Benedetto Croce-la poesia di Dante

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Testo

BENEDETTO CROCE
1. Note biografiche
Nasce a Pescasseroli, in Abruzzo, nel 1866. Muore a Napoli nel 1952.
Ricco di famiglia, cercò di stare sempre lontano dalle cattedre universitarie e fu libero scrittore, critico di storia e di letteratura e filosofo per definire cosa sono arte e storia.
Inizialmente fu grande amico di Gentile, per poi staccarsi definitivamente da lui, dichiarandosi antifascista, mentre Gentile diventava filosofo ufficiale del regime. Data la sua fama internazionale tra gli studenti antifascisti, Croce non fu mai toccato dalle squadracce, per paura che diventasse un martire, così potè continuare a lanciarsi contro il fascismo nei suoi scritti.
2. La filosofia
La filosofia di Croce riprende le tematiche hegeliane, rielaborandole.
L’unica realtà è lo spirito, che si sviluppa attraverso la forma teoretica e la forma pratica.

Intuizione intuizione volontà volontà
del particolare dell’universale del part. Dell’U.
(arte e storia) (logica e filo) (economia) (etica)
I gradi dello spirito, ogni momento dipende dal precedente
3. La novità di Croce
Per Hegel ogni tappa dello spirito era dialettica. Per Croce le tappe dello spirito sono distinte e non hanno conflittualità dialettica. La dialettica subentra all’interno di ciascun distinto (l’arte distingue il bello dal brutto, la logica distingue il vero dal falso, l’economia distingue l’utile dal dannoso, etica distingue il buono dal cattivo).
Tra Croce e Hegel è comune la visione dello spirito, ma è diversa la visione dialettica delle tappe di questo.
4. L’arte
L’arte è l’intuizione del particolare: l’artista produce un’immagine che apre a colui che guarda uno spiraglio per riprodurre in sé l’immagine.
L’arte è assolutamente autonoma. Croce fa una polemica contro ogni forma di estetica intellettualistica (l’arte subordinata al vero), edonistica (l’arte subordinata al piacere), utilitaristica(l’arte subordinata all’utile) e moralistica (l’arte subordinata al bene).
L’intuizione artistica non è però un fantasticare disordinato: ha come principio che le da unità il sentimento. In questo senso l’arte è sempre intuizione lirica: è sintesi a priori di sentimento e di immagine. L’arte, dunque, si identifica con l’espressione, ovvero l’espressione artistica è il concretizzarsi dell’opera d’arte. Dall’espressione poetica, però, vanno distinte:
* L’espressione sentimentale o immediata: è una pseudo espressione perché priva di teoricità che si determina, più che con il linguaggio, con “suoni articolati”.
* L’espressione prosastica: che è solo creatrice di simboli o concetti che non sono arte perché non sono immagine o intuizione.
* L’espressione oratoria: che non è autonoma perché utilitaristica.
* L’espressione letteraria, che è armonia tra le espressioni poetiche e le non poetiche.
Nell’espressione poetica è fondamentale il ritmo: l’espressione poetica è l’intuizione o ritrazione dell’universo.
Secondo Croce, mentre la filologia ha il compito di fornire dati storici, linguistici ecc. per permettere la ricostruzione di un’opera storica, la critica ha il compito di esprimere giudizi che distinguano il bello dal brutto.
Per esempio, Croce afferma che Dante, nella Divina Commedia, riesce a essere poeta solo in alcuni punti dell’inferno, mentre il resto è mera struttura (insieme di convinzioni filosofiche, religiose, etiche e politiche).
Il libro di Benedetto Croce “La poesia di Dante” prende in considerazione proprio quest’ultimo concetto.
5. “La poesia di Dante”
Introduzione:
Di ogni poesia, che è sempre un discorso dove si legano molte cose squadernate, è dato compiere, oltre l’interpretazione poetica, una varia interpretazione filosofica e pratica che, sotto l’apetto da cui guardiamo, possiamo chiamare “allotria” ovvero “altra”.
