ultimo si definisce come sfida estrema alla coscienza della negatività del mondo, coscienza che resta ben presente nel soggetto anche nel momento in cui questi si dispone a fare proprio il punto di vista vitalmente illusorio dell’amore. Nasce qui con forza la nuova poetica antidillica del Leopardi tardo: il paesaggio, scabro e stilizzato, è adibito a una funzione tutta interiore, a una specie di metafisica della passione; il presente domina sul ricordo, affermandosi quale tempo unico dell’io e della sua esperienza coinvolgente; ogni residuo rapporto sentimentale con i referti biografici è spezzato a vantaggio di una raffigurazione oggettiva ed eroica della propria condizione di innamorato. L’esperienza d’amore (ma l’amore non è mai nominato) si configura, da un lato, quale verifica solitaria della grandezza del soggetto, e, dall’altro, quale parametro di condanna del presente, anche in termini rigorosamente culturali; la forza materiale della passione smentisce l’ideologia spiritualistica e moderata dominante.
La componente appassionata ed entusiastica di questo canto non rinnega il pessimismo filosofico leopardiano, ma se ne nutre e vi si confronta: l’amore è un’illusione che distrugge tutte le altre illusioni. La potenza dell’amore sta infine appunto nel vigore delle illusioni che esso è in grado di suscitare e promuovere. Queste per un verso ridanno senso alla vita, per un altro lo tolgono definitivamente a tutte le parvenze sociali e alle loro inautentiche consuetudini. Benché espressione consapevole di un’illusione, l’amore costituisce l’ultima occasione per i moderni di vivere un’esperienza risolutiva che renda adulti e offra un punto di vista maturo da cui interpretare il mondo.
Giacomo Leopardi, Amore e morte
Il tema squisitamente romantico di Amore e morte (forse dell’estate 1832) è affrontato da Leopardi con un originale rovesciamento dei pregiudizi comuni: la morte può essere raffigurata quale una «bellissima fanciulla» purché si abbia il coraggio di fissarla senza viltà, avvertendo il nesso profondo che la lega all’amore. Come in altri testi dei Canti, l’esperienza radicale e privilegiata dell’amore si presenta quale antitesi al «mondo sciocco» e quale unica consolazione, insieme appunto alla morte, concessa ai mali degli uomini. L’augurio per chi sappia vivere con eroica passione è dunque di sperimentare l’uno o l’altro dei due «fratelli», l’amore o la morte. La canzone si conclude con una lunga, appassionata invocazione del poeta alla morte, unica ad avere veramente pietà degli uomini, perché si affretti a raggiungerlo. Coerentemente alla conclusione del Dialogo di Tristano e di un amico, la prospettiva autentica e risolutiva della morte comincia ad apparire preferibile a quella, intensa ma pur sempre limitata e illusoria, dell’amore.
Giacomo Leopardi, A se stesso
Il brevissimo A se stesso, composto probabilmente intorno al maggio 1833, costituisce un esempio di novità formale di altissimo valore e di sconcertante modernità espressiva all’interno del ciclo di Aspasia e più in generale all’interno dei Canti. Qui la forza dell’asseverazione supera il bisogno di sfogo, rilanciando una tipologia di scrittura poetica inaugurata alcuni anni prima con il Coro di morti nell’operetta morale Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie. La fine dell’amore di Leopardi per Fanny-Aspasia coincide con una disillusione senza scampo riguardo al senso dell’esistenza. La sintassi e la metrica cooperano nel definire uno stile nuovo, concentrato e incisivo: la presenza di energici periodi verbali e nominali, il dominio della paratassi, il tono sentenziante e apodittico, il vigore degli enjambements fanno di questa prova leopardiana un caso estremo di audacia sperimentale, che guarda verso esiti addirittura novecenteschi.
Giacomo Leopardi, Aspasia
L’ultimo dei cinque canti del ciclo di Aspasia, intitolato appunto Aspasia e composto, pare, nella primavera del 1834, è una rievocazione della vicenda dell’amore per Fanny. Qui è ricordato l’incontro con la donna, «dotta allettatrice», puntando su pochi intensi elementi scenografici (la primavera, il colore del vestito di lei, viola scuro) e psicologici (l’atteggiamento di seduzione messo in opera baciando maliziosamente i figli ignari). La riconquista della propria integrità sentimentale, cioè la riuscita elaborazione del fallimento, viene quindi a occupare il centro del canto, che si chiude rivendicando la solitaria libertà del soggetto al cospetto della realtà.
Giacomo Leopardi, Sopra un bassorilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi
Il testo (forse del 1834-35) s’interroga sul senso della morte, considerata a partire dal caso esemplare di una giovane donna. Posta materialisticamente per certa l’interruzione di ogni forma di vita e dunque l’irreparabilità della fine, non è tuttavia possibile accertare se morire sia sorte peggiore che vivere; mentre certamente preferibile appare la condizione di chi muore confrontata a quella dei suoi cari, che sperimentano la perdita. Due, le accuse rivolte alla natura e alla condizione umana: aver reso la morte orribile e temuta agli occhi umani; aver voluto e previsto la perdita delle persone care, evento intollerabile, che viene a spezzare quei legami attraverso i quali l’uomo riesce faticosamente a dare senso a una vita che in sé mostra di esserne priva.
Giacomo Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima
Qui Leopardi si sofferma sul contrasto tra la bellezza della donna quale è ritratta sulla lapide funebre e l’orrore della sua condizione ora che, morta, si va decomponendo nella tomba. La condizione materiale dell’uomo determina dunque una contraddizione dolorosa tra la sensibilità acutissima alla bellezza e agli altri valori umanamente condivisi, e la loro fragilità e deperibilità: la natura corporea dell’uomo ne mortifica senza speranza le aspirazioni più nobili, svelandone il debole fondamento.
