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Categoria: | Dante |
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Testo
DANTE
(LA VITA)
Nato a Firenze da Alighiero di Bellincione e dalla sua prima moglie Bella (forse degli Abati), sotto il segno astronomico dei Gemelli (cfr. Par. XXIII 112-117) fra il 21 maggio e il 21 giugno del 1265, Dante morì a Ravenna, dopo un esilio quadrilustre, la notte fra il 13 e il 14 settembre 1321. Visse dunque 56 anni e quattro mesi; età non breve, ma di fronte alla quale la sua multiforme operosità poetica, letteraria, civile, per ampiezza e profondità di interessi, per i raggiunti vertici dell'arte, appare senz'altro prodigiosa, se si pensi che per la maggior parte essa va sicuramente collocata negli anni fortunosi e travagliati dell'esilio, e se ne consideri la complessa ricchezza di motivi ed esperienze diverse, retoriche, cortesi, etico-politiche, nutrite di accese speculazioni dottrinali. Per non parlare poi del capolavoro - quella Comedìa saldamente maturata in una mirabile reductio ad unum di una vita sofferta e vissuta - ch'è già di per sé stessa espressione summatica e ineguagliabile della civiltà medievale, ma insieme per certi aspetti partecipa di quel profondo rinnovamento culturale che col Petrarca e col Boccaccio fonderà il nuovo Umanesimo e aprirà le porte alla civiltà moderna.
Con i suoi primi biografi e i pochi documenti non invidiati dal tempo, Dante stesso è fonte delle notizie sulle origini della sua stirpe (cfr. Par. XV-XVI). Il suo trisavolo, Cacciaguida figlio di Adamo, era nato alla fine del secolo XI nella Firenze della "cerchia antica" (Par. XV 97): testimonia, con suo padre, in atti del 28 aprile 1131. Due suoi fratelli, Moronto ed Eliseo, dettero origine a nobili casate fiorentine; prese in moglie una donna nata presso il delta del Po ("val di Pado"), forse degli Aldighieri di Ferrara, che gli dette due figli, Preitenitto e Alighiero (vivo ancora nel 1201). Lasciata la casa paterna presso l'odierna via degli Speziali, essi si trasferirono nel popolo di San Martino del Vescovo (presso l'odierna via Dante Alighieri). E lì da Bellincione, figlio (con Bello) di Alighiero, nacque, insieme a cinque fratelli, Alighiero II, padre del poeta. L'antica nobiltà di sangue è attestata da Dante medesimo (Cacciaguida, armato cavaliere da Corrado II, morì in Terrasanta nella Crociata del 1147), e confermata dalla consorteria con gli Elisei, i Ravegnani, i Donati; il poeta si compiacque di farla risalire ben in alto, leggendariamente legandola alle origini romane della sua città. Antica nobiltà cittadina, non ricca di terre e castelli nel contado (pochi e modesti i possessi nei dintorni immediati di Firenze), ma inserita piuttosto nella vita economica del Comune mercantile e artigianale. Bellincione, avo di Dante, prestò denaro in Firenze e in Prato; Alighiero II continuò fino alla morte (avvenuta prima del 1283) l'attività paterna. Questa attività di prestatore (che offrirà il destro al "rinfaccio" di Forese Donati nella sua tenzone con Dante) non indorava certo il blasone familiare; e ci spiega come il poeta, in tutte le sue opere, accenni rarissimamente ai congiunti. Non rilevante l'importanza del casato anche entro la vita politica della Firenze guelfa; se Bellincione e Brunetto presero parte ai Consigli del Comune, il loro scarso peso politico è provato (almeno per Bellincione e Alighiero II, che a noi soprattutto interessa) dal mancato esilio dopo la sconfitta di Montaperti. Mancano infatti i loro nomi nelle liste dei danneggiati dai Ghibellini fra il 1260 e il 1266; e solo Geri del Bello, cugino del poeta, ebbe a dolersi al ritorno da Bologna d'un danno parziale alla sua casa. Dante nacque così "sovra 'l bel fiume d'Arno a la gran villa" (Inf. XXIII 95): in quella Firenze ormai lontana dal quieto vivere cittadinesco rievocato nostalgicamente, qual mito generatore di poesia, per bocca di Cacciaguida, e tutta protesa verso una espansione territoriale ed economica considerata dal poeta causa profonda e primaria delle discordie intestine che la travagliarono (Par. XVI 49-78).
