Materie: | Traduzione |
Categoria: | Greco |
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Testo
Plutarco. La spedizione in Sicilia.
17.1 - 4
Sin da quando Pericle era ancora in vita gli Ateniesi ambivano alla (conquista della) Sicilia e dopo la sua morte si accinsero (all’impresa), e mandavano ogni volta i cosiddetti aiuti e contingenti alleati a coloro che subivano attacchi da parte dei Siracusani, ponendo le basi per una spedizione di maggiore entità/più grande. Ma colui che riaccese in modo decisivo questo loro desiderio e che li persuase ad assalire e a conquistare l’isola non per gradi e poco alla volta ma salpando con un grande esercito fu Alcibiade, che incoraggiava il popolo ad avere grandi speranze ma puntando lui stesso a cose più grandi.
Egli infatti considerava che la Sicilia fosse solo l’inizio della spedizione militare che gli avrebbe permesso di realizzare ciò che sperava, e non la meta definitiva, come invece gli altri.
E Nicia convinto che fosse un’impresa difficile prendere Siracusa tentò di dissuadere il popolo, mentre Alcibiade sognando Cartagine e la Libia e abbracciando ormai con il pensiero l’Italia e il Peloponneso e dopo l’annessione di queste terre, poco mancava che considerasse la Sicilia solo come la fonte di rifornimento per la guerra.
E già aveva (con sé) i giovani che si erano subito lasciati esaltare dalle speranze, ascoltavano i vecchi raccontare cose meravigliose riguardo alla spedizione cosicché molti stavano seduti nelle palestre e negli emicicli a disegnare la mappa dell’isola e la posizione della Libia e di Cartagine.
18 – 20.6
Intanto fu eletto stratega Nicia contro la sua volontà, volendo sottrarsi alla carica soprattutto a causa del collega; sembrava infatti opportuno agli Ateniesi che la conduzione della guerra sarebbe stata migliore se non avessero lasciato partire Alcibiade da solo, ma associando la prudenza di Nicia alla sua audacia; infatti anche il terzo stratega Lamaco pur essendo più anziano, non sembrava tuttavia essere meno focoso e amante del pericolo di Alcibiade nelle battaglie. Quando (gli Ateniesi) discussero dell’entità numerica e del tipo di preparativi, di nuovo Nicia tentò di opporsi e di fermare la guerra. Avendo Alcibiade fatto opposizione e avendo vinto, tra gli oratori Demostrato scrisse e disse che era necessario che gli strateghi avessero i pieni poteri sia per la preparazione che per tutta la guerra.
Quando il popolo approvò ed essendo tutto pronto per la spedizione non si rivelarono propizi neppure i presagi della festa (allora in corso). Infatti mentre in quei giorni si celebravano le Adonie, venivano esposte dalle donne in molti luoghi, immagini raffiguranti dei morti già sepolti, e riproducevano i funerali battendosi il petto e cantavano i lamenti funebri. Inoltre la mutilazione delle Erme, la maggior parte delle quali fu sfregiata nel volto in una sola notte, sconvolse anche molti fra coloro che non badano a tali cose.
Si disse dunque che avevano fatto queste cose i Corinzi a favore dei Siracusani che erano loro coloni, convinti che a causa del presagio ci sarebbe stato un ritardo o un cambiamento di idea riguardo alla guerra.
Questo non persuase i più e neppure il ragionamento di coloro che non credevano affatto che fosse un presagio funesto ma uno di quegli atti solitamente dovuti all’ubriachezza quando dei giovani dissoluti dallo scherzo passano ad atti di violenza; l’assemblea e il popolo provando ira e paura per l’accaduto convinti che fosse stato osato in seguito ad una congiura, in vista di cose gravi, indagarono attentamente ogni sospetto riunendosi ( l’assemblea ) costantemente riguardo a queste cose e (il popolo) spesso in pochi giorni.
Intanto il demagogo Androcle presentò alcuni schiavi e meteci che accusarono Alcibiade e i suoi amici dei tagli anche di altre statue e della parodia dei misteri a causa del vino.
Dicevano che un tal Teodoro aveva ricoperto la parte dell’araldo, Pluzione quella del portatore di fiaccole/daduco, Alcibiade quella dello ierofante e che gli altri amici nominati assistevano e venivano iniziati ai misteri. Infatti queste cose sono state scritte nella denuncia di Tessalo, figlio di Cimone, che dichiarò che Alcibiade aveva commesso empietà nei confronti delle due dee. Poiché il popolo s’inasprì e divenne duro con Alcibiade e poiché Androcle- costui infatti era uno dei peggiori/tra i più agguerriti nemici di Alcibiade- lo fomentava, in un primo momento Alcibiade e i suoi furono sconvolti, ma poi accorgendosi che i marinai e l’esercito, che stavano per salpare per la Sicilia, erano dalla sua parte (benevoli nei suoi confronti) e sentendo che gli Argivi e i Mantineesi, che erano un corpo di mille opliti dicevano apertamente che per Alcibiade avrebbero combattuto oltre mare e per lungo tempo e che, se qualcuno l’avesse trattato ingiustamente, essi si sarebbero subito ritirati, ripresero coraggio e si disposero a difendersi al momento opportuno, cosicché i nemici si persero loro volta d’animo e temettero che il popolo nell’esprimere il giudizio diventasse più tenero nei suoi riguardi perché aveva bisogno di lui.
