Pitagora.

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Testo

Pitagora (Samo 575 ca. - Metaponto 490 ca. a.C.)
Il dio Ermes volendo fare un regalo al figlio Etalide (secondo altri, il padre di Etalide fu Apollo), gli promise qualsiasi cosa avesse voluto ad eccezione dell’immortalità, ed Etalide pensò bene di chiedergli un’eterna memoria, ovvero la possibilità di ricordare, anche dopo morto, tutte le vite precedenti. Grazie a questa facoltà, Pitagora sostenne di aver già vissuto quattro volte (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 4) e, in particolare, di essere stato prima Etalide, poi Euforbo, nei cui panni era stato ferito a Troia da Menelao, quindi Ermotimo, che a dimostrazione di quanto sopra aveva riconosciuto in un tempio lo scudo di Menelao, e infine Pirro, un povero pescatore dell’isola di Delo. Tra una reincarnazione e l’altra, la sua anima si era trasferita in numerose specie animali e perfino in qualche pianta. Altre volte invece gli era capitato di scendere nell’Ade (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 21), dove aveva intravisto Omero appeso a un albero ed Esiodo incatenato a una colonna, colpevoli entrambi di aver trattato gli Dei con troppa familiarità. La serie delle apparizioni di Pitagora comunque non termina con lui: alcuni biografi posteriori (Aulo Gellio, Notti attiche IV 11, 14) raccontano che il filosofo si sia reincarnato di nuovo in un certo Periandro, quindi nel corpo di un uomo chiamato anch’egli Etalide e, per finire, nelle vesti profumate di Alco, una bellissima donna che di mestiere faceva la prostituta. A conti fatti pare che il ciclo delle reincarnazioni fosse di 216 anni (il 216 era uno dei numeri magici della scuola pitagorica, essendo il cubo del numero 6) per cui l’ultima apparizione sulla Terra dovrebbe essere avvenuta intorno al 1810 d.C.
Erodoto racconta che Pitagora ebbe come schiavo un Dio, un certo Zamolxis (Erodoto, Storie IV 95). Questo schiavo, una volta diventato libero e molto ricco, si costruì una bellissima villa e invitò a cena i “primi cittadini” del suo paese nativo. Durante il banchetto Zamolxis comunicò agli invitati che essi non sarebbero mai morti e che lui stesso era un immortale che andava e veniva dall’Ade a suo piacimento. Ciò detto scomparve all’improvviso e si rinchiuse in un appartamento sotterraneo che si era precedentemente costruito. Qui rimase per più di tre anni finchè un giorno, quando ormai tutti lo davano per morto, spuntò fuori, più arzillo che mai, e fu venerato come un Dio dal popolo dei geti.
Poiché non esistono resoconti di prima mano della sua vita e della sua opera, la sua figura è avvolta nel mito e nella leggenda e ciò rende difficile per gli storici separare la realtà dall’immaginazione.
Giustamente gli storici più seri si sono sempre rifiutati di riportare gli aneddoti scritti su di lui: il De Ruggiero, per esempio, sostiene che “per una ricostruzione storica del pitagorismo, tutto questo materiale non ha alcun valore” e l’Adorno conferma che “poco o nulla si sa di storicamente documentabile”. I principali biografi di Pitagora sono Giamblico, filosofo del IV sec. d.C. che scrisse nove libri sulla setta pitagorica, e Porfirio.
Pitagora, figlio del gioielliere Mnesarco, nacque nel 570 a.C. nell’isola di Samo, a poche miglia dalla città di Mileto. Grazie a una raccomandazione avuta dallo zio Zoilo (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 2), fece la scuola d’obbligo con il grande Ferecide che, a quanto racconta Apollonia, come prima cosa gl’insegnò a fare i miracoli. Morto Ferecide, volendo specializzarsi in scienze matematiche, pensò bene di rivolgersi ai più illustri professori dell’epoca: i sacerdoti egiziani. Mise quindi in una valigia tre calici d’argento, presi dal negozio del padre, una lettera di raccomandazione del tiranno Policrate per il Faraone Amasi, e s’imbarcò sulla prima nave in partenza.
Una volta raggiunto l’Egitto, le cose presero subito una brutta piega: i sacerdoti Eliopoliti, malgrado il regalino del calice d’argento e il fatto che Pitagora fosse “persona” del Faraone, si dichiararono ipocritamente indegni di un così illustre allievo e lo spedirono ai più anziani e venerabili sacerdoti di Menfi; questi a loro volta, con lo stesso pretesto, lo scaricarono ai sacerdoti di Tebe, i terribili Diopoliti, i quali, buon ultimi, non avendo più a chi passare la patata bollente, lo sottoposero a prove di eccezionale durezza. Avevano fatto i conti senza il carattere tosto di Pitagora: il nostro filosofo superò brillantemente qualsiasi ostacolo e finì col conquistarsi l’ammirazione dei suoi stessi aguzzini che, giunti a quel punto, non poterono fare a meno di accoglierlo come un fratello e di metterlo a parte di tutti i misteri (Porfirio, Vita di Pitagora 7).
Terminata l’esperienza egiziana, Pitagora completò la sua preparazione andando in giro per il mondo (Porfirio, Vita di Pitagora 6): c’è chi lo segnala allievo dei caldei per l’astronomia, dei fenici per la logistica e la geometria, e dei Magi (una delle sette tribù in cui si divideva il popolo dei medi in Asia Minore: avevano fama di essere tutti esperti di magia, che da loro prese nome) per i riti mistici; alcuni racconti vorrebbero farci credere che si fosse spinto sino all’India e alla Gran Bretagna.
