Induismo

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Testo

L’Induismo
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Miniatura indiana: Krishna e Radha
Quest'opera, che risale all'incirca al 1760, è un esempio di miniatura indiana tipica del periodo tra il XVI e il XIX secolo. Ricco di elementi simbolici, il dipinto raffigura il dio Krishna e la sua amante Radha. È sensibile in questa miniatura l'influsso dell'arte persiana.
L’Induismo o Brahmanesimo è la religione tradizionale dell'India, praticata da oltre 900 milioni di fedeli ed è la più diffusa nel mondo, perchè professata anche nello Sri Lanka, nel Nepal e nel Buthan. Il termine italiano "Induismo", connesso con il nome dell'India, trova la sua origine etimologica nella parola hindu, che veniva utilizzata per indicare il fiume noto anche in Occidente come Indo. Già dal V secolo a.C. il termine "indù" indicava gli abitanti della terra circostanti l'Indo, e quindi dell'intero subcontinente indiano, mentre per l'Islam la parola acquisì una connotazione religiosa, in riferimento agli abitanti non musulmani di quelle terre. In questo senso l'italiano definisce "indù" i seguaci della religione più antica dell'India, presentati invece dalla tradizione locale come "coloro che credono nei Veda" o come "coloro che seguono la legge (dharma), accettano la divisione della società in classi (varna, ovvero le caste) e vivono le quattro fasi (asrama) della vita umana".
Con il termine "Induismo" si indica convenzionalmente l'intera esperienza religiosa degli indiani nel suo svolgimento storico, fin dalle origini, fissate approssimativamente intorno al 1500 a.C.; l'accezione scientifica del termine, tuttavia, denota come "Induismo" soltanto la religione che, praticata dal VI secolo a.C., costituisce l'evoluzione di due fasi anteriori dette rispettivamente "vedismo" (dalle origini all'800 ca. a.C.), dal nome dei libri sacri, i Veda, e "brahmanesimo", dal nome degli appartenenti alla casta sacerdotale, i brahmani. Gli indù preferiscono definire l'insieme delle proprie credenze sanatana dharma, dharma eterno. Qualcuno definisce l’Induismo più che una religione, un modo di essere. Nell’Induismo non c’è un’autorità ecclesiastica universalmente riconosciuta, non esistono nè dogmi nè obblighi rituali uguali per tutti. Ogni fedele, quindi, può seguire le pratiche religiose che sente più vicine. Molto più severe sono,invece, le regole sociali dettate dalla religione.
Arte della dinastia Chola: Shiva Nataraja
Questa statuetta in bronzo, realizzata intorno all'anno 1000, raffigura Shiva, il dio della Trimurti indù, danzante in un cerchio di fuoco. In una mano regge una fiamma e nell'altra un tamburello, mentre con un piede schiaccia il demone dell'ignoranza.
I testi sacri e la visione della vita
In termini estremamente sintetici l'Induismo è definibile come una religione nella quale molte divinità convivono con l'idea di un Dio assoluto concepito in termini personali o con la concezione di un sacro impersonale. Le condizioni per essere induista sono tre: 1) per nascita, se si hanno entrambi i genitori o almeno il padre appartenente a questa religione.
2) riconoscimento della divinità dei testi Veda, principale filone di ispirazione sacra.
3) accettazione totale e passiva della propria condizione esistenziale, risultato del Karma, cioè delle azioni di cui l’individuo è stato protagonista nelle esistenze precedenti.
