I parchi naturali italiani

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Testo

Anno di istituzione 1934
Quant'è grande 8.500 ettari
Ente gestore Ex A.S.F.D. - Via Carlo Alberto 107 - 04016 Sabaudia tel. 0773/511386
Si racconta che fu proprio sul promontorio del Circeo, isolato sulla pianura pontina e proteso sul Tirreno, che Ulisse, di ritorno dalla guerra di Troia, fu attirato e sedotto dalla maga Circe. Questo lembo della costa tirrenica era però famoso anche per le sue foreste, citate da Teofrasto nel primo trattato di botanica della storia, alla fine del III secolo a.C. Le selve pontine che si stendevano tutt'intorno poi, non hanno mai smesso di attirare l'attenzione dei viaggiatori, da Cicerone a D'Annunzio. Immense, impenetrabili, rifugio di una fauna oggi inimmaginabile, formavano quasi una sola grande palude, condizione un tempo comune a buona parte delle coste tirreniche dell'Italia centrale. Quasi tutte, nel corso dei secoli, sono state bonificate per ricavarne terreni agricoli. Le paludi pontine, con i loro 30.000 ettari di estensione, erano le più grandi di tutte. I racconti dei viaggiatori le ricordano coperte da una selva dal sottobosco impenetrabile, composta di querce secolari e colossali, allagata per buona parte dell'anno e quasi disabitata a causa della malaria. Un luogo selvaggio e sinistro, dunque, eppure stranamente affascinante, frequentato durante l'inverno dai cacciatori per l'abbondanza di cervi, cinghiali, caprioli, lontre, volpi, martore, puzzole. Questa grande foresta di pianura, l'ultima d'Italia e d'Europa, è rimasta immutata fino al 1920, quando venne iniziata la grande bonifica. In quattordici anni vennero distrutti 21.000 ettari di bosco e di macchia, scavati 2665 chilometri di canali collettori e 15.000 chilometri di scoline per l'acqua, costruiti 1562 chilometri di strade e venne fondata la città di Sabaudia. L'attuale parco nazionale del Circeo costituisce quanto si è salvato da quella radicale trasformazione territoriale. Grazie agli sforzi dell'Amministrazione forestale vennero infatti salvati 3260 ettari dell'antica selva di Terracina. Nel 1934, insieme al promontorio del Circeo, al lago di Paola e a un piccolo tratto di duna costiera, questi andarono a costituire il parco del Circeo, il terzo parco nazionale italiano dopo il Gran Paradiso e quello d'Abruzzo. Nel 1975 furono inclusi nel parco i tre laghi costieri di Monaci, Caprolace e Fogliano, e nel 1979 la vicina isola di Zannone. Il parco è un mosaico prezioso di ambienti costieri mediterranei: alta costa rocciosa sul promontorio, bassa duna sul litorale pontino, laghi costieri tra la duna e la foresta planiziaria.
La selva
Il grande rettangolo di foresta alle spalle di Sabaudia, appena un quarto dell'originaria selva di Terracina, è tuttavia la più grande foresta di pianura rimasta nel nostro paese. Il prosciugamento delle paludi e l'abbassamento della falda acquifera ne hanno leggermente alterato la composizione e gli alberi più legati agli ambienti umidi stanno cedendo il posto a specie meglio adattate a un ambiente divenuto più secco. Così se l'albero un tempo dominante era la farnia, oggi prevale un'altra grande quercia, più tipica dell'Europa meridionale, il cerro. D'inverno, in periodi particolarmente piovosi, l'acqua torna a ristagnare in alcune zone del bosco formando le caratteristiche "piscine", che restituiscono all'area almeno in parte l'aspetto primitivo. Lungo le rive del lago di Paola, dalla parte del mare, prosperano invece querce sempreverdi tipicamente mediterranee come il leccio e la sughera, accanto a piccoli rimboschimenti a pino d'Aleppo, pino marittimo, eucalipti e cipressi, nel cui sottobosco vive l'istrice. La fauna della selva del Circeo, pur abbastanza ricca, è solo una pallida immagine di quella di un tempo. Il mammifero più abbondante è il cinghiale. La lontra si è estinta in seguito alla bonifica, che le ha sottratto i suoi naturali habitat acquatici, e così pure il capriolo, che è stato però reintrodotto alcuni anni fa. E' presente invece il daino, insieme ai mammiferi più piccoli (tasso, volpe, lepre, puzzola, riccio, donnola, moscardino) e agli uccelli di foresta (picchio verde, picchio rosso maggiore, picchio rosso minore, ghiandaia, rampichino, picchio muratore).
Il Monte Circeo
Dall'alto dei suoi 541 metri di altezza, il monte Circeo domina il paesaggio della piana pontina. Le rocce calcaree di cui è costituito si formarono nel lontano Mesozoico ed emersero dal mare circa sette milioni di anni fa. Dal punto di vista ecologico il monte Circeo viene suddiviso in due parti distinte, i cosiddetti "Quarto Caldo" e "Quarto Freddo". Il Quarto Caldo, più ripido, è quello che si affaccia sul mare, a meridione. E' esposto tutto l'anno a una forte insolazione. Vi prospera una vegetazione rupestre mediterranea con leccio, ginepro fenicio, olivastro, euforbia arborea, mirto, lentisco, rosmarino, erica. La presenza più interessante è però quella della palma nana e, per quanto riguarda la fauna, alcune coppie di falco pellegrino che nidificano sulle pareti più scoscese. Alcune grotte sul mare del Quarto Caldo, inoltre, furono abitate da popolazioni preistoriche, probabilmente per la vicinanza di ambienti naturali ricchi di selvaggina. Sul Quarto Freddo il clima più umido e la minore influenza del mare hanno permesso lo sviluppo di una fitta macchia alta di leccio che in alcune zone è tornata a costituire una vera e propria foresta. Tra i lecci non si può fare a meno di notare, soprattutto alle quote più basse, un grande numero di alberelli di corbezzolo che all'inizio dell'inverno sono carichi dei caratteristici frutti rosso arancio. Nel sottobosco è frequente il cinghiale.
La Duna costiera
La duna costiera tra Capo Portiere e Torre Paola, nonostante la strada asfaltata che la percorre per tutti i suoi 28 km di lunghezza, è ancora uno dei più begli esempi di questo tipo di ambiente rimasto oggi in Italia. Alta fino a 27 metri, con la sua presenza ha determinato l'isolamento dei laghi costieri del Circeo dal mare. Sul lato esposto al mare la vegetazione è raggruppata soprattutto intorno ai grossi cespugli del ginepro coccolone ed è costituita da altri arbusti sempreverdi come lentisco e fillirea. Le fioriture sono in genere primaverili, ma il giglio marino, dai caratteristici fiori bianchi, fiorisce dalla sabbia in piena estate. Sul versante interno che guarda verso i laghi attecchisce anche una vegetazione un pò più esigente, tra la quale spicca il leccio. Nonostante sia frequentatissima durante i mesi estivi, la duna del Circeo ospita anche un discreto numero di animali, dal coniglio selvatico ai vari gabbiani, dalle beccacce di mare alle ghiandaie marine.
I laghi costieri
I quattro laghi costieri di Paola, Caprolace, Monaci e Fogliano sono interessantissimi esempi di ecosistema lagunare, un tempo diffusissimo lungo tutte le coste basse italiane, ma notevolmente ridotto nel corso dei secoli per combattere la malaria e far posto a nuove colture. La loro superficie non è grandissima, poco più di 1100 ettari complessivi, ma la loro importanza ecologica è notevole. Come tutti gli ambienti umidi, possiedono un'altissima produttività biologica dovuta principalmente alla bassa profondità, che favorisce la crescita di alghe e piante acquatiche, e al collegamento con il mare attraverso canali che vengono mantenuti aperti artificialmente. Queste lagune sono inoltre un importante punto di sosta migratoria e di svernamento per gli uccelli. Qui è stata osservata la gran parte delle 230 specie di uccelli del parco, tra stanziali e migratori, oltre il 50% delle specie presenti in Europa. Per questo motivo la zona è stata inclusa nella convenzione internazionale di Ramsar per la protezione delle zone umide. Tra gli uccelli più numerosi troviamo i cormorani, le folaghe e varie specie di anatidi. Più rari sono invece le cicogne bianche e nere, i mignattai, le spatole, le volpoche, i falchi pescatori. Occasionalmente si possono avvistare anche oche selvatiche, gru, cavalieri d'Italia e fenicotteri. Nelle produttive acque dei laghi costieri si allevano oggi cozze e pesci pregiati, come spigole e orate, un'attività praticata già 2000 anni fa dai romani.
