Fu mattia pascal: caratteristiche

Materie:Riassunto
Categoria:Italiano
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Testo

Il fu Mattia Pascal di
Luigi Pirandello
Composizione e pubblicazione
Il romanzo fu scritto a seguito della grave crisi familiare del 1903, che pose Pirandello in cattive condizioni economiche e scatenò la malattia mentale della moglie: l’allagamento della miniera d’Aragona, nella quale il padre Stefano aveva impiegato non solo i propri ingenti capitali ma anche la dote di Antonietta, provocò il crac della famiglia e Antonietta, letta la lettera giunta ad annunciare tale catastrofe, rimase semiparalizzata e subì un gravissimo colpo psicologico.
Fra l’aprile e il giugno del 1904, sulla Nuova Antologia, fu pubblicato a puntate Il fu Mattia Pascal, che Pirandello andò scrivendo in una situazione tristissima, mentre vegliava la moglie malata, di notte, dopo aver trascorso un’intera giornata di lavoro per risollevare le sorti della famiglia. Nello stesso 1904 il romanzo viene pubblicato in volume e poi altre volte, con ritocchi e modifiche, dapprima a Milano, presso Treves (1910,1912), poi a Firenze, presso Bemporad nel 1921, con l’aggiunta, in quest’ultimo caso, di un’Avvertenza sugli scrupoli della fantasia in cui discute della verosimiglianza della trama, invitando il lettore a sviluppare un certo senso critico.
La vicenda, i personaggi, il tempo e lo spazio, i modelli narrativi
Il romanzo consta di 3 parti, che corrispondono a 3 diversi modelli di romanzo.
La storia comincia dalla fine della vicenda vissuta: ormai estraneo alla vita, già “fu Mattia”, il protagonista racconta in prima persona la propria storia. La struttura è ciclica: nei primi due capitoli,costituiti da due Premesse teoriche, e negli ultimi due, in cui si narra la trasformazione del protagonista nel “fu Mattia”, il personaggio principale è già, per l’appunto, “fu Mattia”.
Nei primi due capitoli Mattia Pascal, il protagonista, vive in uno stato di non-vita, in una condizione di acronia, di immobilità, di totale estraneazione rispetto all’esistenza, in un tempo fermo e in uno spazio morto (quello di una biblioteca che nessuno frequenta e a cui egli dovrebbe accudire). Si è in una situazione in cui non si può sviluppare alcuna storia. Qui il modulo narrativo è quello dell’antiromanzo, che esclude qualsiasi possibilità di svolgimento.
La seconda parte e un secondo romanzo nel romanzo corrispondono ai capitoli III – VI. In essi il protagonista è il giovane Pascal. Qui il modello di romanzo è quello idillico-familiare: il luogo è campestre, vicino al paese di Miragno, lontano dalla moderna civiltà industriale. Tuttavia, questa vi penetra attraverso la figura dell’amministratore-ladro Batta Malagna che pone in crisi il precedente equilibrio idillico, depauperando pian piano il patrimonio familiare di Mattia e della madre. Per vendicarsi di lui, Mattia seduce Romilda da cui il vecchio amministratore vorrebbe un figlio. La beffa erotica, che il protagonista vorrebbe tendere all’amministratore, si complica per il fatto che Mattia ingravida anche la moglie di Batta Malagna, Oliva. A questo punto il beffatore finisce beffato: mentre Malagna riconosce come proprio il figlio di Oliva, Mattia deve accettare come moglie Romilda, che invece puntava a farsi sposare dal ricco amministratore. L’inferno della nuova vita coniugale, la difficoltà economica in cui cade la nuova famiglia di Mattia, le disgrazie (muoiono la madre di Mattia e le due gemelle avute da Romilda) inducono Mattia a pensare al suicidio:
“Dopo una delle solite scene con mia suocera e mia moglie, che ora, oppresso e fiaccato com’ero dalla doppia recente sciagura, mi cagionavano un disgusto intollerabile; non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di vivere a quel modo; miserabile, senza probabilità né speranza di miglioramento, senza più il conforto che mi veniva dalla mia dolce bambina, senza alcun compenso, anche minimo, all’amarezza, allo squallore, all’orribile desolazione in cui ero piombato; per una risoluzione improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi, con le cinquecento lire di Berto in tasca”.
(Lito-Rama Edizioni, 1994, cit. pag. 56)
Appunto, per una risoluzione improvvisa, decide di recarsi a Montecarlo e di giocare alla roulette. Vinta un’ingente somma al gioco, si risolve a tornare al suo paese ma, durante il viaggio di ritorno in treno, apprende dal giornale di essere stato riconosciuto, frattanto, dalla moglie e dalla suocera in un cadavere in stato di putrefazione trovato nella gora di un mulino di Miragno. Così, decide di approfittare di tale accadimento, si fa passare per morto e si entusiasma all’idea di poter cambiare identità e di poter iniziare una nuova vita libera dai vincoli e dagli oneri caratterizzanti la precedente.
