Nietzsche

Materie:Tesina
Categoria:Filosofia

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Testo

Feidrich Nietzsche
Feidrich Nietzsche nacque a Rocken presso Lipsia il 15 ottobre 1844. studiò filologia classica formando il suo entusiasmo romantico per l’antichità greca. A Lipsia lesse anche per la prima volta Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer e ne fu conquistato. A 24 anni fu chiamato ad una cattedra di filologia classica dell’università svizzera di Basilea, dove fece amicizia con Richard Wagner, divenendone un fervente ammiratore. A questa prima fase giovanile della produzione filosofica Nietzschiana, influenzata da Schhopenhauer e Wagner, convergono La nascita della tragedia, Le quattro considerazioni inattuali, La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Su verità e menzogne in senso extramorale.
Poco più tardi l’amicizia con Wagner e la stima per esso andarono affievolendosi, assieme alla salute stessa del filosofo. Interruppe definitivamente il suo insegnamento per dedicarsi esclusivamente alla composizione dei suoi libri, nella speranza, sempre delusa, che gli portassero fama e successo. Appartengono a questo periodo gli scritti Umano, troppo umano, Aurora, La gaia scienza e gli Idilli di Messina. Alla delusione letteraria si accompagna poi la delusione sentimentale.
Con il poema Così parlò Zarathustra si esaurisce per alcuni critici l’iter filosofico di Nietzsche, arrivando al suo apice. Tuttavia molti altri sostengono la necessità di inquadrare le ultime opere, Al di là del bene e del male, Genealogia della morale, Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce homo e Nietzsche contro Wagner, in una fase successiva e conclusiva che apporta notevoli elementi di novità, soprattutto in merito alla volontà di potenza ed al nichilismo.
Non ritengo tuttavia importante il dibattito della critica circa il numero delle fasi di Nietzsche, in quanto trattasi di suddivisioni convenzionali che nulla tolgono e nulla aggiungono al suo pensiero.
L’opera Nietzschiana rimane comunque incompiuta a causa degli undici anni di pazzia che accompagnano la sua vita a Torino. Qui gli amici gli si allontanarono a poco a poco mentre la sua fama iniziava proprio quando, chiuso nella malattia, non poteva più rendersene conto. I libri che aveva pubblicato a sue spese correvano per il mondo. Morì il 25 agosto 1900.
Alla sua morte, la sorella si impadronì degli inediti e manipolando i testi del filosofo, pubblicò la Volontà di potenza, dove il pensiero del fratello accentuava la sua fisionomia anti-umanitaria ed anti-democratica su cui avrebbe fatto leva la lettura nazista del primo novecento.
Veniamo dunque alle motivazioni che spinsero Nietzsche al suo filosofare.
Anzitutto egli è convito che gli uomini, per poter sopportare l’impatto con il caos della vita, abbiano costruito una serie di certezze metafisiche, morali e religiose, che il filosofo ha il dovere di mettere a nudo sotto la luce di mere necessità di sopravvivenza. Dunque egli mira a scrutare il mondo con un nuovo e profondo sospetto, presentandosi come “Il primo uomo decente” dopo la “falsità che dura da millenni”. Ma la sua opera non si risolve nella demolizione polemica del passato e dei suoi sistemi, in quanto delinea attentamente un nuovo modello di umanità: il “superuomo”. Perciò, lontano da uno spirito puramente negatore, si profetizza “ lieto messaggero” da cui solo ci saranno nuove speranze e il cui nome sarà legato a qualcosa di enorme, “la più profonda collisione della coscienza”. E’ evidente, già da queste prime parole, il disprezzo per la tradizione occidentale, e l’arroganza con cui il filosofo pone se stesso sul piedistallo dell’oltre uomo, quale unico vate in grado di aprire la strada ad una nuova generazione di uomini.