Questa visione teologica eterogenea è posta dalla tradizione in continuità con i contenuti degli antichi libri sacri, i Veda, scritti nella forma più arcaica della lingua sanscrita, frutto della rivelazione divina. Fra il 1300 e il 1000 a.C. si colloca la composizione del Rig-Veda, costituito da 1028 inni in onore delle diverse divinità, mentre lo Yajur Veda è il formulario liturgico ufficiale per il rito del sacrificio; il Sama Veda fornisce un'ulteriore collezione di inni, mentre l'Atharva Veda, redatto intorno al 900 a.C., contiene una raccolta di formule magiche. Alla letteratura vedica appartengono anche i Brahmana, ponderose esposizioni dei rituali e dei miti a essi connessi, oltre alle Upanishad, testi di carattere filosofico composti a partire dal 600 a.C. come compendio delle più antiche speculazioni circa il significato dell'esistenza e la natura dell'universo. Queste opere canoniche, pur venerate da una tradizione che impone di custodirne scrupolosamente l'integrità testuale, sono state sostituite da un'altra collezione di antichi scritti detta Smrti, "ciò che è ricordato". Rientrano in questo canone più popolare i grandi poemi epici: il Mahabharata, narrazione che in quasi 100.000 versi compendia la lotta dei Pandava, guidati da Krishna, contro i Kaurava; il Ramayana, racconto, in oltre 24.000 versi, del viaggio intrapreso da Rama alla ricerca della moglie Sita rapita dal demone Ravana; i Purana, esposizioni di temi mitologici e cosmologici; le codificazioni, "Dharmashastra" e "Dharmasutra", della legge sacra, tra le quali le cosiddette Leggi di Manu. Questa ricca letteratura, per la quale è difficile fissare date di composizione (i due poemi epici risalirebbero a un periodo compreso fra il 300 a.C. e il 300 d.C.), contiene inoltre numerose narrazioni relative alla cosmologia, motivo ispiratore fondamentale della filosofia dell'Induismo, fondata su una concezione che intende l'universo come un grande uovo cosmico con cieli, mondi infernali, oceani e continenti disposti concentricamente intorno all'India; questo universo sconfinato è destinato a una esistenza eterna ma ciclica, segnata da una degenerazione costante e inesorabile, da una sorta di Età dell'Oro della durata di 1.728.000 anni, detta Krta Yuga, fino all'epoca più triste e precaria, il Kali Yuga, di 432.000 anni, al culmine della quale il cosmo viene interamente divorato dalle fiamme e dai flutti come in un rito di purificazione generale capace di rigenerare l'Età dell'Oro e dare avvio a un nuovo ciclo. Allo stesso modo l'esistenza umana è coinvolta nel ciclo inarrestabile delle rinascite, reso possibile dalla trasmigrazione delle anime, che alla morte dell'individuo si reincarnano nel corpo di un altro essere vivente, in un processo eterno conosciuto come samsara. Ogni uomo è destinato a reincarnarsi in un essere di qualità superiore o inferiore secondo i meriti accumulati nell'esistenza attraverso l'insieme delle sue azioni, il karma, realtà tendenzialmente negativa, ma indirizzabile verso un fine positivo per mezzo di pratiche di devozione e di espiazione che trovano il loro vertice nelle forme di ascetismo volte a ottenere la "liberazione", moksha, dall'attaccamento alla realtà materiale e alle errate concezioni dell'esistenza. Nei concetti essenziali di samsara, karma e moksha, la tradizione indiana sintetizza i contenuti essenziali di una visione sostanzialmente pessimistica circa il valore della realtà cosmica e materiale, il cui incombere inesorabile deve essere assolutamente esorcizzato attraverso un cammino di liberazione e di rinuncia al mondo, secondo l'ideale delle numerose correnti ascetiche presenti in India fin dall'antichità. L’Induismo impone a ogni fedele di assumere un ruolo preciso nella società, per portare a compimento il dovere assegnatogli dal karma al momento della nascita, contribuendo a perpetuare il ciclo della storia attraverso la procreazione e a procurare il benessere materiale a sé e ai suoi simili, nella speranza di ottenere il premio delle proprie azioni nell'esistenza futura con la trasmigrazione della propria anima nel corpo di un essere di livello sociale superiore o in quello di un asceta. Questo atteggiamento fornisce la giustificazione filosofica per la dottrina più nota e controversa dell'Induismo, ovvero la rigida divisione della società in classi, varna, note in Occidente con il termine caste, alle quali si appartiene per nascita senza alcuna possibilità di sfuggire alle severe norme di una concezione gerarchica.