I suoi incontri con le personalità del secolo sono tanto numerosi quanto improbabili: si parla perfino di una sua visita a Numa Pompilio che era già morto cento anni prima della sua nascita. Tra gli incontri determinanti citiamo quello con il persiano Zarathustra (Ippolito, Confutazione di tutte le eresie I 2, 12) durante il quale Pitagora apprese la teoria degli opposti. Tutto, diceva Zarathustra, si genera dallo scontro delle forze del Bene e del Male; con le prime si schierano la Luce e l’Uomo, con le seconde le Tenebre e la Donna.
Dopo vent’anni di viaggi Pitagora aveva assimilato tutte le regole matematiche allora note nel mondo antico. Veleggiò alla volta di Samo con l’intenzione di fondarvi una scuola dedita allo studio della filosofia e che si occupasse particolarmente di ricerche sulle regole matematiche da poco acquisite. Egli sperava di trovare un folto numero di studenti amanti del libero pensiero che potessero aiutarlo a sviluppare una filosofia radicalmente nuova, ma durante la sua assenza dall’isola, il tiranno Policrate aveva trasformato la città un tempo liberale in una società intollerante e conservatrice.
Più che un re costui era un vero e proprio pirata (B. Russel, Storia della filosofia occidentale): le sue navi razziavano chiunque osasse avvicinarsi alle coste ionie. In politica estera si alleava sempre con i peggiori salvo a cambiare bandiera non appena aveva sentore che il vento girasse. A corte non faceva che gozzovigliare insieme ad alcuni intellettuali come Ibico e Anacreonte e a un centinaio di giovani ragazze e di leggiadri fanciulli (Erodoto Storie III 39-46, 121). Policrate invitò Pitagora a unirsi alla sua corte, ma il filosofo capì che era solo un tentativo per metterlo a tacere e perciò declinò l’invito. Lasciò allora la città, ritirandosi in una spelonca in una parte remota dell’isola dove poteva meditare senza tema di essere perseguitato.
A Pitagora l’isolamento non piacque e alla fine si trovò costretto a pagare un giovinetto perché diventasse suo alunno. L’identità del ragazzo è incerta, ma alcuni storici hanno suggerito che anche lui si chiamasse Pitagora e che questo studente, in seguito, sarebbe diventato famoso per essere stato il primo a suggerire che gli atleti dovevano cibarsi di carne per migliorare la propria condizione fisica. Pitagora, l’insegnante, pagava allo studente tre oboli per ogni lezione frequentata e si accorse che, con il passare delle settimane, l’iniziale riluttanza del ragazzo ad apprendere si era trasformata in entusiasmo per il sapere. Per misurare il proprio successo Pitagora finse di non poter più permettersi di pagare lo studente e che le lezioni dovevano cessare; allora lo studente, per non dover interrompere la propria istruzione, si offrì di pagare lui il maestro. L’alunno era così diventato un discepolo. Purtroppo questa fu la sola conversione che Pitagora riuscì a praticare a Samo. Stabilì temporaneamente una scuola nota come il Semicerchio di Pitagora, ma le sue idee di riforma sociale erano inaccettabili e il filosofo, a quarant’anni, fu costretto a fuggire dalla colonia con la madre e l’unico discepolo.
Pitagora partì alla volta dell’Italia meridionale, parte della Magna Grecia, e si stabilì a Crotone (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 3) dove ebbe la fortuna di trovare un patrono ideale in Milone, l’uomo più ricco della città e uno degli uomini più robusti che siano mai esistiti. La fama di Pitagora come sapiente di Samo si era già diffusa in tutta la Grecia, ma quella di Milone era ancora più grande. Era un uomo di dimensioni erculee, che era stato campione per dodici volte nei Giochi Olimpici e nei Giochi Pitici. Oltre all’atletismo, Milone apprezzava e praticava anche la filosofia e la matematica. Mise a disposizione una parte della propria casa e offrì a Pitagora stanze sufficienti per l’istituzione di una scuola. Avvenne così che la mente più creativa e il corpo più potente formarono un sodalizio. Nel frattempo l’assemblea del potere invitò Pitagora a parlare ai giovani della saggezza greca e lui, al sicuro nella sua nuova dimora, fondò il Sodalizio pitagorico, un gruppo di seicento seguaci non soltanto in grado di capire i suoi insegnamenti, ma anche capaci di contribuire alla dottrina pitagorica elaborando nuove idee e nuove dimostrazioni.
Entrando nel Sodalizio, ogni seguace doveva versare in un fondo comune tutti i propri beni materiali e se qualcuno avesse deciso di andarsene, avrebbe ricevuto il doppio della ricchezza donata in origine e una lapide sarebbe stata eretta in suo ricordo. Il Sodalizio era una scuola egualitaria e comprendeva ventotto donne. L’allievo favorito di Pitagora era la figlia dello stesso Milone, la bellissima Teano e, nonostante la differenza d’età, essi finirono per sposarsi.
Subito dopo aver fondato il Sodalizio, Pitagora coniò la parola filosofo che, tradotto alla lettera, vorrebbe dire “amante della sapienza” e, così facendo, definì gli scopi della scuola. Ciò nonostante Pitagora, pur essendo il primo filosofo della storia a fregiarsi di questo titolo, fondò una scuola che, per ambizione di potere, divenne ben presto più una setta politica che non un’Università di studi filosofici. C’è chi ha avanzato l’ipotesi che il pitagorismo sia stato una specie di succursale dell’orfismo, ovvero di un movimento religioso fiorito in Grecia nel VII secolo, nel quale gli affiliati, con la scusa di doversi identificare col dio Dioniso, se la spassavano tra orge e baccanali.