L'Isola di Zannone
La piccola isola vulcanica di Zannone, appena 100 ettari di superficie che culminano sui 194 metri del monte Pellegrino, dista sedici miglia marine dalla costa. E' l'ultimo acquisto del parco nazionale del Circeo. Rimasta sempre disabitata (era una riserva di caccia privata), Zannone ha potuto conservare quasi intatta la sua vegetazione originaria. Qui si può trovare un vero bosco di leccio, con esemplari di grandi dimensioni, come ne dovevano esistere un tempo anche sulle altre isole dell'arcipelago pontino. L'isolamento di Zannone ha anche permesso la conservazione di alcune varietà endemiche (cioè esclusive dell'isola) di piante come senecio, cisto, centaurea e lavanda, e di animali, come una lucertola sicula e alcuni insetti. L'importanza naturalistica di Zannone è però dovuta agli uccelli. Oltre 200 specie sono state osservate sull'isola e tra queste alcune rarità come il falco della regina, il falco sacro, la cicogna bianca e la rondine rossiccia. All'inizio del secolo vi fu introdotto anche un piccolo nucleo di mufloni, che ancora ci vivono.
Airone cenerino
L'airone cenerino è il più comune degli aironi italiani. Deve il suo nome al piumaggio grigio. Solo il capo è bianco, con due lunghe penne nere erettili, le cosiddette "egrette". Giungono in gruppo sulle rive dei nostri fiumi e delle nostre lagune costiere in primavera, dopo aver trascorso l'inverno nell'Africa tropicale. All'arrivo, gli aironi tornano spesso a occupare la garzaia abbandonata l'anno precedente, ovvero un gruppo di grandi nidi, tutti vicini, costruiti con rami secchi sulle cime degli alberi. E' l'epoca della riproduzione. Le uova vengono covate per 25 giorni e per i 50 giorni successivi alla schiusa i genitori vanno e vengono dal nido portando ai piccoli pesci e altri piccoli animali predigeriti. La vita in colonia è necessaria per la difesa dai predatori, come i corvi. La caccia, invece, è un esercizio solitario. Immobile sulla riva o nell'acqua bassa, oppure camminando lentamente, l'airone cenerino scruta davanti a sé alla ricerca di una preda: un pesce in genere, o una natrice. Appena ne avvista una, il collo scatta fulmineo in avanti per infilzarla con il becco, lungo fino a 13 centimetri. Come tutti gli uccelli, gli aironi hanno bisogno di molto cibo in rapporto al loro peso corporeo: fino a mezzo chilo di pesce al giorno. Per questo motivo spesso non sono visti di buon occhio dai pescatori. In realtà, invece, gli aironi cenerini catturano soprattutto i pesci vecchi o malati che sono quelli che più si avvicinano alla superficie. In questo modo svolgono una selezione benefica per le popolazioni di pesci. I giovani, dopo l'involo, diventano concorrenti per la colonia e devono partire per cercarsi nuovi spazi. All'arrivo dell'autunno, comunque, tutti gli aironi riprendono il volo per l'Africa.
Capriolo
Timido e solitario, il capriolo non è un animale facile da avvistare. Anche perchè il suo ambiente preferito è quello chiuso del bosco temperato o della boscaglia, con folto sottobosco. Alla vita nel bosco il capriolo - che appartiene alla famiglia dei Cervidi - è particolarmente ben adattato. Infatti è piccolo (fino a 80 cm di lunghezza, per un'altezza alle spalle che non supera i 70 cm) e i palchi (non corna, perchè sono costituiti da tessuto osseo vero e proprio) sono corti, con tre o più diramazioni rivolte all'indietro perchè non si impiglino nei rami più bassi. Il capriolo si sa nascondere bene. I piccoli hanno il mantello scuro con strisce di macchie bianche lungo i fianchi che ricordano l'alternarsi di luce e ombra creato dal sole che si infiltra nel sottobosco. Il mantello degli adulti è invece rossiccio, che tende al bruno d'estate e al grigiastro d'inverno. Importanti per il riconoscimento sono le macchie chiare sulla gola e nella parte posteriore. Queste ultime sono reniformi nei maschi e a forma di cuore nelle femmine. I caprioli vivono insieme solo per un breve periodo dell'anno, nella stagione degli amori, alla fine dell'estate. Essendo praticamente indifesi, è probabile che i caprioli abbiano scelto di vivere isolati perchè in questo modo sono più difficilmente individuabili dai loro tradizionali predatori: lupo, volpe, lince e gatto selvatico. Questa strategia non è servita loro per difendersi dal predatore e concorrente più forte di tutti: l'uomo. Così in Italia tra la fine del secolo scorso e l'inizio del Novecento il capriolo è scomparso in tutto l'Appennino settentrionale e centrale, dove è stato reintrodotto in molte località solo di recente. Tre piccoli nuclei originari sono invece sopravvissuti sul Gargano, a Castel Porziano e su alcune montagne della Calabria.
Cinghiale
Dovunque la vegetazione sia abbastanza fitta da offrirgli un nascondiglio, lì può vivere il cinghiale, uno dei mammiferi italiani più adattabili. Progenitore delle varie razze di maiali domestici, lo si può incontrare nei boschi lungo le coste, come in montagna. Fatta eccezione per il lupo, che può divorarne intere cucciolate, il cinghiale non ha quasi nemici naturali. I suoi lunghi canini - oltre naturalmente alle notevoli dimensioni - costituiscono infatti una temibile arma sia di offesa che di difesa. Non ha neppure troppe preferenze alimentari. Nella sua dieta rientrano ghiande, faggiole (i frutti del faggio), vari tipi di erbe tenere, ma anche piccoli roditori, rane, serpenti, chiocciole, vermi, larve di insetti, uova di uccelli, persino le carogne di grandi animali morti come lepri e caprioli. La vista del cinghiale non è molto buona. In compenso sono sviluppatissimi l'udito e l'olfatto, utili rispettivamente per accorgersi in tempo dell'avvicinarsi di un pericolo e per trovare il cibo. La vita dei grandi maschi è solitaria, ciascuno all'interno del suo territorio. Solo all'inizio dell'inverno, nella stagione degli accoppiamenti, si avvicinano ai branchi delle femmine e dei piccoli. E' allora che si scatenano i combattimenti per il possesso delle femmine, in posizione testa-coda, fatti di poderosi colpi delle spalle e spesso anche delle zanne. Per ridurre il rischio di gravi ferite, le spalle di questi animali sono protette da un ispessimento dei tessuti. Il numero di piccoli per ogni femmina varia ogni anno a seconda della disponibilità di cibo. I nuovi nati restano poi anche quindici settimane insieme alla madre, che li allatta e li protegge, mostrando nei confronti degli intrusi una fortissima aggressività. In questo periodo i piccoli, dal caratteristico mantello striato che li mimetizza tra la vegetazione, restano per lo più nella tana. All'età di un anno i maschi si allontanano, mentre le femmine restano nel branco nel quale sono nate.
Cormorano