L'inserirsi della nobiltà feudale nella vita economica e politica cittadina (man mano che la vivace espansione comunale piegava e costringeva ad inurbarsi i feudatari finitimi) aveva infatti portato a forti contrasti di interessi; nel 1216, dopo l'uccisione di Buondelmonte de' Buondelmonti da parte degli Amidei (Par. XVI 136-147) le famiglie magnatizie si divisero così in due opposte fazioni, schierate l'una coi Guelfi e l'altra coi Ghibellini, mentre il popolo, grasso e minuto, rimaneva all'inizio fuori della lotta. L'appoggio di Federico II condusse i Ghibellini (capeggiati dagli Uberti) al potere nel 1248; ma la sua morte, cui seguì il crollo della parte imperiale in Italia, consentì al Popolo grasso, nell'ottobre 1250, di insorgere (mentre i Guelfi erano ancora in esilio) e di impadronirsi del Comune. È il cosiddetto "primo Popolo" o "Popolo vecchio", che dura per dieci anni, fino alla sconfitta delle forze comunali a Montaperti (4 settembre 1260), ad opera dei fuorusciti Ghibellini, dei Senesi, dei cavalieri teutonici di Manfredi: "'l grande scempio Che fece l'Arbia colorata in rosso" (Inf. X 85-86). Fu posta allora in gioco l'esistenza stessa della città, non rasa al suolo dai vincitori solo per l'opposizione generosa, nella dieta d'Empoli, di Farinata degli Uberti, "colui che la difese a viso aperto" (Inf. X 93), ma che vide annullati i nuovi ordinamenti e le conquiste di parte democratica. Il sangue versato a Montaperti e le rappresaglie ghibelline segnarono d'altronde il definitivo orientamento guelfo del popolo e del Comune. Dopo la battaglia di Benevento (26 febbraio 1266) ove Carlo d'Angiò sgominava Manfredi e il partito ghibellino, Firenze gravitò così sempre maggiormente entro la sfera d'influenza angioina e papale, non senza fieri contrasti sociali dovuti alla politica decisamente antimagnatizia del Comune guelfo (soprattutto dopo il Priorato delle Arti, 1282, e il "secondo Popolo") e conflitti esterni, dovuti al proseguire di una vigorosa azione di conquista. Questi gli avvenimenti, gravidi degli sviluppi che alcuni anni più tardi lo vedranno non più giovane spettatore ma deciso attore, entro i quali Dante visse puerizia e giovinezza; e ne trasse avvìo alle future meditazioni. Mortagli prestissimo la madre, e risposatosi Alighiero con Lapa di Chiarissimo Cialuffi, ebbe l'infanzia almeno allietata dalla compagnia d'una sorella maggiore, presto sposa a Leone Poggi, e poi da Francesco e Tana (Gaetana), fratelli di secondo letto.
