La morte a Venezia

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Testo

Thomas Mann: La morte a Venezia
Thomas Mann (Lubecca 1875 – Zurigo 1955). Appartenente ad un’agiata famiglia di commercianti, dal 1983 visse a Monaco. Interventista durante la 1guerra mondiale (Considerazioni di un impolitico, 1918), passò successivamente su posizioni democratiche e dopo l’ascesa del nazismo visse sempre all’estero, a Zurigo (1933), negli USA (1938) e quindi nuovamente in Svizzera. Nel 1901 pubblicò I Buddenbrook, “romanzo sociale” di impianto naturalistico che descrive la parabola di decadenza di una famiglia dell’alta borghesia di Lubecca. Lo scontro tra l’etica borghese e la potente attrazione per tutto ciò che è “decadente” (malattia, solitudine, morte), tra arte e vita, è il tema principale dei racconti: nel Tristano del 1903 viene enunciato il tema della musica come forza oscura di disgregazione; nel Tonio Kroger (1903) l’attrazione per la sanità borghese contrastata con la letteratura, simbolo di anormalità morbosa; nella La Morte a Venezia, (1912)raggiunge il suo culmine il tema della disgregazione e del disfacimento; questi temi verranno quindi ripresi e sviluppati nei romanzi successivi (Altezza reale, 1909). Dopo l’esperienza della guerra, una rinnovata fiducia nei valori della razionalità contraddistingue la produzione successiva. Nell’opera La montagna incantata (1924), una delle opere fondamentali della cultura novecentesca, attraverso le lunghe discussioni dei due protagonisti, Mann ripercorre i momenti principali del dibattito ideologico di inizio secolo, mostrando come si fosse liberato dalle suggestioni nietzschiane della sua giovinezza e presagendo l’imminente tragedia della Germania. Durante l’esilio nel periodo hitleriano pubblicò riguardo la situazione contemporanea, pur trasfigurata, la tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli (1933-43), dove l’antinomia tra il mito e l’intelletto si concilia nel personaggio di Giuseppe, che non è più un escluso dalla vita. Nel Doctor Faustus (1947è simboleggiato il crollo della Germania e, ancor più, dell’arte e della civiltà borghesi. Premio Nobel 1929. Altre opere sono: Come padrone (racconto, 1919); Disordine e dolore precoce (racconto, 1926); Carlotta e Weimar (romanzo, 1939); Le teste scambiate (racconto 1940); Nobilità dello spirito (saggio, 1945); L’eletto (romanzo, 1915); Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (romanzo, 1954).
Il racconto narra le ultime vicende di Gustav von Ashenbach, scrittore molto rinomato che, stremato dal lavoro, decide di intraprendere un viaggio: “Era davvero necessaria una parentesi: vivere un po’ d’imprevisto , alla giornata, respirare l’aria di grandi distanze, far entrar sangue nuovo in circolazione; ” (cfr. pag. 81)
Prima di descrivere il viaggio del letterato, Mann si dilunga a descrivere la tranquilla e regolare vita quotidiana dedicando a ciò tutto il secondo capitolo; in questa descrizione notiamo una annotazione abbastanza interessante che, forse, in seguito sarà utile alla comprensione della personalità di Ashenbach: “Nel nuovo tipo di eroe che lo scrittore mostrava di prediligere, e che riappariva sotto vari aspetti in numerose creature, già parecchio tempo prima un sottile esegeta aveva individuato il concetto “di una virilità spirituale, efebica…che stringendo i denti nel suo orgoglioso pudore, resta immobile mentre spade e lanci trapassano i corpi”. Bella, geniale e precisa definizione, e solo in apparenza troppo volta a sottolineare il lato passivo;” (pag. 12) ed anche questa sua concezione “anche se la si considera nei suoi riflessi personali, l’arte è una vita subliminata: più profonde sono le gioie che largisce, ma consumata anche più presto; nell’aspetto di coloro che la servono i primi segni di avventure dello spirito e della fantasia, e anche in un’esistenza che cenobita finisce con l’ingenerare traviamenti, ipersensibilità, stanchezza e sovreccitazioni nervose, né più né meno di quelle prodotte da una vita dedita agli eccessi della passione e del godimento.”