A questo punto principia la terza parte del romanzo e il terzo romanzo nel romanzo (capitoli VIII-XVI). Questa volta il modello è quello del romanzo di formazione. Il tempo e lo spazio cambiano ancora e, con essi, si modifica anche il cronotopo: il tempo e lo spazio è quello della grande città (Milano e poi Roma). Di questo terzo romanzo è protagonista l’incarnazione di Pascal, il quale assume il nome di Adriano Meis, cercando di costruirsi un nuovo io e di vivere in completa libertà, senza più obblighi di sorta. Dopo aver soggiornato per qualche tempo a Milano e, dunque, aver fatto l’esperienza della modernità in una metropoli industriale, Adriano Meis si reca a Roma, trova sistemazione nella pensione di Anselmo Paleari e s’innamora della figlia di quest’ultimo, Adriana, che il cognato Papiano insidia. Ma i timori che venga scoperta la sua vera identità e l’impossibilità di avere uno stato civile che renda possibile il matrimonio con Adriana lo angosciano incessantemente. Per non farsi riconoscere, si fa operare all’occhio strabico; e,tuttavia, per non essere scoperto, deve rinunciare a denunciare un furto che, durante una seduta spiritica, subisce ad opera di Papiano. Dopo aver capito di non poter sposare, in alcun modo, Adriana, per allontanarla da sé, si risolve a corteggiare la fidanzata di un pittore spagnolo ed è, da questi, sfidato a duello; privo d’identità, non riesce però a trovare i padrini necessari per battersi. Così, estenuato da tante difficoltà, decide di fingere il suicidio nel Tevere e quindi, di andare incontro alla sua seconda morte. Lo slancio verso la riconquista di un’originaria purezza e autenticità falliscono: perché la vita deve comunque darsi una forma, e la fatica che bisogna affrontare per crearne una nuova e sostenerne i condizionamenti e i compromessi è talora così grande che costringe a rientrare precipitosamente nella vecchia; la quale, pur con i suoi originari limiti e le sue falsità, impedendoci di essere altro da noi, allontanando il rischio della disgregazione, rende possibile l’esistenza, inchiodandoci ad una realtà sì fittizia ma inalienabile. Si può dunque definire Il fu Mattia Pascal non un romanzo di formazione bensì un antiromanzo di formazione, in cui la formazione, appunto, del protagonista, nel corso della vicenda, fallisce.
Finto il suicidio nel Tevere, si rientra nel primo romanzo, quello di cui è protagonista il “fu Mattia”. Fuggito da Roma, egli torna a Miragno, dove trova Romilda sposata all’amico Pomino e, peraltro, con una figlia avuta da costui. Rinuncia allora a vendicarsi contro di lei e ad avvalersi della legge (sarebbe lui il legittimo marito della donna); decide invece di restare a Miragno “come fuori della vita”, trascorrendo il resto dei suoi giorni tra la biblioteca di Santa Maria Liberale, godendo della compagnia del solo don Eligio Pellegrinotto, e la casa della zia Scolastica, rimasta sola dopo la morte della sorella e madre di Mattia. Ormai Mattia è diventato un personaggio, una maschera nuda : non vive più, si guarda e guarda gli altri vivere.
La conclusione del romanzo non vuole affatto affermare la necessità di una accettazione dello “stato civile” (è questa l’interpretazione di Benedetto Croce). A don Eligio, che trova il significato della storia appunto in tale conclusione, il “fu Mattia” obietta di non essere assolutamente rientrato nella “legge”, nel sistema delle convenzioni sociali, né di avere la pur minima intenzione di rientrarvi. Insomma, Mattia ha capito che la vera identità non esiste né questa, d’altra parte, può essere conferita da uno “stato civile”, che semmai riduce l’uomo a maschera, a forma :
“Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, che mi ha voluto offrir ricetto in casa sua. La mia bislacca avventura m’ha rialzato d’un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì la povera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, in compagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordine ai vecchi libri polverosi.
Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui. Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto il sigillo della confessione.
Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho dichiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.
Intanto, questo, - egli mi dice: - che fuori della legge e di quelle particolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal non è possibile vivere.
Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge, né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non saprei proprio dire ch’ io mi sia.
Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccise alla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta.
COLPITO DA AVVERSI FATI
MATTIA PASCAL
BIBLIOTECARIO
CVOR GENEROSO ANIMA APERTA
QVI VOLONTARIO
RIPOSA
LA PIETA’ DEI CONCITTADINI
QVESTA LAPIDE POSE
Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a vedermi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno, s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – mi domanda :
Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?
Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:
- Eh,caro mio … Io sono il fu Mattia Pascal.