Un grande pescatore: è questo il complimento migliore per il cormorano comune, il grande uccello nero parente del pelicano diffuso lungo i fiumi, i laghi e le aree costiere di buona parte del mondo. E' facile vederlo mentre si riposa sul ramo di un albero o in cima a un palo isolato in mezzo all'acqua. Il cormorano si tuffa nell'acqua per catturarvi pesci, granchi e cefalopodi fino agli 8-10 metri di profondità, inseguendoli e afferrandoli con il becco robusto e seghettato. Un'apposita membrana nittitante permette loro di vedere anche sott'acqua, dove possono restare per un minuto circa. A volte gruppi di cormorani possono collaborare all'accerchiamento dei pesci. Una volta catturata la preda, il cormorano se la porta in superficie, la lancia in aria e la inghiotte intera. In una giornata, può arrivare a mangiare oltre mezzo chilo di pesce. Dopo, apre le ali e lascia che il sole gli asciughi il piumaggio. Al contrario degli altri uccelli acquatici, infatti, le penne del cormorano non sono impermeabili. In realtà non si tratta di uno svantaggio, come potrebbe a prima vista sembrare, perchè l'aria, sfuggendo tra le penne, non risospinge l'uccello verso la superficie durante la pesca. Una curiosa abitudine dei cormorano è quella di riunirsi alla sera in colonie in luoghi lontani anche diverse decine di chilmetri dalle aree di pesca. Una vera e propria forma di pendolarismo, quindi, che costringe questi uccelli a lunghi spostamenti quotidiani. La ragione di questo comportamento, così dispendioso, non è ancora del tutto chiara. Sembra però che in questi rifugi serali cormorani che pescano in zone diverse si scambino informazioni sui luoghi più ricchi, in modo tale da concentrarsi lì il giorno successivo.
Daino (Dama dama)
Originario dell'Asia Minore (Libano e Palestina) il daino (Dama dama) è stato introdotto in Italia al tempo dei fenici. Appartenente alla famiglia dei cervidi, il daino si di stingue dal suo cugino nobile per le minori dimensioni e le macchie bianche sul mantello presenti anche in età adulta. Ma il carattere più inconfondibile è rappresentato nei maschi dalle caratteristiche corna palmate (anzichè ramificate) che possono raggiungere la lunghezza di 80 cm ciascuna. Si ciba di foglie, gemme e rametti teneri ma non disdegna la frutta selvatica e le piante erbose. Schivo e pauroso, vive all'interno di faggete, boschi di querce e di acero e ama trascorrere molto del suo tempo nelle radure a poca distanza dal bosco. Il periodo degli amori comincia solitamente a ottobre quando, dopo complessi comportamenti messi in atto dai maschi per attirare le femmine, avviene l'accoppiamento. Otto mesi dopo, quando le felci e le erbe del sottobosco sono abbastanza folte da costituire un adeguato riparo, le femmine partoriscono in solitudine un piccolo che viene allattato per un breve periodo. Nei maschi la prima caduta delle corna avviene intorno ai 23 mesi di vita, nel periodo aprile - maggio. Nel nostro Paese il daino si è estinto ed è stato reintrodotto per cui non è piu presente con una popolazione originaria. L'ultima è stata, infatti, decimata in Sardegna negli anni '60 da cacciatori e bracconieri.
Falco pellegrino
Dalle coste marine alle montagne, dovunque ci siano ambienti aperti, rupi alte e inaccessibili e poco disturbo da parte dell'uomo, vive il falco pellegrino. Incarnazione per gli egizi del dio Horus, citato da Aristotele e da Plinio, impiegato in falconeria sin dai primi secoli del Medioevo, il falco pellegrino è sicuramente il più spettacolare dei rapaci. La sua specialità infatti è l'attacco in volo agli altri uccelli, soprattutto piccioni. E a questo lo ha preparato la selezione naturale: corpo perfettamente aerodinamico, ali lunghe e appuntite, coda corta, artigli lunghi e sempre perfettamente affilati. In volo di perlustrazione, o appollaiato su una posizione dominante, il falco pellegrino scruta il passaggio sottostante in attesa del passaggio di una preda. Quando ne ha avvistata una, si getta in picchiata ad ali chiuse a velocità che possono raggiungere i 210 chilometri l'ora, cogliendola di sorpresa. Contrariamente a quanto si immagina, il falco non si getta direttamente sulla vittima, perchè a quella velocità l'urto gli spezzerebbe le zampe. La sfiora soltanto con l'artiglio posteriore, per poi raccoglierla direttamente in volo, oppure a terra. Se è ancora viva, la finisce con un colpo di becco. In Italia, il falco pellegrino è sedentario. Nidifica in piccole cavità inaccessibili ai predatori sui fianchi delle rupi, che sistema sommariamente con erbe e rametti. Maschio e femmina, dopo una spettacolare parata nuziale nel corso della quale il maschio offre alla compagna una preda che lei afferra in volo, restano uniti per tutta la vita. I piccoli affrontano il loro primo volo circa 40 giorni dopo la nascita, che ha luogo in aprile. Dopo due mesi, nel corso dei quali devono imparare dai genitori la tecnica di caccia tipica della specie, i piccoli falchi sono liberi di "cercare fortuna" per proprio conto.
Istrice
L'istrice, che molti chiamano anche porcospino, non è in realtà un animale italiano. E' venuto nel nostro paese dall'Africa settentrionale e occidentale, portato dai Romani che ne avevano apprezzato le carni gustose, solo 2000 anni fa. Ma ci si è trovato benissimo, al punto che oggi è molto comune in tutte le regioni ricche di boschi a clima mediterraneo, fino ai 1000 metri di altitudine. Vederlo, però, non è facile, perché è attivo solo di notte e trascorre le sue giornate in profonde tane sotterranee, in piccoli gruppi. Secondo Roditore europeo per dimensioni, dopo il castoro, l'istrice è ben conosciuto per i lunghi aculei dai caratteristici anelli bianchi e neri, grazie ai quali si difende dai predatori. Si tratta di peli trasformati, concentrati per lo più al centro del dorso, di lunghezza variabile tra i 12 e i 40 centimetri. Quando incappa in un predatore, l'istrice cerca di intimidirlo gonfiando la criniera e gli aculei, volgendogli le spalle. Durante questa operazione alcuni aculei possono staccarsi, o addirittura essere scagliati a breve distanza in conseguenza delle intense contrazioni muscolari. Gli aculei, pur non essendo velenosi, possono procurare ferite serie. L'istrice è un animale vegetariano, che si nutre di radici, tuberi, frutta e corteccia d'albero. D'inverno non cade in letargo, ma si limita ad assopirsi leggermente. I piccoli nascono in primavera, e i loro aculei, morbidi alla nascita, si induriscono nei primi giorni di vita.
Volpe
"Furbo come una volpe", si dice. Gli etologi non sono d'accordo con questa antica credenza popolare. Il lupo ad esempio, parente stretto della volpe, è molto più intelligente di lei e molto più bravo a sfuggire ai cacciatori. Altre, secondo loro, sono le qualità che hanno fatto il successo della volpe, un animale che vive nei boschi e nei campi, come nelle paludi, e sempre più spesso si avventura fin nei parchi e nelle periferie delle città. Più che furba, infatti, è estremamente prudente. Quasi sempre l'olfatto, l'udito e la vista acutissimi la avvertono in tempo dei pericoli. La capacità della volpe di accontentarsi delle più diverse fonti di cibo è proverbiale. In quanto carnivoro predatore cattura topi, lepri, anatre, fagiani, persino piccoli di capriolo. In caso di necessità però caccia anche pesci, lucertole e piccoli uccelli, che inganna fingendosi morta, e non isdegna neppure lombrichi, lumache, larve di insetti e rane. Anche rifiuti di ogni tipo rientrano nella sua dieta, e molto spesso anche frutta matura come uva, susine e mirtilli. Le volpi vivono in tane sotterranee, per le quali scelgono luoghi soleggiati, e riutilizzano anche vecchie tane di tassi o di conigli selvatici, che allargano. Il territorio circostante può avere un'estensione molto variabile, a seconda della disponibilità di cibo: dai 5 ai 50 chilometri quadrati. Nel nido nascono i piccoli, da tre a cinque, alla fine della primavera. Nelle prime settimane di vita la madre li nutre e li protegge dai predatori. L'infanzia infatti è il momento più rischioso nella vita di una volpe. Aquile, astori, gufi e gatti selvatici possono facilmente catturare i volpacchiotti. Molto più difficile, se non impossibile, è invece catturare una volpe adulta, che oltre ad essere prudente è velocissima nella fuga e possiede comunque una temibile dentatura.