Croce denuncia nella prima parte del libro una differenza d’interpretazione allotria tra Dante e gli altri poeti, che non è logica, ma quantitativa. Infatti per lui l’allotria prende grandi dimensioni.
Questo tipo di interpretazione della poetica di Dante, comincia già quand’egli era in vita e se avesse vissuto abbastanza a lungo-dice l’autore-, avrebbe commentato le sue opere da sè risparmiando così grandi fatiche ai commentatori.
Croce distingue due distinti momenti nella storia dell’interpretazione delle opere di Dante: la prima, che emetteva commenti edificatori morali (o il periodo del risorgimento italiano, che vedeva commentare le opere di Dante come strumenti per raggiungere un’identità politica e nazionale) e il periodo che inizia con Vincenzo Borghini nel 500 e continua con Carlo Troya a cavallo tra il 700 e l’800, che vede dei commenti più obiettivi e scientifici.
Questo non vuole dire che i critici danteschi si siano liberati da quel difetto metodico che li danneggia e li infrivolisce, soprattutto per le allegorie, i cui lavori, estesi e ingombranti, risultano alla fine inconcludenti e poco fruttuosi.
(Vedi def. Allegoria pag 7). Quando l’autore non spiega , come nel convivio, come interpretare le sue allegorie, è vano ricercarne e sperare di fissarne con sicurezza un risultato: si può giungere, ricercando minuziosamente, a una probabilità, ma non a una certezza; per avere una certezza ci vuole l’ipse dixit. L’autore, infatti, se per la propria poesia è il peggiore dei critici, è il migliore per quanto riguarda le allegorie.
Croce nota dei dantisti una certa “tendenza a esagerare”, resa palese dall’ansia per l’interpretazione delle allegorie, che è del tutto inutile, perché anche se potessimo giungere con certezza all’interpretazione di tutte le allegorie, troveremmo solo ripetizioni di quei luoghi in cui Dante parla fuori da allegoria, o di altri testi studiati da Dante. Croce appella il lavoro dei dantisti “gonfiature”, “sottilizzamenti”, “litigare su inezie”. Dantista=Dantomane.
Nella storia della poesia, come nel semplice leggere e gustare la poesia, non importano e, addirittura, disturbano, le dottrine di Dante perché quelle dottrine vi stanno non in quanto pensate, ma semplicemente in quanto immaginate e, perciò, non si dialettizzano nel vero e nel falso. È importante conoscerle, ma come si conosce un mito o una favola.
Le figure citate nei versi del poeta, non sono personaggi, ma solo espressione di uno stato d’animo del poeta. Se non si tiene conto di questo l’amore tra Francesca e il cognato parrebbero, come è parso a un critico, un’ignobile tresca.
Nel medioevo era molto in uso l’allegoria; talvolta è necessario, per capire certi concetti (se ne abbiamo i mezzi), decifrare i criptogrammi allegorici. MA NELLA POESIA L’ALLEGORIA NON HA MAI LUOGO, se ne parla, ma non si può afferrarla, il cercare di dare interpretazione all’allegoria, nella poesia, è inutile e dannoso. Si distinguono 2 casi:
1// L’allegoria è congiunta ab extra alla poesia come un vero e proprio atto di volontà
La poesia rimane intatta con la sua storia della poesia.
2// L’allegoria non lascia sussistere la poesia e pone un complesso di immagini discordanti, poeticamente sterili e mute (non sono vere e proprie immagini, ma semplici segni)
Non c’è poesia né storia della poesia, ma solo l’avvertenza del limite di questa, l’avvertenza del brutto.
3// Si potrebbe dedurre un terzo caso, ovvero quello della presenza di un’allegoria, tradotta però compiutamente in immagini poetiche, ovvero si pone un’allegoria all’interno della poesia, diversamente dai casi precedenti. Questo caso è pero IMPOSSIBILE nella filosofia di Croce perché secondo questa, se l’allegoria c’è, questa è per definizione fuori e contro la poesia, e se è fusa nella poesia, questo vuole dire che non c’è perché si è tradotta in immagini poetiche , non materiali e finite come l’allegoria, ma spirituali e infinite, dunque, poesia.