Dopo i primi precoci studi (come allora usava) di grammatica e retorica, ecco i contatti, però non ancora determinanti, con gli auctores latini, e i frequenti incontri con l'ambiente culturale fiorentino che grandemente favorì nel giovinetto una naturale, spontanea inclinazione alla poesia. In ordine di tempo e di importanza, primo l'incontro con Brunetto Latini, rientrato in Firenze dall'esilio di Francia nel 1266 e ivi morto nel 1294 dopo aver ricoperto cariche importanti (fra cui quella di Cancelliere del Comune e, nel 1287, di Priore) e aver "digrossato" i fiorentini avviandoli e spronandoli con documenti di sapienza retorica e di viver civile. Oggi più non si crede ch'egli sia stato, in senso proprio, il "maestro" di Dante: certo però che, per ammissione dello stesso poeta, gli insegnò ad ogni modo "come l'uom s'etterna" (Inf. XV 85): cioè come lascia durevole traccia di sé con le proprie opere letterarie (ibid. 119-120). Tirocinio retorico e letterario, insomma, provato da numerosi imprestiti da testi brunettiani presenti nel Dante maggiore e minore, latino e italiano, e nell'ambito del quale vanno collocati quegli esercizi, condotti con piglio quanto mai franco e sicuro, e a non grande distanza l'uno dall'altro, che sono il Detto d'Amore e il Fiore (riduzioni in versi italiani del Roman de la Rose): che appunto si muovono nell'ambito della tecnica retorica e della cultura di volgarizzatore cara al Latini (e sia pure con una vivissima e schietta apertura verso la res iocosa) e la cui attribuzione all'Alighieri, ancor oggi non condivisa in maniera concorde dalla critica, può essere saldamente documentata attraverso una rigorosa indagine di ordine stilistico, che misuri le qualità concrete di quell'arte in rapporto agli altri rimatori, e che insieme riproponga su nuove basi sia il problema cronologico sia la caratterizzazione stessa di quei componimenti entro la biografia intellettuale dell'Alighieri e la sua disponibilità, di volta in volta, a nuovi sperimentalismi (rifusi poi tutti nel crogiolo del poema maggiore). Accanto alla "imagine paterna" di Brunetto, si collocano i rimatori fiorentini che operavano nella scia della scuola siciliana e di Guittone, cerchia la cui produzione poetica è raccolta nel codice Vaticano 3793 (del sec. XIII), fratello gemello del Canzoniere prestilnovista ove Dante compì i suoi giovanili esercizi di lettura. Ma su tutti, per l'importanza degli influssi e quindi degli sviluppi concreti dell'arte dantesca, la poesia e l'amicizia di Guido Cavalcanti: il "primo amico" cui Dante, raggiunta la maggiore età (per lui orfano di padre rappresentata dai 18 anni) e prossimo a prendere in moglie, attorno il 1285, Gemma Donati (destinatagli già nel 1277) inviò il sonetto A ciascun'alma presa e gentil core, dopo quasi due lustri collocato in apertura alla Vita Nuova, appunto a lui dedicata.
La prima esperienza poetica dell'Alighieri si venne in tal modo svolgendo entro schemi sicilianeggianti e guittoniani (corrispondenza con Dante da Maiano) e poi subito cavalcantiani (e alla graziosa levità di alcune ballate si affìancheranno allora accenti di doloroso turbamento e di amore tormentoso, in nuove e più drammatiche forme stilistiche); ma acquisterà poi uno spiccato carattere di individualità, quando con le cosiddette "rime di loda" per Beatrice, il poeta, con un colpo d'ala, saprà e vorrà staccarsi dai moduli della poesia amorosa tradizionale, sviluppando appieno la lezione del Guinizzelli e trascendendola, con la canzone Donne,ch'avete intelletto d'amore, vero e proprio manifesto poetico delle "nove rime" (cfr. Purg. XXIV 50-51). Con esse davvero il poeta esce fuori "de la volgare schiera" (Inf. II 105), distinguendosi per nobiltà di ispirazione e magistero di stile dagli altri rimatori in volgare. Sotto la spinta di nuove conquiste ideologiche e pragmatiche, con le "rime di loda" Dante si fa adesso assertore di una poesia amorosa tutta legata alla scoperta del valore analogico della bellezza di Beatrice donna quale mezzo di conoscenza metafisica del divino (posizione culturale che nutrirà di sé plenariamente le linee maestre del Paradiso) e insieme pienamente conscia della necessità di rinunciare (entro la nozione letteraria e teologico filosofica dell'amore "gratuito", mediata da Cicerone e dai trattatisti dell'amore dei secoli XII-XIII) ad ogni speranza e desiderio di concreta remunerazione: un terreno sul quale avverrà