Mentre assisteva ai Giochi Olimpici, Leone, tiranno di Flio, chiese a Pitagora come si sarebbe definito e lui rispose: “Sono un filosofo” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 8), ma Leone non aveva mai sentito prima quella parola e gli chiese di spiegarsi.
“La vita, principe Leone, può essere ben a ragione paragonata a questi Giochi pubblici, perché nella vasta folla qui convenuta taluni sono attirati dal guadagno, altri sono mossi solo dalla speranza e dall’ambizione di ottenere la fama e la gloria. Ma tra costoro ve ne sono alcuni, che sono venuti qui per osservare e capire che cosa accade.
Nella vita avviene lo stesso. Alcuni sono influenzati dall’amore della ricchezza, mentre altri sono ciecamente condotti dal folle desiderio di potere e di dominio, ma l’uomo migliore si dedica a scoprire il significato e lo scopo della vita stessa. Egli cerca di scoprire i segreti della natura. È questo l’uomo che io chiamo filosofo perché, sebbene nessun uomo sia completamente saggio sotto ogni rispetto, egli può amare la sapienza in quanto chiave di accesso ai segreti della natura.”
Nel Sodalizio venivano osservate una serie di regole stranissime. Eccone alcune:
* non mangiare le fave;
* non spezzare il pane;
* non attizzare il fuoco col ferro;
* non toccare il gallo bianco;
* non mangiare il cuore;
* non guardarti nello specchio accanto al lume;
* quando t’alzi dal letto non lasciare l’impronta del tuo corpo;
* quando togli la pignatta dal fuoco rimescola le ceneri.
Forse è inutile cercare di capirci qualcosa: nelle religioni molto spesso i precetti rappresentano solo una disciplina utile a infondere lo spirito di gruppo. Nel nostro caso al massimo potremmo ricavarne qualche significato metaforico: “non spezzare il pane” ad esempio potrebbe voler dire “non spezzarti dagli amici” oppure il “non attizzare il fuoco con il ferro” starebbe per “sii sempre disposto a perdonare”. In ogni caso il comandamento più astruso del catechismo pitagorico resta sempre quello delle fave (Aulo Gellio, Notti attiche IV 11, 1-2). Secondo Aristotele Pitagora odiava tanto le fave per via di una qualche rassomiglianza con l’organo maschile; secondo altri, invece, si trattava di un’allergia che si portava dietro fin da bambino. Certo che in sua presenza era proibito perfino nominarle.
Gl’iniziati vivevano tutti insieme secondo il regime della comunità dei beni. Ogni sera al tramonto erano costretti a porsi tre domande:
a) che cosa ho fatto di male,
b) che cosa ho fatto di bene,
c) che cosa ho omesso di fare.
Dopo di che dovevano pronunciare la seguente frase: “Lo giuro su Colui che ha rivelato alla nostra anima la divina tetraktýs” (la tetraktýs era il numero 10, numero divino per eccellenza secondo i pitagorici).
Tutte le notti il Maestro parlava. Ad ascoltarlo venivano da ogni parte del mondo. Lui però non si mostrava a nessuno: parlava tenendosi nascosto dietro a una tenda. Chi per combinazione, fosse anche di sfuggita, riusciva a vederlo, se ne gloriava poi per tutta la vita (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 15). “Egli aveva un aspetto maestoso, il volto splendente e le chiome ondeggianti, era avvolto in un manto bianco e da tutto il suo essere emanava un’affabile dolcezza” (J. Burckhardt).
Ogni suo discorso iniziava con la frase: “Per l’aria che respiro, per l’acqua che bevo, non sopporterò alcuna obiezione su ciò che sto per dire” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 6).
Solo pochi fortunati erano ammessi alla sua presenza: gli stessi allievi non avevano il bene di vederlo se non dopo cinque anni di studi. Un giorno una matricola, sgusciata di nascosto nei suoi appartamenti, riuscì a scorgerlo mentre faceva il bagno in una tinozza e raccontò agli altri di aver intravisto una coscia d’oro (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 11); per Eliano invece sembra che sia stato lui stesso, a Olimpia, a mostrare in teatro il suo femore d’oro (Eliano, Storia varia II 26).
Pitagora era solito dividere il prossimo in due categorie: i matematici, ovvero coloro che hanno diritto ad accedere alla “conoscenza” (mathémata), e gli acusmatici che invece possono solo stare a sentire (A. Plebe, Storia del pensiero, Roma 1979). Per meglio differenziare i due gruppi, costruì un linguaggio per i matematici di codici numerici e messaggi simbolici.
A Pitagora furono attribuiti numerosi eventi straordinari. Ecco un elenco dei più verosimili:
* uccise un serpente velenoso con un morso (Giamblico, Vita di Pitagora 142);
* conversò per molti anni con un’orsa daunica (Eliano, Storia varia IV 17);
* persuase una giovenca a non mangiare più fave (Giamblico, Vita di Pitagora 60-1, 142);
* accarezzò un’aquila bianca che era scesa dal cielo apposta per salutarlo (Eliano, Storia varia IV 17);
* fu visto nello stesso istante sia a Crotone che a Metaponto (Eliano, Storia varia II 26);
* fu salutato a gran voce dal fiume Nesso che, scorrendo accanto a lui, pare avesse esclamato: “Salve o Pitagora” (Giamblico, Vita di Pitagora 134).
