Canti XV, XVI, XVII del Paradiso dantesco

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Testo

CANTI XV XVI XVII

Il Bondioni esordisce il commento dicendo che due sono gli errori in cui è facile imbattersi nella Trilogia di Cacciaguida: il primo è quello di considerare questo richiamo di Dante alla sua stirpe come un autoincensamento soggettivo, l’altro è quello di sminuirne il senso politico.
Infatti la così aspra critica della Firenze odierna rispetto a quella dell’età di Cacciaguida, critica mai così evidente come in questo momento, fa nascere un interrogativo: Dante era reazionario?
Il Bondioni risponde che non ha senso parlare in questi termini di un’esperienza come quella di Dante che si è svolta settecento anni fa.
Infatti la politica del 1300 era intesa ben diversamente da quello che intendiamo oggi.
Per noi la politica è solo la scienza dei rapporti tra gli uomini che si sviluppano all’interno di un’entità statale.
Allora parlare di politica voleva dire comparare la situazione attuale con il modello ideale eterno e giusto, comparare il fenomeno e il noumeno, per dirlo in termini filosofici.
Il piano politico non poteva essere svincolato dal piano religioso.
Ma anche attenendosi al livello politico in senso moderno, sappiamo benissimo che, al di là del messaggio evangelico, della concezione religiosa e anche della visione provvidenzialistica di Chiesa e Impero, Dante individua la radice di tutti i mali nella lupa, nel culto del denaro, nel capitalismo nascente.
E anche se nel corso della Divina Commedia questo aspetto viene ricollegato al piano religioso, anche prescindendo da questo piano la valutazione di Dante rimarrebbe la stessa.

Detto questo possiamo cominciare a parlare del canto.
La tematica di questa trilogia è così alta perché il suo apice costituisce la rivelazione del compito messianico di Dante, del fatto che a Dante è stato concessa la visione dei tre regni affinché egli possa tradurre in poesia ciò che ha visto per la salvezza dell’umanità. E’ uno dei momenti più importanti e più solenni dell’intera Commedia.
Il preludio a questa tematica importantissima è costituito proprio dal solenne silenzio delle anime del cielo di Marte con cui si apre per l’appunto il XV canto.
Le anime, che generalmente lodano Dio con canti di gaudio e giubilo, a questo punto ammutoliscono alla presenza di Dante.
Subito vediamo che dalla croce di beati comincia a discendere un’anima, che appare investita di luce, come la luce nella luce già di per sé molto potente dello scenario dei cieli.
Dante utilizza per presentare Cacciaguida anche la bellissima metafora della fiamma dietro l’alabastro, che, pur non caratterizzandosi per la grandiosità della metafora della luce, si carica di significato più forte perché più vivido, proprio perché il fuoco assume un significato particolare nella simbologia tradizionale, di sofferta ma grandiosa e trionfale purificazione. Cosa che del resto ben si sposa con le vicende biografiche di Cacciaguida, che seguì Corrado III di Svevia nella Seconda Crociata trovandovi la morte, ergendosi a martire per la fede.

Il grandioso incontro avviene nel cielo dei martiri, di coloro che, perdendo la vita, hanno guadagnato la vita eterna. Già questo ci dà un indizio dell’importanza della tematica dell’incontro e della contrapposizione eterno – tempo, esemplificata anche nel rapporto Cacciaguida – Dante, ma non solo.
Infatti, benché ci siano nel corso della trilogia diversi riferimenti alla vita temporale e terrena di Cacciaguida, come per esempio la sua data di nascita, egli si mostra abbastanza riluttante a parlare di fatti storici, ma preferisce invece parlare di Firenze in un tempo quasi anonimo perché privo di avvenimenti importanti, il che la fa apparire quasi in una dimensione atemporale.
Infatti Vossler dice che i ricordi di Cacciaguida hanno un valore che trascende il loro significato contingente, perché oltre a ripresentare i primi nobili momenti di una nobile esistenza personale offrono modo di mirare in tragica prospettiva la rovina della Firenze odierna.
Si opera un vero e proprio rovesciamento di valori: quella Firenze, che era una cittadina molto piccola e poco influente, in un periodo storico in cui non venne interessata da fatti importanti, appare nei cieli invece importantissima, se non altro infinitamente più importante della Firenze odierna.