lo scontro, prima ideologico che letterario, con Guido Cavalcanti, l'amico di un tempo (e ne conseguirà il distacco sottolineato a Inf. X 58-63). Tali nuove conquiste, indubbio frutto di nuove letture (alla morte di Beatrice Portinari avvenuta l'8 giugno 1290 seguì, come il poeta stesso ci dice, un periodo di studi severi) particolarmente da Boezio, Cicerone, Agostino, Aristotele ed altri testi filosofici, sono dal poeta cristallizzate paradigmaticamente nella sua Vita Nuova che, attorno al 1293, raccoglie in una cornice prosastica (dunque un prosimetrum sull'esempio del De Consolatione di Boezio ma anche della originaria concezione del Tesoretto del Latini e di alcune razos provenzali) 31 componimenti composti fra il 1283 e il 1291, organizzati in una trama fantastica e concettuale che vuol essere ripensamento, sul filo ideale del "libro della memoria", degli avvenimenti e dei momenti fondamentali dell'amore per Beatrice, dal primo incontro (avvenuto all'età di nove anni) alla "mirabile visione" (seguita alla sua morte) di quell'angiola giovanissima contemplata in gloria; probabile primo germe, sia pure embrionale, di quella che sarà, al tempo della Commedia, la glorificazione di Beatrice "nel trono che i suoi merti le sortiro" (Par. XXXI 69).
Come si è già accennato, alla morte di Beatrice seguì un periodo di studi severi. Dante getta ora le basi di tutto il suo mondo speculativo e pratico; accanto al poeta si plasma il robusto (anche se eclettico) pensatore, quale apparirà nelle opere più complesse dell'età matura. Boezio e Cicerone gli aprono un mondo nuovo; egli frequenta presso i Francescani e i Domenicani "le scuole de li religiosi e le disputazioni de li filosofanti" (Convivio II xii 7). Da questo arricchimento di pensiero e dall'incontro con testi e autori classici e medievali basilari per la sua formazione (Virgilio, Ovidio, Lucano, Stazio, le opere d'Aristotele - particolarmente l'Etica e la Politica - commentate da San Tommaso, Alberto Magno, San Bonaventura, Averroè) nascono le rime alllegoriche in lode della Filosofia come scienza (Voi che 'ntendendo e Amor che ne la mente mi ragiona) e quelle dottrinali, a celebrazione di due virtù morali, Nobiltà e Leggiadria. Quest'ultime (Le dolci rime e Poscia ch'Amor) per il reciso giudicare su idee e modi di vivere correnti, mostrano non solo (come le precedenti) il dilatarsi d'una cultura e di una problematica, riflessa in temi nuovi (con la rinuncia a poetare unicamente d'amore); ma sono il chiaro frutto della quotidiana, risentita esperienza (vòlta in meditazione) di come i pregiudizi di casta fossero alla base delle violenze magnatizie (un tema che affiorerà, con Filippo Argenti, nel canto VIII dell'Inferno); e ci dicono l'avvenuta concreta adesione agli ideali democratici del Comune guelfo, alla cui vita Dante veniva sempre più partecipando.
Dopo la giovanile, guerresca veglia d'armi della battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), a cui Dante prese parte quale "feditore" a cavallo, e le operazioni militari di due mesi più tarde contro il castello pisano di Caprona (cfr. Inf. XXI 95; XXII 4-6; Purg. V 92), la riforma degli Ordinamenti di Giustizia di Giano della Bella (6 luglio 1295) e la concessione ai nobili di partecipare alle cariche pubbliche purché aderissero, anche nominalmente, ad una delle Arti e non fossero Cavalieri, consentirono infatti a Dante, iscrittosi all'Arte dei Medici e degli Speziali (per gli studi filosofici che seguiva) di iniziar la sua vita politica: lo troviamo nel Consiglio speciale del Capitano del Popolo a partire dal semestre novembre 1295 - aprile 1296. In questo primo incontro con la vita pubblica egli non fu però molto attivo: non prese mai la parola. Altri, in quel torno di tempo, i suoi problemi, e d'ordine squisitamente letterario: del dicembre 1296 è la prima delle quattro "petrose" (Io son venuto al punto de la rota) scritte per una donna, "Pietra", che duramente si nega all'amore del poeta, rime che non vanno più considerate (come un tempo) testimonianza d'una ardente passione dei sensi, ma come il consapevole inizio d'una più matura stagione di poesia, d'una nuova esperienza stilistica e metrica (modulata su le difficili orme di Arnaut Daniel), lontana ormai dalla giovanile poetica dello Stil Nuovo e aperta, nel forte vocabolario e nell'ampiezza e robustezza dell'invenzione, verso le ardue virtuosità stilistiche del poema maggiore.