Ad accentuare il carattere sovrannaturale del personaggio, egli fu considerato dai suoi allievi una razza a parte. Di lui si soleva dire “tre sono le nature dell’Universo: gli Dei, i mortali e quelli come Pitagora” (Giamblico, Vita di Pitagora 31). Il suo nome, nelle conversazioni, non veniva mai fatto esplicitamente: si preferiva usare l’espressione “quell’Uomo” oppure il più dogmatico autós éfe (lui stesso lo ha detto) che poi, per molti secoli ancora, nella versione latina ipse dixit, servirà a porre fine a qualsiasi discussione (L. Robin).
Anche se molti erano consapevoli delle aspirazioni di Pitagora, nessuno fuori del Sodalizio conosceva i dettagli o la misura del suo successo. Ogni membro della scuola era costretto a giurare di non rivelare mai all’esterno nessuna delle loro scoperte matematiche.
Un giovane studente di nome Ippaso si trastullava oziosamente con la radice quadrata di 2, nel tentativo di trovare la frazione equivalente. Alla fine si rese conto che tale frazione non esisteva, ossia che ( è un numero irrazionale. Ippaso deve essere stato felicissimo della scoperta, ma non altrettanto lo fu il suo maestro. Pitagora aveva definito l’universo in termini di numeri razionali e l’esistenza dei numeri irrazionali metteva in dubbio il suo ideale. La conseguenza dell’intelligente osservazione di Ippaso avrebbe dovuto essere un periodo di discussione e di meditazione durante il quale Pitagora avrebbe dovuto accettare questa nuova sorgente di numeri. Pitagora non era però disposto ad ammettere di aver sbagliato, ma allo stesso tempo era incapace di distruggere l’argomentazione di Ippaso con la forza della logica. Ippaso, con il suo chiaro intendimento di danneggiare la scuola, andò a spifferare la notizia della presenza dei numeri irrazionali a tutti. Ma la legge della scuola non aveva alcuna pietà per i trasgressori; così Ippaso fu condannato a morte per annegamento. Perfino dopo la morte di Pitagora, un membro del Sodalizio venne annegato per aver rotto il giuramento: aveva annunciato pubblicamente la scoperta di un nuovo solido regolare, il dodecaedro, costruito da dodici pentagoni regolari.
Il carattere segreto del Sodalizio pitagorico infastidì gli ambienti più democratici di Crotone. Tra l’altro i pitagorici guardavano tutti dall’alto in basso, si davano la mano solo tra colleghi e cercavano d’imporre a chiunque il loro catechismo. Molti chiesero di essere ammessi al santuario della conoscenza, ma solo gli intelletti più acuti vennero accolti. Un candidato respinto si chiamava Cilone, giovanotto di buona famiglia e di carattere violento. Costui non accettò l’umiliazione di essere rifiutato e vent’anni dopo si vendicò (Giamblico, Vita di Pitagora 248-9).
Durante la sessantesima Olimpiade (510 a.C.) ci fu una rivolta nella vicina città di Sibari. Teli, il capo vittorioso dei ribelli, iniziò una barbara persecuzione dei sostenitori del precedente governo, che indusse molti di loro a cercare rifugio a Crotone. Teli chiese che i traditori fossero rispediti a Sibari per scontare la pena dovuta, ma Milone e Pitagora persuasero i crotoniani a opporsi al tiranno e a proteggere i rifugiati. Teli si infuriò e raccolse subito un esercito di trecentomila uomini per marciare su Crotone, dove Milone difendeva la città con centomila cittadini armati. Dopo settanta giorni di guerra, Milone, comandante supremo, guidò i crotoniani alla vittoria e per ritorsione essi deviarono il corso del fiume Crati verso la città di Sibari, per inondarla e distruggerla (Diodoro Siculo, XII 9, 2-10, 1).
Nonostante la fine della guerra, Crotone era ancora in tumulto a causa delle liti sulla spartizione del bottino di guerra. Temendo che la terra sarebbe stata assegnata all’élite pitagorica, il popolo crotoniate cominciò a rumoreggiare. Fra le masse serpeggiava già un crescente risentimento perché i pitagorici continuavano a mantenere segrete le loro scoperte, ma nulla accadde finché Cilone si fece avanti come portavoce del popolo. Cilone fece leva sulla paura, sulla frustrazione e sull’invidia della plebaglia e la guidò nell’opera di distruzione della più geniale scuola matematica che il mondo abbia mai conosciuto. La casa di Milone e la scuola adiacente furono circondate, tutte le porte furono sprangate per impedire la fuga e poi fu appiccato il fuoco.
Pochissimi riuscirono a fuggire, tra essi Archippo, Liside e lo stesso Pitagora. Sennonché, proprio dietro la casa di Milone, c’era un vasto campo di fave e il vecchio Maestro, pur di non attraversarlo, preferì farsi uccidere dai congiurati. Secondo Porfirio invece (Porfirio, Vita di Pitagora 56), i cilonei erano delle brave persone: lo catturarono e lo rilasciarono subito dopo, dicendogli: “Caro Pitagora, tu sei molto intelligente, però noi siamo contenti delle leggi che abbiamo e non vogliamo che tu le cambi. Vattene e lasciaci in pace!”. Secondo Dicearco infine (Dicearco, fr. 34 Wehrli), il filosofo si rifugiò a Metaponto, nel tempio delle Muse, e qui si lasciò morire d’inedia con la scusa che non aveva più voglia di vivere. C’è chi dice che sia vissuto 70 anni, chi 90, chi 107 e chi addirittura più di 150 (Giamblico, Vita di Pitagora 265).