Non si discosta, a mio avviso, dagli altezzosi e presuntuosi poeti maledetti che, negli stessi anni, facevano bollire di vergogna la società borghese, mettendo a nudo le assurdità delle sue certezze. Mi riferisco ad autori quali Baudelaire, Verlaine, e Rimbaud cui piaceva presentarsi come albatros, vati e veggenti, nonché Huysmans, Wilde e D’Annunzio, i quali prendono spunto proprio dal superuomo di Nietzsche per definire la loro elevata personalità di esteta. Differiscono però gli esiti dei decadenti da Nietzsche. Se i primi infatti “snobbano” la società da cui a loro volta sono emarginati e si rifiutano di impegnarsi in vista di un cambiamento positivo, Nietzsche, come dicevo prima, non si limita a distruggere le coscienze ma propone un modello nuovo e migliore da seguire.
All’originalità di contenuti si accompagnano le nuove modalità espressive con cui Nietzsche affronta la comunicazione filosofica. Alla forma accademica del saggio e del trattato, preferisce infatti la forma breve dell’aforisma, una sorta di illuminazione istantanea che punta a cogliere le cose al volo. Tale metodo esige però l’arte dell’interpretazione, in quanto la semplice lettura non è sufficiente allo scioglimento dell’aforisma. Per tale motivo non esistono che schemi e tracce di lettura sempre aperti a nuovi approfondimenti e riformulazioni. Anche perché lo stesso pensiero di Nietzsche è strutturato in maniera volutamente asistematica, in quanto dietro al sistema egli scorge il desidero illusorio e votato all’insuccesso di impadronirsi della totalità del reale. Dunque opta per un discorso multidimensionale in cui significati e direzioni di marcia non sono totalizzabili univocamente. Ne segue un “pensiero selvaggio” privo di monopoli interpretativi, in linea con la contemporanea produzione letteraria di matrice decadente, dove analogie e sinestesie spiazzano il lettore lasciando aperta una vasta gamma di interpretazioni.
Il motivo centrale de La nascita della tragedia è la distinzione fra il dionisiaco e l’apollineo come coordinate di fondo dello spirito greco e del suo mondo artistico. Nietzsche insite sul carattere originariamente dionisiaco della sensibilità greca, portata a scorgere ovunque il dramma della vita e della morte; l’apollineo, contrariamente al pensiero tradizionale e cristiano, nacque solo dallo sforzo di trasfigurare l’orribile e l’assurdo in un mondo definito ed armonico, capace di rendere accettabile la vita. Nietzsche ricerca nella classicità le categoria alla luce delle quali si possono comprendere, non solo l’origine della tragedia attica, ma anche e soprattutto la storia dell’Occidente. L’origine della tragedia greca sta nella sintesi della spirito dionisiaco e dello spirito apollineo. Apollo è il simbolo dell’arte plastica , della forma, della stasi e della ragione, mentre Dionisio, è il simbolo della musica, del caos, del divenire e dell’istinto. Nietzsche si accosta ad essi anche immaginandoli come i “mondi artistici separati del sogno e dell’ebbrezza”, Apollineo, propriamente, e Dionisiaco. “La bella parvenza dei mondi del sogno (…) è il presupposto di ogni arte figurativa (…). Nella comprensione immediata della figura noi godiamo, tutte le forme ci parlano”, ciò nonostante, traspare in noi “il sentimento della sua illusione”. Addirittura, l’uomo filosofico estende tale illusione del sogno all’illusione dell’esistenza fenomenica, perciò contempla volentieri la realtà che lo circonda, come l’uomo artistico fa con la realtà del sogno, “non senza quel fuggevole senso dell’illusione”. Quando poi l’illusione inorridisce l’uomo, facendogli perdere fiducia nell’apparenza, viene meno il principio schopenhaueriano di individuazione e con esso svanisce l’elemento soggettivo, in funzione di un completo oblio di sé. Si ha così la sensazione dell’ebbrezza, che scava nelle profondità dell’uomo, calandolo nell’essenza del dionisiaco.
