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Categoria: | Geografia |
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Testo
Alcuni cenni storici
Per capire il problema dello sfruttamento dell’Africa basta porre un po’ di attenzione nell’osservarne la carta geografica. L’anomalia più evidente è l’inquietante regolarità dei confini dei suoi stati. Quelle dritte linee orizzontali e verticali, che squadrano da nord a sud il continente, sono la prova tangibile dello sfruttamento e della vera e propria spartizione che le potenze europee hanno fatto dell’Africa.
I confini degli stati europei, stati sorti più o meno spontaneamente, sono irregolari e frastagliati, perché tracciati in ragione della natura geografica del territorio e delle aree di stanziamento dei vari popoli.
I confini degli stati Africani invece di questi due parametri, ne seguono altri; essi sono stati interamente discussi a tavolino dai capi di stato europei, e non tengono conto né delle barriere naturali (monti, fiumi, foreste ecc...) né dei popoli autoctoni, bensì delle esigenze capitalistiche delle varie nazioni occidentali. Popoli e tribù nemiche si trovano così unificate in un unico stato, e nascono conflitti tribali, oppure uno stesso popolo si trova a vivere separato in due stati diversi, generando il caos e anelando all’unità nazionale.
La colonizzazione dell’Africa nera da parte degli europei risale a tempi molto remoti, le prime basi commerciali portoghesi sono infatti antecedenti la scoperta dell’America. Le isole della costa occidentale dell’Africa, Sao Tomè e Principe, importanti allora per le vie di commercio trans-sahariane, furono conquistate da quest’ultimi intorno al 1470. Il fenomeno del colonialismo europeo in Africa è stato quindi un lento ma inesorabile processo, durato secoli, che portò infine, nel 1936, alla capitolazione anche dell’ultimo stato africano libero ad opera dell’Italia.
Con la crescente influenza degli Stati Uniti sul piano internazionale, però, soprattutto dopo il loro definitivo intervento nella seconda guerra mondiale, gli interessi capitalistici degli affaristi americani si fecero sempre più attenti all’ipotesi di un possibile sfruttamento commerciale dell’Africa, dal quale, fino da pochi anni prima, a causa del dominio diretto e incontrastato delle potenze europee, erano rimasti esclusi. Cominciò così la pressione statunitense sull’Africa al fine di ottenere la “decolonizzazione” e l’indipendenza degli stati africani. Questa “liberazione” serviva in realtà agli USA per poter mettere in atto anche in Africa, con la liberalizzazione dei mercati, quella sporca politica economica di sfruttamento che già da tempo sperimentava sui paesi dell’America latina, e che gli avrebbe difatti conferito, senza troppi impegni amministrativi, un dominio incontrastato sulle regioni africane.
Così, la decolonizzazione dell’Africa rispetto al colonialismo tradizionale aprì di fatto le porte al neo-colonialismo delle multinazionali americane (anche se in maniera non uniforme, infatti alcuni paesi come la Tanzania o l’Algeria conservarono un margine d’autonomia maggiore). Una borghesia nera si sostituì nel governo alla vecchia classe dirigente bianca, ottenendo così piena soddisfazione morale e materiale, nella raggiunta indipendenza, lasciando però campo libero, in cambio degli aiuti economici e del sostegno politico, alla penetrazione del capitale degli Stati Uniti e dalle vecchie potenze coloniali europee nelle campagne.
Il mondo rurale africano, non solo non trasse vantaggi dall’indipendenza politica, ma fu costretto a vedersi distrutta la propria piccola agricoltura di sussistenza, soppiantata da quella di piantagione. Le grandi distese a monocoltura, banane, cacao, caffè, caucciù, cotone e semi oleosi, cui attingevano le grandi multinazionali americane, sottrassero quantità crescenti di terre fertili, risorse idriche e forze di lavoro alle tradizionali agricolture alimentari locali. Inoltre, l’imperialismo straniero, avendo il controllo completo della commercializzazione dei prodotti di piantagione che importava, ne sottovalutava il valore di scambio, mentre sopravvalutava il valore dei prodotti industriali che esportava. Le conseguenze di questa situazione sono, ancora oggi, che l’agricoltura africana assicura esportazioni i cui proventi servono appena all’acquisto dei generi alimentari e dei prodotti industriali indispensabili alla borghesia urbana nera. Ciò significa milioni di morti di fame.
