Divina commedia: Inferno e Purgatorio

Materie:Riassunto
Categoria:Italiano

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Testo

INFERNO CANTO I

Nella primavera del 1300, a 35 anni, l’età che egli considera il punto di mezzo della vita umana, Dante inizia il suo viaggio nell’oltretomba. Irretito in una vita peccaminosa (la selva oscura) non riesce a trovare da solo la via del bene. La selva lo riempie di terrore, essendo un chiaro preannuncio della dannazione della sua anima. Egli non saprebbe nemmeno ricostruire le fasi del suo allontanamento dalla vita virtuosa, perché quando cominciò a peccare, signoreggiato ormai dai soli istinti, privo di luce intellettuale (pieno di sonno), non aveva più la possibilità di discernere il bene dal male. Quando Dante, all’uscita dalla selva, vede la sommità del colle (simbolo della faticosa ascesa verso il bene, dell’espiazione, della purificazione) illuminata dai raggi del sole (simbolo della Grazia), comincia a sentirsi rinfrancato, come un naufrago sfuggito ai marosi e approdato, ancora incredulo della propria salvezza, alla riva. Inizia l’ascesa del colle. Ma tre belve: (allegorie di tre peccati specifici - la lussuria, la superbia, l’avarizia - o, secondo altri, delle tre categorie aristoteliche del peccato - la malizia, la sfrenata bestialità e l’incontinenza -) lo ostacolano nel suo procedere, così che egli alla fine dispera di poter raggiungere la vetta ed è sospinto nuovamente verso la valle della perdizione. A questo punto gli appare l’ombra di Virgilio (simbolo della ragione umana, della filosofia) il quale gli annuncia che, se vorrà approdare alla meta agognata dovrà seguire un altro percorso, visitando successivamente, sotto la sua guida, il regno dei dannati e quello delle anime purganti. Perché poi egli possa avere diretta conoscenza del regno degli eletti, Virgilio dovrà affidarlo alla guida di Beatrice (simbolo della fede, della teologia).

Introduzione critica
Per opinione unanime dei critici i canti introduttivi della Divina Commedia, mentre ci darebbero la chiave interpretativa di tutto il poema, non riuscirebbero a raggiungere una persuasiva individuazione di personaggi, caratteri, situazioni. Il giudizio del Croce sul primo canto può rendere ragione di questa valutazione negativa: " Specialmente il primo canto dà qualche impressione di stento: con quel "mezzo del cammino" della vita, in cui ci si ritrova in una selva che non è selva, e si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il sole, e s’incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa come, " a vivere grame molte genti". Tanta severità non è certo fatta per invogliare alla lettura chi intenda accostarsi al più profondo, e rifletta l’atmosfera del canto nel suo complesso. Diversamente da quel che accade per le figure di primo piano dell’Inferno, l’espressione che sembra caratterizzare con maggior compiutezza quella di Ciacco si riferisce ad un atto che non ha più nulla di umano: l’atto in cui egli "stravolge gli occhi, rimane un momento immobile, china la testa, poi ricade sul suolo lastricato di ombre: come se morisse un’altra volta" (Momigliano). Ma le parole con cui Virgilio commenta l’uscita di scena del personaggio ne collocano la figura sotto il crisma di una validità eterna, nella luce di una Potenza avvertita come supremamente giusta.
INFERNO CANTO VII

Con voce stridula e il volto gonfio d’ira, il guardiano del quarto cerchio, dove avari e prodighi scontano la loro pena eterna, grida parole incomprensibili all’indirizzo dei due poeti. Ma non appena Virgilio gli ricorda che il loro viaggio si compie per volontà di Dio, il suo furore svanisce; il mostro, come privato delle sue force, si accascia al suolo. Essi possono così discendere nel quarto ripiano, dove due fitte schiere di dannati spingono, in direzioni contrarie, grandi pesi. Due sono i punti del cerchio, diametralmente opposti, in cui le schiere si scontrano, rinfacciandosi a vicenda i peccati che le accomunano nel tormento disumano. Poi ciascun dannato si volge indietro e riprende a rotolare il proprio macigno fino all’altro punto d’incontro. La giostra beffarda è destinata a ripetersi in eterno. Questi peccatori sono irriconoscibili: la mancanza di discernimento che li spinse ad accumulare o sperperare il denaro, li confonde ora tutti in una massa indifferenziata ed anonima. "Nessuno dei beni che sono affidati al governo della Fortuna ricorda Virgilio - potrebbe dar loro pace nemmeno per un attimo. "Dante coglie, da questa affermazione del maestro, l’occasione per interrogarlo sulla natura della Fortuna. Essa non è - spiega il poeta latino - una potenza capricciosa e cieca che distribuisce i suoi favori a caso, ma una esecutrice dei disegni di Dio, poiché da Dio è voluto che i beni si trasferiscano, con alterna vicenda, da una famiglia all’altra, da un popolo all’altro. Stesso proprio quelli che dovrebbero ringraziarla la coprono di insulti. Ma essa, intelligenza celeste, assolve il suo compito imperturbabile e serena.

Introduzione critica
Il De Sanctis aveva diviso i canti dell’Inferno in due categorie: quella dei canti in cui l’attenzione di chi legge si accentra tutta intorno ad una figura dominante -rispetto alla quale tutte le altre, non meno degli elementi paesistici o morali, appaiono in posizione subordinata e quella dei canti in cui sull’accento drammatico prevale quello descrittivo, e in cui troviamo "gruppi, non individui". "Voi dite prima: il canto di Francesca, di Farinata, di ser Brunetto Latini; qui dite: il canto dei falsari, dei ladri, dei truffatori." Se accettiamo questa partizione, che nel De Sanctis è legittimata dall’impostazione romantica della sua critica, anche il canto settimo dell’Inferno dovrebbe rientrare nella categoria dei canti anonimi e , canti la cui" funzione sarebbe più > che poetica. In effetti riesce difficile, leggendo Dante, proprio perché Dante ha saputo dar vita a personaggi così complessi e drammatici da trovare pochi riscontri nella letteratura mondiale, liberarsi di quello che potremmo chiamare il . La straordinaria concretezza che acquistano nella Divina Commedia anche gli spettacoli più allucinanti e irreali, non nasce da un contemplare fine a se stesso, ma da un impegno morale che spoglia le cose dei loro attributi esteriori, per penetrarne il significato ultimo, per darne un giudizio definitivo. Equivale a precludersi la comprensione del suo senso più profondo il voler parlare, a proposito della poesia di Dante, di valori quali pittoricità, spazialità, visività, frontalità dell’immagine, come ha fatto, con risultati del resto apprezzabili, un altro attento studioso della Commedia, il Malagoli, senza cogliere il fuoco nascosto che in questa immagine si esprime, la religione dei valori morali che ad essa conferisce una compattezza mai eguagliata nella letteratura mondiale. Per tornare al settimo canto dell’Inferno, anzitutto il "puro guardare oggettivo", che sembra caratterizzarlo, almeno fino al momento in cui i due viandanti scendono nel cerchio degli iracondi (qui, come ha rilevato il Momigliano, l’atmosfera cambia, s’impregna di spleen, di umor nero), nasce da una posizione di condanna senza attenuanti per coloro che hanno fatto del denaro la loro unica ragione di essere. In secondo luogo, tutta la scena iniziale, dall’incontro con Pluto alla digressione sulla Fortuna, è, come ha rilevato il Marti, il risultato di "un’arte ispirata più da sprezzo polemico che da un gusto realistico obiettivamente distaccato" La rima difficile non meno che la metafora esasperata e grottesca deformano violentemente una realtà che, proprio per questo amaro intervento dell’autore, inteso a trasferirla interamente sul terreno dell’exemplum, del significato etico e religioso, non può essere considerata soltanto oggettiva.
INFERNO CANTO VIII

Già prima di arrivare ai piedi della torre, i due poeti vedono accendersi sulla sua sommità due segnali luminosi, ai quali, da molto lontano, appena percettibile, risponde un terzo. Ed ecco avvicinarsi sulla sua antica barca, veloce al par di saetta, il custode della palude stigia, l’iroso Flegiàs, il quale, rivolto a Dante, grida: "Ti ho finalmente in mio potere, anima malvagia!" Virgilio delude questa speranza del nocchiero infernale: egli e il suo discepolo non sono venuti per rimanere nel cerchio degli iracondi, ma solo per attraversarlo. Mentre, sulla navicella di Flegiàs, i due solcano le acque melmose, ecco farsi avanti uno dei dannati della palude, il fiorentino Filippo Argenti, che apostrofa sarcasticamente il suo concittadino. Dante replica con espressioni di duro scherno, suscitando l’ammirazione di Virgilio che si compiace della nobile ira del discepolo. Ma questi non è ancora contento: vuole vedere il suo borioso antagonista immerso nel fango. Attraversato lo Stige, i due pellegrini sbarcano ai piedi delle mura di ferro rovente che cingono la città di Dite. Qui, più di mille seguaci di Lucifero si oppongono minacciosi all’ingresso di colui che, ancora in vita, impunemente è entrato nel regno dei morti. Il poeta latino esorta Dante a non perdersi d’animo e si reca a parlamentare con i diavoli. Ma poco dopo ritorna con i segni della sfiducia sul volto: la sua missione non è riuscita. Solo qualcuno più forte di lui potrà aprire la porta che immette nei cerchi formanti il basso inferno.

Introduzione critica
Dante scrittore drammatico: lo scontro frontale, da uomo a uomo, non è mai avvenuto nei primi sette canti. La drammaticità è già apparsa nel linguaggio, nei paesaggi sconvolti e tempestosi, negli atteggiamenti monumentali o in movimento dei grandi mostri, dalle tre fiere a Caronte, Minosse, Cerbero, Pluto, ma era una drammaticità subito bloccata: e nella nostra memoria sono rimasti enormi gesti fissati per l’eternità, gonfi della stessa eternità del male. Gli incontri di Dante con i dannati (Francesca, Ciacco) hanno avuto finora un carattere colloquiale, e il dramma è rimasto all’interno di ciascuno, solo specchiandosi nel pellegrino che - viva presenza dell’umano, del tempo - porta nella cupa immutabilità di un male atemporale l’eccezione di un rinnovellato dolore umano. Ma nel canto ottavo Dante trova per la prima volta nel dannato (Filippo Argenti) un antagonista, e nasce lo scontro violento, un duello di parole che rischierebbe, se non ci fosse l’intervento della ragione (Virgilio), di trascendere a vie di fatto. Qui la drammaticità si dilata, investe tutti gli elementi della composizione, con precisa coerenza: il linguaggio si fa più teso, pronto alle spezzature, vibrante; il paesaggio, la scena sono percorsi da misteriose, appena avvertibili presenze. Sul ribollire iroso e a un tempo pigro (il torpore morale, l’accidiosa tristezza dell’iracondia) della palude dello Stige, sulla distesa buia a perdita d’occhio dove i dannati, per la prima volta in silenzio (l’ira è senza voce al suo parossismo), si sbranano gli uni con gli altri in un’orrida mischia nel fango, ha luogo, da posizioni elevate, da torri isolate di guardia, una segnaletica militare che prelude al combattimento. Fiamme che s’accendono, e da lontano qualcuno risponde. E subito, da grevi sipari di fumo, rapidissimo sbuca lo scafo piccolo e leggiero di Flegiàs, colui che per irosa vendetta contro Apollo ne aveva incendiato il tempio a Delfi, distruggendo in sé il rispetto per la divinità e causando così la propria rovina. Allo scontro fra i simboli, fra Virgilio, ragione testimone della Grazia e portatrice della parola d’ordine di Dio, e i demoni, figurazioni disumane del peccato, si affianca lo scontro fra gli uomini, Dante e i peccatori, da questi simboli guidati o fuorviati. Qui l’apparizione del dannato ha qualcosa di pauroso e di repulsivo (l’Argenti è tutto grondante di fango), ma, pur nella sua pesantezza, presenta una cupa aggressività (dinanzi mi si fece). E il battibecco divampa, concentrato, per la potenza ellittica dell’arte di Dante, in poche battute cariche di tutte le sfumature di una violenta rissa verbale: l’incalzare dei monosillabi, l’ "incipit" arrogante, la risposta che scatta crudele e secca, il dileggio spietato, la maledizione, lo smascheramento cattivo. Risse verbali, battibecchi, contrasti: variati nei toni e nelle situazioni riempiono la Commedia, e sono segno dello spirito violento di Dante e della sua epoca. Rissa verbale di strada o di palazzo, contrasto ad alto livello fra magnanimi rivali politici o smargiassata triviale di béceri portano la vita nell’al di là, o meglio annullano di colpo l’inferno, sostituendo al nero e ai fuochi dell’oltretomba le vie di Firenze. L’ira di Dante per l’Argenti, che è stata ritenuta eccessiva, non sufficientemente motivata, fino a dare l’impressione di una non completa riuscita sul piano estetico, è invece l’ira vendicativa - dove vendetta non è, come nota il Tommaseo, odio, ma rivendicazione secondo giustizia - contro l’insulto che fa, alla ragione e alla misura dell’uomo, la pervicacia nella vuota, stolida, volgare arroganza, nella superbia senza motivo e gonfia di sé, che non ha, né può avere, un solo momento di ripensamento, di meditazione, di umana ragionevolezza. Dante si adira proprio di fronte ai pericoli morali nei quali l’ira può far incorrere; né dobbiamo dimenticare che l’oltretomba dantesco vuol essere anzitutto la traduzione oggettiva, in simboli, personaggi, situazioni, di una problematica morale vissuta, quasi un immenso involucro speculare in cui il poeta, l’uomo, veda ovunque riflesse le immagini ingigantite dei propri difetti e delle proprie virtù. Alla motivazione morale si aggiunge, a rendere più aspro lo scontro, quella personale e storico-politica. Filippo appartiene ad una famiglia a Dante nemica, ed egli la bollerà, dall’alto del paradiso, per bocca del nobile suo avo Cacciaguida, come oltracotata schiatta, feroce coi deboli, vile coi forti e coi ricchi, sorta di ceppo mediocre (picciola gente). Ma nella Commedia il fatto individuale tende sempre a chiarirsi in un giudizio e qui, fra l’altro, si legittima nell’osservazione solo in apparenza pleonastica ed esornativa: quanti si tengon or là su gran regi ... Dante gode dello strazio che i compagni di pena fanno dell’Argenti; in esso egli può vedere un esempio della sorte riservata dalla giustizia divina ai superbi. Dietro l’Argenti si schiera così tutto un gruppo, una categoria umana, e da ciò la figura del dannato acquista una dimensione significante che la riscatta da ogni sospetto di diminuzione individualistica e aneddotica. Nella seconda parte del canto la drammaticità si continua nel paesaggio, con la città di ferro incandescente e le torri diaboliche, somiglianti ai minareti degli infedeli. Davanti alla fortezza del male, agli stormi delle sue fulminee, innumerabili sentinelle precipitate dall’alto, alla malizia che qui, in Dite, rende più complesse, intricate e perverse le passioni che vi sono punite, si ripropongono, come nei primi canti, ma con maggiore maturità artistica, il dubbio, la perplessità del pellegrino. Neppure la ragione (Virgilio) ha potere contro il peccato di malizia: il canto si chiude su una nota di religiosa aspettazione.
INFERNO CANTO IX