Ed è anche per questo rovesciamento di valutazione che Dante affida la sua investitura poetica a Cacciaguida.
vrebbe potuto scegliere personaggi infinitamente più importanti di Cacciaguida, per esempio Federico II, oppure un santo. Tuttavia sceglie il suo trisavolo e in questa scelta si rivela forse più efficace di come si sarebbe dimostrato se ad investirlo di questo incarico fosse stato Cristo in persona.
Infatti da un parte è in concordanza con la sua visione della storia che si basa sulla famiglia – clan – parte, perché Cacciaguida è il fondatore genealogico e morale della stirpe degli Alighieri; dall’altra può rifarsi a quanto detto nel II canto dell’Inferno, “non Enea, non Paolo sono”, ma ne parleremo dopo.

L’importanza che Dante attribuisce a quest’incontro diventa evidente considerato che gli dedica addirittura tre canti.
Del resto a Cacciaguida Dante si rivolge per avere delucidazioni sui dubbi esistenziali nevralgici che lo assalgono nel corso del viaggio e della sua vita in generale
E nel chiedere quale sia il significato del suo impegno politico, poetico, e sociale, ma anche della sua stessa esistenza o più in generale della storia e dell’arte, Dante si rivolge a quella che vede come una figura paterna.
Solo una figura paterna può ottenere un effetto così emotivamente toccante rievocando la Firenze di un tempo con un misto di epicità e sacralità nei confronti di qualcosa che non esiste più ma che un giorno tornerà a risplendere.
Inoltre Cacciaguida, in quanto cavaliere della fede, costituisce un modello per Dante, in quanto anch’egli dovrà, attraverso sofferenze e sacrifici, portare avanti la propria crociata per restaurare i valori metastorici del cristianesimo.

Cacciaguida è caratterizzato basandosi su fonti essenzialmente virgiliane, più in particolare sulla figura di Anchise, ma in una certa misura ricorda anche lo Scipione l’Africano del Somnium Scipionis del X capitolo del De Republica di Cicerone. Da notare: nell’Eneide il passaggio del VI canto costituisce l’elogio delle imprese in generale di Roma e dell’impero, mentre nel somnium Scipionis si pone l’accento sulla missione metastatale di Roma, su un aspetto un po’ più morale.
In parallelo Dante viene descritto in questi passaggi sulla scia di Enea e Paolo ma anche di Scipione l’Emiliano.
Per citare alcuni passaggi in cui questa ripresa è evidente, vediamo al verso 25 che nomina apertamente Anchise, paragonando il suo stupore a quello di Cacciaguida alla vista del discendente.
Per quanto riguarda Paolo, il riferimento è poco dopo, nella frase in latino quando chiede a chi è mai stata dischiusa due volte la porta del cielo.
Ora viene confutato quello che Dante ha affermato nel II canto dell’Inferno: si dimostra che non è vero che “non Enea, non Paolo sono”.
Anzi, Dante, unificando alcuni elementi dell’Eneide e della Seconda Lettera ai Corinzi, dimostra di non essere né soltanto Enea (dimensione temporale – politica) né soltanto Paolo (dimensione religiosa), ma Enea e Paolo insieme.
Questo forte sincretismo classico – religioso è altamente funzionale, dunque, a sottolineare la portata della missione di Dante, una missione che coinvolge il rinnovamento dell’umanità sia nella giustizia terrena che nella redenzione spirituale, che in queste due terzine vengono ad essere strettamente congiunte.
Questo parallelo è già di per sé un conferimento di un compito di favorire una sorta di renovatio mundi, ma il paragone non si esaurisce qui. Infatti al verso 88 Cacciaguida si rivolge così a Dante: “O fronda mia in che io compiacemmi” che si rifà ad un passo del Vangelo di Matteo “questo è il figlio mio tanto amato, nel quale mi sono compiaciuto”, ma che è presente con termini simili anche nel vangelo di Marco e di Luca.
Il figlio di cui si parla nel Vangelo è Cristo appena battezzato e il padre è Dio.
Dante dunque nel paradiso ha ricevuto il battesimo per il compito di rivelare il piano celeste.
Anche il fatto che Cacciaguida parli in latino evidenzia la solennità del momento; solo a lui e a Giustiniano, in tutta la Commedia è concesso pronunciare un’intera terzina in latino.