Un ruolo di assoluta preminenza è attribuito infatti ai membri delle tre classi superiori, quelle dei sacerdoti (brahmani), dei guerrieri (ksatriya) e dei lavoratori qualificati (vaisya), che riservano una condizione di totale sottomissione a chi appartiene alle caste inferiori, da quelle considerate servili (sudra) fino a quelle, disprezzate come impure, degli "intoccabili" o "paria". Questi ultimi, in India, sono definiti candala, termine riferito propriamente a chi si trovi nella condizione di "fuori casta" perché nato dall'unione illecita fra una donna di casta brahmanica e un uomo di casta servile. Il matrimonio fra coniugi appartenenti alla stessa classe costituisce una delle regole fondamentali dell'organizzazione castale, le cui origini storiche risalirebbero all'epoca dell'insediamento in India delle tribù indoeuropee, portatrici di una "ideologia tripartita", con le figure del sacerdote, del guerriero e dell'agricoltore poste a garanzia della buona organizzazione della società: riservandosi queste tre funzioni e tramandandole ereditariamente nelle caste superiori. Gli indoeuropei hanno inquadrato nelle caste inferiori gli abitanti indigeni dell'India. Formalmente abolito dalla costituzione dell'India moderna, il sistema delle caste continua comunque a rappresentare per la tradizione indù l'ambito privilegiato per la realizzazione dell'ordine sociale, riflesso dell'ordine cosmico, il dharma, che ogni fedele contribuisce a determinare conformandosi ai doveri previsti dallo svadharma, il dharma del singolo individuo, e impegnandosi a realizzare con successo, anche in termini meramente materiali, il fine (artha) assegnato alla sua esistenza. Contemplando tra i fini essenziali dell'essere umano anche il soddisfacimento del desiderio amoroso, karma, il pensiero indù non scorge, in questa tendenza a codificare ogni aspetto della vita sociale e materiale, alcuna contraddizione con l'aspirazione alla moksha, la liberazione che gli asceti cercano in modo radicale mirando a cogliere l'identità fra l'atman, l'anima individuale, e il brahman, il fondamento dell'universo. La volontà di armonizzare in modo sempre più efficace questi due aspetti portò alla definizione di concetti come quello di "dharma eterno", sanatana dharma, una sorta di codice etico ideale che, sovrapponendo ai doveri sociali alcuni atteggiamenti più specificamente ascetici, aspira a superare, considerandole come necessità relative, le prescrizioni del dharma tradizionale, come avviene nel caso della definizione della "non violenza", ahimsa, concepita come assenza del desiderio della violenza da parte del fedele, che tuttavia è disposto a utilizzarla qualora il proprio ruolo nella società e le condizioni contingenti lo richiedano. Si delinea così la dottrina centrale dell'Induismo che invita il fedele a rispettare le regole del vivere sociale assumendo tuttavia un atteggiamento di totale distacco da questa dimensione e soprattutto dai frutti prodotti dalle azioni; secondo l'insegnamento della Bhagavad-Gita, uno dei principali testi di riferimento della devozione indù, il saggio accetta tutte le incombenze assegnategli dal karma, imponendosi tuttavia di non godere in alcun modo del frutto delle proprie azioni e di non considerarle come l'orizzonte principale della propria esistenza. Gli obblighi sociali costituiscono soltanto, assieme ai riti, il contributo del singolo fedele alla necessità del karma, superabile comunque attraverso la conoscenza (jnana) della dimensione trascendente, quella del brahman universale, che è accessibile per mezzo della meditazione. Sintesi efficace, anche a livello di pratica popolare, di queste due tappe fondamentali dell'espressione religiosa, è il concetto di bhakti, la devozione entusiastica alle divinità: interpretando infatti i singoli esseri divini come emanazioni dello spirito universale, il brahman, la tradizione indù consente al devoto di soddisfare, con la pratica della bhakti, le esigenze del karma, imponendogli di riservare agli dei tutti gli atti di culto previsti dal rituale, che costituisce però soltanto la prima tappa del percorso devozionale e il preludio al momento della comprensione, attraverso la conoscenza, della divinità come parte della realtà ultima, infinitamente superiore alla sua manifestazione materiale, fonte di illusione (maya) per quanti si limitino a essa spinti dall'ignoranza.
Gli dei e il culto
I fedeli rivolgono la loro devozione preferibilmente a una delle divinità principali del pantheon indiano, a Shiva, a Vishnu o alla dea madre, Devi, considerando ciascuno di essi come manifestazione dell'assoluto universale, personificato anche nella divinità creatrice, Brahma, il regolatore della legge del karma. Contemplando l'estasi erotica della sua seconda sposa, Sarasvati, talvolta indicata anche come sua figlia, Brahma si sarebbe ritrovato con cinque teste, prima che Shiva gliene mozzasse una per punirlo del rapporto incestuoso con la figlia: i devoti di una delle tante correnti shivaite usano ancora come ornamento un teschio, come Shiva fu costretto a fare dopo il suo gesto cruento, fino al giorno in cui si sarebbe purificato dal sangue del padre immergendosi nelle acque del Gange nel luogo dove oggi sorge la città sacra di Benares. Shiva assume così a livello cosmologico il ruolo