Originariamente, comunque, essi convivono separati ed opposti, entrambi generano arte, ma l’uno indipendentemente dall’altro. Successivamente il genio di Sofocle ed Eschilo riesce miracolosamente ad unirli ed armonizzarli dando origine alla più sublime delle arti, la tragedia ellenica. Nella tragedia infatti Dionisio è rappresentato tramite una serie di immagini che trasformano in un ideale di compiutezza e bellezza (apollineo) il vissuto di sofferenza dell’eroe, cioè l’essenza caotica dell’esistere. Infine, nella Grecia di Euripede e Socrate l’apollineo soppraffà il dionisiaco, dando così inizio alla decadenza, la malattia dell’occidente.
Fin ora il problema dell’origine della tragedia non è mai stato posto seriamente e tanto meno risolto. Secondo Nietzsche però, la tragedia è nata dal coro tragico, e non ci si deve accontentare delle frasi retoriche correnti. Ma l’importanza del coro sta nel suo essere di consolazione al “greco profondo”, che, in sua assenza, “corre il pericolo di anelare a una buddista negazione della volontà”. Qui Nietzsche aggiunge: “Lo salva l’arte, e mediante l’arte lo salva a sé la vita”. Dunque l’arte, intesa come tragedia greca nello specifico (e subito mi sovviene Holderling), salverebbe l’uomo profondo, colui cioè che è conscio della crudeltà della natura, dalla negazione della volontà, e dunque dalla decadenza stessa. Perciò l’arte si pone, con Nietzsche, in antitesi ad ogni morale e religione che, come si vedrà più avanti, schiacciano la vita; e di conseguenza, l’attuale stato di decadenza occidentale trova tra le sue molteplici cause la mancanza di arte tragica.
Nietzsche, poi, dà pieno merito a Schopenhauer per avere riconosciuto alla musica un’origine metafisica lontana dalle altre arti, in quanto diretta espressione della volontà di vita (che per Nietzsche è Dionisio) e dunque della realtà in se. E a questo proposito ricordo anche l’entusiasmo del giovane Nietzsche per la musica di Richard Wagner. Tornando al rapporto tra il pensiero di Schopenhauer con quello del discepolo Nietzsche, devo precisare che, pur partendo entrambi dalla chiara consapevolezza del momento tragico e crudele dell’essere i due prendono strade tra loro molto diverse. Se, quindi, Nietzsche riprende da Schopenhauer il “principio di individuazione” riferendolo ad Apollo, e la musica metafisica associandola a Dionisio, presto si distacca dal maestro per quanto riguarda l’ascetismo che egli proponeva come via di salvezza. Nietzsche infatti opta per un’esaltazione entusiastica del mondo com’è, un si totale al mondo di cui Dionisio, Dio dell’ebbrezza, ne è simbolo. Per Nietzsche tutti i valori fondati sulla rinuncia impoveriscono la vita ed abbassano l’uomo al di sotto di sé, per cui con virtù si devono intendere tutte le passioni che accettano integralmente la vita: fierezza, salute, gioia, sesso, guerra, volontà forte, riconoscenza verso la terra e la vita. Questa gratificazione della vita conduce alla trasformazione del dolore in gioia, della lotta in armonia, della distruzione in creazione e così via. Sembra quasi che l’allievo abbia cancellato ogni insegnamento pessimistico del maestro, in realtà Nietzsche ammira il pensiero di Schopenhauer, criticandone solo la decadenza. Tuttavia non si avvicina neppure lontanamente ad un superficiale ottimismo, proponendo piuttosto un’accettazione della vita nell’insieme dei contrari che la caratterizzano.
Tale accettazione pone il filosofo in aspra polemica con la morale e il cristianesimo, visti come i principali mezzi attraverso cui l’uomo si mette contro la vita stessa.