Detto questo, Croce abbatte due luoghi comuni di alcuni letterati:
La poesia non ha bisogno di spiegazioni allegoriche.
L’allegoria non crea suggestione alla poesia, ma distoglie da essa.
Per esempio, le quattro stelle che Dante vede all’uscita dell’inferno, in poesia non sono altro che quella commozione di meraviglia all’inatteso spettacolo.
Nella Commedia, Croce trova esempi per i primi due casi sopra citati:
1//il veltro, la lupa, il piè fermo.
2//non ce ne sono perché Dante non si riduce mai allo sterile allegorizzare.
In poesia, le allegorie si riducono in parole.
Nell’interpretazione allotria, l’allegoria non si traduce in semplici parole, ma in cose. Non sempre, però, si riesce a giungere a delle immagini, si crea un’oscurità, che non si riesce a sciogliere. I dantisti spesso non ammettono questo limite e si affrettano a dare varie interpretazioni, ovviamente meramente congetturali. In questi casi di oscurità si aprono due possibilità:
1)) Trattarli come pezzi non restaurabili di un dipinto, ovvero stendere una patina di vernice neutra
Es. “Forse Guido vostro ebbe a disdegno”
2)) Restaurarli scegliendo l’interpretazione più calzante
Es. “Il modo ancor mi offende”=> si riferisce alla morte datale in flagrante, che rese pubblica la sua colpa e che, per violato pudore, le brucia ancora l’anima.
L’inferno:
Croce compie una minuziosa analisi della prima cantica: l’inferno. In questo capitolo egli limita i versi di Dante a semplici e sterili postulazioni che vanno oltre la semplice poesia.
I primi canti dell’inferno, per Croce, sono i più gracili. O che appartenessero ad un primo abbozzo, poi ritoccato e adattato, o che abbiano l’incertezza di tutti gli inizi, accresciuta in questo caso dalla difficoltà di “costruire e mettere in moto una macchina così grande”.
Specialmente il primo canto da qualche impressione di stento: con quel della vita, in cui ci si trova in una selva che non è selva, e si vede un colle che non è un colle, e si mira un sole che non è il sole, e si incontrano tre fiere, che sono e non sono fiere, e la più minaccevole di esse è magra per le brame che la divorano e, non si sa come, fa vivere grame molte genti.
L’unica pagina che Croce ritiene pura poeticamente si ha nel V canto, il canto di Paolo e Francesca. All’inizio Minosse, la tempesta che avvolge le anime, il lungo catalogo di nomi, sono immagini che non escono dalla sfera descrittiva e grafica; ma appena Dante si rivolge a “quei due che insieme vanno”, la scena si anima. Già il loro staccarsi dalla schiera e correre volando alla voce del poeta, col paragone delle colombe, è un’immagine ricca di desiderio di versare nel cuore del lettore la loro storia dolorosa: le prime parole di Francesca suonano di commossa gratitudine per Dante che li ha distinti tra gli altri e ne ha provato compassione. E il loro amore è stato un amore vero, reale: senso, brama, soavi e delicate fantasie, estasi di beatitudine, perdizione, abbandono: non incielamento, bensì umanità o umana fragilità. La bella persona, il disiato riso tremano ancora nel ricordo dei due cognati. Essi non sono aiutati a resistere, ma spinti dal cor gentile, dai dolci pensieri, dai dolci sospiri che a nullo amato amar perdona.
La tragedia dell’amore-passione, che è il significato poetico dell’episodio di Francesca, ha quest’unica pagina del poema di Dante, che scopre per un’istante e scopre nella sua forza indomabile e travolgente quell’ebrezza dei sensi e della fantasia, e non rimuove più il velo che vi si stende sopra. Egli è troppo umano da ignorarla e non intendere e non sentire vivamente quella sorta di affetto.
E, andando avanti nell’analisi poetica dell’inferno, questa è l’unica pagina che Croce sente poesia come intuizione pura, primordiale, che emergono dalla spontanea fantasia del poeta.
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