Acero (Acer campestre, Acer pseudoplatanus)
L'acero, presente in Italia soprattutto nelle varietà campestre e montano, è diffuso in un'area che va dall'Europa centromeridionale al Caucaso, fino a raggiungere il nord dell'Inghilterra e della Scandinavia nel caso dell'acero campestre (A. campestre).
L'acero campestre è assai frequente nei boschi di latifoglie e cresce fino ai 1200m di altitudine. Si insedia preferibilmente in posizioni soleggiate e su terreni freschi, evitando sia i terreni troppo umidi che quelli troppo aridi. Il tronco è contorto, spesso con portamento arbustivo, e non supera di norma i 10-15 metri di altezza, la chioma è leggera e poco ombreggiante. Le foglie assumono una splendida colorazione giallo intenso nel periodo autunnale. Essendo una specie che cresce lentamente viene utilizzata come pianta ornamentale per la creazione di siepi. Il legno viene invece impiegato per la costruzione di manici di attrezzi e come combustibile. L'acero montano (A. pseudoplatanus) vive quasi esclusivamente nei boschi settentrionali collinari e montani, fino ai 1800 metri di altitudine. Si tratta di una pianta ad accrescimento rapido che predilige i terreni freschi e umidi e può raggiungere i 25-30 metri di altezza. Si trova di frequente nei boschi di abete bianco e rosso e in quelli di faggio. Il legno, di color bianco avorio venato di bruno, è pregiato e resistente e viene utilizzato per la costruzione di mobili, manici di attrezzi, utensili da cucina e strumenti musicali.
Leccio
Il leccio è l'albero più importante della foresta sempreverde mediterranea. Dalla Palestina a Gibilterra, questa quercia prospera ovunque gli inverni sono miti e le estati calde e asciutte. In Italia è presente su tutte le coste ad eccezione del litorale padano, da Ravenna alle foci del Tagliamento, vera e propria "isola" climatica fredda nel nostro paese. Non solo. Il leccio domina anche la vegetazione dei versanti meridionali delle Alpi marittime e dell'Appennino ligure, e le quote più basse dei rilievi della Toscana, del Lazio, dell'Umbria e della Campania, ed è presente ai piedi delle Alpi dove il clima lo consente, come nella Val d'Adige e intorno ai grandi laghi.Il leccio deve il suo successo ad alcuni adattamenti che gli consentono di sopportare agevolmente l'aridità estiva, e di resistere all'azione spesso distruttiva dell'uomo. Innanzitutto le foglie lanceolate, verde cupo lucente sul dorso, argentee e coperte da una fitta lanugine sulla pagina inferiore, capaci di trattenere efficacemente l'acqua dei tessuti. Quando la pianta è giovane, e poi solo sui rami più bassi, le foglie sono spinose, per difendersi dal pascolo degli erbivori. Ma il vero segreto è nelle radici, che sono capaci di emettere nuovi polloni, o gemme, nel caso in cui il tronco sia stato bruciato da un incendio, tagliato, o attaccato dai parassiti. Questa capacità di rigenerarsi ha avuto due importanti conseguenze. La prima è che il leccio può assumere forme molto diverse, dalla macchia bassa, fitta e impenetrabile, quando è soggetto a frequenti incendi o tagli, ai fusti colonnari, alti fino a 15-18 metri, dove non viene disturbato e il suolo è fertile e profondo. La seconda è che, una volta insediato, può resistere per secoli, probabilmente per millenni. Per questo, grazie all'uomo, si è col tempo imposto su molte altre specie della foresta mediterranea, divenendone l'albero di gran lunga dominante. Proprio la sua straordinaria vitalità dovette suggerire a greci e romani di dedicare il leccio a Pan, il dio simbolo della fecondità della natura.
Palma nana
L'unica palma che cresce spontanea in Italia (e, a parte la poco conosciuta palma di Creta, anche in Europa) è la palma nana. Giunse nel nostro paese circa 60 milioni di anni fa, insieme a decine di altre specie di palme. Il grande raffreddamento del clima dell'ultimo milione di anni, con le grandi glaciazioni, ne provocò poi l'estinzione. La palma nana però sopravvisse sulle più calde coste del Nordafrica, e i suoi semi furono probabilmente riportati sulle nostre coste dagli uccelli migratori.Oggi la palma nana vive su quasi tutte le coste del Mediterraneo occidentale. In Italia si è stabilita lungo il litorale tirrenico, dalla Liguria alla Sicilia, e in Sardegna. Un tempo doveva essere molto più comune, come si deduce da alcuni passi di Cicerone e Virgilio sulla Sicilia, oltre che di diversi viaggiatori del Settecento e dell'Ottocento. Vittima, come buona parte della vegetazione mediterranea originaria, del fuoco, del pascolo e dell'agricoltura, è divenuta purtroppo molto rara. La si può ancora trovare sulla falesie e i dirupi aridi, oltre che del Circeo, dell'Uccellina, della Maremma toscana, dell'Argentario, del Cilento dell'isola di Palmarola (che a questa pianta deve probabilmente il suo nome), di Capo Passero e della Sardegna occidentale. La palma nana si chiama così perché allo stato spontaneo cresce in densi cespugli che non superano i due-tre metri di altezza. Se coltivata invece può assumere un portamento eretto e raggiungere i sette-otto metri di altezza. Per questo motivo, e per essere di facile coltivazione, è molto utilizzata come pianta ornamentale nei giardini. E' anche longeva: una palma nana conservata nell'Orto botanico di Padova è stata impiantata nel 1585, più di 400 anni fa. Viene ancora chiamata "Palma di Goethe" perché il grande poeta tedesco si fermò ad ammirarla durante il suo famoso viaggio in Italia.
Pino d'Aleppo
Quasi un terzo delle foreste del Gargano sono costituite da pino d'Aleppo. Per un parco che con tre lati si affacciano sul mare, non è un caso. Questo albero infatti è uno dei più tipici delle coste più calde del Mediterraneo, dal Marocco alla Turchia, dalla Spagna alla Siria. E proprio dalla città siriana di Aleppo prende il suo nome. Il pino d'Aleppo si trova in genere nei più aridi e poveri terreni calcarei, dove neppure il leccio riesce ad attecchire. Nella gariga (la formazione di bassi e radi cespugli caratteristica di molte nostre aree costiere) la sua caratteristica forma a ombrello che può raggiungere anche i 15-20 metri di altezza è una presenza familiare. Nel suo sottobosco sono spesso presenti il rosmarino, il timo e l'oleastro e i 15-20 metri di altezza) è una presenza familiare. Nel suo sottobosco sono spesso presenti il rosmarino, il timo e l'oleastro, tutti arbusti particolarmente ben adattati alla mancanza d'acqua. Proprio nelle aree a gariga, secondo alcuni studiosi, sorgevano una volta foreste di pino d'Aleppo, poi distrutte dall'uomo. Oggi però il pino d'Aleppo viene usato per i rimboschimenti, sia perché è in grado di colonizzare gli ambienti più difficili, sia perché cresce molto velocemente. Nel passato è stato piantato anche in regioni nelle quali non era mai cresciuto, al punto che è diventato difficile riconoscere le formazioni naturali di pino d'Aleppo da quelle importate. In Italia il pino d'Aleppo si trova lungo le coste e sulle isole, e nel Meridione si spinge fino a 600-700 metri d'altitudine.