In Al di là del bene e del male Nietzsche inizia un’ampia critica della morale a partire dal problema stesso della morale, che mai prima di lui era stato messo in discussione. Per prima cosa riconosce nella cosiddetta “voce della coscienza” la presenza in noi della autorità sociali da cui siamo stati educati; perciò la morale altro non è che “l’istinto del gregge nel singolo” ed i suoi valori etici “il risultato di determinate prospettive di utilità per il mantenimento e il rafforzamento delle forme di dominio umano, e solo falsamente sono proiettati nelle essenze delle cose”. Ciò significa che non è la voce di Dio a risuonare nella nostra mente ma la voce di altri uomini che rappresentano l’elite dominante e che mira a soggiogarci per il suo interesse pratico. In ogni caso, questa verità si presentava in modo positivo nel mondo classico, quando la classe dominante dei cavalieri andava a costituire una morale dai valori vitali. In quello stesso periodo però andava anche formandosi, tra schiavi, dominati, deboli ed insicuri, una morale parallela che esaltava i valori anti-vitali dell’abnegazione, il sacrificio, la pietà, l’umiltà e la pazienza, “le qualità più utili e quasi l’unico mezzo per sopportare il peso dell’esistenza”. Il dramma che ha aperto la strada alla decadenza dell’umanità occidentale si ha soltanto più tardi, quando, con il cristianesimo, la morale “degli schiavi” si diffuse programmaticamente e sistematicamente nella totalità dell’Occidente.
Ma cosa intende Nietzsche con decadenza?
È forse quello stesso tema caro a Scapigliati e Decadenti, i quali si fanno portatori dell’irrazionale contro il razionalismo ottimistico e positivista con cui si uccidono le profondità istintuali e tragico-dionisiache della vita?“Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro, / E l’ideale che annega nel fango..” scrive Emilio Praga. Sembra inevitabile il riferimento ai poeti maledetti, avendo essi stessi portato alle estreme conseguenze il bisogno di ritornare al dionisiaco, facendo un uso spregiudicato di alcool e droghe per liberarsi della parte razionale apollinea. Eppure non si tratta propriamente, solamente di questo.
Ne Il caso Wagner si parla del problema della decadenza al di là del bene e del male in quanto, una volta compresa il suo movente, si comprende anche il metodo distorto con cui agisce sulla scelta dei valori. La decadenza trova la sua più onesta forma di espressione nel bisogno di redenzione, ovvero il bisogno di un salvatore che redima l’umanità dal peccato che è la vita terrena; in altre parole, quel dogma cristiano su cui si basa il concetto di negazione e rifiuto della vita stessa. Nietzsche afferma di essere un decadente poiché “figlio di questo tempo”, dunque decadente è l’atteggiamento di un’epoca, l’epoca moderna, contemporanea a Nietzsche, Wagner, e noi tutti. In questo brano Wagner viene equiparato alla “cattiva coscienza” del suo tempo, una malattia da capire ed estirpare, “Si è quasi fatto un bilancio sul valore della modernità quando si è messo in chiaro dentro se stessi il bene ed il male di Wagner”. Il male di Wagner è la falsità con cui mescola la morale dei signori alla dottrina opposta, “quella del ‘vangelo degli umili’, del bisogno di redenzione, senza “sentire queste antitesi come antitesi”, cioè senza accorgersi della profonda contraddizione di valori presi in causa. E la decadenza della modernità è propriamente questo. l’ipocrisia dell’uomo che, a sua insaputa o suo malgrado, “sta seduto su due sedie” e “dice nello stesso istante si e no” alla vita.