Dopo essere tornato presso Dante, Virgilio riacquista la propria serenità e incoraggia il suo discepolo ricordandogli di essere già disceso una volta fino al fondo dell’inferno. All’improvviso, sull’alto delle mura fortificate di Dite compaiono le tre Furie, mostri con sembianze di donna e chiome formate da un intrico di serpenti. Esse manifestano la loro ira per la presenza dei due poeti, dilaniandosi con le unghie, percuotendosi e gridando in maniera terrificante. Ma da sole sono impotenti a punire il vivo che ha osato violare la dimora della morte; per questo invocano a gran voce Medusa, la Gorgone che ha il potere di trasformare in pietra chiunque la guardi. Virgilio invita il suo discepolo a volgere le spalle, ed egli stesso gli copre gli occhi con le mani. Ma da lontano si preannuncia ormai l’arrivo del messo celeste. Lo precede un fragore d’uragano, mentre davanti a lui, che avanza sereno sulla palude stigia senza nemmeno bagnarsi le piante dei piedi, i dannati, in numero sterminato, si danno alla fuga. Virgilio esorta Dante ad inginocchiarsi, ma l’angelo non degna i due pellegrini di uno sguardo: altre preoccupazioni sembrano dominare il suo animo. Giunto davanti alla porta della città di Dite, la tocca con un piccolo scettro ed essa si apre senza difficoltà. Prima di ripercorrere il cammino per il quale è venuto, il messo rimprovera i diavoli per l’opposizione ai voleri dell’Onnipotente e ricorda la sorte toccata a Cerbero per aver voluto opporsi ad Ercole che era disceso negli Interi. Allontanatosi l’angelo, i due viandanti penetrano nell’interno della città: davanti a loro si apre una grande pianura cosparsa di tombe, che richiama alla memoria di Dante le necropoli romane di Arles e di Pola. Ma qui i sepolcri, tutti aperti, sono arroventati dalle fiamme. In essi si trovano le anime degli eretici. I due poeti si incamminano lungo un sentiero che corre tra le mura e le tombe infuocate.
Introduzione critica
I canti ottavo e nono ripropongono le perplessità, i dubbi, i terrori dell’anima di fronte al peccato, una situazione analoga, cioè, a quella in cui Dante si è trovato alla uscita dalla selva. Anche qui tema dominante è quello della umana insufficienza; ma, mentre nei due canti iniziali l’aiuto divino si era concretato in un uomo, Virgilio, poeta e saggio, espressione al tempo stesso di un modello insuperato di civiltà (l’impero romano) e della ragione eterna, pura di specificazioni storiche, qui l’intervento sovrannaturale è assai più diretto e miracoloso: nella persona dell’angelo è infatti sensibilmente prefigurata la Grazia. Ora infatti che l’inferno "alto" , luogo di pena per coloro che peccarono passionalmente, quasi per una sovrabbondanza della forza vitale, ha finito di dare al peregrinante i suoi insegnamenti, ora che alla vista del Poeta appare la fortezza che racchiude il male più grave, l’umanissimo Virgilio, dolce padre, amico e maestro premuroso, guida fin qui sicura, rivela egli stesso la propria imperfezione, i limiti da Dio assegnati all’uomo. Il Vossler ha opportunamente diviso il grande dramma religioso che si svolge dalla metà del canto ottavo fin quasi al termine del nono in quattro atti. Primo atto: l’anima, in quanto non definitivamente acquisita al male, è respinta dai diavoli (Dante è ancora in vita, ha la possibilità di redimersi, non è morto al richiamo della Grazia). Secondo atto: la ragione (Virgilio) tenta di indurre la malizia a riconoscersi sconfitta; ma questa, avvertito il pericolo, fugge. Terzo atto: il male, al fine di prevalere su colui che vuole smascherarlo, evoca le sue forze più pericolose: non le seduzioni esterne alle quali la ragione saprebbe resistere, bensì le angosce interne, i rimorsi (le Furie). L’anima, se assistita dalla ragione, non ha motivo di temerle (Virgilio invita Dante a guardare le Furie e gliele nomina). Essa deve però respingere quella che del male è la tentazione più nefasta, la disperazione (Medusa). Quarto atto: a sconfiggere il male deve intervenire - dopo che l’anima e la ragione si sono impegnate ed hanno compiuto i loro tentativi di resistenza - la grazia divina (il messo celeste). Il nono è fra i canti più ricchi di riferimenti a simboli, leggende e figurazioni della mitologia pagana. Il De Sanctis ha detto che Dante se ne serve come di "materiale di costruzione", nello stesso modo in cui i cristiani del Medioevo si servivano di colonne e ruderi romani per le loro chiese. Ma questa affermazione va in parte corretta: non si tratta di semplice "materiale". Sia pure strappati dal loro contesto storico, gli elementi della cultura pagana conservano nella Commedia qualcosa dei loro antichi significati. In tutto il poema è, infatti, continuamente ribadita la continuità etica e culturale fra mondo precristiano e mondo cristiano, non diversamente da come in San Tommaso e in Sant’Alberto Magno una medesima linea di pensiero congiunge, gerarchicamente graduandole, natura e rivelazione, filosofia greca e Sacra Scrittura, vita morale e santità. Questa fortissima esigenza unitaria, per la quale nessun aspetto del reale viene respinto (la gloria di Dio risplende, per quanto in una parte più e meno altrove, ovunque nell’universo, come è detto nella terzina di apertura del Paradiso), spiega come, per Dante, anche negli dei falsi e bugiardi, assunti in funzione simbolica, brilli qualche idea del divino.La riabilitazione del mondo classico sarà compiuta esplicitamente, senza giustificazioni religiose, dagli umanisti del Quattrocento, ma qualcosa del loro sentire si è voluto scorgere anche in Dante e si è parlato (Sapegno) della "fiducia ingenuamente preumanistica dello scrittore nella validità poetica, e quindi anche simbolica e immediatamente persuasiva, della cultura letteraria consegnata ai grandi poemi classici". Ma il richiamo alle favole mitologiche nella Commedia ha una funzione opposta a quella che svolgerà nella cultura umanistica: la mitologia non viene infatti accolta nell’universo poetico di Dante in quanto elemento evasivo, di fuga dal reale, di nobile distacco dalla condizione del dolore, ma dal Poeta è volta a confermare, oltre ogni differenza di linguaggio e cultura, una verità che non ammette né restrizioni né deroghe né accomodamenti: quella dell’impegno totale e responsabile dell’uomo nel mondo. Tuttavia, se la grande rappresentazione drammatica davanti alla porta di Dite riflette indubbiamente una concezione allegorica, essa la traduce poi in scenografia ed azione. Come le due distese orizzontali, la nera maremma del fango e la fiammeggiante necropoli dell’eresia, ingigantiscono la verticalità delle mura - enormi nel desolato riverbero, quasi di ferro appena uscito dal fuoco - della città del male (un dato reale, un paesaggio medievale urbano, vallo, torri, porte, sentinelle, su cui l’anima fa incombere l’ombra del giudizio di Dio), così due zone di silenzio (i dannati, le loro pene, le loro espressioni di dolore sono passati in secondo piano; l’attenzione del Poeta si volge tutta al "mistero" che ha luogo davanti ai suoi occhi e ha per oggetto il suo stesso destino) isolano nella sua unicità esemplare la scena del decisivo confronto tra le forze del male e il ministro del volere di Dio. L’arrivo del messo si preannuncia sul piano dell’analogia fin dagli inizi del canto ottavo, allorché fuochi nella notte, improvvisi segnali di guerra, introducono una nuova dimensione, allucinata e febbrile, nel poema. Ma, nella sua compostezza plastica e morale, l’angelo mostra di sdegnare le umane trepidazioni. Mentre infatti le forze del bene si misurano con quelle del male in un clima di epopea e intorno all’anima umana si affrontano come eroi dei poemi dell’antichità, Dante nei suoi dialoghi con Virgilio, pieni di reticenze, di curiosità impacciata, dà voce all’umana viltà, nota ai confini del comico, sempre presente, anche nel cuore della tragedia, nella complessità della vita.
INFERNO CANTO X

Entrati nella città di Dite, i due poeti si avviano per un sentiero che corre fra le mura e quella parte della necropoli degli eretici ove sono puniti gli epicurei, negatori dell’immortalità dell’anima. Improvvisamente, da uno degli avelli infuocati, una voce prega Dante di fermarsi: è quella del capo ghibellino Farinata degli Uberti che, dal suo modo di parlare, ha riconosciuto nel Poeta un compatriota. Dante si avvicina al sepolcro nel quale Farinata sta in piedi, visibile dalla cintola in su. Tutti i pensieri di questo dannato sono rivolti al mondo dei vivi, a Firenze, al suo partito: egli vuole anzitutto sapere se Dante appartiene a una famiglia guelfa o ghibellina. Non appena il Poeta gli rivela il nome dei suoi avi, si vanta di averli per ben due volte debellati. Dante ribatte che essi non furono vinti, ma solo mandati in esilio e che dall’esilio seppero tornare sia la prima sia la seconda volta, laddove gli Uberti furono banditi per sempre dalla città. A questo punto il dialogo è interrotto dall’angosciosa domanda che un altro eretico, egli pure fiorentino, Cavalcante dei Cavalcanti, rivolge a Dante: " Se la tua intelligenza ti ha valso il privilegio di visitare, vivo, il regno dei morti, perché mio figlio Guido non è con te?" Il Poeta indugia nel rispondere e Cavalcante, credendo che il figlio sia morto, ricade, senza una parola, nel suo sepolcro. Riprende a parlare Farinata, che vuole sapere il motivo di tanto accanimento contro la sua famiglia. Dante gli fa il nome di un fiume - l’Arbia - le cui acque furono arrossate dal sangue dei Fiorentini che nel 1260 morirono combattendo contro i fuorusciti ghibellini comandati appunto da lui, Farinata degli Uberti: e questi ricorda allora, a suo merito, come fu lui solo, dopo quella sanguinosa giornata, ad opporsi a viso aperto al progetto, avanzato dagli altri ghibellini, di radere al suolo la vinta Firenze. L’episodio si conclude con la spiegazione che Farinata fornisce a Dante sulla conoscenza che i dannati hanno del corso degli eventi terreni. I due pellegrini riprendono quindi il loro cammino dirigendosi verso la zona centrale del cerchio.

Introduzione critica
Come il quinto, anche il canto decimo dell’Inferno è tra i più celebri della Divina Commedia. Per ricchezza di svolgimenti drammatici, per il rilievo che vi assume il personaggio di Farinata degli Uberti, esso non poteva non imporsi all’attenzione di critici e lettori. Farinata è un personaggio di così viva e appassionata umanità da eludere ogni schema critico. Due righe dell’opera dedicata alla Divina Commedia dal Vossler illuminano con particolare acume la tragedia di questo magnanimo antagonista di Dante: "Come a Francesca il suo amore, a Farinata è dolce tormento e aspra felicità la coscienza di sé". Ma la maggior parte dei critici ha veduto in lui, sotto la suggestione della presentazione statuaria che ne fa Dante sia all’inizio dell’episodio (dalla cintola in su tutto ‘l vedrai.... ed el s’ergea col petto e con la fronte com’avesse l’inferno in gran dispitto), sia dopo il patetico intermezzo di Cavalcante (non mutò aspetto, né mosse collo, né piegò sua costa), nient’altro che`l’espressione di un orgoglio disumano, di una forza d’animo tanto più conseguente quanto meno sensibile ai valori positivi, di purificazione e riscatto, attribuiti dal Cristianesimo alla sofferenza. Il disprezzo, la sublime impassibilità: questi i tratti più salienti che, nella tradizione critica di quasi un secolo, caratterizzano il grande eretico del canto decimo.Egli è, da questo punto di vista, anzitutto il condottiero, il capoparte indomito e fazioso: esula completamente, dal suo modo di concepire le cose, l’idea che possano esistere valori più alti di quelli che nella lotta senza quartiere trovano la loro espressione più coerente e brutale. Non per nulla il De Sanctis nel suo saggio su Farinata inizia con un esplicito riferimento a Napoleone: "... perché Kléber imponeva con la statura, Napoleone comandava con l’occhio, e l’uno parlava a’ sensi, l’altro ammaliava l’immaginazione ".Perfino il Croce, che ha sempre esercitato, nei confronti del più acceso ed eloquente pensiero romantico, una funzione moderatrice e di controllo, imposta in maniera sostanzialmente romantica la sua interpretazione dell’episodio di Farinata. Per lui il vincitore di Montaperti è anzitutto "il magnanimo. che, vero eroe da epopea, è tutto e soltanto il guerriero, il combattente... Ogni altro affetto gli è estraneo: ai mali del presente si fa superiore... degli amori e dolori umani non cura..." In realtà una siffatta definizione appare insufficiente, quando si voglia cogliere, in questo episodio, quella interiore problematicità, presente in tutti i personaggi della Commedia, che costituisce il vitale fermento di ogni concezione tragica. Solo se riusciamo a scorgere, oltre l’apparenza statuaria, il dibattito di Farinata con se stesso, la contraddizione che lo travaglia (fedeltà al partito, amore di patria), possiamo inoltre intendere come - più che altro apparente sia il contrasto fra il Dante pieno di rispetto per questo suo concittadino e il Dante che lo colloca fra i dannati. A questo proposito occorre esaminare un altro giudizio del De Sanctis: "il tipo di Farinata è ancora troppo semplice per l’uomo moderno. C’è lì dentro una stoffa ancora epica dell’uomo, non ancora drammatica. Manca l’eloquenza, manca la vita interna dell’anima". Dove il De Sanctis parla dei personaggi di primo piano della Commedia, il riferimento a Shakespeare o al dramma romantico è sempre implicito. In realtà i personaggi danteschi sono assai più complessi di quanto a volte lasci supporre la rigidità stilizzata di certi loro atteggiamenti. Così, nell’episodio di Farinata, una semplice sospensione dubitativa, nel verso alla qual forse fui troppo molesto, contiene già tutto un giudizio che l’eroe dà di se stesso. Questo giudizio non ha nulla di schematico, proprio perché vissuto e sofferto nell’atto stesso in cui si formula, ma è presente nella coscienza di Farinata come una insopprimibile realtà e vanifica dall’interno tutta la sua monumentale autosufficienza. " Dante sente fortissimo il fascino - come felicemente scrive il Montanari - del combattente impegnato totalmente nella lotta" e celebra in Farinata "l’uomo che si dà completamente a un’idea con totale devozione", ma occorre non dimenticare che, nell’universo morale della Commedia, la disinteressata espressione della propria soggettività non basta a riscattare le azioni di un uomo. La "coerenza con se stessi", inappellabile istanza dello stoicismo disincantato, supremo rifugio di ogni relativismo romantico, non può essere, per un cristiano, un criterio accettabile in sede di valutazione etica. Questo è il motivo per il quale Dante, pur esaltandone la figura, non solo colloca Farinata fra i reprobi, ma induce questo orgoglioso a manifestare il proprio dubbio sulla validità delle scelte da lui operate in terra. Un antico commentatore della Commedia dava di Farinata questo ritratto: "Seguace di Epicuro, non credeva ci fosse altro mondo all’infuori di questo; perciò si sforzava in ogni modo di primeggiare in questa vita breve, non sperando in un’altra migliore". Ebbene, proprio nell’aver egli rifiutato di subordinare le ragioni del contingente a quelle dell’eterno, concependo la lotta politica come fine a sé, senza legarla a quelle norme, che - come Dante stesso ha inteso mostrare nella Monarchia - la redimono in una teleologia religiosa, sta il senso più profondo della sua ribellione a Dio. In lui il Poeta ha veduto, al di là dell’eroe, il colpevole, colui che nella lotta fra il bene e il male ha definitivamente perduto, colui che, dopo essersi appartato in un altero isolamento, sommessamente proclama la propria imperfezione (noi veggiam, come quei c’ha mala luce) e indirettamente afferma, attraverso l’esempio del proprio dolore, la gloria di Chi solo ha in sé le fondamenta del proprio essere e nel quale mondo e umana coscienza del mondo trovano il loro compimento.
INFERNO CANTO XXIII

Inferociti per lo smacco subito, i Malebranche inseguono i due pellegrini, ma questi riescono a porsi in salvo calandosi per il dirupo che porta nella sesta bolgia. Qui una folla di anime, quelle degli ipocriti, avanza a passi lentissimi, oppressa da pesanti cappe di piombo, tutte dorate esteriormente. Due dei dannati pregano Dante e Virgilio di sostare ed uno, invitato dal Poeta, parla di sé e del compagno e accenna alla loro colpa: bolognesi e frati Gaudenti entrambi, ricoprirono insieme a Firenze la carica di podestà, con il compito di riportare la pace fra i partiti. I risultati della loro doppiezza sono ancora visibili nei pressi del Gardingo, dove un tempo sorgevano le dimore degli Uberti, poi rase al suolo. Dante di nuovo rivolge loro la parola, ma all'improvviso tace, poiché il suo sguardo si ferma su un peccatore crocifisso a terra per mezzo di tre pali. Uno dei due frati Gaudenti gli spiega che si tratta del gran sacerdote Caifas, il quale suggerì al Farisei di suppliziare e uccidere Cristo; poi rivela che nessun ponte scavalca la sesta bolgia. Malacoda ha dunque mentito. Virgilio, crucciato, si allontana a gran passi, seguito dal discepolo.
Introduzione critica
Anche nell'episodio degli ipocriti sarebbe presente, secondo alcuni studiosi (Sannia, V. Rossi), quell'elemento comico che costituisce la tonalità principale dell'intermezzo - fondamentalmente spensierato e alieno dal definirsi nei termini consueti dell'ethos e della religiosità danteschi, pur senza contrastare con questi ultimi - dei canti XXI e XXII. Secondo questo punto di vista la commedia degli ipocriti non ha, né del resto potrebbe avere, dato il carattere dei suoi protagonisti, l'evidenza rude e immediata che caratterizza quella dei barattieri. La comicità di questo episodio richiederebbe, per essere assaporata in tutte le sue sfumature, una lettura volta a cogliere, oltre l'evidenza delle immagini, il sottile gioco di sottintesi che Dante sarebbe riuscito a celare in questa sua pagina e risulterebbe, più che dall'insieme dell'episodio, da una somma di particolari. Questi, illuminandosi a vìcenda, sarebbero in grado di svelarci lo stato d'animo con il quale il Poeta avrebbe immaginato lo spettacolo della sesta bolgia e il suo incontro con i due frati Gaudenti. E' pertanto sui particolari che questi critici hanno fermato la loro attenzione, isolandoli, al fine di legittimare la loro tesi, dal contesto in cui sono inseriti. Per il Sannia, ad esempio, l'invocazione con cui uno dei due podestà bolognesi si rivolge a Dante e Virgilio (tenete i piedi ... ) avrebbe un sapore comico, comico essendo il contrasto fra la sua "smania del pervenire e la tardità forzata" laddove V. Rossi scrive, sempre a proposito di questa invocazione, che "Catalano fa, senza volerlo, la caricatura del suo tartarughesco andare".E' invece evidente, a chiunque legga questo canto senza preconcetti, che in esso riaffiora solenne, maestoso, reso più grave dal ritmo lento delle terzine - in cui pare riflettersi qualcosa del penoso incedere degli ipocriti - il motivo del sovrannaturale rìmasto in ombra nei due canti precedenti e che, tra l'altro, l'invocazione dei versi 77-78, lungi dall'essere caricaturale, è tragica, sconsolata.
Come è assurdo il voler riscontrare spunti comici - a meno di definire comica la paradossalità, nella quale si esprime tragicamente una giustizia superiore a quella umana, della condizione dei dannati - nella pena avvilente dei sodomiti del canto XVI, e nel modo in cui alcuni di essi, gli artefici della grandezza di Firenze, parlano del loro stato, altrettanto assurdo è il voler trovare, nell'episodio della sesta bolgia, un'intenzione beffarda o caricaturale non riconducibile a quelle che sono le costanti morali e religiose del pensiero del Poeta.Il motivo del sovrannaturale si manifesta anzitutto nella forma del contrappasso, nella quale appare eccessiva sottigliezza scorgere anzitutto un'espressione di ipocrita ironia verso coloro che in vita fecero dell'ípocrisia la loro arma, la loro abitudine. Considerazioni del genere si saranno forse imposte al Poeta, ma come motivo marginale, come tema astratto: il ritmo e le immagini delle sue terzine le hanno relegate in secondo piano. Nella pena degli ipocriti non sfavilla infatti un atteggiamento ironico - e quindi necessariamente scettico e indulgente - nei confronti delle umane debolezze, ma si afferma, dolorosa, intransigente, una certezza che non conosce remissioni. La grandezza di Dante, qui come altrove, sta nel condividere, da uomo, il dolore dei dannati, senza che per questo la sua fede nella giustizia divina risulti incrinata o scossa. Come nel canto XVI, anche nel XXIII la degradazione dei dannati è suggerita attraverso una metafora che li riduce a strumenti (le bilance) e attraverso la sottolineatura dei particolare fisico considerato a sé (ad ogni mover d'anca... tenete i piedi... all'atto della gola), né diversamente che in quello il sentimento di Dante è di pena per lo spettacolo che si dispiega sotto i suoi occhi e di reverenza per Colui che ne è l'autore.Un acuto lettore di questo canto, il Bertoni, lo ha definito "il canto della stanchezza e della malinconia", rilevando che nell'episodio degli ipocriti "il terrore cede il posto a un senso di scoramento e di pena e al movimento è sostituita una gravosa lentezza" e caratterizzando questi dannati, dopo aver messo in luce la somiglianza del loro castigo con quello dei superbi e degli invidiosi della seconda cantica, come degli "umiliati e vinti, incapaci di pronunziare una parola che provochi ira o disgusto". Sempre per il Bertoni "nel contrasto fra l'impaccío dei dannati e la sollecitudine e la fretta di raggiungere presto i due poeti e nel loro sguardo bieco" non c'è nessun tratto umoristico, "ma piuttosto il segno di un desiderio vano di sollievo e di liberazione in tanta e così penosa costrizione". In termini analoghi si esprime un altro critico, il Bonora, per il quale, tra l'altro, la preghiera rivolta da uno dei due frati Gaudenti a Dante e Virgilio ha "solo il valore di quei suoni che rendono più assorta un'atmosfera di silenzio", per cui nelle loro parole si avvertirebbe "solo la vibrazione della fatica disumana cui sottostanno questi incappucciati". Anche nelle parole che Dante rivolge loro - o frati, i vostri mali... - il Bonora scorge "il medesimo senso di soffocazione" che è caratteristico di tutta la seconda parte del canto: in questa infatti si riflette "quel sentimento dì dolore che non ha voce per esprimersi, quella fatica immensa" che "trovano la loro compiuta figurazìone nel versi rallentati, scanditi dalla successione faticosa dei gruppi consonantici", con cui l'episodio degli ipocriti si apre.Il canto XXIII è una pagina caratterizzata da una fortissima unità tonale, nella quale la definizione di una diffusa atmosfera di tristezza, di silenzio, di angosciata rassegnazione prevale sulla caratterizzazione drammatica e psicologica di personaggi e situazioni. Per questo soltanto la critica più recente, non più condizionata dalle premesse che furono proprie degli orientamenti romantici e positivisti, è riuscita ad intenderlo nella concretezza dei suoi esiti espressivi.
INFERNO CANTO XXVI