di distruttore e, nello stesso tempo, rigeneratore del mondo, colui che dispensa la morte, ma anche la vita; nei templi a lui dedicati, la sua forza creatrice viene rappresentata sotto forma di fallo, linga, il principio maschile che, unendosi al principio femminile, yoni, determina la creazione primordiale concepita come annullamento di ogni dualismo nelle forme dell'assoluto universale. Secondo la leggenda, Shiva fu condannato ad assumere un aspetto fallico per non avere interrotto, pur trovandosi al cospetto del saggio Bhrgu, la sua unione sessuale con Parvati, uno degli aspetti con i quali si manifesta la dea madre; questa natura così esplicitamente sensuale del dio non impedisce comunque che egli eserciti la funzione di divinità principale degli asceti, che lo raffigurano come un saggio dedito all'esercizio dello yoga, il quale è una delle pratiche tipiche proposte dalla tradizione indiana come via per armonizzare le esigenze della vita attiva con l'ideale della rinuncia. Lo yoga è la prescrizione delle quattro fasi della vita (asrama), alle quali dovrebbe conformarsi il brahmano devoto, osservando un regime di castità assoluta durante il periodo di formazione giovanile, prima di compiere i suoi doveri di padre di famiglia fino alle soglie della vecchiaia, quando si ritirerà nella foresta alla ricerca della liberazione, per raggiungere, nell'ultima tappa del cammino, una condizione simile a quella dei sannyasin, gli asceti della rinuncia assoluta. Al dio Vishnu viene invece attribuito il ruolo di conservatore del mondo, che egli esercita manifestandosi in determinati momenti della storia del cosmo attraverso un'incarnazione, avatara, per riportare l'ordine fra gli uomini, minacciati da una condizione di instabilità. Al termine di questa era cosmica Vishnu tornerà a manifestarsi agli uomini come figura escatologica che riporterà nel cosmo l'epoca della felicità e del trionfo del dharma.
Lakshmi è il nome che la dea madre Devi assume come consorte di Vishnu e dea della buona sorte, Shri, della ricchezza e della bellezza, oltre che madre di Kama, il dio dell'amore; a lei è consacrata la vacca, animale considerato sacro e meritevole di venerazione. Alla divinità femminile vengono rivolte le pratiche di devozione che riconoscono in lei il principio assoluto in considerazione del suo ruolo di detentrice della shakti, l'energia creativa scatenata dagli esseri divini come condizione indispensabile per rendere manifesta la loro natura trascendente.
La presenza della dea come sposa delle divinità maschili appare lo strumento fondamentale per conciliare il carattere di trascendenza dell'essere divino con le sue funzioni terrene. Anche come sposa di Shiva la Devi tende ad assumere il carattere di divinità principale nei suoi aspetti benevoli di garante della fertilità e simbolo della fedeltà coniugale (la sati), ovvero "moglie virtuosa", che, gettandosi fra le fiamme per difendere di fronte al padre l'onore calpestato del marito, diverrà il personaggio ispiratore dell’abitudine, oggi ufficialmente abbandonato, di immolare le vedove sul rogo funebre del marito. Nelle sue manifestazioni più inquietanti, la dea è temuta e venerata con l'epiteto di Kali, essere mostruoso dalle otto braccia, energia distruttiva e signora del tempo, custode della legge inesorabile del karma, che divora tutto ciò che è vivo per gettare il seme della nuova esistenza, danzando freneticamente sui corpi dei nemici uccisi, fiera della sua collana di teschi.
A Kali è consacrata la città di Calcutta, dove sorge il più grande dei numerosissimi templi a lei dedicati, il Kalighat, sede del rito del sacrificio animale, che prevede di norma l'immolazione di capre.
La pratica antica del sacrificio cruento come forma di offerta votiva (puja) alla divinità, è la più importante fra i rituali della devozione indù, celebrato ormai da tempo sotto forma di offerta simbolica di cibo (orzo, riso, latte, burro fuso) all'immagine degli dei nelle migliaia di templi grandi e piccoli dedicati in tutta l'India a Vishnu, a Shiva e agli altri esseri divini. Particolarmente venerati, fra i luoghi sacri, sono i grandi edifici di culto, come quelli di Mahabalipuram, mentre a Rishikesh, sull'Himalaya, e nella città sacra di Benares, sul Gange, convergono pellegrini da tutta l'India. Oltre che nei pellegrinaggi, la devozione dei fedeli si esprime nei numerosi rituali previsti nelle festività solenni, da quella in onore di Durga (un altro aspetto della dea madre Devi), che si celebra ogni anno nel Bengala con la venerazione, per dieci giorni, delle immagini della dea, poi gettate nel Gange durante una suggestiva cerimonia notturna, ai Mela, momento di incontro fra i devoti e gli asceti, venerati come santi. La festività più solenne è certamente il Maha Kumbha Mela, la "festa della brocca" (la brocca simboleggia la funzione generativa della dea madre) celebrata ogni dodici anni ad Allahabad nel punto di confluenza fra il Gange e lo Yamuna. La ricorrenza primaverile, Holi, costituisce invece una sorta di carnevale indiano, caratterizzato significativamente dalla rottura temporanea dei legami sociali con l'incontro di membri delle diverse caste che, liberi da ogni condizionamento, manifestano la loro felicità inondandosi reciprocamente con cascate di liquidi multicolori.