Ritornando al paragrafo sulla morale dei Signori e la morale degli Schiavi in Al di là del bene e del male ho parlato di una diffusione programmata e voluta, senz’altro innaturale di quest’ultima. Non è infatti un atteggiamento umanamente comprensibile il preferire spontaneamente valori che vanno contro la vita stessa ad altri che invece la esaltano. Questo è accaduto semmai ad opera dei sacerdoti, i quali dovevano perseguire le virtù dello spirito, ma non potendo smettere di ascoltare il richiamo della natura e di invidiare i guerrieri che curavano invece le virtù del corpo, colti da un forte risentimento nei loro confronti iniziarono ad elaborare una tavola dei valori antitetica a quella dei cavalieri. Così lo spirito doveva per tutti anteporsi al corpo, l’umiltà all’orgoglio, la castità alla sessualità, ecc. La stessa gelosia sta anche alla base stessa dell’uguaglianza promossa dal cristianesimo sostenuta dai poveri che, invidiosi della ricchezza altrui, pretendono, senza alcuna bontà, di livellare tutte le persone allo stesso grado di povertà; si badi bene, non di ricchezza, perché debbono essere dannati, i ricchi, i forti ed i gioiosi. Il cristianesimo è, di fatto, il frutto di un risentimento di un uomo debole verso che è forte e verso la vita stessa. Nel momento in cui soltanto gli ultimi saranno i primi, mentre i primi devono vergognarsi di essere tali, è chiaro che la morale ha preso la strada della malattia. E malato e represso è l’uomo occidentale, schiacciato dal senso di colpa che la morale degli schiavi gli impone. Scrive Osho un secolo dopo in proposito: “cos’è esattamente la colpa? Innanzitutto è una condanna alla vita; un atteggiamento negativo nei suoi confronti. Ti è stato detto che in essa c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato, ti è stato detto che sei nato nel peccato. Su questa terra non c’è posto per la bontà che è accanto a Dio. Devi trovare un redentore che ti possa salvare (…). La vita non vale la pena di essere vissuta – evita di vivere! Se vivi affonderai sempre più nel peccato! La vita è peccato. Evitala. Ritirati dalla vita. E ogni volta che te ne senti attratto spunterà il senso di colpa. Comincerai a sentire che stai facendo qualcosa di sbagliato”. Di qui la corruzione delle sorgenti naturali di gioia e piacere, che ha dato luogo all’uomo moderno, tormentato da rabbia e da risentimento repressi, che ispirano violenza e vendetta contro il prossimo. Penso alle stragi delle crociate e della caccia alle streghe, ma anche agli abusi sui minori esercitati da sempre dai preti, uomini cristiani per eccellenza, alla pornografia e ad ogni eccesso violento, mossi dalla privazione della vita nella sua totalità.
Ma la vita è bellissima! Questo dice Nietzsche, “vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra!”, perché il corpo anela ai godimenti terreni, a tutte le gioie della vita. Il corpo sostiene la vita, la mente la nega. E la mente è il portavoce le prete; “Ricorda,” cito nuovamente Osho, “quando ti senti in colpa, c’è un prete che ti sta accanto, le sue mani ti stringono la gola, ti sta uccidendo”.
In questa critica al cristianesimo non rientra, seppur connesso, il problema della morte di Dio, quanto una più generale e radicale critica a tutte le metafisiche e le religioni del passato. Occorre una religione nuova dell’accettazione totale della vita secondo il puro spirito dionisiaco, che sia contraria a quei falsi valori antivitali che tormentano l’uomo, privandolo delle sue naturali esigenze terrestri. Non si tratta tuttavia di riprendere l’antica morale dei signori, poiché una volta distrutta la morale ebraico cristiana, l’uomo, divenuto oltreuomo, potrà liberamente decidere da se il bene ed il male. In questo senso Nietzsche non parla di inversione dei valori ma di “trasvalutazione”: una volta libero dalla morale degli schiavi, l’oltreuomo non ha bisogno di alcuna nuova morale, poiché trova in se stesso il senso a tutte le cose.
Che cos’è più precisamente il superuomo?
Senz’altro il motivo più noto della filosofia Nietzschiana, l’elemento che giustifica il carattere profetico di tutta l’opera. Esso rappresenta il progetto di un nuovo essere stagliato sull’orizzonte del futuro e del tutto diverso dall’uomo del presente per una serie di caratteristiche (da ciò oltreuomo, Uber-mensch). Soltanto il superuomo è infatti all’altezza di accettare la vita, distruggere la morale degli schiavi, compiere una strasvalutazione dei valori, reggere la morte di Dio liberandosi dalle illusioni metafisiche, superare il nichilismo, scegliere la teoria dell’eterno ritorno e porsi come volontà di potenza.