I due pellegrini lasciano la bolgia dei ladri e riprendono il faticoso cammino. Dall’alto del ponte che sovrasta l’ottava bolgia questa appare loro percorsa da fiamme simili alle lucciole che il contadino vede nella valle quando si riposa, alla sera, sulla sommità della collina. Ogni fiamma nasconde un peccatore. In una di esse, che si distingue dalle altre per il fatto di terminare con due punte, scontano le loro colpe - l’inganno che costrinse Achille a partecipare alla guerra di Troia, il ratto fraudolento del Palladio, lo stratagemma che causò la rovina del regno di Priamo - due Greci: Ulisse e Diomede. Poiché Dante ha manifestato il desiderio di udirli parlare, Virgilio si rivolge alla fiamma biforcuta pregando affinché uno dei due eroi riveli il luogo della sua morte. Dalla punta più alta esce allora la voce di Ulisse. Egli racconta che, dopo la sosta presso la maga Circe, nulla poté trattenerlo dall’esplorare il Mediterraneo occidentale fino alle colonne d’Ercole, limite del mondo conoscibile. Qui giunto, si rivolse ai fedeli compagni, come lui invecchiati nelle fatiche e nei rischi: "Fratelli, nel poco tempo che ci rimane da vivere, non vogliate che ci resti preclusa la possibilità di conoscere il mondo disabitato. Seguiamo il sole nel suo cammino. La vita non ci fu data perché fosse da noi consumata nell’inerzia, ma perché l’arricchissimo attraverso la validità delle nostre azioni e delle conoscenze da noi raggiunte". Questo breve discorso infiammò a tal punto i membri dell’equipaggio, che i remi parvero trasformarsi in ali e la nave volare sulla superficie dell’oceano inesplorato. Cinque mesi dopo il passaggio attraverso lo stretto di Gibilterra una montagna altissima si mostrò all’orizzonte. Da questa ebbe origine un turbine; la nave girò tre volte nel vortice delle onde, poi si inabissò; il mare si chiuse sopra di essa.
Introduzione critica
Quasi tutti i personaggi della prima cantica appaiono consapevoli, in forme più o meno esplicite, del male compiuto: il rimorso è alla radice del loro modo di manifestarsi anche là dove, disperatamente, cercano di soffocarne la voce. Nell’episodio di Ulisse tuttavia l’elemento tragico non è rappresentato dal peccato. Per quanto gravi siano infatti le colpe che condannano, nella bolgia dei consiglieri fraudolenti, l’ideatore dell’agguato che pose termine all’orgoglioso dominio dei Troiani, ad esse il Poeta dedica appena un cenno di carattere informativo (versi 58-63), destinato a non riproporsi, nemmeno come motivo marginale, nel racconto della corsa disperata di questo peccatore di retro al sol. Vigorosamente emblematica, questa espressione riassume il senso dell’intero episodio. Essa non si limita ad indicare una direzione nell’universo fisico (uno dei quattro punti cardinali); proclama, oltre il suo orizzonte più immediato, l’ineluttabilità dell’imperativo morale, additando «una via tracciata nel cielo, che invita l’uomo a percorrerne una parallela sulla terra» (Fattori). I peccati che Ulisse sconta - immune, nel suo involucro di fuoco, da ogni contatto con la cronaca dei tempi non eroici (in più di un luogo del suo poema Dante contrappone il Medioevo all’antichità classica, oggettivandolo in aspra «commedia» ) e da tale cronaca appartato anche per il fatto che ignora il « volgare » in cui essa si esprime - sono presentati in modo generico, inquadrati in uno schema astratto e come distaccati dalla volontà viva e personale dell’eroe. "E se il Poeta non può non far menzione della pena di questo suo personaggio e sembra anzi insistere su di essa, quell’insistenza non è se non una retorica variatio... che non importa una maggiore intensità di sentimento, poiché il si martire, il si geme, il piangevisi, il pena vi si porta sono dei semplici sinonimi di un « è punito », e sarà anche da osservare la forma passiva, per cui non l’eroe sofferente è presentato nel discorso come soggetto, bensì il peccato di cui il discorso deve dar notizia. L’eroe, questo importa, pur dannato, rimane non tocco nel suo intimo dalla dannazione." (Fubini) La tragedia di Ulisse è nel suo naufragio, incidente ai suoi occhi fortuito, dato di fatto nel quale sembra, inspiegabilmente, incarnarsi una volontà tesa a negare l’ideale da lui perseguito oltre i limiti per tradizione assegnati alle capacità umane. "Nell’istante medesimo in cui la incoercibile potenza dell’umana attività, vicina ormai e quasi già tocca la meta, risplende con tutta la sua luce, Iddio respinge duramente da sé la grandezza e la passione dell’uomo, per travolgerle con impeto d’uragano nell’abisso del nulla." (M. Rossi)Per un cristiano non c’è evento, per quanto doloroso o ingiusto appaia, in cui non rifulga la razionalità del divino: razionalità che guida e giudica quella degli uomini e nella quale occorre credere, prima di poterla interrogare. Ulisse non ha questa fede. Crudelmente enigmatico, nodo che la ragione non sa sciogliere, «bruno» come il purgatorio intravisto sulle soglie della morte, Dio appare ad Ulisse una forza destituita di qualsiasi significato, oceano inconsapevole che turbina e semina morte per poi placarsi in una inerzia remota da ogni dolore (infin che ‘I mar fu sopra noi richiuso), arbitrio che opprime, attraverso la distruzione della vita, l’insorgere nella coscienza del richiamo del dovere (seguir virtute e canoscenza). Nella dedizione a questo dovere ogni barriera che opponga l’uomo all’uomo, chiudendolo nei termini aridi del suo sopravvivere animale (il prosperare dei bruti), si rivela fallace, indegna di esistere: la cortesia e il rispetto (o frati... non vogliate...) contraddistinguono l’orazion picciola che l’eroe rivolge ai vecchi marinai nel momento in cui sta per decidersi il loro destino. Ulisse costata il reciso, brutale divieto opposto da « qualcuno » - essere senza nome né volto né anima - all’ardore di conoscenza che lo ha portato lontano da Circe, dal riposo negli itinerari noti, dal consenso di affetti che rende sopportabile il tempo che conduce alla morte, senza mai scorgere in questo « qualcuno » Dio, in questo essere la fonte di ogni essere, in quella che può apparire crudeltà una sapienza e una carità insondabili. Proprio perché Dio è, nelle parole di Ulisse, ignorato in quanto tale, nessun accento di sfida intorbida la semplicità del suo dire (quale contrasto fra il pudore del suo resoconto e il turgido proporsi della superbia in Capaneo, adulatrice di se stessa, interpretante se stessa s’il piano compiacente delle ipotesi!), impaziente, fin dal le prime parole, di consumarsi in epilogo implacabile, sdegnoso dell’indugio nell’inessenziale (tappe di un itinerario etico, i luoghi visitati dalla compagna picciola non propongono al navigatore il tema delle lusinghe e della curiosità vagabonda) In una penetrante analisi di quest’episodio M. Rossi scrive che nella Commedia "dove l’offesa a Dio è anche sentita, insieme, come offesa alla propria umana dignità... la voce della coscienza e la voce di Dio paiono levarsi insieme concordi, come un’unica voce, alla condanna dal cuore del colpevole... Ma qui Dio è nella coscienza solo come imperscrutabile ed inattingibile da essa, ed è sentito dallo spirito non... nella infinita ricchezza spirituale del concetto di assoluto, nel quale lo spirito finito conquista la sua verità e la sua pace... Qui il Dio della speculazione cristiana sembra assumere per un istante innanzi allo spirito del Poeta la cupa e chiusa terribilità del Fato». Queste osservazioni appaiono giustissime, ove si prescinda dal fatto che ogni episodio della Commedia tende a risolversi entro una prospettiva simbolica o più precisamente, secondo la definizione proposta dall’Auerbach, «figurale», nel cui ambito ogni dubbio o inquietudine in materia di fede si definisce e si placa.
INFERNO CANTO XXXIII

Confitti nel ghiaccio dell’Antenora Dante incontra due dannati e interpella colui che rode rabbiosamente la nuca del suo compagno di pena (fine del canto XXXII). E’ Ugolino della Gherardesca che, già potentissimo a Pisa, fu fatto prigioniero dal Ghibellini e fu lasciato morire di fame insieme a due figli e a due nipoti. L’altro è l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, alla cui frode e alla cui crudeltà egli dovette la cattura e la fine orribile. Traditori ambedue (il conte Ugolino era accusato di avere consegnato a Lucca ed a Firenze alcuni castelli pisani), scontano la colpa nello stesso luogo, ma le loro pene non sono certo pari: Ruggieri oltre al tormento del gelo eterno ha quello che gli infligge la rabbia del suo nemico; per Ugolino al dramma della dannazione si aggiunge l’ira e la sete inesausta di vendetta contro il suo nemico.
Solo la cattura, la prigionia, la morte inflitta in forma orrenda a lui e ai quattro giovani innocenti occupano l’animo di Ugolino; le vicende culminate in quella tragedia sono troppo note perché sia necessario ricordarle. Lo sdegno che la narrazione di Ugolino accende nel Poeta lo fa prorompere in una fiera invettiva contro Pisa. Nella terza zona di Cocito, la Tolomea, dove sono puniti i traditori degli ospiti, Dante e Virgilio trovano il faentino Alberigo dei Manfredi, che invitò a banchetto alcuni consanguinei per ucciderli.
Il dannato spiega a Dante, meravigliato perché sapeva Alberigo ancora nel mondo dei vivi, che per una legge propria della Tolomea egli è all’inferno solo con l’anima, mentre il suo corpo sulla terra è governato da un demonio. Nella medesima condizione è anche il genovese Branca d’Oria, reo di avere ucciso il suocero Michele Zanche mediante una frode dello stesso genere. Il canto si conclude con una dura invettiva di Dante contro i Genovesi.
Introduzione critica
Questo canto si apre in modo inusitato. Se ritorniamo a quelli che lo precedono dal II al XXXII noteremo che l’inizio di ciascuno è l’inizio di un nuovo episodio. (Può appena essere considerato una deroga l’incontro con Vanni Fucci, che dal canto XXIV sconfina nei primi versi del successivo). A volte l’apertura è preceduta da una digressione di carattere meditativo (nel XIX: O Simon mago, o miserI seguaci . ...; nel XXIV: In quella parte del giovanetto anno ... ): digressione che segna ancora meglio il distacco tra episodio ed episodio. L’effetto sul lettore è ben preciso, e fu certamente voluto dal Poeta, perché in tal modo l’attenzione di chi legge è messa a fuoco sui due visitatori dell’inferno; nel canto XXXIII, invece, essa rimane incentrata sulla vicenda e sull’eroe della vicenda introdotta drammaticamente nelle ultime terzine del canto che precede. La figura posta così in primo piano è grandiosa, forse la più imponente che sia mai nata in un testo poetico. Nel costruirla Dante mette una passione che soverchia in ogni senso quella che anima ogni altra parte dell’Inferno; vi spende tutte le sue risorse interiori, tutti i suoi accorgimenti stilistici.
E’ una passione diversa da quella che il Poeta intese tradurre, e tradusse, nel testo intero del suo poema. Si è tentati a credere anzi che sia diversa da quella che lo ispirò primitivamente a portare in scena Ugolino e la sua vicenda. Nell’economia visibile del poema il personaggio ed il suo caso tragico sono entrati come documento del male che Dante imputa alla società del suo tempo e del suo paese: il disordine politico, causa ed effetto dell’intemperanza dei singoli; l’Italia smembrata, non solo, ma la disunione che sgretola ciascuno dei suoi frammenti. Non è casuale che quando Ugolino ha parlato ed è la volta del Poeta, Dante sfoghi lo sdegno e la pietà di cui lo hanno colmato le parole di Ugolino in un’invettiva rivolta a tutt’altro bersaglio da quello (l’arcivescovo Ruggieri) a cui il personaggio mirava: cioè a Pisa, all’esempio infame di discordia dato dai cittadini di Pisa.
L’Ugolino storico fu un uomo in una società; è certo che provò passioni di parte e ambizioni, ed è probabile che avesse idee e dubbi. Fu un attore sulla scena della storia pisana, ed è come tale che Dante lo porta sulla scena dei suo poema, sicché la sua evocazione si chiude in un’invettiva a Pisa. Ma di ciò, che fu certo molta parte di lui vivo, il dannato non ritiene più nulla. E’ solo un padre. Anche la sua paternità è scarna e come pietrosa: nella torre dove lui e i figli attendono di morire quasi non corre parola, e non ne esce una dalla bocca di Ugolino; lo sentiremo ululare solo sui loro corpi inerti. Nemmeno nel rievocare la sventura immeritata di quei giovani egli avrà una parola intenerita: il suo lutto è diventato subito rancore implacabile per chi lo causò. Si direbbe che Dante lo vuole inumano, ma egli lo vuole solo essenziale. La sua figura è costruita con tratti violenti, ma soprattutto a farcela sentire violentemente è la sua fissità rocciosa. Il Poeta vi ha speso, nel calcolo delle sfumature verbali e nell’uso delle metafore, una estrema scienza che possiamo chiamare retorica senza timore di venire fraintesi. Ad esempio, un esame attento è sufficiente a rilevare con quale cura il Poeta ha sfruttato il potere suggestivo delle vocali. Le u di certi versi come breve pertugio dentro dalla muda... cacciando il lupo e’ lupicini al monte, non sono casuali; né i suoni stretti della i e della e in versi dove è espresso un dolore acuto e non cupo, né le a e le o quando è evocata l’innocenza dei figli condannati ad una fine orribile...
L’interpretazione di questi versi offerta dal De Sanctis, ricca di notazioni molto penetranti sui singoli momenti, ha abituato a sottolineare l’ampiezza del dramma e la profondità dei patetico, ma non ha tenuto conto - secondo l’esatta critica del Mattalia - che «lo strumento con cui il Poeta consegue i suoi effetti è il distacco, l’impassibilità, il superiore dominio formale». Liberandoci dell’affermazione romantica secondo la quale l’episodio scaturisce di getto dall’animo di Dante, riesce più facile comprendere che quando Dante fa parlare Ugolino, cerca "sì di delinearne la figura, ma interpretandolo nel proprio stile; poiché,(e qui la fonte di molti equivoci) l’idea di uno stile immediatamente connaturato al personaggio è fuori della sua poetica. Lo stile del narrare ugoliniano è soprattutto lo stile di Dante, ed è poi la fantasia del Poeta che con lucido dominio costruisce l’episodio".
La parte rimanente del canto, assai meno della metà, è sembrata ad alcuni critici, tra cui il Chiari, che patisse nel trovarsi accostata al tremendo episodio di Ugolino, che la diversità di tensione tra le due parti provocasse squilibrio. Ma Dante non poteva sentire così, perché lo schema preordinato al suo poema era l’anima stessa della Commedia.
Certo la schematizzazione, frutto della persuasione scolastica che un sistema per provarsi valido doveva essere costruito con perfetta armonicità geometrica e perfetta simmetria, è il fondamento caratteristico del pensiero medievale. Dante aveva di continuo presente quello che a noi la drammaticità grandiosa dell’episodio di Ugolino fa scordare: che Cocito aveva quattro zone, ciascuna per una categoria di traditori di coloro che si fidano, e che, attraversata la regione dell’Antenora, egli entrava in quella dei traditori degli ospiti. E se molti commentatori hanno tentato di spiegare variamente l’eccezione di Alberigo dei Manfredi e di Branca d’Oria, il corpo dei quali vive ancora nel mondo, a noi basta osservare con il Getto che «un canto della Commedia, se anche non determina sempre una unità lirica, sta sempre a rappresentare una unità strutturale o un dato per lo meno del proposito costruttivo e dell’intenzione d’arte del Poeta, il cui peso non può essere con troppa disinvoltura ignorato nel definitivo calcolo di un’integrale esegesi".
INFERNO CANTO XXXIV