(cit. pag. 190-191)
In definitiva, non resta altro che porsi al di fuori della vita, in una condizione di estraneità e di distacco da ogni meccanismo sociale. Pascal tronca qualsiasi rapporto vitale con la “normale” esistenza. Asserisce Romano Luperini in “L’allegoria del moderno”:
“Recidendo qualsiasi legame vitale con l’esistenza, il personaggio rifiuta ogni immediatezza e concretezza, per limitarsi a guardare beffardamente dall’esterno, in forme riflessive, dunque mediate e astratte, la vita di coloro che credono di essere persone e invece sono soltanto delle maschere incapaci di “nudità” . Inoltre, questo atteggiamento di astrazione e di distanziamento critico è fatto valere non solo nei confronti degli altri, ma anche verso se stesso. Se l’ illusione dell’identità è la prerogativa della maschera, il personaggio vi ha ormai rinunciato. A partire dal momento della trasformazione dell’uomo in “maschera nuda”, il vedersi vivere si sovrappone al vivere e lo sostituisce. Di qui in avanti il soggetto è costretto a sdoppiarsi, a cercare un senso che gli sfugge, sia che guardi la vita altrui sia che consideri la propria: l’estraneità è anche nei propri confronti.
La scelta, insomma, è quella di un’ estraneità allegorica. Per chi si sente un “forestiere” della vita, per chi non si immette nella naturalezza dell’esistenza e non aderisce ai suoi significati, le cose si presentano in una radicale sospensione del senso: fra significanti e significati si apre uno iato mai del tutto colmabile e che il soggetto può cercare di riempire solo con uno sforzo astratto e persino cerebrale. La condizione di estraneità , propria tradizionalmente delle maschere del buffone e dello sciocco, appartiene ora al personaggio umorista; e, in essa, come dice Bachtin, “l’uomo si trova in uno stato d’allegoria”. Ne deriva una duplice conseguenza: da un lato il protagonista, collocandosi fuori dal flusso dell’esistenza, non può più affidarsi alle sensazioni naturali e si pone in un atteggiamento di studio, di distanziamento umoristico, di riflessione astratta; dall’altro il romanziere, prendendo atto della fine del personaggio come eroe e come persona, tende irresistibilmente a trasformarlo in una figura di tale ricerca e dunque in un’astrazione personificata. D’altronde, se il significato non è più nelle cose, il soggetto non può più vivere all’unisono con esse.
Il Fu Mattia Pascal è il romanzo allegorico della fine dell’identità e della morte della persona. Di qui il suo rilievo storico. La nascita del personaggio è un episodio importante del tramonto della cultura romantica dell’ Erlebnis (esperienza vissuta) e un momento addirittura fondativo, in Italia, dell’allegorismo moderno”.
I temi principali e l’ideologia de Il Fu Mattia Pascal
I temi principali del romanzo sono i seguenti:
1. la famiglia, sentita come nido o come prigione. È un nido la famiglia originaria, fondata sul rapporto di tenerezza fra Pascal e la madre e sentita come idillio minacciato dall’avidità dell’amministratore; è una prigione il rapporto coniugale con Romilda e quello con la suocera, la terribile vedova Pescatore. In questo secondo caso, sembra possibile solo l’evasione. Si riflette in ciò un elemento indubbiamente autobiografico: l’idealizzazione della madre è costante in Pirandello e si accompagna, invece, all’esperienza infelice del matrimonio;
2. il gioco d’azzardo e lo spiritismo. Pirandello rappresenta minuziosamente il casinò di Montecarlo, nei pressi di Nizza, dove Mattia vince alla roulette divenendo improvvisamente ricco. La descrizione del luogo ha del reportage giornalistico e doveva servire a stimolare la curiosità del lettore borghese nei confronti di un posto favoloso e “proibito”. Per di più esso affascina Pirandello perché l’importanza del caso e il potere della sorte contribuiscono a rafforzare la sua teoria della relatività della condizione umana, sottolineando i limiti della volontà e della ragione. Inoltre, non si può non parlare dell’interesse di Pirandello per lo spiritismo, molto diffuso fra Ottocento e Novecento: la crisi del razionalismo positivista induceva infatti a occuparsi dei fenomeni non spiegabili scientificamente;
3. l’inettitudine. Il protagonista non fa tesoro dell’esperienza accumulata nella prima parte della sua vita, prendendo le distanze dal sistema che ha provocato il suo fallimento: semplicemente, è in cerca di un’altra possibilità per realizzarsi, ma sempre all’interno dello stesso sistema e mantenendone invariate le condizioni. Mattia è l’emblema dell’uomo moderno: è un inetto, un velleitario che pretende di dare una svolta alla propria vita occupandosi solo di curare i mutamenti esteriori e tralasciando di lavorare, invece, sulla propria interiorità. Ma la vera libertà non dimora lungo tale via; afferma il De Benedetti: “La libertà è possibile solo dopo il confronto con il male e la sofferenza, dunque non fuggendo la realtà ma facendo i conti con essa”. Il fatto che Mattia fugga dalla realtà e dalla possibilità di una reale evoluzione interiore fa sì che l’evasione tanto anelata da Mattia sia impossibile ed è inevitabile che egli si trasformi in un antieroe, reso inadatto alla vita pratica dalla sua stessa tendenza allo sdoppiamento, dalla sua propensione a vedersi vivere e, in sostanza, dalla sua estraneità nei confronti della vita e di se stesso:
“Uscii di casa, come un matto. Mi ritrovai dopo un pezzo per la via Flaminia, vicino a Ponte Molle. Che ero andato a fare lì? Mi guardai attorno; poi gli occhi mi s’affissarono su l’ombra del mio corpo, e rimasi un tratto a contemplarla; infine alzai un piede rabbiosamente su essa. Ma io no, io non potevo calpestarla, l’ombra mia.