Ed ecco che finalmente ci viene proposto il viaggio: dapprima lo scrittore si reca in un’isola dell’Adriatico, ma non rimane soddisfatto così s’imbarca per raggiungere Venezia.
Nell’albergo del lido in cui alloggia, l’Hotel Des Bains, risiede anche una ricca famiglia polacca; fin dalla prima sera Aschenbach è colpito dalla bellezza del maggiore dei figli “era un gruppo di adolescenti e giovinetti, raccolti intorno a un tavolino di vimini, sotto la sorveglianza di un’istitutrice o dama di compagnia che fosse: tre fanciulle che mostravano dai quindici ai diciassette anni d’età, e un ragazzo dai capelli lunghi sui quattordici anni. A. notò con meraviglia la bellezza perfetta di quest’ultimo. Il volto pallido e generalmente assorto, incorniciato dai capelli biondo miele, la linea schietta del naso, la vezzosa bocca, l’espressione soave di divina gravità, ricordavano le sculture greche dell’epoca aurea; e alla pura compiutezza dell’aspetto si univa una grazia così rara e insigne che lo scrittore si confessò di non aver mai veduto, né in natura né in alcun prodotto delle arti figurativa, un simile capolavoro”. (pag.28)
È questo l’inizio della passione dell’anziano letterato per il giovinetto, di nome Tadzio come lui stesso con grande gioia i seguito scoprirà; i due non si scambieranno mai una parola ma si creerà un’ambigua intimità, un forte amore platonico, è lo stesso autore ad affermare “nulla esiste di più singolare, di più scabroso, che il rapporto fra persone che si conoscono solo attraverso lo sguardo; ogni giorno, ogni ora che s’incontrano, si osservano e nello stesso tempo, costrette per civiltà o per bizzarria personale a insistere nella finzione, serbano un contegno indifferente e staccato, non si salutano né scambiano una parola. Tra loro si forma un fluido d’inquietudine e di curiosità esacerbata, un isterico bisogno, inappagato o innaturale represso, di conoscenza e di mutuo soccorso, e soprattutto, infine, una sorta di ansioso riguardo: poiché l’uomo ama l’uomo e lo onora finché non è in grado di giudicarlo; e dall’incompleto conoscersi nasce il desiderio”. (pag. 54-55).
Aschenbach trascorre le sue giornate fomentando sempre più questa sua passione; ciò lo porta all’inizio semplicemente ad osservarlo con lo sguardo, ma con il passare del tempo anche ad inseguirlo per le calli di Venezia dove il giovine si reca: “da un po’ di tempo non gli bastava più restargli vicino e contemplare l’amato nei limiti concessi dal regolare ritmo di vita e dal favore del caso: ormai lo seguiva, lo appostava…”. (pag. 59)
Venezia intanto è soggetta a un’epidemia di colera,che i funzionari della città cercano di nascondere ai villeggianti, per questi molti partono ma tra questi non vi è anche Aschenbach che invece di fuggire e tornare nel suo paese rimane al Lido, in quanto “nulla paventava tanto l’innamorato, quanto l’idea che Tadzio potesse partire; e non senza terrore si rendeva conto che in tal caso gli sarebbe divenuto insopportabile vivere”. (pag. 59)
A causa della sua incauta decisione di non lasciare il paese, viene infettato dal colera è così muore sulla sdraio della spiaggia privata dell’albergo di fronte al mare.
Una delle caratteristiche del racconto è l’ambiguità dei rapporti, non solo affettivi ma anche sociali, mai chiariti a parole. Un caso su tutti il tentativo di nascondere la verità, l’evidenza della presenza dell’epidemia di colore, che tutti, dal direttore dell’albergo al musicante negano fortemente. Anche il tema stesso su cui si fonda la narrazione, cioè l’omosessualità, non viene mai dichiarato apertamente bensì solo accennato.