Dante e Virgilio entrano nella quarta zona di Cocito, chiamata Giudecca, dove soffrono coloro che tradirono i loro benefattori.
Qui nessuna delle anime dannate parla, nessuna e’ identificata: imprigionate totalmente nel ghiaccio, si possono appena intravedere, immobili nelle più diverse posizioni: supine, ritte in piedi, capovolte, piegate ad arco. Nell’aria opaca che grava sulla palude gelata comincia a delinearsi un’enorme sagoma, come un mulino le cui pale girino nel vento: è la mole gigantesca di Lucifero piantato fino a mezzo il petto nella palude.
Il re dell’inferno ha tre facce, quella anteriore è rossa, quella sinistra è nera e quella destra è gialla; le tre bocche maciullano senza posa tre peccatori, che tradirono le due supreme autorità, la spirituale e la temporale: Giuda, Bruto e Cassio; Giuda, per maggiore tormento, è straziato di continuo dagli artigli del mostro. Agitando le sue tre paia d’ali di pipistrello Lucifero genera il vento che fa ghiacciare Cocito.
Ormai i due poeti hanno visto tutto l’inferno ed è tempo di uscire; Dante si avvinghia al collo di Virgilio che scende aggrappandosi ai peli di Lucifero nello spazio tra il corpo villoso di Satana e il ghiaccio che lo imprigiona. Giunto al centro del corpo del mostro (corrispondente al centro della terra) Virgilio si capovolge e prosegue con il suo discepolo attraverso una stretta galleria, mentre Dante gli chiede alcune spiegazioni, finché giungono alla superficie della terra.
Introduzione critica
Dopo la tensione altissima del dramma del conte Ugolino e il "furore biblico" dell’invettiva contro Pisa, il canto precedente si chiudeva in tono minore, calando gradualmente dallo sdegno violento al disprezzo beffardo dell’invettiva contro i Genovesi. Di questo tono minore partecipa anche l’ultimo canto dell’Inferno, con il quale Dante sigilla il primo tempo della "meditazione trinitaria" intorno alla realtà spirituale dell’uomo (non essendo i tre regni altro che fasi di un solo processo di caduta e di redenzione) e, nel finale, prepara il lettore alla dolce visione della marina del purgatorio. Il canto trova la sua unità attorno alla figura mostruosa di Lucifero, che domina e soverchia ogni altra immagine e la sua comparsa, già misteriosamente preannunciata nel canto XXXIII (versi 100-105), è preparata con sapienza. La solennità del verso latino iniziale - vexilla regis prodeunt inferni - infonde quasi un senso di religioso orrore, mentre la massa bruta del mostro "viene innanzi lentamente attraverso l’atmosfera scura e lontana, con lineamenti prima indefiniti, e domina paurosamente sulla squallida distesa..." (Momigliano).
Il pellegrino, che di cerchio in cerchio aveva sperimentato, giudicato, combattuto il mondo del peccato, accosta faticosamente il simbolo del male in un orizzonte cupo e grigio, dove si dissolvono tutti i più violenti colori del mondo infernale (che erano pur sempre emblemi di vita, anche se di una vita dannata), in un silenzio dove tutte le grida di dolore o di maledizione che lo hanno accompagnato, restano imprigionate nel ghiaccio.
Lo sfondo non potrebbe essere architettato con maggiore efficacia, ma quando la figura di Lucifero si avvicina e si precisa, Dante, dopo averlo sbozzato con un tratto potente (lo ‘mperador del doloroso regno da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia), si affanna impacciato, cerca approssimative precisazioni, usa iperboli ed esclamazioni. Proprio per questo numerosi commentatori negano la poeticità del più gigantesco personaggio dell’Inferno. Secondo il Grabber "il colossale in Lucifero non raggiunge un vigore poetico adeguato" perché la sua figura "è costruita con un ritmo piuttosto faticoso e frammentario". Il Romani ritiene che "questo mostro immane, con l’inutile corpaccio morto, non vale neppur uno di quei suoi ministri, pieni di maliziosa gaiezza i quali portano la viva luce del comico sulla sudicia bolgia dei barattieri ".
Tuttavia l’apparizione di Lucifero è sconcertante e grandiosa e ci riporta all’íconografia di tanti affreschi e mosaici medievali, in cui lo sforzo di rappresentare il simbolo vivente del male libera la fantasia dell’artista da ogni freno immergendola nel mondo dell’orrido. Anche se non si può negare che Dante abbia conosciuto molte tradizioni iconografiche letterarie e figurative, nella costruzione di Lucifero, nella sua struttura che poggia su salde basi dottrinali è evidente un senso di equilibrio e di misura, il quale ha impedito ogni esasperazione grottesca che poteva sconfinare nell’ingenuità o tradursi nel virtuosismo. E’ quindi giusto riconoscere la prodigiosa originalità di questa creazione che nella fantasia del Poeta vuole essere "il bestiale contrapposto della Trinità... la sintesi morale e pittorica della perversione morale e fisica del regno del male" (Momigliano). Preparato già nel primo canto, dove le tre belve sono "una demoniaca processione di una Trinità inferna, una sostanza in tre persone, l’una dall’altra procedendo, dalla Cupidigia la Violenza, e dalla Cupidigia e dalla Violenza insieme l’invidiosa Frode, l’amor del Male" (Apollonio), l’emblema della trinità demoniaca "che capovolge nel Male le aspirazioni del Bene, e irrigidisce nell’amor di sé il richiamo dell’amor divino... opera nella prima cantica, giù giù traboccando dal triforme Cerbero al triforme Gerione al triforme Lucifero", finché quelle "aspirazioni" attraverso il centro della terra saliranno verso la Trinità divina ("s’intende molto facilmente che le tre facce di Lucifero sono in antitesi con i tre cerchi di tre colori che il Poeta poi ci dirà ‘ di aver veduti in Dio" secondo l’affermazione del Pietrobono che si riporta ai versi 115120 del canto XXXIII del Paradiso).
Dante rappresenta Satana quale un immenso ammasso di materia quasi inerte, perché questa, secondo la filosofia scolastica, essendo pura potenza, passività quasi assoluta, si avvicina di più al non essere, al nulla. "Il riassunto di tutti i mali d’inferno è là, in quella montagna di materia torpida, la fonte di tutto il pianto del mondo è là, in quel gigante che piange con sei occhi, grottescamente, la suggestione precipite delle tre Bestie si spenge in quelle tre Facce, la superbia negatrice di Farinata si addormenta gelida e tetra in quel mostro che da mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia, la monotonia dei tormenti infernali, eterni, si ripete nel gesto monotono con cui dirompe coi denti, a guisa di maciulla, un peccatore..." (Apollonio)
Poiché Lucifero è la «Trinità inferna", di fronte a questo abisso del male la parola non riesce più ad esprimere: l’impotenza a dire del Poeta ha anche questo significato. E il silenzio di Lucifero e dei dannati della Giudecca (anche Bruto si storce e non fa motto), la mancanza di ogni dialogo, l’assoluta indifferenza segnano il distacco definitivo di Dante dal male dopo la lunga meditazione sul peccato: ... oramai è da partir che tutto avem veduto (versi 68-69).
Nel finale (versi 127-139) l’atmosfera infernale ormai si sta dissolvendo, la terra partecipa più animatamente alle vicende spirituali. Il viaggio viene consumato in silenzio, ma coll’accompagnamento discreto di quel ruscelletto che discende in basso. Anche il linguaggio del Poeta muta stile e accento, preludio alla dolcezza dell’alba sulla spiaggia dell’antipurgatorio.
PURGATORIO CANTO I

Dante e Virgilio, usciti dalla voragine infernale attraverso la natural burella, si trovano sulla spiaggia di un'isola situata nell'emisfero antartico, nella quale si innalza la montagna del purgatorio. Inizia il secondo momento del viaggio di Dante nell'oltretomba, durante il quale argomento del suo canto sarà la purificazione delle anime prima di salire in paradiso: necessaria è perciò la protezione delle Muse, che egli invoca prima che la sua poesia affronti il tema dell'ascesa alla beatitudine eterna. L'alba è prossima e i due pellegrini procedono in un'atmosfera ormai limpida e serena; dove brillano le luci delle quattro stelle che furono viste solo da Adamo ed Eva prima che fossero cacciati dal paradiso terrestre, situato per Dante sulla vetta del monte del purgatorio. Volgendo lo sguardo verso il polo artico Dante scorge accanto a sé la figura maestosa di un vecchio: è Catone Uticense, che Dio scelse a custode del purgatorio. Poiché egli li crede due dannati fuggiti dall'inferno, Virgilio spiega la loro condizione e prega che venga loro concesso di entrare nel purgatorio, promettendo a Catone di ricordarlo alla moglie Marzia, che si trova con Virgilio nel limbo. Ma, risponde il veglio, una legge divina separa definitivamente le anime dell'inferno da quelle ormai salve; del resto non è necessaria nessuna lusinga, dal momento che il viaggio è voluto da una donna del ciel. Infine ordina a Virgilio di cingere Dante con un giunco (simbolo d'umiltà) e di detergergli il volto da ogni bruttura infernale. I due pellegrini si avviano verso la spiaggia del mare per compiere i due riti prescritti da Catone.
Introduzione critica
La lettura del primo canto del Purgatorio segue, lungo l'arco della critica dantesca, un'oscillazione tra due poli: il polo della ricerca che il Croce avrebbe definito strutturale, attenta ad una esposizione problematica di tutte le implicanze storiche, mitiche e teologiche e il polo dell'esegesi attenta a definire il significato ritualistico e l'intelaiatura liturgica che sorregge tutto il canto. E due sono stati i motivi attorno a cui la critica ha sovrapposto strati di ricerche e di interpretazioni: il personaggio di Catone, osservato in rapporto al concetto di libertà e al concetto di salvezza e il rito finale della purificazione, celebrato in sul lito diserto. Questa analisi ci porta ad accostare ancora una volta il problema dell'allegoria in Dante e in un canto la cui struttura è tutta emblematica e che, sotto questo punto di vista, si offre efficace paradigma di tutta la seconda cantica. È stato giustamente osservato che anche gli interpreti più convinti della non poeticità dell'allegoria ammettono che nel primo canto "il simbolo è del tutto disciolto nella rappresentazione" (Bigi): la figura di Catone esprime la riconquista della libertà dopo l'esperienza del male, ogni gesto di Virgilio è un'officiatura liturgica nella riconsacrazione del suo discepolo al bene, il personaggio Dante appare nello stato del catecumeno che comincia il suo ciclo di iniziazione- purificatrice. Su questi tre perni poggia la vicenda dell'anima nel momento in cui si avvia verso la penitenza e la redenzione, attraverso - secondo la distinzione del Bigi - "tre fasi successive: quella in cui l'anima si abbandona con immediato senso di benessere alla sua nuova condizione; il sopraggiungere della consapevolezza delle responsabilità e dei doveri che tale condizione comporta; e infine, raggiunta questa consapevolezza, l'inizio, ansioso e raccolto, della penitenza". È un momento ancora drammatico, a torto dimenticato da molti critici che, sottolineando troppo l'atmosfera dolce e serena della spiaggia del purgatorio - atmosfera del resto necessaria perché il senso del divino si distenda "con un'intima potenza affinante e pacificatrice" (Malagoli) - dimenticano che "questo aprirsi dell'anima è strettamente avvinto al sentimento infernale: là è la sua humus" (Malagoli), non avvertendosi affatto "una diminuzione di tensione rispetto all'Inferno, quanto piuttosto una diversa tensione, meno disperata e convulsa e più controllata e solenne, ma pure anch'essa potentemente drammatica" (Bigi). Noi andavam per lo solingo piano non indica, come vorrebbero alcuni critici, il tranquillo procedere dei due pellegrini, ma la fuga da un incubo, (per l'Apollonio anzi questo motivo continua in tutta la seconda cantica: "se l'Inferno è l'ipostasi della città degli uomini, il Purgatorio è il viaggio da quella città, l'esilio alla ricerca di una più vera patria, la fuga, anche da una minaccia bestiale e paurosa... di non so che malvagio uccello") che si compone infine in due gesti semplici e armoniosi, che sembrano seguire il ritmo prestabilito di una cerimonia liturgica. Per il cristiano e per l'uomo medievale in particolare, erede diretto di tutta la letteratura patristica, che faceva della liturgia la sua matrice - rientrare nella Grazia significa rientrare nella vita liturgica - che della Grazia è l'espressione sensibile - cioè nella vita comunitaria della Chiesa: e non è fuori luogo ricordare che nel Purgatorio l'esistenza, delle anime e delle cose, è corale e concorde. La recente lettura di Ezio Raimondi, perseguita con solidità di impianto critico e con finezza di proposte interpretative, segue, lungo tutto il canto, l'intreccio tra rito e storia alla ricerca d'una convergenza di significati, di ricordi, di miti, di simboli vitali in ciascuna delle immagini del canto, da quella della navicella alla descrizione dell'umile pianta, di cui Dante é cinto da Virgilio. Dopo l'esordio, che segue le leggi retoriche delle artes dictandi, il tema sembra essere quello stesso di tutta la cantica, cioè l'antitesi morte-risurrezione, male-libertà, peccato-ritorno a Dio. Attorno a questo fulcro dimostrativo si raccolgono immagini ricche di risonanze classiche, bibliche, liturgiche e patristiche, ma tutte inscritte in una tensione verso il ritorno all'innocenza perduta, verso la purificazione totale. In effetti si può affermare, col Raimondi, che "con quel gioco multiplo di suggerimenti e di registri che fa del simbolismo dantesco una invenzione geniale, il discorso del Poeta corre su due piani, l'uno retorico e l'altro, se si passa il termine, esistenziale". Ancora una volta "l'interpretazione allegorica con cui la spiritualità medievale intende i fatti della cultura e gli aspetti del mondo e le vicende della vita, é un modo di pensare e di sentire: non si frappone tra l'intelletto e le cose, tra l'anima e i suoi movimenti, ma, anzi, ne agevola il contatto e la comprensione, ne suggerisce le vie per il possesso e l'unità" (Battaglia). La poetica del trascendente, intesa come ricerca e conquista dei supremi valori spirituali, ha avuto inizio e Dante vi si consacra separando per un attimo il poeta (l'invocazione alle Muse), smarrito di fronte alla difficoltà della a "visione", dall'uomo-personaggio, smarrito di fronte alla difficoltà dell'ascesa, ma legando inscindibilmente i due momenti, perché dal tema iniziale del "resurgere" (ma qui la morta poesì resurga) al rito lustrale della fine, il motivo unitario é la riconquistata libertà attraverso l'umiltà e in virtù della purificazione. E sono proprio Catone, l'eroe mitizzato perché magnanimo, e Virgilio, il poeta vate e guida, a fare da ministri al rito : segno d'una rottura, attraverso la Grazia, del rapporto tra gloria ed umiltà: "l'umiltà non contraddice più, ora, alla magnanimità" (Raimondi). L'umile pianta, divelta per cingere il Poeta, rinasce preludio alla totale rinascita spirituale che Dante avvertirà alla fine del purgatorio, quando si sentirà rifatto si come piante novelle rinnovellate di nove
PURGATORIO CANTO II

L'aurora sorge sull'orizzonte del purgatorio mentre i due pellegrini sostano, pensosi ed incerti del cammino, lungo la riva del mare. All'improvviso appare lontano, sulle acque, una luce rosseggiante che si avvicina velocemente alla spiaggia: Virgilio riconosce l'angelo nocchiere del purgatorio ed esorta il discepolo ad inginocchiarsi in segno di omaggio. L'uccel divino giunge su una veloce navicella ché trasporta più di cento anime, le quali, ad una voce, cantano il salmo "In exitu Israel de Aegypto". Dopo averle benedette con il segno di croce, l'angelo riparte lasciando sulla spiaggia le anime, le quali chiedono consiglio a Dante e Virgilio sul cammino da intraprendere. Allorché si accorgono che Dante è vivo, grande è la loro meraviglia, finché una di esse, che aveva tentato di abbracciare il Poeta, viene da questo riconosciuta: è l'anima di Casella, un musico e cantore amico di Dante. Dopo avere spiegato ché le anime destinate al purgatorio si raccolgono alle foci del Tevere in attesa dell'angelo nocchiere, su preghiera dell'amico, che ricorda quanto fosse per lui rasserenante il suo canto, Casella intona una canzone del Convivio. Tutti ascoltano intenti, ma Catone li scuote, rimproverando questo indugio nell'espiazione dei loro peccati. Le anime e i due pellegrini si dirigono correndo verso il monte come colombi spaventati da un rumore improvviso.

Introduzione critica
La lettura del canto secondo del Purgatorio deve essere condotta su un piano drammaturgico, il quale però rimandi costantemente, con la forza propria d'una rappresentazione morale, al piano spirituale di cui è simbolo visivamente esplicantesi. Le iniziali precisazioni astronomiche, preoccupate di rendere la situazione della luce e dell'ora; il lento avvicinarsi sull'orizzonte visivo del lume che prende via via forma fino ad assumere la limpida suggestione d'un primo piano; la presenza, sin dalla prima apparizione dell'angelo nocchiero, di un rapporto tra l'azione rappresentata e l'io del Poeta; le risonanze bibliche e la meditazione sulla condizione pellegrinante del cristiano, introdotte dall'inizio del salmo "In exitu Israel de Aegypto" ; l'intermezzo musicale che aduna un pubblico ed un coro attorno all'amico musico e cantore; il sovrapporsi della meditazione sull'amicizia alla meditazione sul mistero della vita come peregrinatio; l'intervento di Catone che disperde la cerchia animata dal canto per richiamare la preminenza e sollecitudine del fine supremo sulla precarietà del terrestre; il rompersi finale del pubblico e lo sciogliersi dell'azione, la cui resa visiva è affidata alla similitudine dei colombi: di drammaturgia si può parlare se si pensa allo svolgimento ritmico di questi quadri che si muovono con logica rapidità, rivelandola sapienza registica del Poeta. Nella ricchezza di movimento esteriore come significazione di una realtà spirituale il canto secondo è intimamente legato al primo, ma è soprattutto nella sua dimensione liturgica che costituisce il logico sviluppo dei due riti di purificazione officiati da Virgilio, attraverso i quali Dante è entrato nella "società delle anime". L'insistenza con cui il Poeta ritorna sul candore dell'uccel divino (m'apparìo un... bianco; i primi bianchi...; più chiaro appariva) non può non ricordarci che il bianco è il colore che predomina nella liturgia battesimale e in quella pasquale del giorno di Risurrezione, mentre il sacerdotale segno di croce, ieratìcamente solenne, dell'angelo, consacra il primo momento corale di tutto il Purgatorio e il primo incontro di Dante con l'umanità penitente. "Tutta la montagna del purgatorio ci appare come un'immensa basilica affollata di riti e risuonante dei canti e delle preghiere dei fedeli. In exitu Israel de Egipto è come l'introibo nel mondo dell'esaltazione della penitenza; è come l'antifona di un lungo ufficio divino, di cui gli angeli sono in certo senso gli officianti. "(Marti) In questa prospettiva liturgica, allorché termina il canto non può che iniziare un colloquio corale (se voi sapete, mostratene la via... voi credete forse che siamo esperti...), in cui si svela anche uno stato d'animo comunitario di umiltà e di smarrimento - di fronte al monte che nessuno ancora conosce. Le letture critiche di questo canto si sono accentrate o attorno alla ricerca d'una musicalità presente in tutto il canto ed espressa da Casella, oppure attorno alla meditazione sulla condizione di pellegrino del cristiano, significata dalle anime del vasello snelletto e leggiero e dal burbero intervento del veglio onesto. Il Ferrero e l'Albini seguirono ambedue la linea della ricerca musicale (la notazione del Boccaccio su un Dante che "sommamente si dilettò in suoni e canti nella sua giovinezza" e il famoso passo del Convivio [II, XIII, 24] nel quale si descrivono gli effetti della musica su un animo nobile, "musica trae a sé li spiriti umani... si che quasi cessano da ogni operazione" offrono l'occasione, se non altro, per un confronto fra l'ars nova della musica medievale e il contemporaneo stil novo), rilevando che la musicalità dei versi è, in questo canto, scandita dalla pittoricità delle apparizioni e dall'evanescenza un po' trasognata delle immagini e delle similitudini. Continuando su questa strada la Batard tenta addirittura una lettura delle immagini sul contrappunto di movenze musicali, affermando che anche l'effetto della sorpresa di Catone, che interviene a rompere la zona d'abbandono all'arte, è musicale: "l'intervento di Catone è anzitutto un elemento poetico: Catone fa il censore, ma, richiamando la similitudine dei colombi, fornisce il tema musicale del canto dell'amicizia". L'episodio di Casella, attraverso il motivo della solenne glorificazione dell'arte - nel rapimento della musica come mediatrice di spiritualità, costituisce un brano di autobiografia dantesca, secondo il Marti, nel quale il Poeta evoca nostalgicamente i miti culturali della lontana giovinezza, e lo sforzo amoroso e tenace con cui volle realizzarli in sé "all'epoca delle grandi speranze e delle grandi illusioni", in una Firenze "tanto politicamente vischiosa, quanto culturalmente aperta e luminosa". È questo un momento in cui chiara si avverte la dialettica fra Dante poeta e Dante personaggio, fra l'io poetico "che deve trascendere le limitazioni dell'individualità per conseguire un'esperienza di universale esperienza" e l'io empirico che è l'"occhio individuale necessario per percepire e fissare la materia d'esperienza"(Spitzer) : l'intervento di Catone restituisce a Dante la consapevolezza di sé, ché come uomo è in cammino verso la salvezza e come poeta agli altri si offre maestro di vita. Occorre perciò "correre al monte a spogliare lo scoglio". Del resto già prima di questo oblivioso abbandono la condizione di pellegrini era stata subito dichiarata dal Poeta: ma noi siam peregrin come voi siete. Se questa è la condizione umana, bisogna conservarsi come gente che pensa a suo cammino, e non sostare, adagiandosi nella contemplazione della realtà terrestre e nella meditazione dei valori umani. Per questo l'intervento di Catone è giustificato: "l'intransigenza - nota l'Apollonio - fa parte di ogni dignitoso e coerente esercizio ascetico, anche se contraddice quella aspirazione umanistica, cui Dante allude, della purificazione attraverso l'arte...".
PURGATORIO CANTO III