Come vedremo tra poco, anche alla base di questo ennesimo conflitto, quello tra Tutsi e Hutu in Ruanda, non ci sono solo quei generici “odi tribali” di cui ci parla il telegiornale, ma di questi si servono in gran parte le potenze occidentali per tutelare i propri interessi economici che, in una regione ricca come quella dei Grandi Laghi, devono essere immensi.
Inquadramento del conflitto
Dopo l’indipendenza nel 1962, il Ruanda (vedi Ruanda Appendice) è stato governato sino ad oggi dalla minoranza Tutsi, proprietaria terriera, dedita principalmente all’agricoltura. Nel passaggio di potere dell’indipendenza, la minoranza Tutsi era stata favorita dal Belgio, e in cambio della propria connivenza con le multinazionali straniere, è riuscita a tenere il potere sino ad oggi. Questo però non senza contrasti; i Tutsi infatti, hanno dovuto subire ben quattro genocidi negli ultimi quarant’anni, nel 1960, nel 1972, nel 1990 e infine, nel 1994.
Si sono così stabiliti, lungo i confini dello Zaire, numerosi rifugiati Tutsi, sfuggiti via via ai massacri, che hanno instaurato una convivenza pacifica con i banyamulenge, un gruppo anch’esso di origine Tutsi stanziatosi nello Zaire da almeno due secoli. Tutto questo fino al 1994. Dopo il genocidio scatenato dalle milizie degli estremisti Hutu in Ruanda contro i compatrioti Tutsi, e in seguito alla reazione armata di quest’ultimi, una moltitudine di profughi Hutu scappò nei campi al confine dello Zaire, offrendo però così una via di scampo ai responsabili del massacro del ‘94 (500.00 morti) che si mescolarono alla folla in fuga. Arrivati nei campi nei pressi di Goma (costa settentrionale del Lago Kivu) e sui confini dello Zaire orientale, i corpi degli estremisti Hutu si sono riarmati, riorganizzati e, con la complicità dell’esercito zairese (il regime di Kinshasa è da sempre vicino agli Hutu), hanno incominciato a compiere razzie nell’interno e a distruggere mandrie e villaggi dei banyamulenge. Costoro, da tempo vessati dal regime di Kinshasa (da alcuni anni, lo stato Zairese, invece della carta d’identità verde, propria dei cittadini, consegnava loro la scheda gialla degli stranieri residenti) hanno deciso di reagire. Con l’aiuto dell’esercito del Ruanda (il governo Tutsi di Kigali contava di mettere le mani sui responsabili della strage del ‘94) hanno cominciato ad attaccare, soprattutto di notte, con la tattica del “nemico invisibile”, i campi profughi Hutu. I profughi Hutu, sterminati dalla guerra tra esercito Zairese alleato alle milizie estremiste Hutu e Banyamulenge congiunti ai militari ruandesi, e dalle malattie si sono precipitati nel rientro in patria, formando un immenso “fiume umano”, cui le associazioni umanitarie sono impossibilitate nel portare aiuto.
Altri piani però, oltre a quello della punizione dei criminali del ‘94, interessano il Ruanda. Voci sempre più insistenti fanno sapere di un progetto strategico di Kigali per impossessarsi del Kivu, la ricchissima provincia zairese. Il Kivu, da sempre bastione dell’opposizione al regime di Mobutu, dittatore dello Zaire, potrebbe facilmente essere conquistata da Ruanda e Burundi (vedi Burundi Appendice) messi insieme (entrambi i governi sono di origine Tutsi), una volta destabilizzato il già fragile regime di Kinshasa.