Comunque in Pitagora troviamo l’interesse per la matematica, l’intelligenza e la continua ricerca di una condizione mistico-religiosa.
Non avendo Pitagora scritto nessun libro, per sapere qualcosa sul suo pensiero è necessario rifarsi a quanto ci viene raccontato dai vari discepoli scrittori, e precisamente da Alcmeone, il suo medico di fiducia, da Archita, il tiranno di Samo, e da Filolao, un giovanotto di Crotone. Ci sono infine certe note scritte da Aristotele il quale lo nomina solo cinque volte e per il resto usa espressioni del tipo: “I cosiddetti pitagorici dicono...”.
Metempsicosi: Pitagora asseriva di essere vissuto in epoche precedenti ben quattro volte e di aver “visitato”, durante gli intervalli, vari corpi di piante e di animali. È quasi certo che il nostro filosofo abbia importato questa teoria dall’Estremo Oriente, tanto più che ancor oggi in India c’è chi la ritiene una cosa possibile. Secondo la metempsicosi, l’anima trasmigra da un corpo all’altro e viene promossa a un livello superiore (diventando mercante, atleta o spettatore: “In questa vita, dice Pitagora, ci sono tre tipi di uomini, proprio come ci sono tre categorie di persone che vanno ai giochi olimpici. La classe più bassa è formata da coloro che vanno a comprare e a vendere. Poi ci sono quelli che gareggiano per la gloria. Migliori di tutti sono però quelli che vanno semplicemente a vedere. La purificazione più perfetta è quindi la scienza disinteressata e ad essa si dedica l’autentico filosofo che si è completamente liberato dai vincoli della natura”. Questa apologia dello spettatore è riportata da B. Russel) o retrocede in una serie inferiore (albero, cane, pecora, maiale ecc.) a seconda di come si è comportata sulla terra. La morte, secondo Alcmeone (Alcmeone, fr. 2 Diels-Kranz), consente l’aggancio di una “fine” con un altro “principio” per cui, mentre un corpo muore, l’anima, in quanto immortale, percorre una traiettoria circolare, nè più nè meno di quanto non fanno le stelle in cielo. Il corpo, aggiunge Filolao (Filolao, fr. 14 Dies-Kranz), altro non è che una tomba, una prigione dove l’anima è costretta a espiare le proprie colpe.
Per colpa di questa teoria della metempsicosi, Pitagora è stato ampiamente deriso sia dai contemporanei che dai più illustri drammaturghi: Senofane, in un suo scritto, ce lo mostra nell’atto di trattenere per un braccio un uomo che bastona un cane (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 36).
“Ti prego,” dice Pitagora “non picchiare il tuo cane giacché in esso, temo si trovi l’anima di un mio amico.”
“E come fai a dirlo?” chiese l’uomo.
“Ne ho riconosciuto la voce”.
Anche nella Dodicesima notte di Shakespeare si parla della metempsicosi:
BUFFONE – Malvolio, perché mai sei così contrario alla caccia?
MALVOLIO – Perché Pitagora ha detto che nel corpo di un beccaccino potrebbe albergare l’anima di mia nonna.
BUFFONE – E allora resta pure nella tua ignoranza, giacché non ti riconoscerò guarito fin tanto che non avrai il coraggio di uccidere almeno un beccaccino senza il timore di dover sfrattare l’anima di tua nonna.
Numero: L’essenza del pensiero pitagorico sta nel credere che il Numero sia l’archè, ovvero l’elemento primordiale dell’Universo. Per Pitagora i numeri avevano uno spessore: in un frammento di Speusippo “Sui numeri pitagorici” è chiaramente specificato che il numero Uno è un punto (una specie di atomo), il Due una retta, il Tre un piano e il Quattro un solido. Poi viene precisato che due Unità Punto individuano una retta, tre Unità Punto un piano e quattro Unità Punto un solido. Dal momento che tutte le cose di questo mondo hanno una forma, è sempre possibile scomporre questa forma in un insieme di punti o di linee e quindi, in definitiva, di numeri. Aristotele racconta (Aristotele, Metafisica XIV 5, 1092b 8) che Eurito, un pitagorico della seconda generazione discepolo di Filolao, si era messo in testa di trovare il numero caratteristico di ogni essere vivente e a tale scopo aveva cominciato a contare il numero di pietruzze necessario a comporre l’immagine dell’uomo e del cavallo.
Secondo Pitagora, la perfezione numerica dipendeva dai divisori di un numero (cioè quei numeri che dividono perfettamente un numero). Per esempio i divisori di 12 sono 1, 2, 3, 4 e 6. Quando la somma dei divisori di un numero è maggiore del numero stesso, quel numero viene definito un numero “eccedente”. Perciò 12 è un numero eccedente perché i suoi divisori, addizionati, danno come somma 16. D’altro canto quando la somma dei divisori di un numero è inferiore al numero stesso, il numero è chiamato “difettivo”. Così 10 è un numero difettivo perché i suoi divisori (1,2 e 5), addizionati, danno soltanto 8.
I numeri più rari e importanti sono quelli i cui divisori, addizionati, danno esattamente come somma il numero in questione. Questi sono i numeri perfetti. Il 6 ha come divisori 1, 2, e 3, di conseguenza è un numero perfetto, perché 1+2+3=6. Il successivo numero perfetto è 28, perché 1+2+4+7+14=28.