Analizziamo allora meglio questi quattro concetti del discorso di Nietzsche.
Dicevo, poche righe sopra, che la critica al cristianesimo non coincide con la teoria della morte di Dio, ma che i due concetti sono solidamente connessi. Anzitutto, quando Nietzsche parla di Dio non si riferisce al Dio di una qualche religione, ma alla personificazione di tutte le credenze elaborate dall’umanità per dare un senso ed un ordine alla vita, che si concretizza in una (e mille) prospettiva oltre mondana ed antivitale. Dio è una costruzione della nostra mente per poter sopportare la durezza di un’esistenza che “danza sui piedi del caso”. Un mondo crudele, contraddittorio, senza senso, caotico e confuso in cui le religioni e le metafisiche sono necessarie bugie di sopravvivenza. Una volta compreso come ha avuto origine la fede in Dio e perché sia così importante per l’uomo, è chiaro che una “contro dimostrazione dell’esistenza di Dio diventa superflua” . L’ateismo per Nietzsche, come per Schopenhauer, è indiscutibile: Dio è, senza ombra di dubbio, “la nostra più lunga menzogna di fronte alla paura della verità, dichiaratamente contraria alla vita nella sua falsa promessa dell’Aldilà”. Compito del filosofo è annunciare la morte di Dio e riflettere sulle conseguenza di un gesto così drastico nella storia dell’uomo. Incisivo a questo proposito è il noto racconto dell’ “uomo folle”, in cui è davvero incredibile quanto sembra che Nietzsche abbia descritto il mondo che ci circonda, e non la sua epoca, un secolo e mezzo prima.
Il testo mette i brividi! C’è questo folle, in realtà un profeta dell’oltreuomo, se non oltreuomo stesso, che discute tra gli uomini sulle conseguenze della morte di Dio, sul destino dell’umanità, rimasta a vagare senza un fine, senza un senso, in un mondo vuoto.
Non capisce che quegli uomini atei, i quali hanno contribuito all’uccisione di Dio, non si sono ancora accorti della grandezza della loro azione, non hanno ancora inteso la nuova esistenza di oltreuomini che li attende. Perché inconsapevoli erano mentre uccidevano la divinità e la notizia della sua morte tarda ad arrivare, come il tuono del lampo. Così il folle si trova in mezzo a gente che vede ancora la luce di una stella già spenta, e per molto tempo ancora i credenti andranno nelle chiese ad adorare un Dio defunto. E allora le chiese altro non sono che i sepolcri di Dio. Trovo bellissimo questo passo ed estremamente attuale nell’allusione alla crisi moderna delle religioni. Si provi oggigiorno ad entrare in una chiesa con un po’ di lucidità, quel disincanto che la scienza ed il materialismo hanno affilato negli anni. Non si viene forse pervasi da un senso di “improprio”, un senso di incompatibilità con quel mondo dello spirito che è perduto, morto? Una folla di gente ripete a “pappagallo” i dogmi di una fede che essi stessi hanno distrutto fuori da quella chiesa, avendone intuito, giorno dopo giorno, la menzogna. Nessun tipo di spiritualità è più accettabile nella nostra società perché è sveglio in noi il dubbio e la coscienza di avere creato un Dio per meglio sopportare la vita. Tutta la gente è in realtà atea ma è come se in alcuni la fiammella della menzogna si riaccendesse nel momento in cui varcano la porta della chiesa. Ed entro di essa, candele, preghiere e funzioni sembrano davvero nient’altro che il funerale stesso del Dio che abbiamo creato millenni or sono. E’ dunque avvenuta quella rivoluzione, quell’annientamento della morale degli schiavi, la distruzione della menzogna in auge della vera verità, che doveva servire da ponte tra l’uomo ed il superuomo? “Vengo troppo presto, non è ancora il mio tempo” conclude il folle, “le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano viste ed ascoltate”.
La morte di Dio segna, per Nietzsche, l’atto di nascita dell’oltreuomo, ma solo chi ha il coraggio di affrontare a viso aperto la verità, al di la di tutte le illusioni metafisiche, è pronto per varcare l’abisso.