Il tema qui trattato è ancora una volta quello della contrapposizione tra la Firenze dei tempi antichi e la corruzione della Firenze moderna. E’ una tematica trattata già in diversi punti della Commedia, e che nel Paradiso ha come preludio il clima di violenza cui hanno dovuto sottostare Piccarda e Costanza nel cielo della Luna e la proposta pauperistica di Francesco nel cielo del Sole.
I germi tuttavia di questa tematica si trovano già nell’Inferno.
La novità è però naturalmente che la corruzione della Firenze attuale viene trattata da un punto di vista autobiografico, dato che Cacciaguida che ne parla rappresenta la genesi e lo specchio di Dante.
Ma abbiamo visto anche che Dante è il modello ideale dell’inviato da Dio, del profeta; dunque la soggettività presente in questi canti attribuisce allo stesso tempo valore universale alle problematiche in esso trattate.
Infatti Firenze viene presa in esame sia per ragioni prettamente biografiche di Dante e di Cacciaguida che sono appunto fiorentini, ma soprattutto perché la Firenze antica descritta da Cacciaguida era una Firenze assolutamente anonima.
Era una cittadina piccola, priva di avvenimenti sensazionali in quel periodo, una città dunque che, nel suo anonimato, poteva costituire benissimo un esempio tipico della maggior parte delle altre realtà comunali.
Dunque nel particolare geografico, ancora una volta, Dante può parlare con un respiro universale.
Allo stesso modo, Dante nel nominare i successivi sviluppi biografici della sua vita dopo il 1300, insiste in questi canti soprattutto sull’evento caratterizzante dell’esilio, ossia l’evento che in qualche modo legittima l’investitura profetica di Dante e quindi la portata universale di quella che poi è stata la Divina Commedia.
Insomma, come dice Walter Binni, questi tre canti non sono un inserimento parentetico di temi mondani privati (il discorso su Firenze e le notizie biografiche di Dante) ma costituiscono una sublimazione e una chiarificazione di questi temi nel continuo richiamo ad essi nel corso del viaggio di Dante.
Ora, dopo che in tanti hanno accennato ripetutamente alla corruzione di Firenze, lasciando intendere a Dante sviluppi nefasti ma rimanendo sempre molto sibillini, ci voleva Cacciaguida per rendere Dante partecipe della totalità dei fatti, per spiegare i motivi per i quali è necessario per lui subire l’ingiustizia dell’esilio.
E in questa luce, l’esilio fa meno paura.
Ed era necessario che Dante affrontasse una volta per tutta l’argomento prima di spingersi a cieli troppo alti. Da adesso in poi, ora che ha enunciato compiutamente la giustificazione poetica e filosofica del suo viaggio e della Commedia, può finalmente concentrarsi esclusivamente nella descrizione dell’ineffabile, del mistero dell’indescrivibile.
Dei temi mondani quello al centro è Firenze: Dante rievoca la Firenze antica con nostalgia, ma senza sdegnarsi troppo perché sa che un giorno quella moralità tornerà a regnare.
E qui si apre un’appendice all’utopia socio – politica di Dante, perché sembra respingere la rivoluzione economica e sociale del secolo XIII, auspicando che il passato nella sua correttezza morale sia preludio alle luci dell’avvenire.
E la rapidità con cui Firenze è caduta così in basso è chiaro segnale dell’assoluto pericolo consistente in questi nuovi valori sociali basati sul culto del denaro che hanno sostituito i valori civili e umani.
Attraverso il confronto emerge tutta la grandezza del passato, che corrisponde alla perfezione della realtà cristiana sulla terra, il cui vincolo sociale frena gli istinti individualistici e particolaristici come l’interesse economico.
La civitas è il luogo dove si può raggiungere la felicità perché Dio ha dato all’uomo la guida dell’impero, dell’humana civilitas, che per mantenersi sempre nella sua moralità non può prescindere dall’appoggio dell’altra guida, la Chiesa.
Così Dante carica di nuovo significato l’espressione coniata da sant’Agostino, civitas dei e civitas diaboli, esemplificando l’una con Firenze antica e l’altra con Firenze moderna, e spiegando esattamente in che cosa consiste il passaggio dall’una all’altra.