Uno sterminato altopiano con al centro elementi di eccezionale valore: la palude omonima che raccoglie rare specie floristiche e vegetazionali e che ospita uccelli acquatici, gasteropodi e anfibi; il monte orve ed il suo castelliere preistorico; le testimonianze archeologiche della città romana di Plestia. Il paesaggio intatto dei piani carsici e dei colli è quello, immutato della storia delle civiltà agricolo-pastorali dell'Appennino.
Il Parco
• Gestore: Consorzio fra Enti Pubblici
• Sede: Piazzetta del Reclusorio, 1 int. 4 - 06034 Foligno (PG)
• Tel: 0742/349714
• Fax: 0742/342415
• E-mail: [email protected]
• Superficie: 338 ha
• Provincia: Perugia
• Istituzione: 1995
• Come si raggiunge:
In treno: Stazione di Foligno - linea Roma-Ancona.
In auto: Strada Statale Flaminia da Terni - Strada Statale 75bis da Perugia. Perugia dista Km 35, Roma Km 130

Il Territorio
Il Parco è compreso nel comparto dell'Appennino centro- occidentale, all'interno di un complesso di conche tettonico-carsiche pianeggiante e di grande estensione, compreso tra Umbria e Marche e denominato Altipiani di Colfiorito.
L'altipiano è composto da sette conche che costituiscono il fondo di antichi bacini lacustri, prosciugatisi sia naturalmente che per opera dell'uomo.
La Palude di Colfiorito è l'entità più significativa del complesso fenomeno: ha forma tondeggiante, superficie di circa ha 100 con fitta vegetazione acquatica. La Palude è stata dichiarata di interesse internazionale dalla convenzione di Ramsar per le caratteristiche della sua torbiera, per le ricchezze di specie vegetali e quale habitat eccellente per l'avifauna.

Il sistema dei piani è racchiuso dalle dorsali calcaree, scandito da sistemi collinari e gli Altipiani di Colfiorito segnano un grande cambiamento del paesaggio che da scosceso ed aspro diviene dolce ed ondulato.
Intorno ai piani carsici, in cima ai colli, sono i "castellieri", modello insediativo predominante dalla fine del X secolo a.C. fino alla conquista romana. Tra tutti i castellieri è compreso nel Parco quello di Monte Orve e, oltre all'abitato di Colfiorito, sono interni all'Area Naturale Protetta i resti dell'antica città di Plestia. Il territorio degli altipiani è utilizzato, oltre che per le coltivazioni tradizionali dei cereali e dei foraggi, soprattutto per quelle delle lenticchie e delle patate rosse. La popolazione dell'area di gravitazione diretta del Parco è di circa 5.000 abitanti. Ancora sul territorio gravitante sul Parco sono insediati caseifici che trasformano il latte localmente prodotto in formaggi e ricotta di alta qualità. Il centro urbano di Colfiorito offre un buon livello di strutture ricreative e ricettive.

Istituito nel 1934, il Parco del Circeo è nato per tutelare non una singola specie ma un ricco insieme di biomi (associazioni di piante ed animali coesistenti determinata ed influenzata da fattori ambientali) caratteristici con una conseguente estrema ricchezza di specie oggi definita come biodiversità.
Il Parco
• Gestore: Parco Nazionale del Circeo
• Sede: Via Carlo Alberto, 107 - 04016 Sabaudia (LT)
• Tel: 0773/511385
• E-mail: [email protected]
• Superficie: 8.500 ha circa
• Provincia: Latina
• Istituzione: 1934

Ubicato lungo la costa tirrenica dei Lazio meridionale, circa 100 km a sud di Roma, nel tratto di litorale compreso tra Anzio e Terracina, il Parco Nazionale del Circeo si estende per circa 8.500 Ha interamente in provincia di Latina nell'ambito dei territori comunali di Latina, Sabaudia, San Felice Circeo e, per la parte insulare dell'Isola di Zannone, Ponza.
Grazie alla sua istituzione, avvenuta quando l'intera area pontina era sottoposta ai radicali interventi di prosciugamento ed appoderamento della Bonifica Integrale, venne evitato il totale disboscamento dell'antica ed inospitale "Selva di Terracina" di cui una piccola porzione risparmiata dal taglio costituì, insieme al Lago di Sabaudia, alla Duna Litoranea ed al Promontorio del Circeo, la prima configurazione territoriale del Parco; con vari successivi provvedimenti, poi, il Parco del Circeo ha via via modificato la quantità (variazioni territoriali) e la qualità (istituzione Riserve Naturali e riconoscimenti internazionali di valore ambientale) della sua base territoriale

La Fauna
Sia per la dislocazione geografica coincidente con le principali rotte migratorie, sia per l'estrema varietà di habitat integri che offre, il Parco del Circeo, con circa 25 specie diverse di uccelli osservate con i censimenti degli ultimi anni, ha nell'avifauna la principale e più rilevante componente faunistica: in particolare, tra le specie osservate, si evidenziano le numerosissime presenze di Folaghe e Cormorani e le pregevoli presenze di specie rare come il Falco Pellegrino, il Falco Pescatore, l'Aquila di Mare, la Gru, il Fenicottero, la Spatola, ecc.
Minore è la ricchezza, con circa 20 specie, dei mammiferi per i quali, nell'ambito dei programmi di conservazione e recupero globale degli ambienti naturali, sono in corso studi e valutazioni sull'opportunità e le possibilità di reintroduzione di alcune specie.
Particolarmente interessanti, inoltre, sono le presenze di numerosissimi insetti, rettili (cervone, natrice, biacco, orbettino, vipera comune, testuggine d'acqua, testuggine greca), anfibi (rospo, rana, tritone) e Pesci (nei laghi cefalo, anguilla, spigola, orata, sarago, sogliola - nei canali carpa, tinca, gambusia, persico sole).
Nella realtà del Parco, la componente faunistica, in virtù di un equilibrio dinamico con tutte le altre componenti ambientali, la troviamo sommariamente suddivisa tra i vari habitat coincidenti, nelle grandi linee, con i descritti cinque ambienti:
La Foresta ospita: cinghiale, daino, capriolo, tasso, volpe, lepre, puzzola, riccio, donnola, pipistrello, talpa, toporagno, moscardino - beccaccia, colombaccio, colombella, tortora, cuculo, gufo, civetta, allocco, barbagianni, falco pecchíaiolo, poiana, gheppio, lodolaio, nibbio bruno, picchio verde, picchio rosso minore, picchio rosso maggiore, tordo, merlo, pettirosso, usignolo, passera scopaiola, cinciallegra, cinciarella, scricciolo, ecc.
Nel Promontorio troviamo: volpe, cinghiale, tasso, donnola, riccio, lepre, pipistrello - piccione selvatico, rondine, rondone pallido, passero solitario, occhiocotto, magnanina, balestruccio, topino, averla, fanello, quaglia, falco pellegrino, poiana, sparviero, ecc.
Nella Duna vivono: volpe, coniglio selvatico, donnola, tasso, istrice - ghiandaia marina, upupa, pigliamosche, sterpazzola, capinera, verzellino, rigogolo, beccaccia di mare, gabbiani, ecc.
Nelle Zone Umide si osservano: volpe, istrice, riccio - falco pescatore, falco di palude, falco cuculo, grillaio, Gufo di palude, fagiano, fischione, codone, marzaiola, mestolone, moriglione, porciglione, gallinella d'acqua, folaga, piviere, pivieressa, pavoncella, gambecchio, piovanello, combattente, pettegola, pantana, pittima, chiurlo, avocetta, cavaliere d'Italia, cicogna bianca, airone cenerino, airone rosso, garzetta, ecc.
Nell'Isola di Zannone, oltre a numerosi migratori comuni agli altri ambienti, troviamo il falco di palude ed il falco pellegrino, alcuni importanti endemismi tra cui lucertole, lepidotteri ragni ed ortotteri ed un mammifero, il muflone, importato sull'isola intorno agli anni '20.

