Giovanni Verga

Materie:Appunti
Categoria:Italiano

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Testo

GIOVANNI VERGA
La formazione e le opere giovanili
Giovanni Verga nacque a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di proprietari terrieri. Nel 1858 si iscrisse alla facoltà di legge, ma presto interruppe gli studi preso dalle vicende politiche legate all’unificazione italiana. Alle letture dei classici preferiva i romanzi francesi. Le prime esperienze di scrittura furono romanzi di intonazione storico-romantica, in cui l’impegno artistico è sopraffatto dalla passione politica. Nel 1869 si trasferì a Firenze, allora capitale del Regno d’Italia. Si accostò ai circoli letterari e strinse amicizia con Luigi Capuana. Nel 1872 Verga si trasferì a Milano e vi rimase per vent’anni. Qui conobbe esponenti della Scapigliatura milanese e lesse i grandi scrittori realisti francesi. Gli Scapigliati erano un gruppo di avanguardia letteraria che viveva una vita sregolata rifugiandosi nell’alcool. Protestano contro il Romanticismo senza proporre una nuova poesia. Tuttavia eliminarono gli ultimi residui del Romanticismo aprendo la strada al Verismo. Verga, nel gruppo dei romanzi milanesi, esprime lo sdegno contro la società del benessere che, secondo lui, aveva tradito le speranze risorgimentali.
Dal Romanticismo al Verismo
Nel 1874 scrisse Nedda. La novella anticipa la narrativa verista ma non è la piena espressione della nuova poetica, perché il narratore è onnisciente e commenta le sofferenze della protagonista. Il racconto parla di una ragazza, costretta a un duro lavoro sia dalla povertà sia dalla malattia della madre. La madre muore e Nedda è costretta a cercare lavoro, sostenuta da Janu, un contadino che lavora con lei. I giovani hanno una bambina ma, un giorno, Janu muore nel lavoro e Nedda resta sola con la bambina. La piccola, nata rachitica e debole, muore a causa della fame. Nedda è sola con il suo dolore e la sua miseria. La conversione di Verga al Verismo andò maturando in quegli anni, sulla scia della poetica naturalista e delle teorie sul romanzo elaborate da Zola, che consistevano principalmente nell’estensione del metodo scientifico alla letteratura. L’artista deve trascrivere le vicende in modo impersonale, scomparendo dietro a ciò che narra. Nel 1878 il racconto Rosso Malpelo inaugura la stagione della produzione verista. Così veniva preannunciato il ciclo intitolato I vinti, che doveva comprendere cinque opere: Padron ‘Ntoni (poi I Malavoglia), Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso. In questi romanzi Verga voleva offrire un quadro totale della lotta per la vita, rappresentata a tutti i livelli sociali. Gli anni dal 1880 al 1893 rappresentarono il decennio della creatività, in cui l’autore scrisse i suoi capolavori:
• la raccolta di novelle Vita dei campi (1880);
• I Malavoglia (1881);
• le Novelle rusticane, i racconti Per le vie (1883);
• le novelle della raccolta Vagabondaggio (1887);
• Mastro-don Gesualdo (1888).
All’involuzione politica si accompagnò una crisi creativa. Non fu concluso il terzo romanzo del ciclo dei Vinti, La duchessa di Leyra, di cui stese quasi due capitoli. Verga morì a Catania il 14 gennaio 1922.
Le strategie narrative di Verga
Per rispettare il canone dell’impersonalità, Verga trovò soluzioni stilistiche che nei Malavoglia la loro maggiore applicazione e che sono:
• L’eclissi dell’autore: il romanzo deve escludere ogni intervento diretto dell’autore. L’autore si eclissa, si annulla. Il lettore deve avere l’impressione di essere presente all’avvenimento e non di vederlo tramite “la lente dello scrittore”;
• la regressione: a raccontare sono gli stessi personaggi che esprimono a modo loro idee, sentimenti e passioni.
Il narratore non corrisponde allo scrittore, non è onnisciente. La voce narrante deve regredire dal livello culturale dell’autore a quello dei personaggi. La tecnica dello straniamento consiste di mettere in evidenza il divario tra la visione delle cose del narratore e quella dell’autore. Il linguaggio deve adeguarsi al vero, ricostruire i fatti con precisione oggettiva. Il ricorso frequente a modi di dire e proverbi ha la funzione di esprimere la saggezza popolare della gente umile. La sintassi è semplice ed elementare; prevalgono la paratassi (periodi composti da frasi semplici) e periodi strutturati secondo il discorso indiretto libero che si esprime in terza persona. Così filtrano direttamente i fatti narrati dal punto di vista del personaggio. Si può individuare tramite:
• l’assenza del “che”, che fa sì che il ritmo del periodo sia più vivace;
• la presenza di “?”, “!” e puntini di sospensione; l’uso dell’imperfetto e del condizionale passato.
La visione della vita nella narrativa di Verga
Dalla dottrina darwiniana, Verga derivò la consapevolezza che la legge del più forte spinge gli uomini a uno spietato antagonismo. Verga non nutriva alcuna fiducia nel miglioramento della società. La vita, secondo lui, è una perenne lotta per la sopravvivenza tra gli uomini: da questa condizione umana nessuno può sfuggire. A questa concezione pessimistica della vita si collega la convinzione secondo cui l’arte non è in grado di intervenire per cambiare la società. L’unica cosa che lo scrittore può fare è limitarsi a descrivere la realtà in modo impersonale, senza intervenire. Verga crede nella famiglia, negli affetti domestici e nel lavoro. L’ individuo che si stacca dalla tradizione è destinato al fallimento. Il lavoro è un dovere in quanto strumento di sostentamento dell’individuo. Verga nega l’esistenza della provvidenza ed esclude ogni speranza in una vita migliore nell’aldilà. Questa visione pessimistica trova spazio nel ciclo de I Vinti. Verga intendeva fornire uno spaccato della vita italiana moderna trattando tutti i ceti sociali. Tema centrale è la
lotta per la vita. Nella prefazione ai Malavoglia Verga chiarisce che intende rappresentare “il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso”. Nei Malavoglia il movente è “la lotta pei bisogni materiali”, in Mastro-don Gesualdo “l’avidità di ricchezze”. Verga scrisse solo i primi due romanzi del ciclo; gli altri tre non furono mai scritti.