Oltre ad avere importanza matematica per i pitagorici, la perfezione del 6 e del 28 era riconosciuta da altre culture che notarono che la luna orbita intorno alla terra in 18 giorni e che affermarono che Dio creò il mondo in sei giorni. Nella Città di Dio Sant’Agostino afferma che, sebbene Dio avrebbe potuto creare il mondo in un istante, decise di impiegare sei giorni per esprimere con quel numero la perfezione dell’universo. Sant’Agostino osservò che il 6 non era perfetto perché Dio l’aveva scelto, ma piuttosto che la perfezione era inerente alla natura del numero: “6 è un numero perfetto in se stesso e non perché Dio ha creato tutte le cose in sei giorni; è piuttosto vero l’inverso; Dio ha creato tutte le cose in sei giorni perché questo numero è perfetto. E rimarrebbe tale anche se l’opera creata in sei giorni non esistesse”.
Salendo nella serie dei numeri naturali, è sempre più difficile trovare numeri perfetti. Il terzo numero perfetto è 496, il quarto 8128, il quinto 33.550.336 e il sesto è 8.589.869.056. Pitagora notò che i numeri perfetti, oltre a essere la somma di tutti i loro divisori, presentavano parecchie altre eleganti proprietà. Tra l’altro, i numeri perfetti sono sempre la somma di una serie di numeri naturali consecutivi. Ad esempio:
6 = 1 + 2 + 3
28 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7
496 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 +...+30 + 31
8128 = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 + 6 + 7 + 8 + 9 +...+126 + 127.
Pitagora si compiaceva dei numeri perfetti, ma non era appagato semplicemente dal loro ritrovamento; desiderava piuttosto scoprirne il significato profondo. Una delle sue intuizioni fu che la perfezione era strettamente connessa al “due”. I numeri 4 (2*2), 8 (2*2*2), 16 (2*2*2*2), etc., sono noti come potenze di 2 e possono essere scritti come 2(, dove n rappresenta il numero di 2 moltiplicati tra loro. Tutte queste potenze di 2 non sono numeri perfetti per uno scarto minimo, poiché la somma dei loro divisori ammonta sempre a una cifra inferiore di un’unità al numero stesso.
Questo li rende lievemente difettivi:
2( = (2*2) = 4 Divisori 1, 2 Somma = 3,
2( = (2*2*2) = 8 Divisori 1, 2, 4, Somma = 7,
2( = (2*2*2*2) = 16 Divisori 1, 2, 4, 8 Somma = 15,
2( = (2*2*2*2*2) = 32 Divisori 1, 2, 4, 8, 16 Somma = 31.
Pitagora era affascinato dalla ricchezza di schemi e di proprietà posseduti dai numeri e ne venerava la sottigliezza e la sagacia. A prima vista i numeri perfetti sono un concetto relativamente semplice da comprendere e, tuttavia, gli antichi greci non riuscirono a sondare alcuni aspetti fondamentali del tema. Per esempio, benché ci siano moltissimi numeri i cui divisori, addizionati, danno una somma inferiore di una sola unità al numero in questione, vale a dire numeri solo lievemente difettivi, non sembra che esistano numeri lievemente eccedenti. I greci non riuscirono a trovare alcun numero i cui divisori, addizionati, dessero come somma una cifra superiore di una sola unità al numero stesso, ma non seppero spiegare perché. Purtroppo, benché non riuscissero a scoprire numeri lievemente eccedenti, non poterono dimostrare l’inesistenza di tali numeri. Capire perché non ci fossero questi numeri lievemente eccedenti non aveva alcun valore pratico e tuttavia era un problema che poteva illuminare la natura dei numeri ed era perciò degno di studio. Enigmi come questi attiravano l’attenzione dei pitagorici.
Oltre a studiare i rapporti tra i numeri, Pitagora era anche attratto dal nesso tra i numeri e la natura. Egli capì che i fenomeni naturali sono governati da leggi e che queste leggi possono essere descritte con equazioni matematiche, Uno dei primi nessi da lui scoperti fu la relazione fondamentale tra l’armonia musicale e l’armonia dei numeri.
Il più importante strumento nella musica greca dell’età più antica era la lira a quattro corde. Prima di Pitagora, i musicisti avevano notato che note particolari suonate insieme producevano un effetto piacevole e avevano accordato la lira in modo che, pizzicando due corde, potessero produrre tale armonia. Tuttavia i primi musici non capivano perché certe note particolari fossero armoniche e non avevano un metodo per accordare i propri strumenti. Li accordavano ad orecchio, finché non si produceva una condizione di armonia: una procedura che Platone definì torturare i cavicchi per l’accordatura.
Giamblico descrive come Pitagora giunse a scoprire i principi sottesi all’armonia musicale:
Una volta era immerso nel pensiero di escogitare un ausilio meccanico per il senso dell’udito che potesse dimostrarsi preciso e ingegnoso. Tale strumento doveva assomigliare ai compassi, alle squadre e agli strumenti ottici utili al senso della vista. Allo stesso modo il tatto dispone di bilance e delle nozioni di pesi e misure. Per un divino colpo di fortuna, gli capitò di passare davanti alla fucina di un fabbro e di ascoltare i martelli che battevano il ferro e producevano una variegata armonia di suoni tranne in un caso.