Per questo dunque escogitarono un espediente, grazie al quale coloro che tra gli oratori non sembravano ostili ad Alcibiade, ma che in realtà lo odiavano non meno di coloro che lo ammettevano apertamente, dicessero alzandosi in assemblea che era assurdo far perdere l’opportunità ad un uomo che era stato nominato stratega a pieni poteri di un esercito tanto grande, essendo già l’esercito e gli alleati radunati, mentre sorteggiavano i giudici e misuravano il tempo agli oratori.
“ Parta dunque subito e con buona sorte, e una volta conclusa la guerra venga di persona a difendersi secondo le stesse leggi”. Ad Alcibiade non sfuggì la cattiveria del rinvio ma disse presentandosi ( in assemblea) che era terribile venir mandato lontano con un tale esercito mentre lasciava dietro di sé accuse e calunnie sul proprio conto; (Disse che) conveniva a lui essere mandato a morte se non fosse riuscito a demolire le accuse, ma se invece ci riusciva e appariva innocente sarebbe andato contro i nemici senza temere i calunniatori.
(Alcibiade) dal momento che non riusciva a persuadere (il popolo), ma gli ordinarono di partire, salpò con gli strateghi avendo poco meno di 140 triremi, circa 5100 opliti e circa 1300 fra arcieri, frombolieri e soldati armati alla leggera e un apparato bellico degno di lode. Sbarcato in Italia e conquistata Reggio espose il suo piano sul modo in cui bisognava combattere, e poiché Nicia si oppose mentre Lamaco lo approvò, navigando verso la Sicilia fece alleare con sé Catania ma non fece nient’altro poiché fu subito richiamato indietro dagli Ateniesi per il processo. Inizialmente infatti, com’è stato detto, su Alcibiade erano stati fatti cadere deboli sospetti e calunnie, ad opera di schiavi e meteci, poi poiché i suoi nemici si misero ad accusarlo in modo più violento, mentre lui era lontano, e collegarono alla profanazione delle Erme anche le cerimonie misteriche convinti che avessero avuto origine da un’unica congiura a scopo rivoluzionario, mandarono in prigione senza processo coloro che in modo o nell’altro erano stati accusati e si pentirono di non aver sottoposto Alcibiade ai voti allora, e di non averlo giudicato sulla base di accuse tanto gravi. Tutti i suoi parenti, amici o compagni che fossero incorsi nell’ira (dei cittadini) contro di lui, furono da loro trattati con particolare durezza.
21.7 - 9
Il popolo tuttavia non per questo placò tutta l’ira ma anzi, con più forza, eliminati gli ermocopidi come se il popolo non avesse più altri bersagli contro i quali indirizzare il proprio furore, si scagliò tutto quanto contro Alcibiade, e alla fine inviò la nave Salaminia da lui non senza prudenza avendo ordinato proprio questo, ossia di non usare violenza e di non toccarlo nel corpo ma di ricorrere a parole misurate invitandolo a presentarsi al processo e a convincere il popolo. Temevano infatti lo sconvolgimento e la rivolta dell’esercito in terra straniera, cosa che Alcibiade avrebbe facilmente potuto provocare se lo avesse voluto. E infatti quando egli partì si persero d’animo e si aspettavano che la guerra, sotto la guida di Nicia, avrebbe conosciuto molti indugi e una lentezza improduttiva, poiché veniva allontanato dall’impresa colui che spronava all’azione. Infatti Lamaco era esperto di guerra e valoroso ma a causa della sua povertà non aveva né la dignità né l’autorità (necessarie).
22.5
Alcibiade fu dunque condannato in contumacia, e i suoi beni furono confiscati e devoluti all’erario; inoltre fu decretato che tutti i sacerdoti e le sacerdotesse di Atene lo maledicessero. Delle sacerdotesse si dice che solo Teano, figlia di Menone, del demo di Agryle, si ribellò al decreto, dichiarando che era diventata sacerdotessa per invocare benedizioni e non maledizioni.
23.1 - 2
Mentre veniva votata ed emessa una tale condanna contro Alcibiade (costui) si trovava guarda caso ad Argo poiché in un primo tempo, fuggito da Turi, si era recato nel Peloponneso, ma poi temendo i nemici e rinnegando del tutto la patria mandò (una richiesta) a Sparta chiedendo che gli concedessero impunità e fiducia/ la garanzia dell’immunità, in cambio di servizi e vantaggi superiori a quelle cose in cui li aveva danneggiati, da nemico. Poiché gli Spartani glielo concessero e lo accolsero volentieri, non appena arrivato fece subito una cosa, spronando (gli Spartani) che esitavano e non si decidevano a portare aiuto ai Siracusani e insistendo a mandare Gilippo come stratega e a distruggere le forze degli Ateniesi là; poi (incitandoli) a trasferire la guerra dalla Sicilia ad Atene; per terzo e cosa più importante, a fortificare Decelea, nulla più di questo (fatto) determinò la rovina e la distruzione della città.