VITA DEI CAMPI
L’opera che segna il definitivo approdo di Verga al Verismo è la raccolta di novelle Vita dei campi, in cui l’autore si cala nel mondo povero e arretrato dei pescatori e dei contadini siciliani. L’innovazione riguarda il canone dell’impersonalità. Verga sceglie di scomparire come autore e di affidare il racconto a un narratore popolare, cioè a una voce che viene dall’interno del gruppo sociale a cui appartengono i protagonisti. La raccolta, pubblicata nel 1880, comprende otto novelle, tra cui le più importanti sono: Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana e L’amante di Gramigna. La raccolta contiene anche due testi programmatici (la novella Fantasticheria e la lettera dedicatoria all’Amante di Gramigna), che si possono considerare “manifesti” del Verismo. In essi Verga espone la nuova poetica a cui è approdato.

ROSSO MALPELO
Questo racconto, pubblicato nel 1878, trae ispirazione da un’inchiesta parlamentare del 1876 sul lavoro minorile. Rosso Malpelo si muove in un mondo di miseria, dominato dalla legge di un lavoro disumano. Nella narrazione lo scrittore si eclissa e la voce narrante è interna al mondo rappresentato e vede le cose con gli occhi dei personaggi e le esprime con le loro parole (regressione).
Riassunto
Si chiamava Malpelo a causa dei suoi capelli rossi e secondo l’usanza, queste, erano persone cattive. Tutti lo chiamavano così, persino la madre che aveva l’occasione di vederlo il sabato sera solo per prendergli quelle poche lire che aveva guadagnato. Veniva maltrattato e deriso da tutti gli operai. Lavorava lì solo per compassione, dopo che suo padre morì in quella stessa miniera. Qualunque disgrazia accadeva veniva incolpato sempre lui e si faceva menare senza parlare, come un asino, diventando poi crudele con gli altri ragazzi più deboli come se, in questo modo, rivendicasse i torti subiti. In particolare se la prendeva con un ragazzo di nome Ranocchio, chiamato così per il suo modo di portare il sacco in spalla dopo che era caduto da un ponte. Lo pestava in vari modi senza alcun motivo, solo per fargli capire che, se non si difendeva da Malpelo che non lo voleva male, non poteva difendersi dagli altri. Ogni tanto raccontava a Ranocchio della madre che non l’aveva mai accarezzato o della sorella che l’aveva sempre ripudiato. La domenica, quando tutti i ragazzi erano puliti e andavano a giocare, lui sembrava un randagio solitario per le vie. Questo lavoro, ereditato dal padre, non spaventava Malpelo, abituato fin da piccolo a vedere buchi senza fine con all’interno uomini che ci camminano da anni senza che vedono la luce, coi loro figli che inutilmente li cercano. Un giorno Malpelo trovò la scarpa del padre e poco più in là anche un suo piede. Rimase tanto sconvolto da quella vista che sembrò essere paralizzato e decise di non voler più lavorare in quel lato della miniera. Nel frattempo fu rinvenuto il cadavere del padre e, il suo vestiario, quasi nuovo, fu dato al figlio. Comincia un discorso tra i due ragazzi in cui Malpelo parla della vita nella ‘sciara’ (lava solidificata), tra animali, che Ranocchio teme, e paesaggi notturni illuminati dalle stelle. Ranocchio racconta una vicenda detta dalla madre sui morti e sul paradiso e Malpelo, parlando dei familiari con un sorriso malizioso, gli dice che veniva trattato con affetto solo dal padre. Tempo dopo Ranocchio si ammalò e nonostante tutti i rimedi provati da Malpelo per guarirlo, comprandogli pure vino e cibo caldo con i pochi soldi che guadagnava, sembravano non esserci cure. Un giorno Ranocchio non venne a lavoro e Malpelo andò a trovarlo. Egli vide una scena mai vista prima: la madre di Ranocchio piangeva per le condizioni critiche del figlio che lo portarono alla morte. Di questo pianto, Malpelo, non se ne capacitava perché non aveva mai visto piangere sua madre per lui. Un giorno si doveva esplorare un passaggio e, dato che nessun minatore avrebbe voluto perdersi tra quei cunicoli né tantomeno i loro figli, decisero di mandare Malpelo, l’unica persona che non sarebbe stata rimpianta. Egli partì senza dire una parola con le sue cose e gli tornò in mente la storia di quell’uomo che vaga tra i cunicoli da anni in cerca di aiuto: Malpelo fece la sua stessa fine. Nessuno seppe più nulla di lui e col passar del tempo, tra i ragazzi della cava, girò la paura di trovarselo davanti all’improvviso con i “capelli rossi” e gli “occhiacci grigi”.
UN DOCUMENTO UMANO
La novella L’amante di Gramigna è introdotta da una lettera di Verga all’amico Salvatore Farina, che costituisce un documento importante delle idee sulla letteratura di Verga. In essa Verga dimostra di avere maturato il distacco dal soggettivismo romantico e di avere aderito alla poetica verista. Dice che parlerà di un “documento umano” “così come l’ho raccolto per i viottoli dei campi” e “tu preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto senza cercarlo attraverso la lente dello scrittore”.

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