Ad un livello più profondo possiamo notare che la storia poggia sul conflitto arte – vita, elementi che sia annientano vicendevolmente. Thomas Mann a questo proposito afferma che “anche presa a sé l’arte è persino un’elevazione della vita. Dà una felicità più profonda, e distrugge più in fretta”. Lungo tutta la storia, Aschenbach ragionerà sulla vera essenza dell’arte intese anche come bellezza, facendo spesso riferimenti alla mitologia greca; sembra quasi rifarsi, nella descrizione di Tadzio, ai canoni neoclassici espressi dal tedesco Winchelmann: “una testa di Eros, dalla lucentezza dorata del marmo pario, dalle sottili sopracciglia pensose, e sulle tempie e sugli orecchi la coltre soffice e ombrosa dei riccioli cadenti ad angolo retto” (pag.32) ed ancora “simulacro e specchio! Lo sguardo rapito nell’estasi abbracciava la nobile figuretta ferma laggiù sul lembo dell’azzurro; e in quella visione mirava il bello in sé, la forma come sacro pensiero, la perfezione una e casta ce vive nello spirito e di cui la copia, il facsimile umano era lì, lieve e leggiadro, adorabile”. (pag. 48-49)
Protagonisti del racconto sono sicuramente Aschernbach, Tadzio ma anche Venezia. Venezia è lo sfondo in cui viene rappresentata la tragedia interiore di quest’uomo lacerato per un amore impossibile. Proprio per questo l’atmosfera di Venezia incarna la ttttttt in quanto è in atto un’epidemia di colera che tutti vogliono nascondere, ma ecco come ci viene descritta la nostra “scenografia”: “un’afa ripugnante pesava sulle calli; l’aria era così dense che gli odori emanati dalle case, dai negozi, dalle betole – vapori d’olio, buffate di profumo e altro ancora – formavano una calinge spessa che non riusciva a dissolversi. Anche il fumo delle sigarette rimaneva sospeso nell’aria, disperdendosi solo a poco a poco. La calca delle viuzza riusciva molesta anziché gradevole al passeggero; e più egli camminava, più tormentoso sentiva gravare su di sé l’effetto abominevole dell’aria di mare mista allo scirocco: effetto di eccitazione e di estenuazione congiunte…” (pag. 38). Successivamente, in una sua seconda visita, Aschenbach osserva l’arrivo della malattia: “…un odore dolciastro di medicina, in odore che evocava miseria, piaghe, scarsa pulizia. Lo analizzò, lo riconobbe non senza preoccupazione; […] Nelle calli anguste l’odore si sentiva più forte. Alle cantonate erano affissi manifesti che , in tono paternamente municipale, diffidavano la popolazione – a causa di certi disturbi dell’apparato digerente facilissimi a manifestarsi (così si affermava) con un tempo simile – dal mangiare ostriche e telline e dal far uso dell’acqua dei canali.” (pag. 58). Alla fine del racconto, Venezia ci viene descritta ancora più desolata: “nessun rumore si udiva; l’erba spuntava tra le sconnessure del lastrico; tutt’intorno giacevano rifiuti. Tra le case circostanti, sbiadite dal tempo, disuguali d’altezza, ve n’era una dall’aspetto di palazzo: dietro le finestre ogivali si vedeva il vuoto, i balconcini erano ornati di statue di leoni. Al pianterreno di un’altra casa c’era una farmacia. Portata dal vento caldo, giungeva a tratti l’odore di acido fenico.” (pag. 77)
Il racconto ci dimostra molto chiaramente come una persona retta come Aschenbach possa, una volta traviato dall’amore, dall’eros, compire gesti che mai prima avrebbe immaginato; basti vedere le emozioni che lo prendono per un semplice sguardo: “in un certo modo, una relazione, una nozione reciproca finì con lo stabilirsi tra Aschenbach e il giovane Tadzio; e uno spasimo di gioia colse l’anziano nel constatare che tanta simpatia e studio non rimanevano del tutto senza risposta. […] ma altre volte alzava gli occhi e i loro sguardi s’incrociavano. Grande serietà erra sui loro