Chi era più ombra di noi due? Io o lei? Due ombre!
Là, là per terra; e ciascuno poteva passarci sopra: schiacciarmi la testa, schiacciarmi il cuore: e io, zitto; l’ombra, zitta. L’ombra d’un morto: ecco la mia vita …
Scoppiai d’un maligno riso; il cagnolino scappò via, spaventato; il carrettiere si voltò a guardarmi. Allora mi mossi; e l’ombra, meco, dinanzi. Affrettai il passo per cacciarla sotto altri carri, sotto i piedi de’ viandanti, voluttuosamente. Una smania mala mi aveva preso, quasi adunghiandomi il ventre; alla fine, non potei più vedermi davanti quella mia ombra; avrei voluto scuotermela dai piedi. Mi voltai; ma ecco, la avevo dietro, ora.
“E se mi metto a correre”, pensai “mi seguirà!”.
Mi stropicciai forte la fronte, per paura che stessi per ammattire, per farmene una fissazione. Ma sì! Così era! Il simbolo, lo spettro della mia vita era quell’ombra: ero io, là per terra, esposto alla mercè dei piedi altrui. Ecco quello che restava di Mattia Pascal, morto alla Stìa: la sua ombra per le vie di Roma.
Ma aveva un cuore, quell’ombra, e non poteva amare; aveva denari, quell’ombra, e ciascuno poteva rubarglieli; aveva una testa, ma per pensare e comprendere ch’era la testa di un’ombra e non l’ombra d’una testa. Proprio così!
Allora la sentii come cosa viva, e sentii dolore per essa, come il cavallo e le ruote del carro e i piedi de’ viandanti ne avessero veramente fatto strazio. E non volli lasciarla più lì, esposta, per terra. Passò un tram, e vi montai”.

(cit. pag. 154 – 155)
4. lo specchio, il doppio, la crisi d’identità. Mattia Pascal ha un rapporto difficile non solo con la propria interiorità ma anche con il proprio corpo: ha difficoltà a identificarsi con se stesso. Spia di questo malessere è l’occhio strabico, che guarda sempre altrove. La crisi d’identità dipende anche dalla sua duplicità, rappresentata dalla sua predisposizione a sdoppiarsi e dalla sua inclinazione a porsi davanti allo specchio. Un particolare curioso da attenzionare è la ripetizione, per due volte, di alcune situazioni: Mattia Pascal seduce prima Romilda, poi Oliva; muore due volte; per due volte si dà una nuova personalità, prima come Adriano Meis , poi come “fu” Mattia Pascal. E ancora: si sostituisce spesso ad un “alter ego”, a un “doppio” di sé: per esempio si sostituisce a Pomino nell’amore di Romilda e poi è questo stesso amico a sostituirsi a lui come marito; infine, Mattia tende sempre a ripetere la stessa situazione collocandosi come terzo all’interno di un rapporto di coppia : si inserisce tra Malagna e Romilda, e anche fra la ragazza e Pomino, innamorato di lei; poi fra Adriana e Papiano; infine tra il pittore spagnolo e la fidanzata e, di nuovo, tra Romilda e Pomino. Tutto ciò concorre a considerare il nostro romanzo come una successione di specchi, successione peraltro connaturata alla riflessione umoristica;
5. la modernità, la città, il progresso, le macchine. Nel cap. IX Adriano Meis è a Milano e, frastornato dai rumori, dai tram elettrici (introdotti da poco) e dalla vista della folla, riflette sulle conseguenze del progresso tecnico, negando che la felicità sia favorita dallo sviluppo scientifico e che le macchine possano realmente servire a migliorare la condizione dell’uomo:
“Ma la vita, a considerarla così, da spettatore estraneo, mi pareva ora senza costrutto e senza scopo; mi sentivo sperduto tra quel rimescolio di gente. E intanto il frastuono, il fermento continuo della città m’ intronavano.