Giacomo Leopardi, Palinodia al marchese Gino Capponi
La Palinodia al marchese Gino Capponi, composta da Leopardi al principio del 1835, ricorre al modello pariniano degli endecasillabi sciolti e della satira fondata sull’antifrasi. Fingendo di essersi pentito del proprio pessimismo e di aderire ai miti dei progressisti moderati fiorentini (dei quali Capponi è un esponente di spicco), in realtà Leopardi deride la fiducia di questi ultimi, mettendone in risalto tanto la superficialità quanto l’infondatezza. I miti del progresso, della perfettibilità indefinita dell’uomo, delle nuove scienze (come la statistica) sono ridotti a fragili illusioni salottiere, a scambio di idee senza costrutto tra privilegiati frequentatori di caffè e oziosi lettori di giornali, esponenti di un mondo borghese che non sa discernere il puro accumulo di beni materiali e di possibilità tecniche dalla concreta condizione degli individui (che resta la sofferenza). Il messaggio conferma infine la sostanziale infelicità della condizione umana e l’incorreggibile cattiveria dell’uomo sociale.
Giacomo Leopardi, Il tramonto della luna
Il tramonto della luna, scritto nel 1836 o 1837, resuscita per l’ultima volta lo scenario da idillio di un paesaggio lunare messo a confronto con il destino individuale dell’uomo. L’ultima luna di Leopardi è, come annuncia già il titolo, una luna che tramonta, lasciando deserto e oscuro il cielo notturno. Così passa dalla vita dell’uomo la giovinezza. Mentre però il paesaggio naturale è inserito dentro un ritmo circolare che vedrà presto affacciarsi il sole a riportare la luce, la vita umana è invece destinata, una volta passata la giovinezza, ad inabissarsi verso il buio della vecchiaia, avendo quale unica meta il termine squallido e insensato della morte (cfr. Il paesaggio nei Canti).
La grande similitudine tra scenario naturale ed esperienza umana si configura dunque come una mesta allegoria, volta a definire l’asimmetria tra i ritmi naturali e quelli individuali, così da lanciare una definitiva valutazione pessimistica intorno al senso della vita umana.
Giacomo Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto
Con La ginestra, o il fiore del deserto, composta a Torre del Greco, nei pressi di Napoli, nella primavera del 1836, Leopardi consegna quello che può in qualche modo essere considerato il suo testamento ideale, nonché un testo che per complessità e vastità d’orizzonti può essere paragonato, tra i contemporanei, solo ai Sepolcri foscoliani, e che, quanto a tenuta formale e a tensione intellettuale, trova l’eguale solo nel lontano modello della poesia di Dante.
Le sette parti strofiche in cui i 317 versi della canzone libera sono distribuiti (con una lunghezza ineguagliata negli altri testi dei Canti) si soffermano su un complesso tessuto problematico, che affianca una ricognizione esistenziale intorno al senso e al destino dell’uomo a una discussione serrata e vivace con le posizioni ideologiche dominanti, fino ad avanzare una proposta sociale fondata sull’alleanza tra gli uomini e su un modello equo e solidale di società.
Il paesaggio desolato del Vesuvio è il luogo-simbolo della condizione umana sulla terra, e consente di smentire ogni facile ottimismo consolatorio. Su questa considerazione si innesta la critica, condotta con acuto disprezzo, per le tendenze filosofiche dominanti negli anni della Restaurazione, improntate a uno spiritualismo religioso e a una prospettiva sociale progressista, ma in ogni caso fiduciose nel valore privilegiato della specie umana. Leopardi rinfaccia a tali tendenze di aver rinnegato la grande stagione del razionalismo settecentesco culminata nel pensiero degli illuministi. Contro il pensiero «servo» dominante gli anni della Restaurazione, Leopardi rivendica la dignità del proprio andare controcorrente, e il dovere di denunciare l’infelicità costitutiva e non modificabile della condizione umana: sempre, infatti, il dolore, la vecchiaia, la malattia, la morte, le calamità naturali renderanno dolorosa la vita dell’uomo sulla terra.
Questa rivendicazione di tipo filosofico non si accontenta però di reclamare la propria fondatezza obiettiva nei dati di fatto: si propone quale modo di sentire per tutti e quale coscienza diffusamente umana di una futura umanità liberata da tutte le interessate e fuorvianti mitologie consolatorie della religione e del progresso tecnico-scientifico. Sta forse qui, in questo passaggio a una prospettiva sociale allargata, il dato più nuovo e originale della posizione leopardiana: la verità, ovvero la obiettiva coscienza delle cose quali esse sono in realtà, non è più concepita quale mero dato filosofico ma ha valore in quanto consapevolezza diffusa, quale coscienza di tutti gli uomini. Agli intellettuali compete semmai di favorire questa presa di coscienza, invece di mistificare i dati reali in nome di ideologie interessate e infondate. Tale consapevolezza di massa riguardo all’infelicità e alla fragilità della condizione umana può quindi consentire l’individuazione del vero nemico degli uomini, la natura; ed è contro di essa che deve compiersi un’alleanza tra tutti gli uomini, tesi a costruire una rete di solidarietà e di soccorso reciproco. Modelli positivi sono l’uomo malato e povero che riscatta la propria dignità nel non dissimulare vigliaccamente la propria reale condizione ma mostrandosi anzi senza vergogna quale è realmente, e, soprattutto, l’umile ginestra, che attende sulle pendici del vulcano la distruzione imminente o possibile senza per questo cercare risarcimento in illusorie prospettive di durata, e anzi pronta a piegarsi sotto la lava senza inchinarsi con viltà davanti al destino né elevarsi con un orgoglio ingiustificato.

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