Secondo Giamblico, Pitagora entrò subito nella fucina per indagare l’armonia dei martelli. Notò che la maggior parte dei martelli potevano essere colpiti simultaneamente per generare un suono armonico, mentre ogni combinazione che prevedesse un particolare martello produceva sempre un rumore spiacevole. Analizzò i martelli e capì che tra quelli che erano armonici sussisteva una semplice relazione matematica: le loro masse erano in un rapporto frazionario semplice tra loro. Ciò significava che i martelli che pesavano la metà o due terzi o tre quarti di un particolare martello avrebbero tutti prodotto suoni armonici. D’altro lato il martello che produceva disarmonia quando veniva impiegato insieme con qualche altro martello aveva un peso che non era in un rapporto semplice con gli altri pesi.
Pitagora aveva scoperto i semplici rapporti numerici responsabili dell’armonia nella musica. Gli scienziati hanno sollevato qualche dubbio sulla veridicità del racconto di Giamblico, ma ciò che è più certo è che Pitagora applicò la sua nuova teoria dei rapporti musicali alla lira, esaminando le proprietà di una singola corda. Il semplice pizzicare una corda genera una nota o tono fondamentale che è prodotto dall’intera lunghezza della corda vibrante. Fissando la corda in punti particolari lungo la sua lunghezza, è possibile generare altre vibrazioni e toni. Toni armonici significativi si producono solo in punti specifici. Per esempio, se si fissa la corda in un punto esattamente a metà della sua lunghezza, si genera un tono che è di un’ottava più alto e in armonia con la nota originaria. Analogamente, fissando la corda in punti che sono esattamente un terzo, un quarto o un quinto della sua estensione, si producono altre note armoniche. Invece, fissando la corda in un punto che non è una semplice frazione della lunghezza dell’intera corda, si genera un tono che non è in armonia con gli altri toni.
Pitagora aveva scoperto la regola matematica che governava un fenomeno fisico e aveva dimostrato che, tra la matematica e la scienza della natura, c’era una relazione fondamentale. Pitagora comprese che i numeri erano celati in tutte le cose, dall’armonia musicale alle orbite dei pianeti, e ciò lo indusse a proclamare che “tutto è numero”.
La scoperta dell’esistenza di un rapporto costante fra la lunghezza delle corde di una lira e gli accordi fondamentali della musica (1/2 per l’ottava, 3/2 per la quinta e 4/3 per la quarta) lo suggestionò a tal punto da fargli credere che Dio fosse un ingegnere eccezionale e che una Legge Matematica, chiamata Armonia, avesse il compito di dirigere la natura.
Dicevano i pitagorici: “Che cosa è più saggio? Il Numero. E che cosa è più bello? L’Armonia”. All’inizio dei tempi, evidentemente, c’era stato il Caos (il Disordine), poi la Monade (il numero Uno) aveva creato i numeri, e da questi i punti e le linee, infine era giunta l’Armonia a consolidare le giuste distanze fra le cose. Tutto questo per Pitagora era il Cosmos, ovvero l’Ordine (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 25).
La salute, la virtù, l’amicizia, l’arte, la musica altro non erano che manifestazioni dell’Armonia. La salute, secondo Alcmeone (Alcmeone, fr. 4 Diels-Kranz), era il giusto equilibrio nei corpi viventi fra il caldo e il freddo, la virtù il controllo delle passioni e via dicendo. Perfino la giustizia sociale, diceva Archita, era solo un problema di Armonia. Per Archita una buona giustizia sociale la si otteneva solo quando ciascun lavoratore veniva ricompensato secondo i propri meriti. In pratica lui credeva nel cottimo: molti soldi ai più bravi e nemmeno una lira a quelli che non avevano voglia di lavorare.
Archita nacque a Taranto e fu nello stesso tempo un filososfo, un matematico e un grande uomo di stato. Essendo vissuto a cavallo tra il V e il IV secolo, non conobbe Pitagora. Salvò la vita a Platone, allorquando il filosofo fu condannato a morte da Dionisio, il tiranno di Siracusa (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 79), che inventò le nacchere con il preciso scopo di distrarre i bambini e d’impedire che rompessero cose di maggiore valore (Aristotele, Politica VIII 6, 1340b 27-30), e che, essendo appassionato di aeromodellismo, riuscì a costruire una colomba di legno in grado di volare (Aulo Gellio, Notti antiche X 12, 9).
Per Pitagora, fra i numeri esisteva un’aristocrazia: c’erano quelli nobili e quelli plebei. A parte il 10, la tetraktýs, che per i pitagorici rappresentava un’entità divina, l’1 il 2 il 3 e il 4 erano i più illustri fra tutti i numeri: la loro somma era uguale a 10 e tutti insieme formavano il divino triangolo.
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“Tutte le cose che ci è dato conoscere posseggono un numero” (Filolao, fr. 4 Diels-Kranz) e ogni numero ha un suo significato particolare. Dai testi di Speusippo, di Archita e di Filolao, è possibile ricavare che per Pitagora l’1 rappresenta l’intelligenza, il 2 l’opinione (sempre duplice), il 4 la giustizia, il 5 il matrimonio, il 7 il tempo critico (forse perché sono sette i giorno della settimana) e via dicendo. I numeri infine, secondo i pitagorici, posseggono qualità terapeutiche: i quadrati magici, ad esempio, usati peraltro anche nel medioevo e nel rinascimento, venivano incisi su lastrine d’argento e perseveravano dalla peste, dal colera e dalle malattie veneree.