La Flora
Oltre a quanto detto nella descrizione ambientale del Parco in merito alla vegetazione che nei vari ambienti ne riveste il territorio, si forniscono, di seguito, alcune informazioni di dettaglio relative a talune delle specie più significative di ciascun ambiente: nella Foresta predominano le varie specie quercine, dal Cerro alla Famia, dal Leccio alla sughera, che ricoprono un ricco sottobosco con abbondanza di edera e di ricche fioriture di ciclamino; nel Promontorio il versante nord è ammantato da una lussureggiante foresta termofila di Leccio con abbondante presenza di corbezzolo mentre sul lato opposto verso il mare spiccano le presenze del ginepro fenicio, con il suo contorto portamento dovuto al vento marino, e la palma nana; nella Duna il consolidamento del substrato sabbioso contro gli agenti erosivi è opera di numerosissime specie tra cui spiccano il ginepro coccolone, massima espressione vegetazionale della duna, ed il giglio marino, capace di dare splendide e durature fioriture estive nonostante le proibitive temperature che si raggiungono; nelle Zone Umide accanto ad alcune specie alofile e palustri che circondano le sponde dei laghi e delle aree impaludate le ampie distese a pascolo che completano l'area sono caratterizzate dalla presenza dei caratteristici ciuffi del giunco; nell'Isola di Zannone, tra le specie mediterranee tipiche della macchia che conferiscono al paesaggio dell'isola un aspetto lussureggiante con intense fioriture multicolori spiccano le presenze di alcuni endemismi e di un esemplare di quercia castagnara unica specie caducifoglia dell'isola.

Aspetti preistorici ed archeologici
Lo splendido mosaico ambientale del Parco è inoltre arricchito da importanti ritrovamenti di reperti preistorici ed archeologici testimonianza della presenza dell'uomo al Circeo sin da epoche remote.
Le numerose grotte ed i ripari naturali del promontorio sono, infatti, importantissimi siti preistorici nei quali,oltre al ritrovamento di un cranio dell'uomo di Neanderthal (prof. Blanc, Grotta Guattari, 1939), numerosissime sono le altre testimonianze (resti fossili, reperti litici, ecc.) che possono rendere un'idea della presenza dell'uomo e delle sue attività nel corso delle ere preistoriche.
I reperti archeologici, invece, sono in buona parte riferibili all'epoca romana, sia imperiale che repubblicana, quando la notevole capacità tecnica dell'epoca consentì la realizzazione di opere di raffinata ingegneria residenziale ed idraulica, come il porto canale di Torre Paola od il complesso termale-residenziale della Villa di Domiziano, giunte sino ai nostri giorni.
Dal complesso della Villa di Domiziano provengono importanti reperti artistici esposti in vari musei, come l'Apollo di Kessel ed il Fauno con flauto traverso, che ornavano gli ambienti residenziali e termali dell'insediamento imperiale.

Zona umida di interesse internazionale ai sensi della Convenzione di Ramsar. La palude é una testimonianza relitta di zona umida sopravvissuta alle opere di bonifica delle antiche Valli Grandi veronesi. Costituisce l'habitat ideale per una ricca avifauna stanziale e migratoria.
Il Parco
• Gestore: Ente Parco Naturale del Fiume Sile
• Sede: Via Tandura, 40 - 31100 Treviso
• Tel: 0422/321994
• Fax: 0422/325475
• Superficie: 3.097,61 ha
• Provincia: Treviso
• Istituzione: 1991

Il fiume e il territorio
Il fiume è sovente l'elemento unificatore e la vera chiave di lettura delle vicende storiche, economiche, artistiche, tecnologiche, delle vocazioni e dei condizionamenti dei territori che attraversa, dalle sorgenti fino al mare.
L'acqua, quella particolare acqua che scorre in ciascun fiume, è la vera interprete della vita quotidiana: risorsa idrica ed economica, fonte di sussistenza e di reddito, indispensabile ai lavori di tutti i giorni, necessaria alla difesa, grande via di comunicazione. Ma anche il colore del fiume, il suo rumore, la temperatura dell'acqua, la velocità della corrente, il clima che genera, si riflettono nel mondo esterno che brulica tutt'intorno. Il Fiume è padre, madre, fratello, vita, morte, castigo - un dio. E ancora: è voce, ambasciatore, nunzio, presagio.
Gli uomini che vivono sulle rive dei fiumi sono simili nel sentire ovunque, a qualsiasi latitudine, a qualsiasi livello di civilizzazione siano giunti. Ogni fiume porta con sè un destino, scritto nell'acqua. Bisogna parlare con un uomo di fiume, un uomo che vive vicino ad un rivo anche piccolo, per capire quanto la sua storia si innesti in quella del fiume e il fiume viva in lui, con quello che ha di bene e di male, con quello che porta e porterà.
Anche il Sile ha questa forza.
Fin dai tempi più remoti il clima mite dell'area, la navigabilità delle acque, la vicinanza con il mare, la copiosità di risorgive e la ricchezza boschiva del territorio circostante (il paesaggio, per quanto simile, non era comunque quello attuale) attraggono al Sile popolazioni che si fermano lungo le sue rive. Numerosi reperti di un'importante cultura palafitticola lo testimoniano.
Pur essendo evidenti in tutta l'area i segni del riassetto territoriale dovuto a terribili eventi naturali, alluvioni di tali proporzioni da cancellare per secoli "civiltà e memorie", l'uomo continuò a tornare e a fermarsi lungo quelle sponde, possiamo supporre per la natura davvero particolare delle acque e per le felici coincidenze ambientali che si venivano a ricreare.
Sull'antica pianura alluvionale, una grande "spugna" di ghiaie e argilla sulla quale tuttora "galleggiamo", formatasi 14-17 mila anni fa con il ritiro dei ghiacciai e al cui centro scorre il Sile, si susseguirono i primitivi dell'età della pietra, la civiltà del bronzo e quella del ferro; vennero poi i Romani, i Comuni, la Repubblica Veneta, fino all'era industriale e consumistica dei giorni nostri.

