Postmoderno

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Testo

La filosofia postmoderna risulta strettamente connessa a una serie di trasformazioni storiche e sociali. Infatti, alle spalle della sua contestazione del moderno troviamo quell’insieme variegato di avvenimenti storici (le guerre mondiali, gli orrori del campo di concentramento, i fallimenti del socialismo reale, gli inconvenienti del capitalismo, i pericoli di un conflitto nucleare, la minaccia di una catastrofe ecologica, ecc.) che hanno sradicato alla base i principali “miti” degli ultimi secoli, a cominciare da quello del “progresso” necessario e senza fine. Il postmoderno nasce invece da un atto di sfiducia nei confronti delle varie “storie di emancipazione”, ovvero di quelli che Lyotard chiama i “grandi racconti”.
Particolarmente stretti risultano anche i rapporti fra postmoderno e “società complessa” di tipo postindustriale.
Il postmoderno si sforza, contro ogni forma di omogeneizzazione e di pianificazione, di far valere le istanze della molteplicità e della differenza, sino a farsi portavoce della fisionomia policentrica e diversificata delle odierne società plurirazziali e pluriculturali.
Questa valorizzazione della società complessa ha condotto i postmoderni a valorizzare le tecnologie informatiche e multimediali che ne stanno alla base e che risultano scarnate dalla nuova figura dell’uomo come ricetrasmettitore di messaggi.
Si è configurato un tipo di economia e di società che è stato definito “società postindustriale”. Si intende, con questa espressione, un tipo di società in cui il settore terziario (servizi e industria) è preminente; in cui una quantità di servizi, prodotti dalla pubblica amministrazione (istruzione, sanità, trasporti, ecc..) o dai privati è offerta al pubblico; in cui l’informazione è il bene primario (e quindi produzione e vendita di informazione sono divenuti fondamentali attività economiche); in cui, infine, il lavoro puramente esecutivo o solamente manuale tende a ridursi (la classe operaia in senso tradizionale è infatti in diminuzione in tutti i Paesi più industrializzati), mentre tendono a crescere le mansioni intellettuali, creative o di controllo.
Tuttavia è importante ricordare che in tale società esistono delle profonde contraddizioni e dei fattori altrettanto negativi:
• Disuguaglianze sociali (emarginazione di minoranze razziali)
• Cattivo rapporto con l’ambiente
• Consumismo avanzato
• Mancanza di certezze