Ma gli eventi storici che dal 1295 (anno dell'elezione di Bonifacio VIII al pontificato) condizionarono sempre più la vita fiorentina, tolsero ben presto Dante alla poesia per farne uno dei maggiori responsabili delle vicende cittadine. Riaffermate le istanze integraliste e teocratiche del papato, Bonifacio si inserì abilmente nel giuoco di accese rivalità della politica interna di Firenze, sfociata in aperta lotta tra le fazioni cittadine, dei Guelfi Neri (capeggiati dai Donati, di ascendenza magnatizia) e dei Guelfi Bianchi, più moderati (capeggiati dai Cerchi, famiglia di banchieri e mercanti). Quando il Popolo volle richiamare in Firenze Giano della Bella, i Grandi ricorsero al papa, che a tale richiamo si oppose con la bolla del 23 gennaio 1296. L'ingerenza papale si fece poi sempre più pesante, sia in occasione della "Crociata" contro i Colonna (1298) sia in occasione dell'arbitrato tra Bologna e Ferrara. L'appoggiarsi dei Donati al pontefice tramutò quella ch'era fino a quel momento lotta intestina di parti in un conflitto di poteri tra il Comune e il papato, ben presto drammatico quando fu palese che i Neri si erano accordati segretamente con la corte di Roma. La Signoria di parte Bianca colpì allora duramente i traditori, esiliandoli nonostante la fiera opposizione del papa. Il quale per suo conto, forte della vacanza imperiale e della dottrina della plenitudo potestatis, mirava al predominio sull'Italia centrale. La posizione dantesca in questi avvenimenti è chiarissima, pur in mancanza di documenti ufficiali esaurienti: egli sostiene una politica di assoluta indipendenza e autonomia comunale, come appare dagli incarichi sempre più importanti che adesso consegue. Ambasciatore il 7 maggio 1300 a San Gimignano per consolidare i legami degli associati alla Taglia Guelfa, fu eletto tra i Priori dal 15 giugno al 14 agosto 1300: evidente coronamento, d'una precisa visione politica. Anche nel Consiglio dei Cento (in previsione dello scontro diretto) egli si adoperò il 14 aprile, il 19 giugno e il 13 settembre 1301 perché fossero richiamate le truppe messe in precedenza a disposizione del pontefice. Dopo la sua elezione a Priore, egli divenne il capo riconosciuto dei, Bianchi più decisi ad opporsi a Bonifacio VIII e agli Angioini; ma le sue proposte di resistenza non piacquero alla maggioranza, che ancora sperava nel compromesso.