13 3 2 16
8 10 11 5
12 6 7 9
1 15 14 4
In questo schema, sommando le cifre di ogni rigo, o di ogni colonna, o di ogni diagonale, si ottiene sempre come totale il numero 34 (questo quadrato magico compare in un famoso quadro di Albrecht Dürer, La Malinconia: le cifre centrali, 15 e 14, dell’ultimo rigo indicano la data dell’opera: 1514). Allo stesso risultato si arriva se si sommano i quattro vertici, i quattro numeri centrali e perfino le cifre di ognuno dei quadrati minori.
Tutte queste correlazioni nascoste, sia tra i numeri che nei fenomeni naturali, dovevano affascinare Pitagora, il quale provò una profonda delusione nel fare il rapporto tra la diagonale e il lato di un quadrato e scoprire che il risultato era diverso da qualsiasi numero intero o decimale.
Proprio in merito alla diagonale, era stato lui stesso a scoprire il teorema che reca il suo nome:
In un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costituiti sui cateti.
Sebbene questo teorema sarà per sempre associato al nome di Pitagora, era effettivamente noto ai cinesi e ai babilonesi mille anni prima. Tuttavia quelle civiltà non sapevano che il teorema era vero per tutti i triangoli rettangoli. Era certamente vero per i triangoli che loro avevano misurato, ma essi non avevano modo di mostrare che fosse vero anche per tutti i triangoli rettangoli che non avevano misurato. La ragione per cui il teorema è attribuito a Pitagora sta nel fatto che egli fu il primo a dimostrarne la verità universale. La dimostrazione di Pitagora è irrefutabile. Essa prova che il suo teorema è vero per ogni triangolo rettangolo nell’universo. Apollodoro racconta che Pitagora sacrificò agli dèi cento buoi, la qual cosa per uno che rifiutava di mangiar carne per non ammazzare gli animali, è alquanto strana. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi VIII 12).
Dimostrazione:
Scopo della dimostrazione è provare che il teorema di Pitagora è vero per tutti i triangoli rettangoli. Il triangolo sopra mostrato potrebbe essere qualunque triangolo rettangolo perché le sue dimensioni non sono specificate e sono simboleggiate dalle lettere x, y e z.
Nella figura sopra, quattro triangoli rettangoli identici, combinati con un quadrato disposto obliquamente, formano un grande quadrato. La chiave della dimostrazione è questo grande quadrato.
L’area del grande quadrato può essere calcolata in due modi.
Metodo 1: Misurare l’area del quadrato grande nel suo insieme. La lunghezza di ogni lato è data da x + y. Perciò, area del grande quadrato = (x + y)².
Metodo 2: Misurare l’area di ogni elemento del quadrato grande. L’area di ciascun triangolo è ½ xy, cioè ½ * base * altezza. L’area del quadrato obliquo è z². Pertanto,
area del grande quadrato = 4 * (area del triangolo)
+ area del quadrato obliquo = 4 (½ xy) + z²
I metodi 1 e 2 portano a due espressioni diverse. Tuttavia queste espressioni devono essere equivalenti perché rappresentano la stessa area. Pertanto:
area ottenuta con il metodo 1 = area ottenuta con il metodo 2
(x + y)² = 4(½ xy) + z²
Si possono togliere le parentesi in entrambi i membri delle equazioni, scrivendoli in forma estesa. Dunque,
x² + y² + 2xy = 2xy + z².
Il termine 2xy può essere cancellato da entrambi i membri. Perciò abbiamo:
x² + y² = z²
che è il teorema di Pitagora.
La dimostrazione è basata sul fatto che l’area del grande quadrato deve essere la stessa, a prescindere dal metodo che si usa per calcolarla. Perciò deriviamo logicamente due espressioni per la stessa area, le rendiamo equivalenti, e infine scaturisce l’inevitabile conclusione che x² + y² = z², ossia il quadrato costruito sull’ipotenusa z², è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti, x² + y².
L’aspetto cruciale è che questa dimostrazione è valida per tutti i triangoli rettangoli. I lati del triangolo nella nostra dimostrazione sono rappresentati da x, y e z e possono dunque rappresentare i lati di un qualsiasi triangolo rettangolo.
Visione cosmologica: I pitagorici credevano che al centro dell’universo vi era un Fuoco Centrale, chiamato la Madre degli Dei. Intorno al suddetto Fuoco ruotavano dieci astri: la Terra, la Luna, il Sole, i cinque pianeti allora conosciuti, il cielo delle stelle fisse e, per raggiungere il numero 10, un corpo celeste chiamato Antiterra (Aristotele, Il cielo II 13, 293a 18). Era questo un pianeta, in tutto simile al nostro, avente la stessa orbita, situato in posizione diametralmente opposta rispetto al Fuoco centrale e pertanto invisibile.
I dieci astri, diceva Pitagora, percorrono orbite circolari ed emettono nel loro movimento una musica dolcissima, la cosiddetta Armonia delle Sfere (Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele 732, 26). Nessuno è in grado di percepire questo meraviglioso suono, essendo esso continuo e non riuscendo il nostro orecchio a captare alcun rumore se non per contrasto nei confronti del silenzio (Aristotele, Il cielo II 9, 290b 12).
Al di là delle dieci orbite celesti c’è poi lo spazio infinito. Un giorno Archita, volendo dare una dimostrazione dell’esistenza dell’infinito, pronunziò questa frase: “Se mi siedo sull’estremo limite dell’Universo, posso o non posso stendere una mano? Se posso, allora vuol dire che oltre questo limite c’è ancora un po’ di spazio” (Simplicio, Commento alla Fisica di Aristotele 467, 26).

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