“O perché gli uomini”, domandavo a me stesso, smaniosamente,”si affannano così a rendere man mano più complicato il congegno della loro vita? Perché tutto questo stordimento di macchine? E che farà l’uomo quando le macchine faranno tutto? Si accorgerà allora che il così detto progresso non ha nulla a che fare con la felicità? Di tutte le invenzioni, con cui la scienza crede onestamente d’arricchire l’umanità (e la impoverisce, perché costano tanto care), che gioja in fondo proviamo noi, anche ammirandole?”
(cit. pag. 92-93)
Nel capitolo successivo, il X, Meis si sposta da Milano a Roma. La capitale viene descritta come città morta, paralizzata da un contrasto insanabile fra il glorioso passato e lo squallido presente incapace di farlo rivivere. Roma è un’acquasantiera che la modernità ha degradato trasformandola in portacenere (così sostiene Anselmo Paleari, esponendo ovviamente il punto di vista dell’autore):
“Mia figlia Adriana mi ha detto dell’acquasantiera, che stava in camera sua, si ricorda? Adriana gliela tolse dalla camera, quell’acquasantiera; ma, l’altro giorno le cadde di mano e si ruppe: ne rimase soltanto la conchetta, e questa, ora, è in camera mia, su la mia scrivania, adibita all’uso che lei per primo, distrattamente, ne aveva fatto. Ebbene, signor Meis, il destino di Roma è l’identico. I papi ne avevano fatto – a modo loro, s’intende – un’acquasantiera; noi italiani ne abbiamo fatto, a modo nostro, un portacenere,. D’ogni paese siamo venuti qua a scuotervi la cenere del nostro sigaro, che è poi il simbolo della frivolezza di questa miserrima vita nostra e dell’amaro e velenoso piacere che essa ci dà.”
(cit. pag. 103)
Per quanto riguarda le posizioni filosofiche, esse sono esposte per bocca di Anselmo Paleari nel cap. XIII, intitolato Il lanternino. Secondo Pirandello l’idea del mondo varia non solo da individuo a individuo, ma, nella stessa persona, a seconda del momento e dello stato d’animo. Poiché, però, l’uomo ha bisogno di verità assolute, egli vuole credere che i propri valori siano certi e che la realtà sia oggettiva: invece sia quelli che questa non sono che proiezioni soggettive. Solo per autoinganno, l’uomo può ritenere che la luce del “lanternino” della propria coscienza sia la luce stessa delle cose. Ne deriva il carattere illusorio di qualunque certezza, anche di quelle date dalla religione e dalla scienza. A complicare le cose, va aggiunto che gli stessi “lanternini” delle coscienze individuali cessano d’illuminare il cammino nei momenti di trapasso e di crisi: essi prendono luce dai “lanternoni”, cioè dalle grandi ideologie collettive che orientano l’umanità e che sono storicamente determinate. Quando i “lanternoni” cessano di far luce a causa dello sviluppo storico, che rende improponibili i valori del passato, allora anche i “lanternini” si spengono: Pirandello riconduce una situazione ontologica, cioè dovuta all’eterna condizione umana, ad una specifica condizione storica, la crisi di fine secolo delle ideologie:
“Questo sentimento della vita per il signor Anselmo era appunto come un lanternino che ciascuno di noi porta in sé acceso; un lanternino che ci fa vedere sperduti sulla terra, e ci fa vedere il male e il bene; un lanternino che projetta tutt’ intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l’ombra nera, l’ombra paurosa che non esisterebbe, se il lanternino non fosse acceso in noi, ma che noi dobbiamo pur troppo creder vera, fintanto ch’esso si mantiene vivo in noi. Spento alla fine a un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercè dell’Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione?[…]
Il lume d’una idea comune è alimentato dal sentimento collettivo; se questo sentimento però si scinde, rimane sì in piedi la lanterna del termine astratto, ma la fiamma dell’ idea vi crepita dentro e vi guizza e vi singhiozza, come suole avvenire in tutti i periodi che son detti di transizione. Non sono poi rare nella storia certe fiere ventate che spengono d’un tratto tutti quei lanternoni. Che piacere! Nell’improvviso bujo, allora è indescrivibile lo scompiglio delle singole lanternine. […]
Mi pare, signor Meis, che noi ci troviamo adesso in uno di questi momenti. Gran bujo e gran confusione! Tutti i lanternoni, spenti. A chi dobbiamo rivolgerci?”.

(cit. pag. 129-130)
Il fu Mattia Pascal e la poetica dell’umorismo
Pirandello volle collegare esplicitamente il nostro romanzo al libro L’umorismo, che infatti uscì nel 1908 portando la dedica “Alla buonanima di Mattia Pascal bibliotecario”. In effetti, i due capitoli iniziali di Premessa e l’intero capitolo XII , dedicato allo strappo nel cielo di carta di un teatrino e alle sue conseguenze, sono veri e propri contributi teorici alla poetica dell’umorismo, in parte ripresi e rielaborati nel saggio del 1908. Nella Premessa seconda, la nascita del relativismo moderno e dell’umorismo sono fatti dipendere dalla scoperta di Copernico e dalla fine dell’antropocentrismo tolemaico: la rivelazione che l’uomo non è più al centro del mondo e che, al contario, costituisce un’entità minima e trascurabile di un universo infinito e inconoscibile rende assurde le sue pretese di conoscenza e di verità e relative tutte le sue fedi.