La regione del Kivu, ricca di oro, diamanti, tungsteno, uranio suscita la cupidigia delle potenze internazionali che già sembrano delineare un loro piano di appropriazione della regione dei Grandi Laghi. Pare si contrappongano in questi interessi due fronti: uno anglofono e uno francofono. Quello anglofono, retto da Ruanda, Burundi, L’Uganda di Museveni e in modo più sfumato dagli Stati Uniti (il cui interesse alla regione è denunciato dalla visita del segretario di Stato Warren Christopher e dalla proposta di Washington per la creazione di un contingente militare interafricano supportato logisticamente dagli Stati Uniti), e quello francofono, rappresentato dalla Francia (che ha già altri interessi nello Shaba, un’altra ricca provincia zairese, e che da tempo definiva “improponibile” un regime come quello di Mobutu Sese Seko [vedi Zaire Appendice]) e dallo Zaire stesso, che oramai è ridotto, come lo definiva tre mesi fa la rivista Jeune Afrique, ad uno “stato nulla”, dove la corruzione dilaga e alcuni territori sono quasi completamente abbandonati dal governo.
Intanto, mentre le grandi potenze continuano i loro giochi politico-militari sulla regione dei grandi laghi, circa 600.000 profughi mancano all’appello, e sul fronte umanitario, l’occidente ostenta un’inerzia che grida vendetta. La stessa ONU, lacerata dai contrasti di interesse tra i suoi maggiori esponenti (USA, Francia) sprofonda in una burocratica impotenza, anche davanti alle stragi degli ultimi tempi.
Le difficoltà di un intervento della comunità internazionale
Subito dopo la decisione del consiglio di sicurezza dell’Onu di inviare nello Zaire la Forza Multinazionale, Kinshasa fa sapere che non accetterà forze armate nel proprio territorio. Si delineano così le difficoltà di un eventuale intervento della comunità internazionale nella regione dei Grandi Laghi. Ci sono problemi logistici nell’immediato, come quello dell’attivazione di “corridoi umanitari” per il rientro in patria dei profughi; ci sono inoltre problemi politici di più ampio respiro, tra i quali un serio progetto di stabilizzazione dell’Africa orientale, continuamente sconvolta dai conflitti etnici. Questo articolo di Marcella Emiliani, tratto da L’Unità del 17 novembre 1996 ci illustra le difficoltà cui deve far fronte l’Onu, nel progettare un intervento nella Rift Valley.
In ritardo, ma finalmente il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è mosso e la tanto invocata Forza multinazionale potrà partire a breve per l’Africa centrale. Detto questo però non si è ancora detto niente, soprattutto dopo che i profughi hutu ammassati nei campi dello Zaire orientale hanno cominciato a tornare a migliaia in Ruanda. Prima che tutta l’operazione si metta in moto è meglio aver chiari i rischi cui andrà incontro, aver chiaro soprattutto che proprio l’inizio del ritorno a casa dei Profughi ha già cambiato la natura e i fini dell’operazione medesima.
Certamente il suo fine morale è salvare quante più vite umane possibile, ma la Forza multinazionale avrà di fronte non uno ma due compiti diversi: 1) aiutare l’attuale governo del Ruanda ad accogliere quanti ritornano per reinsediarli possibilmente nelle loro aree di origine; 2) stabilizzare la regione orientale dello Zaire dove stanno ancora vagando migliaia di ruandesi. Il tutto avendo presente che l’operato della Forza multinazionale stessa dovrà essere affiancato da una iniziativa diplomatica tempestiva ed efficace, che abbia chiara la natura politica dei problemi sia sul versante del Ruanda che su quello dello Zaire. Sul fronte ruandese, il governo di Kigali ieri ha già fatto capire a chiare lettere di ritenere ormai superflua la presenza dell’«Armada internazionale». I profughi, stando alle parole del presidente Pasteur Bizimungu, han trovato da soli la strada per tornare a casa, dunque i corridoi umanitari sarebbero diventati inutili; in secondo luogo gli «innocenti» sarebbero già stati separati dalle milizie degli estremisti hutu colpevoli del genocidio ai danni dei Tutsi del ‘94. In altre parole quello che il governo essenzialmente tutsi del Ruanda vorrebbe è che si aprissero i cordoni dell’aiuto occidentale, ma senza che la comunità internazionale possa minimamente interferire negli affari interni del paese. Il nodo politico invece è proprio questo: i due terzi dei profughi del ‘94 sono ancora in Zaire e vanno comunque assistiti, ma soprattutto proprio il loro ritorno a casa dovrebbe essere inserito in un progetto di reintegrazione che sia già testimonianza di una ritrovata riconciliazione nazionale. Moltissimi Hutu sono rimasti in Ruanda dopo il ‘94: a porre il problema della riconciliazione sono i profughi hutu come parte più «sospetta» della popolazione, e proprio la loro sorte una volta rientrati in patria, diventerà la cartina di tornasole della possibilità di convivenza tra Hutu e Tutsi negli anni a venire.