E tutta la seconda metà del capitolo XVI è un crescendo di esemplificazioni e considerazioni che si traducono nella loro totalità con la contrapposizione eterna bene – male di cui le due città costituiscono soltanto l’exemplum storico.
Le manifestazioni massime del degrado di Firenze sono per Cacciaguida le lotte intestine tra guelfi e ghibellini, di fronte alle quali verrà tanto invocata la pace. Ma la pace è il risultato di un’azione umana volta all’eliminazione del superfluo e al ritorno alla genuinità.
Non per niente la prima istituzione a risentirne della corruzione economica di Firenze è la famiglia, che invece dovrebbe essere il nido, il porto quiete che garantisca una vita sicura, che tramandi tradizioni patriarcali e costituisca la cellula base della società.
Infatti, per dirne una, nella Firenze di Dante quando nasce una figlia i genitori già sono costernati al pensiero di doverle procurare una dote.
E naturalmente le persone più colpite da questo sventramento della famiglia sono quelle che per loro natura della famiglia costituiscono il perno fondamentale: le donne.
Le donne che nel loro eroismo quotidiano e nascosto tramandano le tradizioni, insegnano ai bambini a parlare, celebrano piccole ritualità domestiche che stanno alla base della società, costituiscono lo scheletro in ombra dell’intero consesso civile.
Ed è proprio su questo mondo femminile dell’eroismo delle piccole cose che bisogna puntare per ricostruire una società profondamente cristiana, il nodo di collegamento tra la società antica e la nascitura società rinnovata.
Un elemento che conferma l’importanza dell’universo femminile è il fatto che le donne raccontino ai propri figli le storie “dei Troiani, di Fiesole e di Roma”. In particolare su Roma Dante insiste più volte lungo la trilogia di Cacciaguida, anche se ogni volta con una giustificazione diversa.
Roma è un modello eterno, in quanto Roma trionfò finché i suoi costumi furono puri, come evidenzia Livio, finché regnò la prisca virtus, che legittimò il popolo romano all’Impero.
Il fatto che le evocazioni di Roma lungo i tre canti diano un’immagine quasi favolistica, evidenzia l’importanza metastorica dell’esempio di Roma in quanto baluardo della virtus, del pregio e dell’onore.
Tutto ciò richiama evidentemente il ruolo di guida dell’Impero anche nel Medioevo.
Infatti abbiamo altri due richiami temporali all’Impero incorrotto; il primo è al verso 97, quando parla della “Firenze de la cerchia antica”. La prima cerchia medievale di mura di Firenze venne in realtà costruita attorno all’anno 1000, però c’era una leggenda molto quotata ai tempi di Dante che ne riconduceva la fondazione addirittura a Carlo Magno.
Il secondo riferimento si trova invece alla fine del capitolo, quando parla della scelta di Cacciaguida di seguire l’imperatore, episodio che prosegue nel crescendo : milizia – bene ovrar – incontro alla nequizia – martirio.
Questa successione evidenzia chiaramente un ricongiungersi mano a mano con la Trascendenza in un percorso che parte dal seguire la guida dell’Impero con finalità che si trovano in concordia con le istanze della fede.
Cacciaguida ha potuto guadagnare il Paradiso agendo in concordia i costumi della sua società perché la Firenze antica era la civiltà della cortesia e della liberalità.
Questa rettitudine della società fiorentina antica è anche legata al fatto che gli abitanti di Firenze, come verrà ribadito nel canto successivo, erano un quinto di quelli della Firenze di Dante. Quest’esplosione demografica dipende essenzialmente dall’inurbamento di campagnoli spinti dal desiderio di arricchirsi, davanti ai quali si erge in tutta la sua grandezza l’antica nobiltà.
Dante fa parte della discendenza dell’antica nobiltà di origine romana, come aveva ricordato Brunetto Latini.
E’ questa stirpe che è stata in Firenze alla base dei valori cortesi, quindi, da suo discendente, Dante sente il dovere morale di restaurare questa società e ulteriore prova della sua investitura divina.