Dopo il rimprovero di Catone, mentre Dante e Virgilio si avviano verso il monte, il poeta latino in una lunga esortazione invita gli uomini ad accettare il mistero di cui avvertono l'esistenza: i saggi antichi che vollero spiegarlo, scontano ora nel limbo il loro folle desiderio. Mentre sostano ai piedi dell'erta. parete rocciosa, compare una schiera che avanza lentamente e verso la quale essi si dirigono, per chiedere informazioni. Sono le anime di coloro ché morirono nella scomunica della Chiesa, pentendosi solo in fine dì vita, e che devono restare fuori della porta del purgatorio, nella zona chiamata antipurgatorio, trenta volte il tempo durante il quale vissero scomunicati. Esse invitano i due pellegrini, a procedere davanti a loro, verso destra, mentre una si rivolge direttamente al Poeta: è lo spirito di Manfredi di Svevia, morto nella battaglia di Benevento nel 1266. Egli prega Dante di riferire alla figlia Costanza la vera storia della sua morte; ricevute le due ferite che ancora deturpano la sua figura, si affidò pentendosi, prima di morire, alla misericordia divina. Ebbe dapprima sepoltura sotto un cumulo di sassi, secondo l'uso guerriero, ma i suoi nemici guelfi; e in particolare il vescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli, legato del papa Clernente IV, vollero disseppellire il suo corpo e lo abbandonarono fuori del territorio della Chiesa (dove gli scomunicati non potevano essere sepolti), lungo le rive Garigliano. Chiede infine che Costanza preghi per lui, perché le preghiere dei vivi aiutano ed abbreviano il tempo della purificazione.

Introduzione critica
La giustapposizione di un motivo di meditazione morale (il discorso di Virgilio) ad un episodio individuale (l'apparizione di Manfredi) nella tematica del canto III ferma l'attenzione su un problema nuovo, la cui soluzione é possibile solo se viene prospettata nell'ambito della poetica dantesca. Già Dante aveva avvisato all'inizio del Purgatorio che la sua poesia sarebbe profondamente mutata, ma solo una lettura critica superficiale può fermarsi a cercare tale mutamento nel paesaggio o nella diminuita carica di passioni dei vari personaggi o nel superamento di ogni urgenza polemica, cioè nella tonalità elegiaca della nuova creazione, perché é sulla diversa posizione del Poeta di fronte alla sua materia che deve essere condotta l'indagine più utile per non isolare in un giudizio negativo le parti specificatamente morali e dottrinali. Nel mondo dell'acquisita salvezza l'animo si rinfranca, accentuando la sua missione profetica: se Dante nell'Inferno ha fissato entro misure assai ridotte ogni excursus didascalico, perché non poteva, chi era ancora immerso nel peccato, costituirsi maestro di salvezza, preferendo affidare ogni forma di ammaestramento al volto orribile del peccato, ora ha, piena consapevolezza che, iniziando il momento più difficile dell'ascesa spirituale, é necessario un intervento diretto, e pressoché continuo, per spiegare, chiarire, esortare. Il binomio profeta-poeta, maestro-poeta, che risponde a uno schema mentale familiare al Medioevo, si dispiega in tutta la sua forza - e la sua unità - proprio a partire dal canto III, attraverso l'intensa esortazione di Virgilio. La critica giudica questo canto fondamentale per capire il tono che caratterizza la seconda cantica, attraverso "l'altezza degli ideali e l'umanità del sentire, e, tecnicamente, la sapiente tonalità di fondo e il tratto sicuro e dinamico della biografia poetica nell'insieme del quadro" (Caccia). Volendo più chiaramente determinare il motivo che trasfigura la storia di un periodo avventuroso e violento in lirica purissima, esso va trovato in quello della "vanità dell'odio", che, fungendo da preludio in questo canto, diventerà il Leitmotiv della sinfonia del quinto. Manfredi, che rievoca con precisione, ma con accoratezza la sua vicenda terrena, é una anima pacificata con Dio, e quindi anche con se stessa e con gli uomini: "siamo nel Purgatorio; e dunque potrebbe sembrare che questa pensosa serenità sia imposta solo dalla materia, dalla necessità logica di rappresentarci anime pentite. Ma c'è qualcosa che nessuna materia astratta avrebbe potuto imporre: la pietà dell'artista, il suo senso dell'inutilità degli odi umani, la persuasività totale della poesia che esprime l'una e l'altro" (Bosco). Quella pietà che reggerà il racconto di Jacopo, di Bonconte e di Pia, sorregge anche "la rievocazione delle povere ossa di Manfredi bagnate dalla pioggia e mosse dal vento; il considerare, che il Poeta fa, l'inutilità dello scempio: inutile l'accanimento, inutile il trafugamento a lumi spenti, come si conveniva a uno scomunicato, a un dannato; ed era invece salvo, destinato al paradiso" (Bosco). Ciò non significa che Dante, abbandonata la sua funzione di giudice, si disponga ad un esame acritico della storia (contrario del resto alla mentalità medievale, che nella storia vede possibilità amplissime di ammaestramento), negandosi ogni facoltà di condanna in nome di un sentimento di indulgenza, perché orribil furono i peccati di Manfredi e tanto grave la sua colpa di fronte alla Chiesa e alla società da ripercuotersi - attraverso la scomunica - anche nell'al di là, ma chiarisce in tutta la sua evidenza quanto già alcuni episodi dell'Inferno avevano mostrato: che in Dante sussistono "due volti, quello del giudice del male e quello dell'uomo tristemente consapevole di non esserne immune; del giudice al di sopra e contro la comune umanità e del partecipe di questa umanità; del severo e del pietoso; dell'uomo di parte che sa amare quanto odiare, e dell'uomo che scopre la vanità dell'odio" (Bosco). Due momenti che non si susseguono in ordine cronologico (come ad esempio affermano V. Rossi e, in misura minore, il Porena), legati a vicende storiche e biografiche del Poeta, ma che sono sempre coesistiti nel suo animo, dove però prevale il volto pietoso al di sopra di ogni mischia e di ogni discordia, quando nel Purgatorio lo spirito si apre al divino. È su questa meditazione dolorosa della storia che si innesta l'episodio di Manfredi, liberandosi fin dall'inizio di ogni spirito faziosamente politico, e presentandosi - per usare una terminologia critica moderna - come aperta proclamazione della libertà della poesia di fronte alla storia, allorché la poesia si dispone a studiare la vicenda umana non avulsa da ogni contatto con il sovrannaturale, ma nel suo rapporto con la realtà divina. Per questo della figura di Manfredi - che per l'eccezionalità della vita e degli eventi di cui fu protagonista, occupò a lungo l'interesse del suo tempo e di quello seguente - Dante coglie il momento più tragico e religioso insieme, quando la creatura umana prende coscienza della gravità dei suoi errori e invoca l'intervento divino. È una ricostruzione spirituale, che esige da parte del Poeta la capacità di scendere nel proprio personaggio, per riviverlo in tutta la sua dimensione interiore. Senza condividere la posizione della critica di ascendenza romantica, che analizza il personaggio di Manfredi fino ad identificarlo con il Poeta stesso, laddove la figura del re svevo ha una sua singolarità, che, nell'aristocratica bellezza, nella regale dignità, nel magnanimo coraggio ne ricollega l'immagine ad un mondo eroico e cavalleresco, é indubbio che Dante rivive in Manfredi la sua dolorosa vicenda personale nell'ambito della crisi politica provocata dall'intervento temporale della Chiesa, e soprattutto la sua personale esperienza di peccato e di redenzione.
PURGATORIO CANTO IV

Più di tre ore sono trascorse dall'apparizione dell'angelo nocchiero quando Dante e Virgilio, in seguito all'indicazione delle anime degli scomunicati, iniziano la salita lungo uno stretto sentiero, la cui ripidità è tale che solo il grande desiderio di purificazione può aiutare a percorrerlo. Durante l'ascesa Dante può rendersi conto, meglio che non quando si trovava ancora lungo la spiaggia, dell'altezza e dell'asperità del monte del purgatorio: ha un momento di scoraggiamento, dal quale il maestro lo scuote esortandolo a raggiungere un ripiano sul quale potranno riposare. Qui giunti, Virgilio spiega al discepolo perché i raggi del sole nel purgatorio provengono da sinistra, mentre nell'emisfero artico chi guarda verso levante vede il sole salire nel cielo alla sua destra. Ma Dante teme l'altezza del monte e Virgilio lo rassicura: l'ascesa è difficile solo all'inizio, quando si è ancora sotto il peso del peccato, poi si presenterà man mano sempre più facile ed agevole. Non appena il poeta latino termina di parlare, si leva improvvisamente una voce verso la quale i due pellegrini si dirigono, finché si trovano davanti a una grande roccia alla cui ombra giacciono le anime dei negligenti, che, per pigrizia, si pentirono solo all'estremo della vita e che, per questo, devono restare nell'antipurgatorio tanto tempo quanto vissero. Chi ha parlato è il fiorentino Belacqua, che Dante conobbe e con il quale il Poeta stabilisce un affettuoso colloquio finché Virgilio gli ingiunge di proseguire il cammino.
Introduzione critica
Le distinzioni psicologiche che aprono il canto, le successive designazioni astronomiche, il senso di fatica dell'ascesa, l'ironia familiare che circola nell'incontro con Belacqua, essendo momenti sovrapposti in ritmi e tempi diversi, parrebbero negare la possibilità d'una lettura unitaria del canto, limitando l'interesse alle singole parti. Invece esso si dispone nella linea di quei canti la cui validità è da cercarsi nel rapporto dei momenti informativi e dottrinali con gli episodi umani e più chiaramente poetici, e nell'analisi dei precisi scopi che attraverso questo canto Dante si propone di raggiungere. Anzitutto la figura del Poeta si impone come protagonista, spostando il polo di interesse dalla pensosa immagine di Virgilio e dalla regale apparizione di Manfredi, che occupano tutto il canto IlI, su se stesso: parla più che ascoltare, interroga più che tacere, agisce più che smarrirsi, nella raggiunta certezza della purificazione, laddove nell'Inferno essa gli pareva quasi impedita dalla continua visione del peccato nelle sue forme più aberranti. Pur faticosamente, in lui si fa luce uno stato d'animo nuovo, quello dell'uomo che si prepara a godere della sua conquista spirituale, che riprende coraggio nei suoi mezzi umani, che riaccosta con fiducia i misteri dell'anima e del mondo. Il dottrinalismo che occupa tanta parte del canto, ben lungi dall'opporsi alla poesia, nasce dalla stessa radice, cioè dal bisogno di accostarsi al sovrannaturale, contemporaneamente studiando e sistemando il cosmo nel quale il sovrannaturale vive e si esprime: il canto IV, nel quale è diffusa quest'ansia di conoscere e questa ricerca di saggezza e di virtù nel cerchio della redenzione, costituisce l'esplicita risposta del mondo cristiano-medievale di Dante all'ammonimento del pagano Virgilio, state contenti, umana gente, al quia, e all'amara conclusione finale, disiar vedeste sanza frutto. Il Fergusson, commentando i canti dell'antipurgatorio, afferma che essi costituiscono il prologo al dramma della crescita spirituale che inizia a questo punto e culminerà alla fine del terzo giorno nella visione di Dio, prologo nel quale Dante desidera che il lettore senta la forza di un'aspirazione che non si può ancora realizzare, presentando anime che, fuori del vero mondo del purgatorio, devono tuttora scoprire come cominciare la loro crescita spirituale. Tuttavia il critico americano non sembra rilevare l'importanza di questo canto posto proprio al centro degli otto dedicati all'antipurgatorio, poiché il Poeta, resosi conto dell'orgoglio che si era insinuato nella sua scienza e nella sua baldanza, trova nella calma lentezza di Belacqua un "provvido invito all'umiltà per il pellegrino mortale, ansioso quasi di anticipare all'anima sua le gioie di un processo purificatore stabilito dall'eterno consiglio, e dal quale consiglio l'anima non può che accettare rassegnatamente e perciò serenamente, il ritmo esterno, il rituale della purificazione" (Romagnoli). L'equilibrio raggiunto - difficile ma non precario - non frena il "volo" del pellegrino, ma lo inserisce in quella zona di attesa propria di tutte le anime penitenti, aiutandolo nello stesso tempo ad allontanare man mano le vicende e i ricordi della vita in una penombra che vela l'asprezza delle forme ma non la chiarezza dei contorni. Secondo il Fergusson Dante si trova ora nella condizione psicologica di un bambino: le sue conoscenze letterarie, filosofiche, storiche, teologiche dopo la visione del mondo dannato servono a ben poco; egli deve ricominciare e "nel suo candore, nell'obbedienza all'impressione immediata, nella libertà del sentimento è come un bambino... Ciò che il pellegrino vede, guardando fuori di sé, è il mondo naturale come l'occhio dell'innocenza lo percepisce". In realtà questa interpretazione appare troppo semplice, o meglio, si oppone ad un'attenta lettura del canto IV, perché se Dante scopre con gioia, attraverso le parole di Virgilio, la legge del corso del sole nel purgatorio, non si limita ad accettare, come è sempre avvenuto finora, la verità propostagli, ma vuole completare egli stesso e concludere la spiegazione del maestro (versi 76-84): non l'accoglimento passivo, ma la fattiva penetrazione sostenuta da una profonda saldezza intellettuale - per spiegare la quale è insufficiente l'immagine del fanciullo. Se il canto è impegnativo da un punto di vista dottrinale e si presenta estremamente importante dal punto di vista psicologico, da alcuni critici è stato però considerato privo di quel movimento drammatico che, dopo aver contraddistinto il canto di Manfredi, ritorna con la stessa intensa commozione nel quinto: una pausa narrativa che culmina nel gioco scherzoso di battute dell'episodio di Belacqua. Il giudizio è esatto solo in parte, potendosi definire pausa il fatto che Dante sembra raccogliersi in se stesso dopo il primo lungo incontro con un'anima del purgatorio, quasi volesse esaminare le proprie reazioni, e studiare la sua nuova dimensione spirituale dopo l'affannoso susseguirsi di fatti in sul lito diserto. Ma tale esame non avviene attraverso una lenta e distesa esposizione, bensi attraverso l'angustia e l'asprezza di una salita che impegna all'estremo i due pellegrini in una rappresentazione che ha tutto il vigore della realtà, vigore che non si disperde nello scherzo di due battute finali, ma da esse prende forza nuova. Perché, infatti, il valore dell'episodio di Belacqua è sì nel richiamo all'umiltà e all'ubbidienza paziente delle leggi del purgatorio e nella funzione di antitesi, affinché dall'immagine della pigrizia meglio venga esaltato lo sforzo morale del Poeta, ma anche nella tonalità indulgente, nella bonarietà affettuosa del dialogo, nella voce del ricordo associata a luoghi e tempi passati. Occorre perciò non vedere l'episodio solo in una visuale allegorica, ma cogliere in esso un altro momento autobiografico di Dante, dopo quello di Casella, fatto di consuetudine di affetti e di conversazioni.
PURGATORIO CANTO V