volti, in quelle occasioni. Nulla tradiva, nel viso composto e severo dell’anziano, l’intimo turbamento; gli occhi di Tadzio invece esprimevano un’interrogazione, una domanda assorta. Il suo passo diveniva esitante: chinava lo sguardo, poi gentilmente lo alzava di nuovo e, dopo ch’era passato, qualcosa nel suo contegno pareva significare che soltanto la buona educazione gli vietava di voltarsi.” Nelle ultime pagine Mann descrive così quest’uomo che giunge persino a truccarsi e a tingersi i capelli in quanto “come qualsiasi innamorato, desiderava di piacere e si amareggiava nel timore di non riuscirci” (pag. 75), ma ecco il passo che, a mio parere, è molto interessante: “l’autore del Miserabile, lo stesso che in così esemplare purezza di forma aveva fustigato lo spirito zingaresco e la tenebra degli abissi, che aveva rinnegato ogni simpatia per l’abiezione e vituperato il vituperevole; lui che era asceso al sublime, che avendo soggiogato il proprio sapere, oltrepassando lo stadio dell’ironia, s’era abituato agli obblighi imposti dalla generale considerazione, l’uomo dalla fama ufficiale, dal nome nobilitato, il creatore di uno stile al quale i fanciulli erano chiamati ad ispirarsi. Lì era seduto con le palpebre chiuse; solo a scatti le alzava per subito riabbassarle, lasciando guizzare di straforo un’occhiata sconcertata e beffarda; e dalle labbra cascanti, lucide di belletto, uscivano smozzicati brandelli di un ragionamento chi il suo cervello semiassopito andava intessendo come in sogno.” (pag. 78).
Ma il senso di morte dell’autore è presente fin dalle prime pagine: “…e mai l’aveva sfiorato il pensiero di lasciare l’Europa. Tanto più, poi, da quando era incominciato il lento declino della sua vita, da quanto il timore di non finire il suo compito d’artista, l’apprensione che l’ora passasse senza permettergli di terminare, di dare tutto se stesso, erano diventati qualcosa di più di una futile ubbia che si scaccia con un gesto, la sua esistenza esteriore si era quasi del tutto confinata nella bella città scelta a patria adottiva, e nella rustica dimora campagnola che si era fabbricata tra i monti e in cui trascorreva le estati piovose.” (pag. 6)
Questo senso di morte espresso all’inizio, era giusto, in quanto, come già detto, Aschenbach viene colpito dal colera e muore, da solo, su una sdraio di fronte al mare, nel giorno della partenza di Tadzio, mentre questi gli indirizzava l’ultimo suo sguardo: “Tadzio…e a un tratto, come colpito da un ricordo, da un impulso, compì un’elegante conversione del busto e, puntando una mano sull’anca, gettò di sopra la spalla uno sguardo verso la riva. Colui che lo contemplava era seduto là come una volta, quando, rinviato da quella stessa soglia, il grigio sguardo color dell’alba aveva primieramente incontrato il suo. Appoggiato allo schienale della poltrona, il capo aveva seguito lo spostamento della lontana figura errabonda; ora si sollevò rispondendo all’invito dello sguardo, e ricadde sul petto con gli occhi stravolti, mentre il viso assumeva un’espressione distesa, intimamente assorta, come di profondo sonno. Ma a lui pareva che il pallido e gentile psicagogo laggiù gli sorridesse, gli accennasse, e staccando la mano dall’anca a indicare un punto lontano, lo precedesse a volo verso benefiche immensità. E come già ante volte aveva fatto, s’incamminò dietro a lui. Passarono alcuni minuti; finalmente qualcuno accorse in aiuto dell’uomo abbattutosi sul fianco della poltrona. Lo trasportarono in camera sua. E quello stesso giorno un mondo reverente e attonito ebbe l’annunzio della sua morte.” (pag. 81)
1 T. Mann La morte a Venezia, Tristano, Tonio Kroger, Oscar mondatori – Classici moderni -, Milano, 2001
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