Si potrebbe però pensare che, una volta lasciatesi alle spalle ogni morale o metafisica o religione, l’uomo si ritrovi svuotato, privo di un senso, smarrito. Invero, Nietzsche spiega che è proprio questo che accade, ma differenti sono i modi in cui l’uomo si pone allo smarrimento e tenta di superarlo. Ognuno di questi modi va tuttavia sotto lo stesso nome di nichilismo, ossia la “volontà del nulla” che subentra nel momento in cui accettiamo che quel senso fin ora cercato in tutte le cose, nelle cose non c’è; è lo sgomento dell’essere di fronte al niente che caratterizza l’uomo moderno e contemporaneo, il movimento storico che va dal XVIII secolo ai giorni nostri. Parlavo di diversi modi in cui l’uomo può porsi davanti al nulla e dunque diversi stadi di nichilismo. Nietzsche distingue anzitutto un nichilismo completo da uno incompleto, dove per quest’ultimo si intende quel periodo in cui i vecchi valori vengono sostituiti da altri simili, in altre parole, l’uomo deve ancora credere in qualcosa, ha ancora bisogno di una verità. È questa l’epoca in cui si sono formate le ideologie nazionalistiche, socialistiche ed anarchiche, l’epoca dello storicismo e del positivismo, del naturalismo e dell’estetismo. A proposito di estetismo ho parlato di Wilde, Huysmans e D’Annunzio come coloro i quali presero il concetto Nietzschiano di oltreuomo e lo associarono alla loro personalità di esteti; in realtà essi erano ben lontani dall’esserlo, proprio in quanto il loro credere all’arte sopra ogni cosa li inchiodava ad un nichilismo ancora incompleto, lungi dall’essere superato. Non si è in questo stadio ancora raggiunta la liberazione dal senso. Il nichilismo completo è invece pienamente realizzato e sviluppato. Tuttavia, se allo smarrimento del nulla seguono un’accettazione passiva di esso, un crogiolarsi in esso ed un rimpianto nostalgico dei vecchi valori, allora si tratta ancora di un nichilismo non perfetto, è completo ma passivo. E tale è lo stadio raggiunto dalla nostra società, nonché da Schopenhauer, il quale accetta la non-esistenza di un senso ma, infranti valori e morali tradizionali, invece di gioirne si chiude nel suo dolore e nella sua nostalgia, rifiutando l a vita stessa. Infatti Schopenhauer teorizza l’ascesi, quale estrema via di salvezza. In questo senso il nichilismo prende la strada negativa della decadenza, diviene segno di debolezza ed allontana dalla potenza dell’oltreuomo, ponendosi come no assoluto alla vita.
Nichilismo forte e completo è pertanto l’atteggiamento dell’essere che di fronte al nulla, superato lo smarrimento iniziale accettando che non ci sia un senso nelle cose, abbraccia fisicamente quel vuoto e lo riempie a suo piacimento in modo creativo e attivo. In conclusione, il nichilismo raggiunge la sua completezza quando è completo ed attivo, cioè quando il nulla è accettato ed affrontato con forza come punto di partenza costruttivo e non come triste termine di arrivo. In quest’ultima fase del nichilismo è posto anche il suo superamento; non essendoci un senso dato l’uomo diviene forte di valori e significati, diviene quel fanciullino che danza al di sopra del bene e del male, diviene un oltreuomo.