I due pellegrini, procedendo sempre nell'antipurgatorio, lasciano la schiera delle anime negligenti, una delle quali, mostrando vivacemente la sua meraviglia nell'accorgersi che Dante è vivo, fa volgere il Poeta, che rallenta il suo passo. Virgilio lo invita a non perdere di vista la propria meta, consacrando ad essa tutte le energie. Intanto lungo la costa del monte avanza, cantando il salmo «Miserere», un gruppo di anime, che notano subito l'ombra proiettata dal corpo di Dante: due di esse, come messaggeri, si accostano ai poeti per chiedere spiegazioni intorno alla loro condizione e infine tutta la schiera si lancia verso di loro in una corsa sanza freno. Sono coloro che furono uccisi con la violenza e che si pentirono solo all'ultimo istante di vita: ora chiedono preghiere per affrettare la purificazione. Nella seconda parte del canto tre di queste anime narrano come avvenne la loro morte: Jacopo del Cassero fu ucciso dai sicari di Azzo VIII d'Este, signore di Ferrara, del quale era stato fiero avversario; il ghibellino Bonconte da Montefeltro scomparve durante la battaglia di Campaldino e le potenze infernali, non avendo potuto impadronirsi della sua anima, si vendicarono sul suo corpo, suscitandogli contro le forze della natura, che trascinarono il cadavere di Bonconte nell'Arno, dove fu coperto dai detriti del fiume; Pia dei Tolomei fu fatta uccidere dal marito.
Introduzione critica
Vari sono i punti prospettici dai quali la considerazione critica del canto può prendere avvio, puntualizzando l'esortazione moraleggiante di Virgilio (il cui richiamo alla necessità di non indugiare nel cammino amplia quello del canto precedente, costituendo un nesso di collegamento), il rapporto psicologico fra Dante e la schiera dei morti violentemente che invocano preghiere (rapporto di particolare intensità che si prolunga nell'inizio del canto sesto), il frangersi -di tale incontro in tre figure, che esemplificano - attraverso la loro personale esperienza - la passata vicenda terrena e la presente disposizione spirituale dei loro compagni di penitenza. Ed è l'analisi del rapporto fra il mondo del peccato e quello della conversione, che per queste anime, pentitesi in punto di morte, si identifica con il mondo del purgatorio, che centralizza l'attenzione della critica, della quale una parte sottolinea il progressivo perdersi - nella speranza dell'ascesa definitiva - della presenza della vita terrena, e un'altra la persistenza di un ricordo angoscioso di violenze: concorre a mantenere questa incertezza di giudizio il linguaggio stesso, che, dopo il primo concitato colloquiò fra Dante e le anime, assume un ritmo narrativo, in cui però il tono sospeso e distaccato della rievocazione si mescola alla notazione realistica e cruda. La soluzione è dà cercarsi stella prospettiva particolare dell'antipurgatorio, dove si aggirano anime la cui vita spirituale é ancora all'inizio, il cui atteggiamento "é come quello della creatura umana in generale, spogliata dì una vivida tradizione, o come quella di ogni bambino o ragazzo che non ha ancora trovato sé stesso nel mondo" (Fergusson) : esse, passando in un solo istante dal male al bene (peccatori infina all'ultima ora), non esperimentarono neppure un breve periodo di conversione, non ricordano, nella loro esistenza, nessuna tormentosa scelta di fronte al peccato, nessun dolce momento. trascorso nella preghiera, né possiedono uno spirito fortificatosi nella drammatica visione del mondo della dannazione. Per loro esiste solo la sacralità della morte, anche se essa è arrivata dall'agguato dei sicari, dalla violenza dei nemici, dalla perfidia di un marito: la storia, raccontata tre volte, è sempre la stessa, resa drammaticamente esplicita ed esaltante la maestà della morte. Il tema della morte é l'elemento « terreno » presente nel canto ed esprime una conquista che ha a suo fondamento un dono della Grazia, ma un dono che non diventa efficiente se non per un'accettazione attiva della creatura umana. II Poeta ha voluto fermare in loro per sempre il momento in cui la creatura si apre alla Grazia, arrestando ogni ricordo del passato all'istante in cui rifluisce in essa, con lo scorrere di nuovi sentimenti, la vita spirituale, in cui inizia la riscoperta di se stessa al di sopra di ogni odio, laddove le anime dei dannati - per sempre immobilizzate nella loro tragedia terrena - vedevano la propria storia irrigidita nell'atto del peccato, trasformata in cosa, non in principio vitale, per cui la dimensione umana, ancora presente in Jacopo, Bonconte, Pia, serve ad intensificare il desiderio della espiazione. L'innestarsi del sovrannaturale non provoca in loro uno smemorante abbandono, ma li aiuta a determinare con suprema limpidezza lo svolgersi della loro esistenza, che ha trovato il suo motivo di essere solo nell'attimo in cui è stata stroncata: Manfredi si preoccupa ancora di far sapere al mondo la verità intorno alla sua morte (vadi a mia bella figlia... e dichi il vero a lei, s'altro si dice), mentre l'atteggiamento di queste tre anime rappresenta, rispetto a quello, un più fiducioso abbandono al tempo - al tempo della Provvidenza - che farà durare lungo tutte le balze del monte del purgatorio l'istante in cui hanno avvertito, attraverso la violenza subita, la presenza del sovrannaturale: esse non fuggono «dall'incubo e dallo strazio della loro fine», come afferma l'Apollonio, essendo quell'incubo e quello strazio indissolubilmente legati alla loro salvezza. Ma l'attenta psicologia di Dante, che presuppone tutta l'esperienza del dolce stil novo nelle sue direttrici fondamentali - lo studio approfondito dei moti dell'animo umano e la capacità di spiritualizzare quanto é fatto oggetto dì quell'analisi - non nasconde in una indistinta sospensione l'umanissimo reagire di queste creature di fronte all'innaturale, distruzione del legame anima-corpo, rivelando anzi, in un mesto, triplice decrescendo, la loro lotta, il loro affanno, il loro abbandono, in un bisogno di dare sfogo ad un ricordo, sotto certi aspetti, ancora doloroso. Con molta chiarezza il Sacchetto afferma che "mentre nell'Inferno l'umanità tende all'imbestiamento, e nel Paradiso alla trasfigurazione, nel Purgatorio essa vive nella compresenza del peccato e insieme del riscatto. Solo nel Purgatorio le anime, come sulla terra, soffrono e godono, alternano turbamenti e nostalgie a speranze ed elevazioni; espiano e pregano, nell'attesa trepida della liberazione. Solo nel Purgatorio il loro dramma - che è il dramma della colpa - non si esaspera, come nell'Inferno, nella tragedia della dannazione; non si dissolve, come nel Paradiso, nella quiete immutabile della beatitudine; ma si consuma, pateticamente, in un'ombra di pianto, attraverso di cui si compie il processo consolatore della purificazione". Ancora una volta Dante riesce ad innalzare sul piano della poesia i fatti di cronaca del suo tempo, fissando in una ricchissima gamma di accenti, in cui il tono dominante è quello singolarissimo della malinconia, i due momenti essenziali dell'anima cristiana, il peccato e la redenzione, e "perciò, più che nel realismo dell'Inferno o nella metafisica del Paradiso, il tono più segreto ed autentico della poesia di Dante è, forse, nel Purgatorio, dove la particolare situazione delle anime che patiscono il castigo nella luce della salvezza dà una naturale tensione all'arco del canto» (Sacchetto).
PURGATORIO CANTO VI

Le anime dei morti violentemente si stringono, per chiedere suffragi, intorno a Dante, che ha ripreso il suo cammino e che riconosce fra di loro molti noti personaggi del suo tempo. La richiesta di preghiere da parte dei penitenti provoca un dubbio nel Poeta, il quale ha presente l'affermazione da Virgilio fatta nell'Eneide circa l'inutilità della preghiera per mutare un decreto divino: ma, spiega il maestro, vana è solo la supplica non rivolta al vero Dio, mentre nel mondo cristiano essa, con il suo ardore; può muovere a misericordia la volontà celeste. Virgilio poi si accosta a un'anima isolata dalle altre perché venga loro indicata la via migliore per salire: ma quella risponde chiedendo notizie della patria e della vita dei due pellegrini. Non appena Virgilio pronuncia il nome di Mantova, l'ombra si protende verso di lui, rivelandosi: « lo sono Sordello e sono della tua stessa terra » e abbracciandolo. Dante di fronte a questa manifestazione di amore patrio inizia una violenta invettiva contro l'Italia, i cui cittadini hanno dimenticato ogni virtù e ogni concordia, combattendosi come nemici. Invano Giustiniano ha riorganizzato le leggi della vita civile, se la Chiesa, intervenendo in campo politico, impedisce all'imperatore di governare. Del resto gli ultimi imperatori, presi dai problemi della Germania, non si sono più curati né dell'Italia né della città imperiale per eccellenza, Roma. L'apostrofe termina con la visione di Firenze dilaniata dalle lotte interne e incapace di darsi uno stabile governo.
Introduzione critica
L'impulso costante che sollecita Dante a trasferire entro un arco più vasto e in un'atmosfera superiore, la rappresentazione del reale, contrapponendo la rivelazione del mondo eterno allo scandaloso disordine della realtà storica terrena, si realizza compiutamente nella drammaticità articolata e piena dell'apostrofe all'Italia, dove ancora una volta l'autobiografismo del Poeta, che inserisce nella narrazione del viaggio d'oltretomba le passioni e gli sfoghi della sua anima, si fonde con la missione profetica che egli si attribuisce per legittimare la sua «visione », ponendosi, quale riformatore morale e politico, al centro della storia e del mondo. Perciò la sua analisi storica assume uno svolgimento per cerchi concentrici, inquadrando il problema particolare, la vicenda biografica, il fatto isolato in considerazioni più largamente prospettiche. Dalle singole apparizioni dei morti violentemente - che sono stati protagonisti di cronache locali, concorrendo nella quasi totalità a fomentare lotte familiari, politiche e civili - attraverso l'appassionato abbraccio di Virgilio e Sordello, che ricompone quel ricordo di violenze in un'armonia dimentica di differenze di tempo e di civiltà, il Poeta attinge il centro di articolazione di quel disordine, l' Italia, non intellettualisticamente studiata per tradurne in freddi termini analitici la situazione politica, ma fervidamente persa con lo sguardo dell'esule che vede ripetersi in ogni città; in ogni borgo, la storia dolorosa della sua Firenze. Per questo nell'ultima parte l'apostrofe che si era allargata nella considerazione dell'Impero, e della Chiesa, e dei loro complessi rapporti, s'incurva improvvisamente (Fiorenza mia, ben puoi esser contenta di questa digression che non ti tocca), denunciando, ché da un motivo particolare, autobiografico - il dramma del Poeta esule e il dramma della sua tormentata città - aveva avuto origine quella vigorosa accusa contro la società del tempo. Il Malagoli osserva molto giustamente che questo modo di sentire la storia, mescolandovi il proprio sentimento e il proprio giudizio personale, "per la sua ricchezza e intima coerenza, è nuovo" e, si può aggiungere, del tutto rispondente allo spirito profetico che anima la Commedia, simboleggiando ogni profeta con la propria vita anche la vita del suo popolo, per cui nella redenzione di Dante é l'immagine prefiguratrice della redenzione religiosa e politica di tutto il mondo. Questa affermazione porta necessariamente a sottolineare la significazione biblica dell'apostrofe, rilevabile non per una vicinanza verbale, come a volte può avvenire, ma per una comunione di sentimenti: dalla passione più biblica e insieme più dantesca, l'ira, allo sdegno che ne consegue, capace, con la sua asprezza, di distruggere ogni riguardo umano (O Alberto tedesco... giusto giudicio dalle stelle caggia sovra 'l tuo sangue... vien, crudel, vieni... a vergognar ti vien della tua fama; ahi gente che dovresti esser devota), al disprezzo che trova le voci più mordenti e allusive e il gusto più realistico (non donna di provincie, ma bordello), al sarcasmo tanto più lampeggiante quanto più l'anima è irritata dinanzi ai sottili e perversi accorgimenti della mente umana (tu ricca, tu con pace, e tu con senno), in una gamma spirituale ricchissima, che trova la sua interna unità nel ritmo spezzato e variato dello stile per seguire più rapidamente il corso dei moti interni. "L'apostrofe Ahi serva Italia è tutta travolta da succedenti flutti di passioni; e per la pressura dei motivi la famosa pagina ci tocca più nel particolare che nell'intero svolgimento. Pagina oratoria, che in quelle circostanze val più di una raccolta armonia, non idonea ad accogliere la voce immediata del cuore, cioè la protesta del cittadino contro la forsennata politica del suo paese. Satira, ironia, sarcasmo guizzano e fremono per tutta l'apostrofe." In essa "gli elementi storici sono offerti da personaggi e avvenimenti contemporanei, collocati sul quadro della regione Italica che, nella fervida immaginazione, si rimpicciolisce per poter tutta dispiegarsi allo sguardo del Poeta, dall'una all'altra proda, dall'interno alle marine, sicché nulla sfugga al suo spirito indagatore e persecutore. Per questa capacità di sintesi storica e topografica..: .e per la luce apocalittica che scende dall'alto a percuotere i potenti e i responsabili e si protrae minacciosa nel futuro, l'apostrofe ha pur essa una suggestione biblica; poiché anche nella Bibbia c'è questa semplicità e ampiezza di visione: un occhio che guarda acuto; e una mente che giudica spietata" (Marzot). L'apostrofe, la cui violenza trova riscontro solo in quella rivolta alla simonia della Chiesa nel canto XIX dell'Inferno, non è un semplice artificio stilistico, assunto per convenienza o per necessità didascalica. Essa trova la sua origine in una dimensione psicologica e fantastica, che l'anima di Dante acquista quando avverte più violento dentro di sé lo spirito di ribellione al suo tempo, quando l'orrore e il disgusto del presente sono cosi forti da "scuotere le sue fibre di uomo, di credente e di cittadino" (Marzot), dissolvendo ogni linguaggio piano e composto - perché insufficiente a restaurare l'ordine morale e politico a cui egli mira - in uno stile epico ricco, secondo l'osservazione del Marzot, del tremore e della agitazione di chi è posseduto dalla sua materia e vi si dibatte, e nello sforzo vittorioso la domina e la esprime. Il passaggio dal termine proprio Italia a quello figurato fiera e giardin dello 'mperio, (da Roma all'immagine della donna vedova e sola) avviene senza soluzione e senza sforzo, perché le "cose" sono investite di un nuovo significato e su di esse fantasticamente si muovono, i pensieri e le passioni del Poeta: regioni e città diventano persone vive, bersagli animati della sua polemica in un discorso scorciato e vibrante, nel quale tuttavia resta la chiarezza di delineazione degli avvenimenti e dei problemi storici, dovendo gli uni e gli altri essere capiti e interpretati per potersi costituire come motivi di insegnamento.
PURGATORIO CANTO VII

Sordello, dopo il primo momento di commozione nell'udire il nome della patria, vuole notizie precise sui due pellegrini: Virgilio risponde rivelando la propria identità al poeta mantovano, che si rivolge allora a lui chiamandolo gloria de' Latin. Dopo aver spiegato che il loro viaggio è permesso da Dio e che egli proviene dal limbo, Virgilio chiede la strada più breve per giungere al vero purgatorio, ma Sordello ricorda che la legge del mondo della penitenza vieta di salire il monte durante la notte. Occorrerà cercare un luogo dove attendere l'alba. I tre poeti si avviano verso la "valletta fiorita", dove si trovano i principi negligenti; coloro che, troppo presi dalle cure mondane, si pentirono solo alla fine della vîta. Circondati da una natura splendente di fiori e di profumi, essi cantano l'inno "Salve, Regina", mentre Sordello, rimanendo sull'orlo della valle, indica ai due pellegrini i personaggi più noti: l'imperatore Rodolfo d'Asburgo, al quale Dante rivolge l'accusa di avere trascurato la situazione politica italiana, Ottocaro II di Boemia, Filippo III di Francia, Enrico I di Navarra, Pietro III d'Aragona con il figlio Pietro, Carlo I d'Angiò, Arrigo III d'Inghilterra, Guglielmo VII di Monferrato. Sottolinea infine la degenerazione dei loro discendenti, perché raramente la virtù si tramanda di padre in figlio, volendo Dio che tutti capiscano che essa non si riceve per eredità, ma proviene direttamente dal cielo.
Introduzione critica
Nell'invettiva all'Italia l'interna armonia delle venticinque terzine - che si frangono di continuo in immagini e in quadri che mutano rapidamente con una sottile gradazione di tempi e di tensione emotiva - è acquisita attraverso l'eliminazione di ogni sosta narrativa e di ogni tessuto ragionativo, mediante una sorta di impulso drammatico, che nasce non più da un attaccamento doloroso e polemico alle proprie vicende terrene, allontanate anzi nell'ansia di rinnovamento spirituale, ma dalla coscienza di una investitura conferita dalla fede e perciò di origine straordinaria. Ed è questo impulso drammatico, spogliato delle sue forme più agitate e dure, e venato di una profondissima malinconia, che sorregge nel canto settimo la rassegna dei principi. La domanda apparentemente blasfema dal Poeta rivolta a Dio (son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?) aveva denunciato, accanto all'indignazione, una stanchezza estrema di fronte al dilagare del male, un confidente abbandono non nelle risorse umane per una, sia pure lontana, rinascita, ma nella invocazione del soccorso divino, anch'esso però proiettato in un momento lontano nel tempo: o è preparazion... per alcun bene? Non la fede vacilla in lui, ma la speranza di vedere realizzato, di fronte alla violenza di quel male, il sogno di un'Italia giardin dello 'mperio, di una Roma non più vedova e sola, di una Firenze veramente ricca... con pace... con senno. L'inno liturgico del canto settimo, « Salve, Regina », invocante l'intervento divino per la debolezza umana, conclude questo momento di meditazione politica, perché l'animo, raggiunta una sfera tutta ideale e sicuro ormai nella presenza di un provvidenziale soccorso, si accinge a contemplare l'ordine in un mondo più vero e più alto, trovando, nel gruppo dei potenti della terra, non il motivo per una nuova, dura protesta dinanzi a ciò che l'intelletto umano non sopporta, perché lo ritiene assurdo, ma la disposizione ad una mitezza di giudizio di fronte a chi la giustizia divina ha già reso consapevole del male compiuto. L'animo del Poeta, che sembrava essersi allontanato non dallo slancio di purificazione e di ascesa che lo guida nella seconda cantica - e che gli ha dettato il movimento polemico e l'urgenza irrequieta dell'apostrofe - ma dalla intonazione elegiaca con la quale viene costruendo le caratteristiche del secondo regno, gravita di nuovo verso la preghiera. Recupera attraverso la pietà liturgica della « Salve, Regina », la coscienza di appartenere a quella società che aveva respinto da sé in un momento di ribellione, e, attraverso la malinconia della sera e il divieto di salire lungo il monte senza la luce, il senso della instabilità umana che colpisce Dante e le anime penitenti nella certezza di un esilio dalla vera patria. Il colloquio fra Virgilio e Sordello, la descrizione della "valletta", il momento liturgico, la rappresentazione dei principi non sono episodi distinti, capaci di spezzare l'unità del canto, anche se spesso l'indagine dei critici ha voluto farlo - rivelando come punto chiave ora l'esaltazione di Virgilio da parte del trovatore mantovano ora la continuazione del tema politico del canto precedente come vagheggiamento di un'ideale concordia fra i signori sotto la guida dell'imperatore (colui che più siede alto) - laddove i motivi si svolgono gli uni dagli altri con perfetta dipendenza. L'immagine di Sordello, esaurito il suo motivo poetico vitale - surse ver lui del loco ove pria stava sfuma nel contrappunto alla figura di Virgilio, la cui dolente rievocazione dello stato spirituale del limbo imposta un pacato discorrere che gradua il passaggio dallo stile dell'invettiva a quello della rassegna. Ed è ancora il poeta latino con le sue domande che porta Sordello, nello spiegare la legge del purgatorio intorno alla salita, a una vera e propria metafisica della luce e della tenebra, che si giustifica non solo come motivo didascalico, ma anche come anticipazione, nel crepuscolo della sera, del miracolo di luce e di colore della "valletta". Ma è soprattutto il tono della poesia virgiliana, il ricordo della commossa rassegna del canto sesto dell'Eneide che serve da mediazione tra l'invettiva e il catalogo dei principi esemplato sul Compianto di Sordello, ma privo della violenza di parole e di giudizio di quello. Infatti "in questa atmosfera, in questa luce, nel canto che invoca salvezza e dice speranza, anche il catalogo storico dei principi negligenti non può esser tracciato che con serenità, con pacatezza di giudizio: l'invettiva sarebbe fuor di luogo di fronte al canto della «Salve, Regina » ; ed ecco la violenza, lo sdegno e l'ironia del pianto di Sordello collocarsi, ambientarsi in un tono più piano" (Seroni). Tuttavia, se d'accordo col Vossler occorre rilevare la delicatezza di rappresentazione "nelle stanche posizioni; nei gesti dei principi, nell'ombra serale che s'avvicina, nei misteriosi bagliori e profumi dei fiori, nel pio canto corale di voci maschili, nei pensieri che riescono a commuovere i due pellegrini che guardano da lontano", questa presenza non deve disperdere in un'atmosfera vagamente romantica l'attenzione di chi legge, essendo chiaro il proposito del Poeta di costruire una storia per ritratti, "ch'è quasi una iconografia a tinte popolari, in cui le caratteristiche fisiche e i tratti morali tipici concordano a formar le immagini di una storia contemporanea, di una storia viva" (Seroni), anche se nella considerazione della degenerazione del potere temporale, della vicenda delle dinastie, del decadere, per li rami, delle virtù, nasce spontanea in Dante la riflessione intorno al « perché » di questi avvenimenti. Il Poeta, osserva il Seroni, risponde naturalmente alla luce della sua dottrina, e, pur restando il giudizio sulle colpe degli uomini, non può non intervenire una considerazione sistematica, dottrinaria: senza la volontà divina tanta degenerazione non è possibile. È una visione teologica della storia, dalla quale nasce appunto la pacata sicurezza del tono della rassegna dei principi.
PURGATORIO CANTO VIII