Chi ha introdotto la nozione post-moderno in filosofia è stato Jean-François Lyotard (1924-1998) a partire dal fortunato libro "La condizione postmoderna". Esso era già impiegato nell’ambito specifico della critica letteraria e dell’architettura negli anni ’60 per indicare da un lato la corrente statunitense che riscriveva ironicamente la tradizione letteraria e dall’altro una tendenza architettonica eclettica caratterizzata dal ripescaggio frammentario e disorganico di espressioni artistiche del passato.
In ambito filosofico e culturale più ampio con il termine postmoderno si intende la consapevolezza di una rottura prodottasi rispetto ai valori e ai principi della modernità; esso mette in questione il rapporto con la modernità sottolineando la frattura di senso che si è verificata in tempi recenti – comunque successivi alla seconda guerra mondiale – rispetto alla tradizione culturale moderna (stabilitasi a partire dal Cinquecento). Lyotard sviluppa filosoficamente questa contrapposizione culturale, sostenendo che il tramonto della cultura moderna è consistito nell’abbandono delle “grandi narrazioni” e delle mitologie generali del progresso e dell’emancipazione dell’umanità.
La loro funzione era di legittimare la storia umana configurandola come svolgimento verso un certo fine, alla cui luce divenivano comprensibili i vari passaggi e che forniva anche criteri di comportamenti.
Le due principali narrazioni o “metaracconti” della modernità sono, nel libro di Lyotard, quello illuministico (che vede la storia dell’umanità come un processo di rischiaramento nella conoscenza, da cui dipende anche un crescente dominio dell’uomo sulla natura e dunque una vita più facile e felice); e quello idealistico, che pensa piuttosto a una progressiva intensificazione dell’autocoscienza dello spirito umano (non diretta alla conquista del mondo esterno, come l’illuminismo, ma all’appropriazione di sé in un processo di liberazione lungo il quale l’uomo diventa quasi identico a Dio…). Un misto di questi due metaracconti è secondo Lyotard, il marxismo: per il quale si tratta certo di conquistare il mondo materiale ma allo scopo di far sì che l’uomo torni presso di sé, si riappropri assumendo una autocoscienza piena e non più ostacolata dalla soggezione a condizioni “alienanti”.
La credenza nei metaracconti si è dissolta, secondo Lyotard per molteplici ragioni, che hanno a che fare sia con eventi storici, sia con la debolezza interna dei metaracconti stessi, sia con tratti generali della nostra epoca tardo industriale. Ma più in generale il metaracconto illuministico e quello idealistico si infrangono in relazione agli sviluppi della scienza e della tecnica: esse non si lasciano più pensare come un modo di emancipare l’umanità (in seguito agli effetti negativi della scienza sulla vita) o di intensificare la libertà dello spirito (anche perché le scienze non si lasciano più unificare in un'autocoscienza spirituale…).
Il venir meno delle “grandi narrazioni” porta al recupero di una dimensione culturale locale e forzatamente frantumata nella quale prevale il mercato culturale e il flusso delle informazioni.
A tale interpretazione della modernità, che si concretizza con una “presa di congedo” dai miti della modernità, corrisponde una prospettiva alternativa che privilegia una razionalità tollerante e plurale di tipo “debole” e una visione non progressiva e lineare della storia.
Se vengono meno i metaracconti, sembra perduto ogni principio di legittimazione e anche di critica dell’esistente. Invece per Lyotard la legittimazione si può dare attraverso forme di consenso locale, potremmo dire di racconti al raggio limitato, in cui gruppi e società in momenti determinati convergono; sono come dei contratti contemporanei, mai organizzabili in grandi sistemi, che dunque si sottraggono ad ogni forma di “organizzazione totale” centralizzata, burocratizzata; e per cui occorre invece una continua attività di dialogo e ri-stipulazione.