Asserisce Italo Borzi, saggista e presidente dell’ Istituto di Studi Pirandelliani: “Se una delle caratteristiche del racconto sarà la trovata originale, frutto di fervida fantasia, o meglio, la constatazione dei casi incredibili che possono verificarsi, l’altra, più profonda, si atterrà alla condizione reale dell’uomo moderno, nella solitudine delle sue incertezze e delle sue contraddizioni. L’uomo diseredato, non più re di un universo che, per onorarlo, si muoveva intorno a lui, ma ridotto “su un granellino di sabbia che gira e gira senza sapere perché ”, è la conseguenza della scoperta di Copernico; “ci siamo adattati alla nuova concezione della nostra infinita piccolezza, a considerarci, anzi, men che niente nell’universo”. È come dire che non è più tempo di raccontar le solite storie, data la drammatica situazione che il mondo moderno sta vivendo, per la nuova acquisita consapevolezza della caduta di ogni valore su cui fondare la propria esistenza. È l’annuncio di una storia nuova e non solo perché più strana delle altre, ma perché nata dal crollo di antiche certezze”.
In tal senso, è significativo un passo della Premessa seconda (filosofica) a mò di scusa, passo riportato qui di seguito:
“- Non mi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In considerazione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere il mio solito ritornello:Maledetto sia Copernico!
- Oh oh oh, che c’entra Copernico! – esclama don Eligio, levandosi su la vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.
C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava…
- E dàlli! Ma se ha sempre girato!
- Non è vero. L’uomo non lo sapeva , e dunque era come se non girasse. Per tanti, anche adesso, non gira. L’ho detto l’altro giorno ad un vecchio contadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, e l’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così altamente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo bene che potesse riuscire accetta una reazione minuta e piena d’oziosi particolari. […]
Ma che volete che me n’ importi? Siamo o non siamo su un’ invisibile trottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzito che gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai al destino? […] Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l’umanità irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell’ infinita nostra piccolezza, a considerarci men che niente nell’universo, con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni; e che valore dunque volete che abbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche delle generali calamità? Storie di vermucci ormai, le nostre.[…]
Dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci ed ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovrebbero parerci miserie incalcolabili”.
(cit. pag. 24 - 25)
Nel capitolo XII, invece, si descrive quanto succede in seguito allo strappo nel cielo di carta di un teatrino: l’eroe tradizionale, Oreste, esempio di eroe coerente e sicuro, si distrae di fronte all’ imprevisto, di fronte all’ “oltre” che gli si spalanca davanti, e perciò vede cadere ogni naturalezza e spontaneità del proprio agire: cessa di vivere e comincia a guardarsi vivere trasformandosi in una sorta di moderno Amleto e divenendo di fatto un antieroe, un inetto incapace di azione. Lo strappo è qualcosa che rivela la natura fittizia della rappresentazione; allegoricamente, un evento che mostra come la vita sia una recita e come la forma nasconda la sostanza. Di seguito si riporta la pagina in cui Anselmo Paleari, in questo caso portavoce dell’autore, enuncia la trasformazione di Oreste, tipico eroe della tragedia, in un moderno Amleto:
“ - La tragedia di Oreste in un teatrino di marionette – venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. – Marionette automatiche, di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero 54. Sarebbe da andarci, signor Meis.
- La tragedia d’Oreste?
- Già! D’après Sophocle, dice il manifestino. Sarà l’ Elettra. Ora senta un po’ che bizzarria mi viene in mente! Se, nel momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
- Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle.
- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe sconcertato da quel buco nel cielo.
- E perché?
- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gli impulsi della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli andrebbero lì, a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta la differenza, signor Meis, tra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta.
E se ne andò, ciabattando. […]
L’immagine della marionetta d’ Oreste sconcertata dal buco nel cielo mi rimase un pezzo nella mente. A un certo punto : “Beate le marionette”, sospirai, “su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà: nulla! e possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato”.
(cit. pag. 118)
Detto questo, nell’edizione del 1921, Pirandello aggiunge al romanzo un’ Avvertenza sugli scrupoli della fantasia. Discutendo pubblicamente sulla verosimiglianza della trama, Pirandello sottolinea il carattere artificioso della costruzione romanzesca. Si ottiene una sorta di sdoppiamento del romanzo: da un lato esso è presentato come storia accaduta, per il fatto che il protagonista lascia il manoscritto con su la propria vicenda con “l’obbligo che nessuno possa aprirlo se non dopo la sua terza, definitiva e ultima morte” ; dall’altro si discute se tale storia può essere accaduta o meno. Dunque ogni verità è relativa, anche quella romanzesca.