Mentre scende il crepuscolo una delle anime della "valletta fiorita" intona l'inno «Te lucis ante terminum», subito seguita da tutte le altre, che volgono i loro occhi verso il cielo. Dante, seguendo la direzione di quello sguardo, scorge due angeli splendenti che si dirigono verso l'orlo della valle, ciascuno con una spada fiammeggiante e priva della punta. Sordello, dopo avere spiegato ai due pellegrini che essi provengono dal cielo per difendere quel gruppo di penitenti dall'assalto del demonio che fra poco li tenterà, invita Dante e Virgilio a scendere in mezzo ai principi. Un'anima osserva fissamente il Poeta: è il pisano Nino Visconti, al quale egli fu legato da affettuosa amicizia. A lui Dante rivela di essere ancora vivo, suscitando l'attonito stupore di tutte le anime, mentre Nino invita uno dei principi ad avvicinarsi ai due pellegrini, per osservare da vicino quel prodigio; poi, rivolto all'amico, lo prega di ricordarlo alla figlia Giovanna, dal momento che troppo presto la moglie si è dimenticata di lui, passando a seconde nozze. Ad un certo momento Sordello indica a Virgilio il serpente tentatore che avanza nella valle, ma i due angeli, calando come sparvieri, lo mettono in fuga. Parla poi l'ombra che Nino aveva chiamato accanto a sé. È Corrado Malaspina, signore della Lunigiana, che chiede notizie della sua famiglia, offrendo a Dante l'occasione di esaltarne la liberalità e la prodezza. Il canto si chiude con la solenne profezia dell'esilio del Poeta fatta dal Malaspina.
Introduzione critica
La molteplicità di sentimenti e di immagini, di cui è ricco il canto, appare spontaneamente orientarsi verso un motivo centrale, con un processo di chiarificazione nel quale quei sentimenti e quelle immagini acquistano una loro organica e vivente unità, perché alla soglia del purgatorio vero e proprio l'anima si abbandona a una trepida e delicata rievocazione della vita passata, unita ad una rinascente e profonda gioia di vita spirituale, scandita dall'intervento delle potenze celesti. Queste, aiutando il generoso sforzo delle anime penitenti, iniziano un preludio circondato di mistero che introduce al mistero della visione e del sogno del canto seguente. Il motivo della vita umana come peregrinatio, che aveva avuto non uno sviluppo marginalmente didascalico o episodicamente lirico, ma una sicura e vivida tensione fin dai primi canti (cfr. in particolare il richiamo di Catone nel canto II, versi 120 sgg.), si arricchisce particolarmente, nel canto VIII, del sentimento dell'«esilio » dalla vera patria - il cielo - sentimento colto e descritto non nella sua immediatezza più inquieta e più tormentosa, ma attraverso la lucida proiezione nelle anime dell'antipurgatorio. Il desiderio di ritrovare sulla vetta del monte l'innocenza di un tempo, l'ansia di rigenerazione spirituale che anticipa l'ardore di carità dei beati, il concetto di speranza che informa tutti i gironi del purgatorio costituiscono, infatti, lo specchio della disposizione interiore di Dante, nel 'quale l'idea di questo esilio celeste si fonde con quello dalla sua patria terrena, in una rispondenza sentimentale che aderisce perfettamente al continuo alternarsi di attaccamento e di distacco dalla vita, che è uno dei motivi propulsori della seconda cantica. La similitudine iniziale, la preghiera dei principi, il sopraggiungere degli angeli e del serpente, l'incontro con Nino Visconti e Corrado Malaspina sono momenti sagacemente costruiti dal Poeta. Il suo occhio è fisso sulla bellezza letteraria dell'espressione e la sua mente si prepara ad alimentarsi delle sublimi conoscenze del purgatorio, senza abbandonare le care immagini della vita passata, senza respingere le esperienze di un tempo, distendendo anzi i suoi ricordi nella concretezza dell'esistenza terrena, ma accrescendoli e ampliandoli in una tonalità nuova, che nasce da quel particolare sentimento del tempo nel quale, secondo il Sanguineti, si cela e si esprime, insieme, il respiro stesso della poesia della Commedia. Nel marinaio e nel viandante, nei quali il passato e il presente si sovrappongono in una spirituale vibrazione, nell'anima che da sempre pare ripetere "d'altro non calme", nel canto liturgico che da secoli la Chiesa innalza, nella lotta fra le potenze del bene e la forza del male che riassume in un breve episodio il dramma continuo dell'umanità, il tempo sensibile si trasforma in tempo morale, in una misura cioè che non segna più il trascorrere degli anni, il susseguirsi delle generazioni, l'alternarsi della vita e della morte, ma definisce il ritmo di stati d'animo, di verità assolute che si manifestano nella realtà temporale per rimandare costantemente a quella eterna. Un canto dunque "il cui fascino più segreto e profondo è, forse, questo: una irreale sospensione fra la terra e il cielo, l'una ancor « presente e viva » e l'altro, già imminente, ma solo intravveduto e non ancora attinto. Un momento inesprimibile, in cui l'anima sta come tra due età: quella da cui si è distaccata e quella verso cui si muove; così che del mondo da cui si è dipartita reca ancora il ricordo; e forse il rimpianto; e del mondo al quale si avvia non ha che il presentimento dolce e, oserei dire, l'ineffabile sgomento. Un attimo, trepido e supremo, in cui le cose terrene stanno per venir meno per sempre e di quelle divine c'è solo nell'aria il misterioso preannuncio" (Sacchetto). L'accostamento e l'accordo dei diversi momenti del canto sono realizzati più con una combinazione di motivi musicali e figurativi che con un commento sentenzioso o moralistico, perché anche la profezia dell'esilio, rivelata attraverso l'ampia visione del sol che non si ricorca sette volte nel letto che 'l Montone con tutti e quattro i piè cuopre ed inforca, allontana ogni motivo più terreno e urgente - la visione del capo reo che porta il mondo verso il mal cammin - in una sfera di contemplativa e ascetica severità, dove la realtà delle debolezze umane e l'ostinato chinarsi dell'uomo verso il suo avversano rivelano la povera meschinità di una terra che ha come termine di confronto l'orizzonte del cielo con l'armonia delle sue rotazioni. Alcuni critici, pur rilevando l'estrema varietà di motivi di questo canto, tendono a considerarlo staccato dai due che lo precedono, perché la meditazione politica è dimenticata, mentre le quattro stelle, simbolo delle virtù cardinali, lasciano il posto alle tre facelle, emblema di quelle teologali, invitando il Poeta "a salire dal mondo della rettitudine naturale e delle virtù morali a quello presieduto dalla Grazia" (Fallani). Così il Croce afferma che "fresca risorge la poesia del cuore, quando Dante, rendendo vano l'udire di cose politiche, distornandosi dai discorsi di Sordello, s'immerge nella scena che gli si forma attorno e assiste a un mistero dell'anima, dell'anima che trepida e prega e invoca da Dio l'aiuto nelle tentazioni del male". In realtà si attua - attraverso il tono accorato della rassegna di Sordello - non un rovesciamento di contenuto, ma un passaggio ad un motivo di più scoperto colore sentimentale, dal mondo della violenza, della discordia, dell'errore alla pensosa figura dell'esule che quel mondo giudica e supera, perché si è ormai identificato nell'anima che giunse e levò ambo le palme... come dicesse a Dio: "D'altro non calme": "tra le modulazioni più intense, i toni acerbi e mordenti della rampogna trovano un correttivo e corrispettivo specialmente nell'elegia, nel rimpianto e compianto, in note di pathos niente affatto retorico, di nostalgica rammemorazione" (Grana).
PURGATORIO CANTO IX

Al termine del primo giorno di viaggio nel secondo regno, Dante si addormenta nella "valletta" dei principi. Poco prima dell'alba, quando i sogni, secondo una credenza medievale, sono più veritieri, al Poeta appare la visione di un'aquila dalle penne d'oro che scende improvvisa su di lui, trasportandolo nella sfera del fuoco, posta tra la sfera dell'aria e il cielo della luna, dove entrambi bruciano in un unico, grande fuoco. Destatosi pieno di paura, viene rassicurato da Virgilio, il quale gli rivela che durante il sonno era sopraggiunta una donna, Lucia, che aveva trasportato Dante dalla "valletta", dove erano rimaste tutte le altre anime, alla porta del purgatorio propriamente detto. I due pellegrini scorgono, sull'ultimo dei tre gradini che portano all'ingresso, un angelo splendente, armato di una spada, il quale rivolge loro la parola per chiedere che cosa vogliono e quale è stata la loro guida. Poiché (uguale fu la risposta a Catone) è stata una donna del ciel a condurli, l'angelo li invita a salire i tre gradini, dei quali il primo è bianco, il secondo quasi nero, il terzo rosso, ad indicare i successivi momenti del sacramento della confessione. A Dante, che si era inginocchiato, l'angelo incide sulla fronte sette P, come simbolo dei sette peccati capitali che dovrà espiare in ciascuna delle sette cornici del purgatorio. Dopo aver loro spiegato la funzione delle due chiavi, una gialla e una bianca, che ha ricevuto da San Pietro, apre la porta: si ode dapprima un suono cupo, che si trasforma poi nel canto dell'inno «Te Deum laudamus».
Introduzione critica
Pochi canti come il nono si presentano secondo i canoni medievali di una poesia risolutamente tesa a vivere tutte le risorse della sua fantasia in un quadro teologico. liturgico e in una struttura allegorica. A questi il lettore si accosta con una certa difficoltà dopo essere passato attraverso la semplice linea costruttiva dei canti dell'antipurgatorio. L'impegno del Poeta di fronte al mistero del sovrannaturale che si schiude all'anima - non solo libera dal peccato, ma sciolta da quella incertezza che l'aveva fatta vagare nell'antipurgatorio alla ricerca di se stessa, in quel momento di smarrimento che prende dopo la conversione dal peccato (segnata dai due riti comandati da Catone) e prima del voluto adeguamento alla volontà divina - è totale e trova testimonianza nell'incisione dei sette segni: "la cerimonia conferma quanto già sappiamo, [che è] dovere del pellegrino compiere il nuovo viaggio, non come semplice spettatore, non ponendo in gioco il suo intelletto solamente, ma l'intera sua umanità, tutto il suo sentire e il suo volere" (Vossler). Tale impegno si afferma nel canto nono attraverso un discorso grave e solenne, fortemente allusivo, il quale vuole tradurre la suggestione di un'emozione intensa che nasce dalla stupita contemplazione di un mondo ancora sconosciuto, e che è capace di manifestarsi solo emblematicamente, senza peraltro intorbidare la rappresentazione poetica, ma comunicandole anzi una più ampia luce. La figura della Notte, che copre con le sue ali e attraversa con il suo silenzio metà dell'universo, non è meno grandiosa e magica di quella dell'Aurora che si dispiega attraverso un incrociarsi di richiami mitologici e astronomici, che ne accrescono la misteriosità: non sono più una «notte» e una «aurora» comuni, perché, pare avvertire il Poeta (versi 70-72), tutto ciò che è a contatto con l'Assoluto, dilata i suoi confini secondo una misura non più umana. Infatti tutti i momenti iniziali del canto, che è il primo contatto con l'Assoluto, saranno comunicati dopo essere stati messi in relazione con eventi straordinari (versi 13-15; 22-24; 34-39), cosicché il racconto, iniziatosi con immagini così vaste e musicalmente così profonde e lontane, crea un senso sacrale di aspettazione. Esso non verrà certo deluso né dalla visione dell'aguglia - la cui imperiosa apparizione si distende fra la malinconica figura della rondinella e la commossa evocazione di Lucia, che temperano la violenza di quel volo terribil come folgor in un'alternanza di toni, ora forti, ora attenuati attraverso e per mezzo dei quali si viene schiudendo il primo, trepido incontro dell'umano con il divino - né dalla celebrazione liturgica che chiude il canto, ricca di minuziose allegorie non sempre individuabili con assoluta certezza, "ma appunto nell'essere questi simboli un mistero, che può venire unicamente presagito (in ultima analisi è il mistero di Dio), sta la loro efficacia poetica. La veste solenne crea qui la poesia. Onde l'intero canto ha uno stile di ambiguità sublime e, oscuro nel profondo, riesce alla superficie per virtù di lingua e d'immagini, splendido di evidenza" (Vossler). Tutto il discorso fluisce, logico e serrato, senza nulla concedere agli indugi contemplativi, essendo, come abbiamo detto, le immagini caricate in modo singolare di significato analogico e ricondotte tutte al motivo dell'anima che entra nella Grazia, attraverso il rito finale della confessione. Questo, di nuovo, con fermissima coerenza stilistica, si richiama ad elementi figurativi, ad un linguaggio ricco dì valori tattili, ad un gusto vivo di osservazioni e, quasi, di sensazioni, dove i gesti dell'angelo e di Dante o i colori diversi dei tre gradini, sono immagini "fisiche e corpulente non già soltanto per un espediente retorico di evidenza espressiva, per tradurre in metafora un'umbratile esperienza, ma proprio per adeguare la parola all'intensità dell'esperienza" (Getto). Dante nel canto nono spiega cosi i criteri in base ai quali istituisce uno spontaneo, perpetuo richiamo metaforico fra il mondo sovrannaturale, in cui sta entrando, e il mondo della natura (non a caso l'importanza del canto è sottolineata, e proprio a metà del suo svolgimento, dall'avvertimento del Poeta al lettore), perché si può realizzare lo sforzo di rendere intuitivo il graduale, congeniale e funzionale consenso con la rivelazione divina, martellandolo nel ritmo limpido e coerente dei versi, come lo sbalzo di un disegno geometrico. Se già il lettore ha accostato nel Purgatorio alcune zone liturgiche, dove la fantasia del Poeta si è accinta al rischioso compito di chiudere in un gesto e in poche terzine una tradizione secolare, diventata prezioso possesso della vita ufficiale della Chiesa, è però del tutto nuovo l'incontro con la « visione » (versi 19-33), perché quando al Poeta vengono a mancare i dati e i pesi materiali, cui abbiamo accennato e sui quali la sua fantasia può agire per rappresentare il movimento ascensionale dell'anima, interviene l'uso frequente di questa forma poetica prettamente medievale. Il Fallani, riassumendo osservazioni di altri critici, nota che "il Poeta, più di ogni altro scrittore del tempo, fu affascinato dalla tematica sacra risolta in forma di visione: il linguaggio bizantino dell'arte apriva sempre sullo sfondo un riquadro di cielo e l'atto umano si rivestiva di un non so che di trascendente... Il Giotto di Assisi e di Padova si affiancava alla grande tradizione musiva, con l'esperienza di quei contatti semplici e popolari degli affreschi, e liberamente il racconto si articolava di figure, di alberi, di cieli, di angeli, di demoni, di apparizioni. Dante colse dalle arti l'avvertimento, che lo aveva già sollecitato nelle visioni della Vita Nova... e pose nel suo Purgatorio le visioni per chiarire la presenza misteriosa di Dio, per un bisogno di esternare la meditazione e il suo frutto religioso, e per predisporre il lettore all'ultima ascesa".
PURGATORIO CANTO X