Quale reintegrazione
Le modalità della reintegrazione sono dunque un problema che nell’immediato è logistico-umanitario, ma nel medio-lungo periodo è politico. Quale aiuto intende offrire il Consiglio di sicurezza in questa prospettiva cruciale ? Sul fronte zairese la situazione non è meno complessa. L’Alleanza delle forze democratiche per la liberazione del Congo-Zaire, cioè il fronte armato dei Tutsi Banyamulenge che - mettendo in fuga giovedì scorso gli estremisti hutu dal campo profughi di Mugunga ha permesso l’avvio dell’operazione-ritorno - ha già detto per bocca del suo leader Laurent Désiré Kabila di ritenere «assolutamente ingiustificato» l’intervento internazionale nello Zaire orientale. Kabila soprattutto denuncia un rischio vero per uno scopo che si intuisce ben poco ortodosso. Dice che la Forza multinazionale finirà ancora una volta per rafforzare un regime decrepito e marcio come quello del presidente dello Zaire Mobutu (e questo è il rischio vero), ma sta chiaramente puntando con la sua guerriglia alla caduta del regime di Kinshasa. Per di più rischia di farlo sulla pelle dei profughi ruandesi stessi, se continuerà a presentarsi come unico arbitro delle loro sorti nello Zaire orientale. Le sue truppe ieri erano ancora impegnate in scontri a fuoco con gli estremisti hutu a Sakè, ad una trentina di km da Goma e presumibilmente negli scambi di colpi era implicato anche il ben poco eroico esercito zairese, bravo a saccheggiare chiunque, ma di bassissimo profilo militare. Il rischio insomma è che Kabila si trasformi in un «un signore della guerra» della regione del Kivu e che il suo esempio di rivolta in armi venga seguito in altre regioni calde dello Zaire che già da anni vanno per i fatti propri nel vuoto dello Stato zairese. Di questo rischio all’Onu, come in seno all’Organizzazione per l’unità africana, sono febbrilmente coscienti tant’è che l’inviato delle Nazioni Unite nell’area, Chretienne, si braccia a dire che l’operato della Forza multinazionale dovrà rispettare la sovranità nazionale» dello Zaire stesso.
Il regno di Mobutu
Tutti temono la disintegrazione del regno di Mobutu e soprattutto che si tocchi il tabù su cui si regge tutta l’Africa: ovvero l’intangibilità delle frontiere. Chi tratterà con Kabila ? Chi - nel caso dovesse ostacolare l’operato della Forza multinazionale - si incaricherà di tener testa ai suoi Banyamulenge e, non scordiamocelo, anche agli estremisti hutu - responsabili del genocidio dei Tutsi in Ruanda nel ‘94 - per ora in fuga attorno a Goma ? È Questo fronte tutto politico dell’intervento internazionale che va seguito con particolare attenzione fin dalla fase analitica dei problemi, soprattutto vista la fretta della comunità internazionale a lasciare l’Africa centrale. Il 31 marzo dell’anno prossimo infatti la Forza multinazionale dovrebbe terminare la propria missione.
i conflitti nella rift valley
una breve spiegazione dei conflitti nella rift valley