Quando Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, era alle porte di Firenze (inviato da Bonifacio quale paciere, ma con lo scopo segreto di favorire i Donati), e il 4 ottobre 1301, giunto a Castel della Pieve, si univa ai Neri là confinati, la Signoria preferì mandare ambasciatori al papa. Tra essi fu l'Alighieri, che pure aveva propugnato ben diversa politica. Partito nella seconda metà d'ottobre, non doveva più rientrare in Firenze. Entrato il 1° novembre Carlo di Valois, il 4, alla spicciolata, tornarono i più facinorosi fra i Neri; e iniziarono così i processi contro i Bianchi, accusati di ghibellinismo e di frodi nell'amministrazione della cosa pubblica. Il 27 gennaio 1302 Cante Gabrielli da Gubbio, podestà nominato dai Neri, condannava Dante (solo colpevole d'essersi opposto alle mire del pontefice) a pagare 5000 fiorini e a restare due anni fuori di Toscana; il 10 marzo, non essendosi egli presentato a pagare, fu pronunciata la sua condanna a morte. Dante era in quel mentre sulla via del ritorno da Roma. Si unì allora agli altri esuli (Bianchi e Ghibellini) che, muovendo dalle terre mugellane di Ugolino Ubaldini, tentavano di rientrare in città con le armi. L'8 giugno 1302, è tra i firmatari, a San Godenzo, di un impegno a risarcire gli ospiti per i danni derivanti dalla guerra. Nel 1303, per procacciare alleati, si reca a Forlì presso gli Ordelaffi e a Verona presso Bartolomeo della Scala. Morto nell'ottobre di quell'anno Bonifacio, nel cuore degli esuli, concentrati nell'Aretino, risorge la speranza.
Benedetto XI manda nel marzo 1304 a Firenze, quale paciaro, il Cardinale Niccolò da Prato. Ma le trattative (documentate anche da una Epistola dantesca al Cardinale) naufragarono per l'intransigenza dei Neri. Si venne ancora alle armi; e dopo la infausta giornata della Lastra (20 luglio 1304) naufragarono definitivamente i sogni di una imminente rivincita. In quei giorni Dante aveva però già "fatta parte per se stesso" (Par. XVII 69), dopo forti contrasti (ibid. 64-65) sulla politica da adottare. L'amor di patria era in lui più forte che l'amor di parte: sono i sentimenti che emergono sia dalla già citata Epistola I, sia dal Congedo della grande Canzone dell'esilio, Tre donne intorno al cor (1304), ispirata tutta all'amore per la Giustizia e al desiderio di conciliazione; e che animeranno la poesia dell'episodio di Farinata (Inf. X). Staccatosi dalla "parte selvaggia", Dante è veramente esule e solo, costretto ad andare povero e ramingo per quasi tutte le parti d'Italia (Convivio I III). Poche le notizie certe delle sue peregrinazioni. Fra il 1304 e il 1306 lo accolse Bologna, città propizia agli studi e che già gli aveva offerto in gioventù materia al poetare; lì furono probabilmente disegnate e in parte composte due opere dense di dottrina, che mostrano una fervida ripresa di studi filosofici e retorici e un ulteriore allargarsi di prospettive letterarie, culturali, civili e politiche: il Convivio e il De vulgari Eloquentia. Dante vuole con esse innalzare la sua fama di studioso, al fine di ottenere la revoca della condanna: un'altra delle sue illusioni di poeta. La nostalgia della patria lontana, la speranza del ritorno, animano infatti con accenti commossi entrambi i trattati, anche se Dante si proclama con nobili accenti cittadino del mondo.