Dopo essere entrati nel purgatorio propriamente detto, Dante e Virgilio iniziano una dura salita attraverso un sentiero stretto e ripido, che li conduce infine su un ripiano deserto, dove la parete del monte appare di marmo bianco, adorno di artistici bassorilievi. Sono rappresentati esempi di umiltà, che le anime dei superbi, i penitenti di questa prima cornice o girone, devono meditare prima di quelli di superbia punita, che appariranno scolpiti sul pavimento. La prima scultura presenta l'arcangelo Gabriele che annuncia la nascita di Cristo alla Vergine, la quale sembra rispondere con le stesse parole del testo evangelico: «Ecce ancilla Dei». Il secondo esempio ricorda un episodio biblico, il trasporto dell'arca santa ordinato, da Davide, che precede la solenne processione cantando e ballando in segno di umile gioia. L'ultima scena è tratta dal mondo romano e riprende una leggenda molto diffusa nel Medioevo, l'incontro di Traiano e della vedova che invoca da lui giustizia contro gli uccisori del figlio prima che egli parta per la guerra: alla fine l'imperatore, riconoscendo giusta questa richiesta, accontenta la donna. Mentre Dante è ancora intento ad osservare queste opere, create direttamente dalla mano di Dio, avanza verso di loro una schiera di anime oppresse da pesanti massi: sono coloro che in vita si abbandonarono alla superbia, contro la quale il Poeta prorompe in una fiera invettiva.
Introduzione critica
Nella triade dei canti dedicati ai superbi il decimo è stato trascurato dalla critica, che lo ha considerato, quasi unanimemente, il più debole quanto all'ispirazione poetica e il più povero quanto a motivi umani, anche se non privo, qua e là, di alcune scoperte espressive (specialmente nel tono aspro e tormentato di molti versi della parte finale), che rivelano il Poeta duramente impegnato di fronte alla sua materia, alla ricerca di una nuova situazione spirituale e poetica che gli permetta di esprimere con la congruenza necessaria il passaggio dal purgatorio dell'attesa a quello della pena. Un largo filone esegetico, la cui posizione fu pienamente consacrata dal Croce, ha ridotto il fulcro del canto alla parte centrale dedicata agli esempi, spiegandolo come altissima esaltazione dell'arte, al di là di ogni altra preoccupazione ("l'effetto - secondo il Croce - piuttosto che di una mortificazione e compunzione per le cose ritratte, è di ammirazione per l'arte trionfatrice, che sopr'esse si dispiega"): interpretazione non priva di fascino, ma certamente avulsa dalla più genuina significazione di quei versi. Altrettanto interessante, anche se di limitato approfondimento, può essere una ricerca che esperimenta i significati storico-allegorici dei tre esempi, derivati dal mondo giudaico-cristiano e da quello pagano, e creanti una simmetria suggestiva, "nella quale le due civiltà si appalesano ancora una volta concordemente dirette a portare ciascuna nel mondo la sua parte di redenzione" (Sacchetto), cosicché "noi potremmo comprendere anche più persuasivamente perché la figura di Traiano, augusta incarnazione delle virtù dell'aquila, venga qui singolarmente ricordata sul candido marmo della prima cornice, poco lontano da Maria, augusta annunciazione delle virtù della croce": Ma è in una direzione psicologica-stilistica che la lettura del canto potrebbe offrire indicazioni e apporti interessanti, liberandolo da un giudizio negativo forse non sufficientemente motivato, e recuperandolo al gruppo di quei canti nei quali è più avvertibile, perché non sempre perfettamente realizzato, lo sforzo di esprimere e far vivere uno stato di ascesi, la cui ampiezza e la cui profondità, tuttavia, non impediscono l'indagine analitica dei fatti e degli stati d'animo momentanei. Il preludio polifonico della seconda terzina vuole sottolineare l'importanza e la particolarità del canto, che segna una nuova esperienza spirituale - l'inizio vero del pellegrinaggio dopo la riconquista della libertà e, in particolare, il momento ineffabile e solenne in cui il Poeta avverte il godimento di questa liberazione - e che propone come suo motivo propulsore l'esaltazione dell'umiltà. In tal modo i tre famosi esempi scolpiti nel marmo, l'esortazione agli uomini perché ricordino chi sono e qual è il loro vero fine, la lunga e lenta teoria dei superbi trovano unità poetica in questo centro ideale, ed è unità di pensiero, che determina via via le immagini. Benché ogni terzina consegni un significato chiaramente allegorico (e sotto questo punto di vista il canto appare strettamente unito a quello precedente), l'interpretazione dantesca non rinuncia affatto al valore emotivo delle immagini scelte, potenziandole anzi e arricchendole di intimità con una trama sapiente di parole tematiche dal "muoversi" del sentiero lungo il quale i due pellegrini salgono, che suscita subito l'idea della loro debolezza e del bisogno dell'aiuto divino, al loro atteggiamento di creature finalmente "libere" e "aperte", che dispone subito alla gioia e alla speranza; dalla improvvisa apparizione del piano solingo, che pare soverchiare con una fissa staticità la vita dello spirito dopo lo sforzo della salita, al visibile parlare dei bassorilievi marmorei, sui quali l'interesse di Dante si concentra, diventando immediatamente vivo e operante attraverso l'azione di Dio, lo fabbro loro; dalla visione di Maria, che ad aprir l'alto amor volse la chiave, al tormento dei penitenti oppressi dai macigni, dove il penoso viluppo delle anime e dei massi viene inasprito da certe parole e suoni di plastica evidenza (rannicchia, disviticchia, picchia), in "una linea di poesia verticale che dal cielo scende a precipizio sulla terra, come in un crescendo drammatico" (Sacchetto). Il canto si struttura appunto in una precisa contrapposizione di note drammatiche alla materia elegiaca, risolvendo le allusioni simboliche in un sapiente chiaroscuro di motivi, come ad avvertire che la letizia e la speranza del Poeta, lungi dall'essere già una tranquilla effusione del sentimento, comportano in fondo uno stato di contrasto, un senso visibile della fatica e dell'asprezza che attendono l'uomo quando egli si dispone alla chiamata della Grazia, creando nella memoria del lettore l'immagine più sensibilmente spontanea di questa singolare poesia. Il momento lirico culminante di questa contrappuntata orchestrazione emerge non tanto negli esempi, anche se in ognuno di essi viene fissata attraverso figurazioni di suprema essenzialità una forte tensione spirituale, quanto nell'incontro con i primi penitenti del purgatorio. Ora al tono elegiaco e patetico dell'antipurgatorio, che aveva toccato lo spirito di Dante, senza penetrare in esso, si sostituisce uno stato drammatico, al quale il Poeta aderisce perfettamente attraverso una più intensa commozione morale. Lo spirito, non più immobilizzato nell'attesa, sviluppa ora tutte le sue forze potenziali, in una dimensione interiore meditata e sofferta: l'umano e il divino (come Dio vuol che 'l debito si paghi) si dispongono e si dialetizzano nell'intimo di queste anime, che espiano e ricordano un peccato terreno per attingere una vita ultraterrena, continuando, nella loro lunga schiera, su un piano ancora più concorde e unitario, quella coralità di rappresentazione iniziata già sulla spiaggia del purgatorio con l'arrivo del vasello snelletto e leggiero.
PURGATORIO CANTO XVII

A Dante, uscito con Virgilio dal denso fumo che avvolge le anime degli iracondi, mentre è ormai prossimo il tramonto, compaiono in visione tre esempi di ira punita, che gli presentano per prima la vicenda di Progne, mutata in uccello per aver imbandito al marito le carni del figlio in un eccesso di folle gelosia. Appare poi la figura di Aman, ministro del re persiano Assuero, che fu crocifisso dopo aver tramato la distruzione totale degli Ebrei, contro cui era adirato, e subito dopo Dante vede Lavinia che piange sul cadavere della madre Amata, suicidatasi in un impeto d'ira, per non vedere la figlia andare in sposa ad Enea. Scomparse all'improvviso queste visioni. il Poeta ode la voce dell'angelo della pace che indica la strada per salire al quarto girone e che gli cancella dalla fronte la terza P, cantando la beatitudine evangelica «Beati pacifici ». Frattanto i due pellegrini giungono sul ripiano deserto della quarta cornice, e Virgilio, in seguito a una domanda precisa del discepolo, spiega le caratteristiche del peccato che, lì viene espiato, l'accidia. L'ultima parte del canto è occupata dall'esposizione, da parte del poeta latino, della dottrina dell'amore nella sua duplice forma - naturale (o istintivo) e voluto con libera scelta dalla volontà e dall'intelletto - e della struttura morale del purgatorio.

Introduzione critica
È possibile individuare nel canto XVII, non diversamente che nel XV, due nuclei di spiccato interesse ai fini del definirsi della complessa poesia della parte centrale del Purgatorio: quello delle visioni e quello dell'esposizione didattica di Virgilio. Nel canto XVI invece, al dialettico contrapporsi dell'insegnamento razionale, impartito dal poeta latino, all'immediatezza delle verità infuse, per intervento della Grazia, nell'anima itinerante si era sostituito un interesse esclusivo per le cose del mondo: guida di Dante era stato, nelle tenebre avviluppanti dell'ira, un uomo di corte, fervente seguace, come lui, dell'idea imperiale: al magistero di Virgilio si era sostituito il teorizzare - sfociante nella concitazione di una passione non ancora rischiarata, in acerbi accenti polemici - di Marco Lombardo sui rapporti tra spada e pasturale. Nel canto XVII Dante si affida nuovamente a Virgilio per saziare la sua sete di conoscere, sete che la ragione, impersonata dal poeta latino, potrà solo parzialmente placare. Virgilio ha sempre dato voce, fino a questo punto, ad un superiore principio razionale, reso caldo di umano fervore da una illimitata dedizione al suo compito di maestro. Tuttavia, data l'immaturità del discepolo a penetrare i sensi meno ovvii che presiedono al dispiegarsi apparentemente dispersivo delle cose, questo principio razionale si é fin qui manifestato in interventi di ancora angusta portata, in formule gnomiche ed ostative, per cui l'insegnamento del mantovano é potuto apparire - a chi non avesse tenuto conto delle necessità postulate dalla narrazione di quell'itinerario spirituale che é la Commedia - qua e là irrisorio e banale, inadeguato alla drammaticità delle prospettive che si aprono agli occhi del protagonista. A partire dal canto XV, invece, Virgilio affronta i temi di una meditazione organica e superiore, per lui, tuttavia, lontana dalla possibilità di tradursi in esiti di indiscussa evidenza, data la sua estraneità nei riguardi di un pensiero che la fede definisce e rischiara. L'esposizione della topografia morale del secondo regno (versi 91-139) é stata concordemente giudicata positiva dalla critica, che ne ha messo in rilievo l'ampio, sereno respiro, entro il rigoroso concatenarsi delle deduzioni, che una terminologia astrattamente scolastica avrebbe rischiato, in un poeta di meno ricco sentire, di precludere ad ogni forma di trasfigurazione in senso lirico. Il procedere della dimostrazione, ricondotta ad un unico motivo ispiratore, al fondamento luminoso e centrale dell'amore - concepito come principio motore di ogni manifestazione del reale e del quale sono partecipi le creature non meno del loro Creatore - esprime un sicuro equilibrio, quasi un senso di trionfo per l'immancabile scaturire di ogni singola proposizione da quelle che, in funzione di premesse, la precedono. L'impalcatura scolastica che appesantiva la digressione didascalica del canto XI dell'Inferno non nuoce qui al ritmo limpido che scandisce il succedersi delle argomentazioni. Ciò é dovuto forse proprio all'emozione che, illuminando, interiorizza il dire di Virgilio ogni volta che torna a proporsi il motivo dell'amore, nel quale tutti gli svolgimenti concettuali che da esso discendono tendono a riassorbirsi, dopo aver enunciato ciascuno la propria verità parziale, quasi diretti ad un fulcro di verità ancora insondata, ad una scaturigine per troppa luce fasciata del proprio mistero. Nel canto XV il discorso di Virgilio sull'amore che aumenta in proporzione diretta al numero di coloro che ad esso partecipano, si era sollevato a canto nello svolgersi metaforico e sublime del tema della luce. Qui il suo dire si distende in cadenze più riposate, ma non si può in alcun modo parlare in proposito di astratto didascalismo, bensì di una poesia animata da un forte, anche se contenuto, pathos metafisico, da un'ansia profonda e segreta di penetrare nei moventi concettuali e morali che presiedono all'ordinata architettura delle cose. Gli esempi di ira punita, costituenti il momento di più accesa e ricca individuazione poetica del canto, presentano - se, considerati nella staticità dei singoli quadri proposti, vengono messi a raffronto con gli opposti esempi di mansuetudine del canto XV - una chiusura alla dimensione dell'infinito, una limitatezza nel definirsi dei sentimenti di quelli che ne sono i personaggi, chiusura e limitatezza che si traducono in una meno intensa evidenza lirica nella resa di queste scene. Ciò é dovuto al fatto che l'interesse del Poeta nel canto XVII é incentrata soprattutto sulle modalità del proporsi delle visioni, sul loro immotivato accamparsi al centro dell'anima in se stessa raccolta - evasa, sia pure per la durata di attimi, dagli orizzonti del mondo - sul loro improvviso svanire, per cui i momenti più alti della rappresentazione poetica non sono espressi dai quadri successivi che le visioni stesse presentano, ma riguardano la dinamica del loro prorompere nella coscienza del soggetto. All'ancora generico nell'imagine mia apparve l'orma, che suggella il proporsi del primo esempio, fanno seguito, nell'intensificarsi del rapimento interiore, il poi piovve dentro all'alta fantasia, che introduce - fermata in una eternità ottusa e statica - l'ira grandiosa di Aman, e infine, in contrapposizione logica non meno che tonale a quest'ultimo verso, il surse... piangendo forte dei versi 34-35, anticipato dal concretissimo "rompersi" riferito all'astratta imagine, e riecheggiante nella similitudine della bulla. Il motivo del rompersi della bulla é ripreso in quello del "frangersi" del sonno (verso 40), svolto secondo le linee di un incontenibile dinamismo (si frange... percuote) che riesce ad una fortissima animazione del dato generico. II sonno acquista qui una vitalità animale (guizza), quasi un sussulto atterrito prima di essere abolito dal tempo che gli prescrive di "morire". Da quest'attenzione portata dal Poeta sulle modalità del vedere interiore scaturisce la travolgente apostrofe iniziale all'imaginativa.
PURGATORIO CANTO XXVI

Il settimo e ultimo girone del purgatorio è occupato da un grande fuoco, nel quale purificano il loro peccato le anime dei lussuriosi. L'attenzione del pellegrino è attirata dal sopraggiungere improvviso di una turba di anime, procedenti in direzione opposta rispetto a quella della prima schiera apparsa ai tre viandanti alla fine del canto XXV. Quando i due gruppi si incontrano, le anime, senza fermarsi, si baciano festosamente fra di loro; allorché si separano, le ombre della seconda schiera gridano il nome delle due città bibliche di Sodoma e Gomorra, quelle della prima ricordano la lussuria della regina cretese Pasifae. Dopo aver rivelato di essere ancora vivo, Dante chiede che gli venga spiegata la duplice divisione delle anime dei lussuriosi. Superato il primo momento di stupore, l'ombra che già precedentemente si era rivolta al Poeta, riprende a parlare: la schiera che si allontana gridando « Sodoma e Gomorra » è quella dei sodomiti, l'altra è quella dei lussuriosi secondo natura, i quali però non seppero frenare con la ragione i loro istinti. Soltanto ora Dante ci fa conoscere il nome del suo interlocutore: Guido Guinizelli, il famoso iniziatore della scuola poetica del, dolce stil novo, il quale presenta il poeta che, a suo giudizio, seppe usare ancora meglio di lui, nei suoi versi, la lingua materna al posto dell'ormai superato latino. Appare così la figura del maggiore trovatore provenzale, Arnaldo Daniello, che, parlando nella lingua della propria terra, chiede a Dante di ricordarlo nelle sue preghiere..
Introduzione critica
Dopo la sobria energia che ha caratterizzato una delle pagine più ardue, dal punto di vista concettuale, della Commedia - quella riguardante, nel canto XXV, il concepimento dell'essere umano - il canto XXVI si presenta alla nostra attenzione con una ricchezza inusitata di motivi e risoluzioni, per cui riesce problematico il tentare di ridurlo entro una formula critica perentoria ed esclusiva. Ritroviamo in esso il tema dell'amicizia - costante nella seconda cantica, ma di particolare rilievo nel gruppo dei canti che preludono all'incontro del protagonista con Beatrice sulla sommità del sacro monte - al quale appare indissolubilmente legato quello dei problemi attinenti alla poesia, o, più generalmente, all'espressione artistica. Questo tema è affiorato fin dall'inizio del Purgatorio (nell'episodio di Casella) e poi, dopo l'incontro con Sordello, nelle parole pessimistiche, eppur ricche di ritrovata speranza, sulla fragilità di ogni gloria umana (degradata a romore), attribuite a Oderisi da Gubbio. Nella prima parte del canto il tema delle pene redentrici ha un particolare risalto accanto a quelli dell'amicizia e delle memorie letterarie; i quali, nella seconda parte di esso, ripropongono entro una prospettiva più ampia il motivo già introdotto nell'episodio di Bonaggiunta sul conflitto tra i seguaci di un modo di poetare in volgare ancora legato ad una tradizione provinciale, e coloro che, sulle orme del Guinizelli, concepivano, come Dante stesso, il volgare come una lingua non inferiore al latino nella possibilità di modellarlo anche nelle forme dello "stile sublime ". Il motivo delle fiamme che detergono dal peccato di lussuria è denso di implicazioni simboliche (il Roncaglia fa notare come sul tema del fuoco "ch'è tra le metafore più banali dell'ardore amoroso, e che qui in Dante ne diviene l'ovvio contrappasso, insistono... con particolare energia fantastica" sia il Guinizelli sia Arnaldo Daniello nei loro componimenti), ma il Poeta lo sviluppa nel senso di una grande concretezza, conferendo evidenza ad una situazione irreale per mezzo di notazioni che riportano gli aspetti sovrannaturali di questa zona dell'oltretomba all'esperienza più comune che abbiamo della natura. La presentazione iniziale dello spettacolo delle fiamme risulta persuasiva proprio in virtù di particolari realistici (come quelli dei versi 7-8: e io facea con l'ombra più rovente parer la fiamma), mentre, d'altro canto, il mutarsi lento delle tinte del cielo all'ora del tramonto (evocato nei versi 5-6 con quel trionfale raggiando che conferma, nell'attimo della sua imminente sparizione, la forza inesauribile del principio di ogni vita) richiama ai grandi ritmi dell'universo ed impedisce in tal modo che questa poesia, cosi naturale, ceda alle lusinghe del naturalismo. Assolvono sostanzialmente alla medesima funzione - riconducendo alla semplicità di un'esperienza che é di tutti quanto di alto e di elaborato é nelle parole rivolte da una delle anime a Dante (versi 16-24) e in quelle che il pellegrino indirizza alla schiera dei lussuriosi secondo natura (versi .53-66) - anche le similitudini, frequenti nella prima parte del canto: quella delle formiche, cosi lontana dal descrittivismo delle fonti classiche cui il Poeta forse l'attinse, così densa di affetto e carica di rimandi ad una situazione umana (particolarmente nell'ipotesi formulata dall'osservatore circa il motivo dell'ammusarsi": forse ad espiar lor via e lor fortuna); quella che ha per termine di raffronto il volo delle gru, nella quale la tristezza di una separazione traspare in modi che tendono a dar risalto alla coordinazione simmetrica dei movimenti delle due schiere di uccelli (onde, nei versi 44-46, la bilanciata rispondenza, in termini di lessico e di sintassi, dei due emistichi); quella che colpisce in un atteggiamento di vergine stupore il montanaro inurbatosi, e quella esprimente (versi 94-95) in maniera indiretta, "quasi pudicamente, attraverso il filtro d'una reminiscenza letteraria, che, brevemente allusa, permette di non diluire la concentrazione del pathos" (Roncaglia), la devozione filiale di Dante verso il Guinizelli. Nella seconda parte del canto - articolata nei due episodi del Guinizelli e del Daniello - i temi dell'amicizia e della gratitudine per un magistero letterario che agli occhi del pellegrino assunse le dimensioni di un insegnamento morale, di una iniziazione religiosa, si risolvono, dopo le appassionate, intransigenti condanne dei guittoniani, nella limpidità della presentazione che di se stesso fa il trovatore provenzale, nella dolcezza di un inserto arcaico. Quest'ultimo, mentre da un lato testimonia di un tributo di riconoscenza da parte del Poeta verso il rappresentante più cospicuo di quel « trobar clus » che ebbe forse la sua più alta consacrazione nelle sestine delle Rime petrose, dall'altro rende insussistente, in presenza di un dilagante sentimento di carità, il senso dell'isolamento sdegnoso perseguito nella sottigliezza dei costrutti e delle rime che caratterizzò il « trobar clus » medesimo: ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. "Perciò - scrive il Roncaglia - la aspra sensualità e il chiuso stile propri del trovatore perigordino, che Dante ben conosceva ed aveva imitato nelle Rime petrose, cedono il posto a semplici parole di canto e di pianto." Il Sapegno dal canto suo osserva: "L'uso del linguaggio forestiero e aulico, sottolinea il tono distaccato della risposta del trovatore, serve a stilizzare in una formula vaga il contrasto fra l'esperienza terrena e lo stato presente di penitenza, fra le contrite memorie e le luminose speranze; mentre al ripudio delle passioni mondane (la passada folor) s'accompagna, appena accennato, il rifiuto anche di un gusto già caro di rime arcane e chiuse (ieu no me puesc ni voill a vos cobrire)".
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  1. Julia

    appunti V canto purgatorio