C’è stata un’elaborazione filosofica italiana della tematica del postmoderno, in cui si sostiene che il postmoderno si legittima solo in base al racconto della fine dei racconti.
Ciò significa: prender atto che sono finiti i metaracconti non vuol dire semplicemente aprirsi ad una pluralità di cui non possiamo dire altro se non che deve essere plurale, ma cercare di capire perché e come i metaracconti sono finiti e usare questo “perché” come filo conduttore per giudizi e scelte etiche.
Si prenda ad esempio la fine dei regimi coloniali in tanti paesi extraeuropei. Una idea puramente “lyotardina” della pluralità si limiterebbe a compiacersi che si sia rotta l’omologazione globale coloniale e si siano moltiplicate differenti indipendenze; ma se poi si instaurano dittature? Bisogna affermare che il passaggio al postmoderno indica una direzione: dalle unità forti alle molteplicità deboli, dal dominio alla libertà, dall’autoritarismo alla democrazia.
La filosofia del “pensiero debole” afferma che il passaggio dal moderno al postmoderno è un passaggio da strutture forti a strutture deboli. Niente più sistemi, ideologie globali, ragione “centrale”.
Esponente di questa filosofia del pensiero debole, è il filosofo italiano GIANNI VATTIMO. Egli è convinto che la modernità abbia fatto il suo tempi, ovvero che sia finita la concezione moderna della storia come corso unitario e progressivo di eventi, alla luce dell’equazione nuovo = migliore: “La modernità – dice Vattimo – finisce quando, non appare più possibile parlare della storia come qualcosa di unitario"(LA SOCIETÀ TRASPARENTE).
Le ragioni di questo passaggio non sono solo di tipo intellettuale o filosofico, ma anche di tipo storico-sociale, poiché vanno dal tramonto del colonialismo e dell’imperialismo sino all’avvento della “SOCIETÀ COMPLESSA”.
Se il riscatto dei popoli sottomessi ha reso problematica l’idea di una storia centralizzata e mossa dall’ideale europeo di umanità, l’affermarsi del pluralismo e della società dei “media” ha minato alla base la possibilità stessa di una storia unitaria. Come dimostra il fatto che, se è vero che solo con il mondo moderno, cioè con “l’età di Gutenberg” di cui parla McLuhan si sono create le condizioni per costruire e trasmettere un’immagine unitaria e globale della storia umana, è altrettanto vero che con la diffusione delle tecnologie multimediali si è avuta una moltiplicazione dei centri di raccolta e di interpretazione degli avvenimenti: “la storia non è più un filo unitario conduttore, è, invece un quantità di informazioni, di cronache, di televisori che abbiamo in casa, molti televisori in una casa” (FILOSOFIA AL PRESENTE).
Per Vattimo non soltanto i mezzi di comunicazione di massa non producono una generale “omologazione”, ma, al contrario, “radio, televisione, giornali sono diventati elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di visioni del mondo; questa “pluralizzazione” appare irresistibile e rende impossibile concepire il mondo e la storia secondo punti di vista unitari.
Anche Vattimo è persuaso che i “grandi racconti” legittimanti della modernità facciano parte di una forma mentis “metafisica” e “fondazionalista” ormai superata. Di fatto egli ritiene che il passaggio dal moderno al postmoderno si configuri come un passaggio da un pensiero “forte” ad un pensiero “debole”:
• Per pensiero “forte” (o metafisico) Vattimo intende un pensiero che parla in nome della verità, dell’unità della totalità, ovvero un pensiero illusoriamente proteso a fornire “fondazioni assolute” del conoscere e dell’agire.
• Per pensiero “debole” (o postmetafisico) intende un pensiero che rifiuta le categorie forti e le legittimazioni onnicomprensive.
Nella società postmoderna, assieme alla fine della storia si vede dunque la fine dell’ideale di “una società trasparente”, verso una società sempre più complessa persino “caotica” in cui si incrociano linguaggi, culture, modelli di vita e di pensiero. Questo determina un effetto di “spaesamento” per l’individuo, il quale avverte, non senza un senso di angoscia, che non esiste una sola “lingua” (la sua), ma tanti “dialetti”: ora, per Vattimo, proprio questo spaesamento ha in sé grandi potenzialità di “emancipazione”. Tale “emancipazione” consiste nel percepire la relatività dei propri valori e la necessità di un dialogo con le altre culture.
Il pensiero debole si presenta esplicitamente come una forma di “nichilismo”. Con questo termine il filosofo torinese intende la circostanza in cui, come aveva profetizzato Nietzsche, “l’uomo rotola via verso la X”, ossia quella specifica condizione di assenza di fondamenti in cui viene a trovarsi l’uomo postmoderno in seguito alla caduta delle certezze ultime e delle verità stabili.
L’individuo postistorico e postmoderno è colui che dopo essere passato attraverso la fine delle grandi sintesi unificanti e attraverso la dissoluzione di pensiero metafisico tradizionale riesce a vivere “senza nevrosi” in un mondo in cui Dio è nietzscheanamente morto, ossia in una mondo in cui non ci sono più strutture fisse e garantite capaci di fornire una fondazione “unica, ultima, normativa” alla nostra conoscenza e alla nostra azione. In altri termini, l’individuo postmoderno è colui che non avendo più bisogno “della rassicurazione estrema” di tipo magico, che era fornita dall’idea di Dio, ha accettato il nichilismo come chance destinale ed ha imparato a vivere senza ansie nel mondo relativo delle “mezze verità” con la raggiunta consapevolezza che l’ideale di una certezza assoluta, di un sapere totalemete fondato e di un mondo come sistema razionale compiuto è solo “un mito rassicurativo proprio di una umanità ancora primitiva e barbara”. Un mito che non è affatto qualcosa di “naturale”, bensì di “culturale”, ovvero di storicamente acquisito e tramandato”.

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