L'acqua nasce dalla terra come per magia. Sgorga senza sosta, silenziosa e limpida. Fontanassi (questo termine lo scriviamo come più frequentemente si pronuncia: si scrive "fontanazzi", ma la "z", in dialetto trevigiano si legge "s", esse sorda, dimenticandosi di far sentire la doppia), dicevamo fontanassi un po' ovunque, a sud di Casacorba, che, allagando tutt'intorno, rendono la "natura del suolo incerta fra la terra e l'acqua". Il posto, un tempo selvaggio, mantiene una cert'aura di mistero. Sacre agli antichi, le risorgive abbondano di storie paurose e alle leggende pagane si mescolano quelle cristiane. Qui la fantasia popolare fa sprofondare nelle sabbie mobili interi paesi, carri di fieno e, come agli inferi, con carrozza e cavalli, la malvagia padrona delle terre circostanti. Ma per i contadini che si sono succeduti nell'alto Sile, i paleoveneti prima, i veterani delle legioni romane e i servi della gleba poi, fino ai mezzadri di qualche decennio fa, tutta l'area delle risorgive e delle paludi, fin oltre Quinto, resta pur sempre zona di riserva, per la caccia, la pesca, per il foraggio e l'approvvigionamento di legname, da costruzione e per le colture agricole.
Il Sile nasce qui, nella piatta campagna, anche se è dalle Prealpi che incorniciano la pianura a nord (Grappa, Monte Tomba, Monfenera) che giungono le sue acque dopo un lungo percorso sotterraneo. Acque piovane assorbite dai pascoli e filtrate lentamente, e acque del Piave precipitate nel sottosuolo attraverso le ghiaie fino a incontrare vasti strati argillosi e impermeabili che le costringono a tornare in superficie.
Il Fontanasso de la Coa Longa è certamente uno dei superstiti più significativi e tra i più accreditati come sorgente del Sile, anche se tutta l'area è coinvolta nel fenomeno e una prima risorgiva si trova ed è ben visibile nei pressi della "Casa del prete", un po' più a nord, dove è programmato un Centro Parco. L'acqua delle polle sorgive, in parte celate da un folto intrico di piante e rovi, si fa largo tra le erbe palustri formando ben presto un fossatello limpidissimo, con fondo ghiaioso, striato di verdi alghe sinuose. Il Sile appena nato s'allunga e s'allarga nella campagna tra rive frondose e canneti, allagando vecchie cave e formando piccoli stagni ricchi di ninfee. Pochi chilometri e il fiume ha già la portata e l'energia necessarie per far funzionare un mulino.

I mulini del Sile, situati lungo tutto il suo corso, ma principalmente tra Quinto e Silea, ne caratterizzano la natura di fiume di risorgiva a regime d'acqua costante, scevro, almeno un tempo, dal pericolo delle piene.
Località "I mulini", via "Molinelle", località "Munaron", via "Munara" sono toponimi che ricorrono lungo il Sile, anche se, per lo più, i nomi dei mulini erano quelli dei loro proprietari: Favaro, Bordignon, Granello, Rachello, Torresan, ma anche mulino "degli Angeli", cioè della congregazione monastica di Santa Maria degli Angeli. Dopo Morgano e Santa Cristina del Tiveron, dove si può sostare ad ammirare la pala dipinta nei primi del '500 da Lorenzo Lotto, giungiamo a Quinto. Qui abitava in villa un altro pittore, vissuto nell'800, che potremmo definire il pittore del Sile, Guglielmo Ciardi. Le sue vedute luminose del fiume con barcaioli, lavandaie, mulini, chiuse, e, oltre le sponde, della campagna assolata, testimoniano la straordinaria industriosità legata al fiume, punto d'incontro tra forme diverse di economia.
A Quinto, località sicuramente rinomata anche per le anguillette fritte, il Sile s'allarga a formare quasi un lago, sorto in seguito alle massicce escavazioni e che adesso misura oltre venti metri di profondità. L'importante sequenza dei mulini che formano il nucleo centrale del paese sta a testimonianza dell'imponente "industria" molitoria del Sile. Va ricordato infatti che Treviso (e dintorni) era soprannominata "il Granaio della Repubblica" perché da qui proveniva gran parte della farina destinata a Venezia.
A Silea, la Chiari & Forti, ex Mulini Toso, oggi grande industria di trasformazione di prodotti agroalimentari, il Porto e il Cimitero dei burchi (ma anche le fornaci di mattoni che troviamo più a valle) parlano di un passato economico glorioso per il fiume.
Da Quinto è abbastanza semplice e piacevole scendere la corrente in barca, o in kayak, fino a Treviso. E' l'unico modo, salvo qualche riva erbosa percorribile a piedi, per conoscere il fiume in questo tratto. Le strade che lo costeggiano ad una certa distanza infatti (meno trafficata quella sulla riva destra) non offrono grandi attrattive, mentre sovente si vedono partire ed atterrare con gran fragore voli charter nel perimetro dell'areoporto di San Giuseppe, tra Quinto e Treviso.
Spesso, dopo il ponte sulla tangenziale sud, capita di vederci venire incontro qualche armo della Canottieri Sile. E' segno che stiamo arrivando in città.

Il Sile lambisce il lato sud del centro storico di Treviso, accogliendo lungo la sponda sinistra le acque dei "canali" che, provenienti da nord, attraversano la città "irrigandola". E l'acqua, anche dentro le mura, è stata e in parte è ancora, ispiratrice nella rappresentazione delle cose, plasmatrice del carattere, risorsa economica.
Spontaneamente e gioiosamente, segno e colore, dolcezza e bellezza, e la schietta ospitalità (decine e decine di ristoranti e osterie: ecco la Marca "gioiosa et amorosa"), si fondono rispecchiando la lucentezza, la garrula allegria, la trasparenza delle acque, ma anche la luminosità e la mitezza dell'aria.
Annota il Mazzotti a proposito del clima: "Fra le case della città, di qua dal Ponte di San Martino, il Sile trascina un altro gran fiume: un fiume d'aria che si avverte fresco sostando sui ponti nelle sere d'estate." Vicino a quei ponti, a iniziare da giugno, troviamo le bancarelle di angurie.
Nello splendore dell'Età Comunale, ma anche sotto il dominio della Serenissima e, per certi aspetti, fino all'ultimo dopoguerra, contadini, mugnai, maniscalchi, lavandaie, barcaioli, pescatori, traghettatori, borghesi, commercianti, signori e nobili affollavano armoniosamente le rive del Sile, e quelle dei molti canali di Treviso. I Cagnani, che si dipartono dal Botteniga non appena questi giunge a contatto con la città a Nord, come dita aperte della mano che passano dolcemente tra i capelli dell'amata, attraversano i quartieri con un ritmo irresistibile, comparendo e scomparendo tra le case, facendo ancora oggi di Treviso una delle più importanti città d'acqua d'Europa.
E fuori mura e nelle campagne tutt'intorno, un popolo operoso (lo stesso d'oggi, intendiamoci) "affollava" gli affluenti Limbraga, Storga, Melma, Nerbon, Musestre, i cui tributari minori, fiumiciattoli lunghi a volte solo poche centinaia di metri e dai nomi armoniosi (Rul, Piovensan, Pegorile, Rio delle Fontanelle, Cerca, Mignagola...), hanno a loro volta altri affluenti minori, veri e propri fossetti d'acqua corrente che conducono, lì vicino, ad una polla sorgiva, e tutti insieme venano la pianura, la intridono, la rendono verde, fresca, rigogliosa.
Quel popolo lavorava e viveva grazie alle acque di risorgiva, risorsa impareggiabile, ma non infinita e dunque preziosa al punto da dover essere protetta, regolamentata, diventando fulcro di civiltà. Un tempo.
Adesso queste acque inutili (!) - ma non è forse l'unica risorsa idrica a nostra disposizione? - avendo perso la loro funzione economica (ma non quella d'essere indispensabili alla vita dell'area e di ognuno di noi), queste acque sono trascurate, abbandonate, tombinate, soppresse, buone solo, dove permangono, a portar via lo sporco, perché a questo serve la corrente. Decaduto in pochi decenni il magico, millenario equilibrio tra uomo e fiume, uomo e acqua, l'uno e l'altro (e l'altra) muoiono ogni giorno un po', preparando (se non si ragiona e non si rimedia in tempo) vere e proprie catastrofi.