Ovviamente, ne Il fu Mattia Pascal, l’umorismo non è solo teorizzato, ma anche messo in pratica. Una tipica scena umoristica, per esempio, è quella, nel cap. V, in cui, dopo la zuffa fra la vedova Pescatore e la zia Scolastica, Mattia, davanti allo specchio, vede sul suo viso lacrime sia di dolore che di riso : l’atto dell’autoriflessione e dello sdoppiamento, la mescolanza dei contrari (il riso e il pianto), il doloroso ma autoironico compatimento nei propri confronti, il fatto che l’occhio di Mattia si ferma su un dettaglio buffo e paradossale quale quello delle gambe che la vecchia vedova Pescatore mostra, involontariamente, al genero sono tutti aspetti dell’atteggiamento umoristico tipico di Pirandello:
“ Zia Scolastica scattò in piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia madre:
- Eccoti! lascia tutto. Via subito!
E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore. […]
Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.
Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore, ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo in una specie di convulsione; m’afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul pavimento; mia moglie intanto (sit venia verbo) receva di là, tra acutissime strida, mentr’ io:
-Le gambe! le gambe! – gridavo alla vedova Pescatore per terra. – Non mi mostrate le gambe, per carità!
Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d’ogni mio tormento. Mi vidi, in quell’istante, attore d’una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così, con quella matta ; mia moglie, di là, che… lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io con la barba tutta impastocchiata, il viso graffiato, grondante non sapevo ancora se di sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s’era messo a guardare più che mai altrove , altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente mia moglie e me”.
(cit. pag. 48-49)
Struttura e stile
Le soluzioni strutturali e stilistiche non sono meno singolari della vicenda. Anzitutto, per quanto concerne la narrazione, essa è retrospettiva in prima persona: principia a vicenda conclusa.
In secondo luogo, narrazione e metanarrazione, racconto e riflessione teorica sul racconto, s’ intrecciano fino a mescolarsi l’uno con l’altra, finendo per porre in discussione la naturalezza e la verità della narrazione. L’opera stessa è scritta – dice Mattia Pascal – solo per “distrazione” dall’unica verità cui egli è arrivato: che nulla ha senso e che a tale legge non si sottrae nemmeno la scrittura. È una mossa, questa, attraverso cui l’autore invalida l’autorità della storia che racconta, sollecitando così lo spirito critico e collaborativo del lettore. Detto questo, non si può fare a meno di sottolineare la rimarchevole differenza tra Pirandello e il narratore ottocentesco: mentre autori come Verga e Manzoni si prefiggevano l’obiettivo di far convinto il lettore che la vicenda da loro narrata fosse reale, Pirandello, e in generale il narratore primonovecentesco, non crede più ad alcuna verità, neanche alla propria, e invita il lettore alla diffidenza e alla sorveglianza critica.
In terzo luogo, Il fu Mattia Pascal è un romanzo soliloquio (“siamo giusti, io mi ero conciato a quel modo per gli altri,non per me. Dovevo ora star con me, così mascherato? E se tutto ciò che avevo finto e immaginato di Adriano Meis non doveva servire per gli altri, per chi doveva servire? Per me? Ma io, se mai, potevo crederci solo a patto che ci credessero gli altri.” - cit. pag. 92 ), segnato dal continuo ricorso alle interiezioni, alle esclamazioni, alle interrogazioni, alle domande retoriche, ad espressioni come “dico io”, “pensate voi”, “ecco qua”. Lo stile è quello recitativo, quasi teatrale; anch’esso contribuisce a togliere incanto, fluidità naturalezza alla narrazione. Per di più, anche la ritrattistica è grottesca, deformante e violentemente espressionista. Per finire, non si può trascurare il piano linguistico: assumendo le forme di un esagitato soliloquio, il linguaggio acquista una notevole carica di espressività.
La ricezione e le interpretazioni critiche
Il fu Mattia Pascal fu l’unica opera di Pirandello, prima dei successi teatrali, a godere di larga fortuna di pubblico, d’altronde durata ininterrotta sino ad oggi.
Fu tradotto quasi immediatamente in tedesco (1905) e poi in francese (1910) e in inglese (1923). Ebbe notevole influenza su Tozzi, che in un saggio del 1918 scrisse: “Pirandello giunge, qualche volta, all’intensità dell’assurdo; e il suo romanzo, Il fu Mattia Pascal, è la cosa più seria che si possa leggere, sebbene la meno reale, perché posa tutta in un continuo di astrazioni verosimili”. La critica primonovecentesca mostrò invece scarso interesse per il nostro romanzo. Per esempio, Benedetto Croce liquidò non solo Il fu Mattia Pascal, vedendovi semplicisticamente il trionfo dello stato civile, ma più in generale tutta l’opera pirandelliana, giudicandola un ibrido confuso di poesia e di filosofia.