Naturalmente il primo punto della sua missione è ancora una volta la denuncia contro la corruzione della Chiesa, che non sa più leggere i segni del cielo perché ormai il potere indebito che la Donazione di Costantino (che tra l’altro è apocrifa) le ha conferito ha preso il sopravvento.
Del resto l’Inferno è disseminato di più e più papi, cardinali e vescovi che mostrano la faccia corrotta e demoniaca della Chiesa, istituzione che può essere salvata solo dal Veltro che sconfiggerà definitivamente la Lupa, il che permetterà la restaurazione di una società cortese – francescana che si basi su valori non economici.
Nel canto XVII

Il canto XVII si apre con un tono solenne legato alla portata della tematica che si appresta ad essere trattata, introdotta da una grande varietà di riferimenti ed immagini come paragoni dotti e raffinati presi dal mito, dalla geometria, dalla tradizione poetica.
Anche dal punto di vista fonetico retorico abbiamo una prevalenza di ritmi piani che portano a sillabare lentamente le terzine accrescendone la solennità.
Il preludio solenne ha il ruolo di staccare dalla rassegna del capitolo precedente, ma anche è soprattutto un modo per caricare di significato metafisico le rivelazioni di Cacciaguida.
A partire dal vero 46 abbiamo la profezia dell’esilio, che si articola in…
Ben si nota quindi che le vicende private di Dante vengono ad assumere valore universale: l’esilio stesso si configura come legittimazione dell’investitura divina.
Il viaggio che Dante compie non è un individuale itinerario in Dio, ma lo stesso viaggio risulta trasumanato per poter diventare il viaggio di tutta l’umanità; non perché Dante costituisca l’esempio tipo del percorso che ogni cristiano deve compiere, ma perché, attraverso l’esilio, Dante diventa il combattente che, investito da Cacciaguida, dovrà rivelare ciò che ha visto lungo il suo viaggio.
E questo compito poteva essere affidato solo a Dante perché solo in Dante si concentrano gli elementi dell’esilio e dell’essere poeta, quindi dell’essere in grado di rendere in parole l’Assoluto.
Dante risulta dunque lo strumento della grazia divina, che lo forgia come combattente in grado di sopportare anche la più grande delle sofferenze pur di non sacrificare l’onore.
Nel narrare dell’esilio, Dante si sofferma soprattutto sulla caratterizzazione psicologica della vicenda: da un lato è un esilio ingiusto che rende Dante exul immeritus, ma dall’altra è il mezzo provvidenziale necessario per adempiere il compito assegnatogli.
La vicenda dell’esilio è direttamente collegata alla vicenda della corruzione di Firenze: è il segno più evidente del predominio delle forze dell’anticristo.
Dunque l’esilio non viene trattato con tono più di tanto commiseratorio, proprio perché Dante è consapevole che la sua società, in quanto corrotta, non può che espellere quei pochi fiorentini che ancora sono voce di una concezione morale e religiosa giusta: da un lato abbiamo la Lex civitatis e dall’altro abbiamo la Lex Dei.
Le due immagini che simboleggiano le tribolazioni di Dante appaiono però molto asciutte, quella del “pane altrui amaro” e della difficoltà di percorrere le strade altrui.