Che "frescura" per l'anima scoprire che poeti e scrittori per citare Treviso ne ricordano i fiumi, le rogge, i canali.
Il Petrarca si riferisce forse alla "bella contrada di Trevigi" nelle sue "chiare, fresche e dolci acque"; Dante, nel Paradiso la indica semplicemente con "dove Sile e Cagnan s'accompagna"; e Fazio degli Uberti, dice di Treviso "che di chiare fontane tutta ride". In questo secolo Riccardo Bacchelli scrive: "...son le allegre correnti, le vivide chiuse e pescaie; son le rogge e i fossati..."; Diego Valeri: "Il mio grande amore fu la Pescheria (...) con le sue acque di diafana seta (...): isola di fiaba nel cuore della città."; Guido Piovene: "Le acque entrano in Treviso col Sile e con i suoi canali, e vi si specchiano dovunque vecchie case fiorite."; e naturalmente Comisso. Lui, trevisan autentico, a cavallo dell'ultima guerra è tra i grandi interpreti, insieme ad un bel "manipolo" di pittori e scrittori, di una delle più felici stagioni culturali di Treviso, soprannominata per questo, da Dino Buzzati, "la Piccola Atene". Scrive Comisso: "Le anse placide del Sile, così verde nel suo defluire lento, sono coperte da fragili salici piangenti, che si chinano tremuli fino ad accarezzare le acque.
Nel medioevo la città delle giostre amorose era come una grande fiera, con le sue case tutte affrescate di bizzarre tappezzerie variopinte. Treviso non è una città di pietre squadrate, monotona e fredda, ma intrecciata dalla mobile e cangiante filigrana d'acque, con smeraldi interposti dovunque d'alberi e di giardini, convince d'esser piuttosto un parco d'incantesimi."

Lasciamo Treviso. Dopo il Ponte della Gobba, si prende lungo la restera, o alzaia, argini alti sul fiume, da dove, fino a non molto tempo fa, i cavalli trainavano controcorrente grandi barconi carichi di merci, attualmente percorso preferito di altri "sgambatori", gli amanti dello jogging. E giungiamo a Porto di Fiera, grande, antico borgo della prima periferia cittadina, in lenta ristrutturazione. La località, come dice il nome, era sede anticamente di un'importantissima fiera-mercato, così grande da attrarvi tutta l'Italia settentrionale. Oggi ne resta soltanto il ricordo, in ottobre, con le Fiere di San Luca, una bella sagra con bancarelle di mandorlato, caldarroste, polpi bolliti (specialità trevigiana) e un divertente lunapark.
Proseguendo sulla restera, superati i Mulini Mandelli, arriviamo a Silea. Anche qui come a Fiera, sulla riva sinistra, poderosi moli testimoniano di un'ancora recente, importante, portualità del Sile. Sull'altra sponda Sant'Antonino, dove nel secolo scorso i cavatori di ghiaia rinvennero un gran numero di spade dell'età del bronzo, ora visibili al Museo Bailo di Treviso; e, di rimpetto ai moli della Chiari & Forti, l'"isola" di Villapendola, raggiungibile attraverso un ponte pedonale e, più a valle, per mezzo di un ponte sopra un sistema di chiuse vinciane. L'area, oramai protetta e destinata a passeggiate e al tempo libero, s'è formata nella grandissima ansa del Ramo Morto del Sile.
Da Casier, a Casale, fino a Musestre, il Sile si snoda pigramente in un continuo di meandri, slarghi, rami secondari, ex cave che formano laghetti, tra bassi argini erbosi, folti pioppeti, coltivazioni e ville. La barca è certamente il mezzo più adatto per percorrerlo e visitarlo. A Casale, Leo e Brunetto Stefanato, figli di un vecchio barcaiolo che portava i grandi burchi a vela da Treviso, attraverso la laguna, il Delta e il Po fino a Ferrara, Pavia e Milano, da molti anni organizzano, con i loro battelli, escursioni tra Sile e isole della laguna veneta. Ed ha senso, questo viaggio da Treviso a Venezia, proprio perché è lo stesso che facevano i nobili veneziani andando in villa, o "villeggiatura". Nell'area delle sorgenti del Sile, sono almeno due le "case veneziane" da vedere: Villa Corner della Regina a Cavasagra, trasformata in albergo e Villa Marcello a Levada, visibile dall'esterno. In più c'è la Piazza di Badoere, splendido centro-mercato "ante litteram" fatto costruire dal Badoer nel '700.
Tra Silea e le antiche conche di Portegrandi costruite in pietra bianca d'Istria, dove il Sile sfocia in laguna nel suo antico alveo, il Silone, e da dove si diparte il Taglio del Sile in direzione di Jesolo e dell' attuale foce del fiume, di ville sulle sponde (ma anche nell'immediato entroterra, magari affacciate ad affluenti del Sile) ce ne sono davvero molte. Ricordiamo una delle più emblematiche e antiche, la villa che Caterina Cornaro, regina di Cipro, alla fine del '400 fece costruire e regalò alla sua ancella Fiammetta come dono di nozze, Villa Barbaro a Lughignano. Dopo la Torre dei Carraresi, a Casale, lasciata a sinistra la confluenza con il Musestre, detto il fiume "delle lavandaie" perché vi si lavavano i panni della Serenissima, si va, in un ultimo lungo tratto di fiume maturo, tra latifondi di bonifica in piena zona archeologica (non lontano c'è Altino), ad affacciarsi alla gronda lagunare, con in vista, all'orizzonte, Torcello n
Parco Regionale della Maremma
Il Parco naturale della Maremma è nato nel 1975 ed è gestito dalla Regione Toscana Ente Parco. Si estende lungo il tratto meridionale della costa maremmana da Principina a Mare fino a Talamone. Il suo territorio si può dividere in una zona a nord del fiume Ombrone, la Palude della Trappola, ed una a sud con i Monti dell’Uccellina.
La prima zona, tutta pianeggiante con acquitrini, pozze d’acqua e dune litoranee, è caratterizzata da una scarsa vegetazione. Partendo dalla spiaggia verso la duna si distinguono formazioni costituite da ammofile, gigli marini, eringi e soldanelle, mentre nella zona retrodunale crescono lentisco e olivastro, piante che precedono la vasta pineta granducale (600 ettari di pini domestici e marittimi). Sempre vicino alla costa regna incontrastata la classica macchia mediterranea con prevalenza di leccio e filliree, corbezzolo, eriche, ginepri coccoloni e lici. Nell’entroterra alle specie sempreverdi si associano specie caducifoglie come orniello cerro, roverella, acero minore e sughera.
Numerosa la fauna, tra cui il cinghiale e il daino, e l’avifauna. Sono presenti anche istrice, tasso, volpe, riccio, donnola, faina e nutria. Tra gli uccelli acquatici da segnalare codoni e fischioni, germani reali e alzavole, moriglioni, mestoloni, morette e marzaiole. Oltre agli anatidi è possibile osservare chiurli, cavalieri d’Italia, aironi, falchi di palude, albanelle reali e albanelle minori.

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