La vera fortuna critica del romanzo principia all’ inizio degli anni Sessanta quando Giacomo Debenedetti dedica le sue lezioni universitarie a Il Fu Mattia Pascal, interpretandolo in chiave psicoanalitica, e Leone de Castris pubblica la sua monografia, d’impianto rigorosamente storicistico, su Pirandello. Nel lavoro di Leone de Castris si sottolinea l’aspetto critico-negativo del romanzo, visto come reazione lucidamente impietosa alla crisi primonovecentesca e come smascheramento delle risposte illusorie date dagli intellettuali dell’epoca, che le opponevano la forza della coscienza e dell’ identità individuale. Asserisce infatti Leone de Castris nel suo “Del rigore di Pirandello”:
“Prima che nella riflessione dell’ Umorismo, la verifica del necessario fallimento di ogni alternativa ideologica alla crisi del mondo storico, alla situazione tragico-grottesca dell’universo borghese, si svolge nella vicenda fortemente simbolica del piccolo intellettuale di provincia, che sperimenta per primo ad oltranza la natura illusoria e fallimentare della libertà individualistica, della fuga dalla storia : in sostanza, il fallimento di un’alternativa della coscienza, di un’interiorità come forma antagonistica alla realtà disgregata e sua ipotesi di ricomposizione. L’enunciazione marxiana (“La coscienza è immediatamente un prodotto sociale”) si cristallizza negativamente nella visione pirandellina della coscienza, che non è “castello” (solitudine e, insieme, stabilità e dominio) ma “piazza”, cioè confluenza di rapporti e incontri, proiezione di collettività. Sintesi formale di una realtà storica scissa e degradata, la coscienza non può perciò riparare, proteggere, offrire un’identità vera contro l’identità convenzionale dello “Stato Civile”. […] Nella figura di Amleto, Oreste degradato, problematizzato, eroe scentrato della tragedia moderna, nel suo essere metafora riassuntiva di quella stessa crisi dell’identità che è il significato centrale dell’avventura romanzesca di Mattia Pascal e quindi l’oggetto della sua autocoscienza critica retrospettiva, è difficile a questo punto non ravvisare la figura oggettiva dell’intellettuale dell’età giolittiana: privato delle sue certezze e modificato il suo ruolo nella società industriale, sostanzialmente emarginato nelle sue funzioni “politiche” dal nuovo corso dello Stato liberale. La copertura falsamente protettiva dello stato civile è precisamente la forma ingannevolmente benevola e per lui asfissiante dello Stato liberale: e la fuga, l’esercizio di un’identità alternativa non è che il suo tentativo di opporsi al ricatto della democrazia giolittiana, della “tirannia mascherata da libertà”. La coscienza contro la politica dunque. Senonchè il fallimento di quella fuga, il rientro di Mattia Pascal in una zona di sospensione critica , di giudizio storicamente negativo nei confronti dello “stato civile” ma insieme della consapevolezza dell’inutilità-falsità dell’avventura solitaria e irreale, significa appunto, nella prospettiva di Pirandello, il rifiuto della ricerca idealistica di un’altra forma ( di coscienza e di esistenza) di ogni alternativa ideologica e subalterna: cioè l’apertura di un’inchiesta problematica, conoscitiva, dello spazio soggettivo sconvolto, della persona in frantumi, che si logora e tenta di restaurarsi nella relatività della coscienza. Se l’identità soggettiva si scopre lo spazio vuoto di un nulla terrificante, un rifugio improponibile contro il moltiplicarsi incongruo dei frammenti oggettivi, ebbene è questa un’immagine che segna il dramma reale dell’intellettuale emarginato nella società di massa”.
Contemporaneamente a Leone de Castris, gli autori della neoavanguardia vedevano ne Il fu Mattia Pascal e nelle altre opere pirandelliane dei modelli di narrativa sperimentale per loro attuali. Fra i narratori della neoavanguardia, Luigi Malerba, che privilegia una scrittura umoristica e paradossale, è certamente quello che più si è ispirato al romanzo di Pirandello.
La critica recente è andata sempre più riconoscendo importanza a Il fu Mattia Pascal e ha riservato ad esso un posto in prima fila tra le opere della letteratura internazionale di tutti i tempi.
Bibliografia
• R. Luperini, P. Castaldi e L. Marchiani, “La scrittura e l’interpretazione”, Palermo, Palombo Editore, 1997.
• L. Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, edizione integrale, Napoli, Lito-Rama Edizioni, 1994.
• I. Borzi, “Maschere nude”, Roma, Newton Compton Editore, 1993.
• A. Leone de Castris, “Del rigore di Pirandello, Bari, De Donato, 1974.
• R. Luperini, “L’allegoria del moderno”, Roma, Editori Riuniti, 1990.

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