Tuttavia è proprio questa asciuttezza che afferma perentoriamente che Dante non rinuncerà mai all’onore pur di tornare in patria, ma sopporterà le sofferenze con dignità.
La statura morale di Dante aumenta se consideriamo che colui al quale si oppone non è un semplice personaggio politico, ma addirittura il papa Bonifacio VIII. Un papa che mercanteggia la sorte di Dante esattamente come è stata mercanteggiata la sorte di Cristo.
Bonifacio VIII è il re della società della lupa, insediatasi nella Curia di Roma; e poiché Roma esercita direttamente la sua influenza su Firenze è logico che la corruzione della città sia giunta a questi livelli.
Probabilmente Dante fu però un po’ esagerato nelle accuse ai suoi compagni di esilio, che, non condividendo la sua utopia di riedificare sulla terra il modello di società celeste, si allontanarono da lui.
Addirittura accusa loro di bestialitate e si rallegra di essersi liberato di questa compagnia.
Si vede sempre più chiaramente perché solo Dante, nella sua fortissima integrità morale che non scende minimamente a compromesso, possa adempiere al compito di profeta: perché, mentre gli altri suoi compagni risultano un po’ machiavellici, solo lui non subordinava ad una Realpolitik le istanze dettate da una legge morale che, in quanto divina, è universale.
Per questo motivo vediamo che Dante finisce per far parte di un partito costituito da lui solo, unico integerrimo che segue gli ideali di nobiltà.
L’unico altro focolare che costituisce l’ultima culla in Italia di cortesia è Verona, dove si trovano i Della Scala; in particolare Cangrande, vicario dell’Imperatore.
La corte di Cangrande appare dunque a Dante l’unico rifugio per gli intellettuali sfortunati che si trovano in esilio e non vogliono rinunciare ai propri ideali.

L’altro grande tema di questo canto è l’investitura di Dante per bocca di Cacciaguida.
Da un punto di vista soggettivo l’investitura costituisce la difesa della propria figura di poeta dopo che in precedenza ha difeso la propria figura di personaggio politico. Ora invece Dante si giustifica in quanto poeta incaricato da Dio grazie alla sua inflessibilità e alla sua rettitudine.
Il compito di Dante in quanto scriba Dei è di operare una renovatio mundi, informando il mondo di quanto ha appreso durante il suo viaggio.
Per fare ciò è necessario a Dante in primo luogo passare in rassegna i peccatori, ciò i promotori della società corrotta, per demolirla e ricostruirne una nuova secondo gli ideali che conosciamo.
In questo modo viene conferita alla poesia in generale una superiore elevazione morale: la poesia deve dire sempre la verità, per quanto essa possa fare male o danneggiare il poeta.
Se la moralità è il contenuto della poesia, il realismo è la sua forma. Alla base della vera arte c’è il concreto, la creazione della fantasia si poggia sulla realtà.
E in nome della verità il poema di Dante sarà un grido simile al vento che percuote le più alte cime
Infatti abbiamo in questi ultimi passaggi del canto termini anche abbastanza volgari o comunque che si rifanno ad un vocabolario della concretezza: il più celebre è quel “sa di sale”, ma si sfiora anche punte aspre come quel “lascia grattar dov’è rogna”.

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