Cenni storici
Per quanto la tradizione indù, fedele alla sua concezione ciclica del tempo, si dimostri poco incline a cogliere l'evoluzione storica delle sue dottrine, è possibile individuare le fasi salienti di un processo che ha portato alla nascita di questa visione religiosa come sintesi di esperienze di diversa origine. Già nel periodo compreso approssimativamente fra il 2000 e il 1500 a.C. l'India fu interessata dalla sovrapposizione fra i tratti culturali della tradizione indigena, quale appare nelle civiltà della valle dell'Indo e i caratteri importati dagli invasori indoeuropei: se i contenuti fondamentali della religione dei Veda sono di chiara matrice indoeuropea, alla civiltà indigena sarebbero da attribuire, oltre al culto della dea madre, buona parte degli atteggiamenti mistici che andranno a costituire la base dell'Induismo classico e dello yoga in particolare. Lo sviluppo dei motivi filosofici e cosmologici caratterizza i secoli che procedono dal 200 a.C. al 500 d.C. e soprattutto l'epoca dell'impero Gupta (320-540 d.C.), durante la quale l'Induismo "classico" trova la sua espressione più compiuta, come religione politeistica praticata nell'ambito del sistema brahmanico.
Con lo sviluppo della bhakti come forma privilegiata dell'espressione religiosa diviene sempre più marcata la tendenza alla molteplicità degli indirizzi teologici e rituali, tanto che la nascita di correnti e di sette vicine all'uno o all'altro orientamento costituisce il tratto più evidente della storia dell'Induismo dall'800 fino al 1800; sorte in seguito alla predicazione di maestri autorevoli, i guru, le correnti religiose sono assimilabili ai movimenti filosofici, come quelli che si svilupparono intorno alle figure di Shankara, il teorico del monismo più puro, e di Ramanuja, animato invece dal desiderio di conciliare la fede nel brahman assoluto e senza attributi con la devozione a una divinità dotata di attributi peculiari. Questi due orientamenti si inquadrano nell'ambito del vedanta, uno dei sei sistemi fondamentali della filosofia indiana, che rielaborarono le dottrine dell’Induismo.
I numerosi movimenti, come quelli dell'Arya Samaj e del Brahma Samaj, sorti a partire dal XIX secolo e classificati convenzionalmente come manifestazioni del cosiddetto "neoInduismo" sono accomunati dalla volontà di restituire vigore ai contenuti della tradizione indù, intesa come strumento di difesa dell'identità nazionale di fronte al diffondersi in India della cultura europea. L'attività politica di Mohandas Gandhi, che per liberare l'India dal dominio britannico si ispirò al concetto buddhista di ahimsa, la non-violenza, riproposta però nelle forme del satyagraha, la "resistenza passiva" vissuta e innervata dalla "forza della verità", costituisce certamente il più noto fra i tentativi di riutilizzare in senso sociale i principi della religione antica.
L’Induista a tavola
L’Induista deve prestare attenzione alla propria purezza, perciò deve essere attento agli alimenti con i quali si nutre.
La distinzione tra cibi puri ed impuri è alla base di tutte le regole della buona educazione a tavola, regole che però non sono uguali per tutti in quanto possono cambiare da costa a costa secondo le zone abitate. Particolare attenzione viene rivolta ai tipi di alimenti, alla loro provenienza, a chi li ha cucinati, agli ambienti nei quali vengono preparati e gustati, ai riti che devono accompagnare la consumazione ed anche ai commensali con i quali si divide il proprio posto.
Il cibo crudo è quello più naturale ed è considerato sempre più puro degli alimenti cotti.
Nei libri “VEDA” la vacca occupa un posto di primo piano: infatti essa non può essere uccisa in quanto sacra.
Per comprendere la santità di questo animale bisogna considerare il fatto che circa l’85%della popolazione indiana vive ancora nei villaggi e che la civiltà agricola ed arcaica ha sempre avuto nella mucca il suo perno di vita.
Bibliografia:
•A. COOMARASWAMY: Induismo e Buddismo – Edizioni Rusconi;
• R. GIRAULT: Le Religioni orientali – Edizioni Pozza
• A. MORETTA: Miti indiani – Edizione Longanesi
• Enciclopedia MICROSOFT ENCARTA 99;
A cura di Rossella de Candia
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