Rimaste interrotte le due opere sia per l'espulsione degli esuli da Bologna (1306) sia per l'incalzare d'un nuovo e più vasto disegno che in effetti le trascendeva, quello del poema maggiore, Dante riprende il suo peregrinare. Poche le notizie certe: il 6 ottobre 1306 stipula a Sarzana la pace tra Franceschino Malaspina e il Vescovo di Luni; nel 1308 è probabilmente a Lucca; indi, dal Casentino, invia a Moroello Malaspina la Canzone Amor da che convien, con una Epistola dichiarativa (IV). Lì dovette giungergli notizia dell'elezione di Arrigo VII al trono imperiale (1308): fatto capitale, per chi s'era ormai convinto (cfr. il trattato IV del Convivio) che solo la vacanza dell'Impero aveva consentito il prevalere dell'integralismo pontificio e provocato quindi la catastrofe di parte Bianca e il tragico disordine sociale e civile di quegli anni. Esulta pertanto il cuore dell'Esule (Epistola V, del 1310) quando Clemente V accetta di incoronare in Roma il Cesare eletto; e le due successive epistole politiche, del 1311 (VI, ai Fiorentini di dentro; VII all'Imperatore) sono chiaro documento dell'animo di chi anela a rimuovere ogni ostacolo a la discesa d'Arrigo e ad affrettare i tempi d'una desiderata, necessaria pacificazione. Per aver fiancheggiato la parte imperiale, Dante sarà così escluso dall'amnistia concessa da Firenze (nella imminenza dell'assedio d'Arrigo) ai fuorusciti: ma per suprema reverenza verso la patria che pur gli era stata noverca, egli non partecipò direttamente alle operazioni militari: manca, infatti, il suo nome nella rinnovata sentenza di condanna emanata dal Comune nel marzo 1313. Morto Arrigo a Buonconvento (24 agosto 1313), tramontarono definitivamente i sogni e le speranze del poeta, che dopo aver soggiornato qualche tempo in Toscana (forse presso Uguccione della Faggiuola, signore di Lucca) tornò verso il 1316 nell'Italia del Nord, a Verona, ove Cangrande, vigoroso e impetuoso Vicario imperiale, veniva realizzando il suo audace disegno di un potente stato ghibellino. A questi anni risalgono il trattato latino in tre libri intitolato alla Monarchia vòlto a mostrare la necessità della monarchia pel benessere del mondo nonché l'indipendenza dell'Imperatore dal Pontefice; e le tre ultime Epistole a noi note, la XI (ai Cardinali italiani raccolti in Conclave dopo la morte di Clemente: giugno 1314), la XII (a un Amico fiorentino, per rifiutare una amnistia a condizioni umilianti: maggio 1315) e la XIII, con la quale, nel 1316, egli dedica a Cangrande la cantica del Paradiso, appena iniziata, e ne offre un saggio di commento, assieme a un importantissimo inquadramento generale dei significati e del fine della Commedia.
Lasciata Verona verso il 1318, Dante trascorre a Ravenna, attorniato dai figli Pietro, Jacopo e Antonia e da pochi, fedeli amici, l'ultimo periodo della sua vita. La calda ospitalità di Guido da Polenta allevia le cure familiari; e lì egli conduce a compimento l'opera sua maggiore, la Divina Commedia, iniziata attorno al 1308 come un vasto e possente affresco che traducesse e rappresentasse in immagini poetiche le avventure più segrete dell'animo suo, i suoi dolori e le sue speranze, gli odi violenti e tenaci ma anche le amorose e fiduciose, anzi incrollabili certezze di poeta e di credente, e insieme riaffermasse in modo esemplarmente valido per ogni tempo, attraverso un continuo giudicare sugli uomini e sulle cose umane di quegli anni, una ben precisa concezione morale e politica del mondo, dei fini e dei doveri dell'umanità tutta, entro e in rapporto al duplice ordine della Natura e della Grazia. Le prime due cantiche del poema erano già compiute entro il 1316, il Paradiso sarà invece pubblicato dai figlioli, Pietro e Jacopo, nel 1322.
Una breve ulteriore permanenza a Verona è testimoniata dalla Questio de Aqua et Terra, del gennaio 1320, disputa scolastica su un argomento caro alla cultura accademica (se l'acqua in qualche sua parte possa essere più alta della terra emersa: tema risolto negativamente), ma anche chiaramente legato alla concezione cosmologica e figurativa dell'universo tolemaico ch'è alla base del poema. A Ravenna furono composte due Egloghe responsive (in latino) a Giovanni del Virgilio, che lo aveva esortato a comporre un poema in versi latini di materia storica, e lo invitava a Bologna promettendogli l'alloro poetico. Inviato da Guido da Polenta ambasciatore a Venezia, per dirimere una pericolosa controversia con la potente vicina, e còlto sulla via del ritorno da febbri malariche, il poeta, che aveva da poco terminato la cantica del Paradiso, moriva la notte fra il 13-14 settembre 1321.