Veniamo ora a parlare della teoria dell’Eterno Ritorno dell’uguale, presentata in Così parlò Zarathustra come “il più abissale” dei suoi “pensieri”. Secondo questa teoria cosmologica esisterebbe una linea del tempo circolare (e non, come vuole la tradizione, lineare) in cui ogni momento è destinato a ripetersi sempre uguale. Una visione del tempo non preteso in avanti, verso la fine della nostra esistenza e l’Aldilà; una prospettiva d’infinita ripetitività dove il singolo istante non vale meno del successivo, né è in funzione di esso, poiché entrambi saranno vissuti nuovamente nell’eternità. Se il tempo fosse lineare ed i minuti lasciati alle spalle persi per sempre, anche la felicità di quei momenti sarebbe solo parziale, finirebbe nel finire dell’istante e non potrebbe più ritornare uguale. La teoria dell’Eterno Ritorno dell’uguale prevede invece la possibilità di una felicità autentica ed infinita destinata a ripetersi con il circolo. Ma oltre alla felicità si ripeteranno per sempre anche ogni dolore, ogni pensiero, ogni sospiro. Allora la prospettiva diviene soffocante, asfissiante, intollerabile. “Su ogni gesto grava il peso di un’insostenibile responsabilità” scrive Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, “l’eterno ritorno è il fardello più pesante”. Per l’uomo! Aggiungerebbe Nietzsche. In quanto terrore e senso di peso sono suoi propri, mentre il superuomo, il solo in grado di vivere la vita come un gioco creativo e avente in sé medesimo il proprio senso appagante, gioisce della vita. Credere nell’eterno ritorno significa infatti spostare la propria prospettiva di vita da un “oltre” irraggiungibile a se stessi e disporsi a viverla al meglio come se tutto dovesse ritornare.
Quel “credere” riporta però alla mia mente tutte le fedi e le metafisiche che Nietzsche fuggiva ed aborriva; quindi? E’ forse la contraddizione di un filosofo che ricade, dopo averlo estirpato, nel bisogno di fede? Una fede, sì. L’eterno ritorno non è dimostrabile, anche se Nietzsche abbozza una motivazione della sua esistenza che, approfondita, potrebbe risultare più o meno valida (dice, in sostanza, che poiché l’energia è finita mentre il tempo no, queste deve per forza essere ripetuta uguale per occuparlo pienamente), e giustificare i cosiddetti dejavue come imperfezioni del sistema. Ma resta un dogma a cui credere, una verità data e per di più un sistema ordinato che regola il caos! Il tentativo cioè di rinchiudere in una forma razionale e conforme i nostri schemi mentali quello che è per natura informe e dionisiaco. Anche se si trattasse di “scegliere l’eterno ritorno” e non di crederci come cosa già data, si tratterebbe comunque della scelta che solo un superuomo, che è già al di là del bisogno di verità e abbraccia il nulla con animo creativo, potrebbe compiere. Non un uomo. L’uomo, finirebbe per prendere la teoria come una verità già data, andando a sostituirsi alle vecchie menzogne, in quanto “ogni tener per vero” è “necessariamente falso: perché non esiste affetto un MONDO VERO”. Non è d’altro canto pensabile che il più abissale dei pensieri di Nietzsche sia a tal punto contraddicibile e debole. Penso piuttosto che ci sia qualche aspetto più profondo della teoria non chiaramente esplicitato nel poema così parlò Zarathustra, che già di per sé non è di facile lettura in quanto ricco di accostamenti azzardati di immagini e simboli astrusi, frutto di un genio sull’orlo dello squilibrio.
Si pensi ad esempio al discorso su “la visione e l’enigma” in cui Zarathustra espone la teoria dell’eterno ritorno. Il filosofo autentico ha faticosamente innalzato il suo pensiero fino a trovarsi davanti alla porta del presente a cui si congiungono i sentieri del passato e del futuro. Qui il filosofo Zarathustra chiede al nano che è con lui se i due sentieri, che si perdono nell’eternità, siano destinati a contraddirsi sempre. Allora il nano gli spiega (o gli ricorda? Non capisco se Zaratrustra è già a conoscenza della teoria dell’eterno ritorno oppure no) la circolarità del tempo e quindi l’unità dei due sentieri che, pertanto, non possono contraddirsi. A questa risposta affrettata il filosofo si arrabbia e dà del superficiale al suo compagno, quindi abbozza la teoria e viene colto da una visione del tutto inaspettata. Un pastore sta soffocando a causa di un serpente che gli si è conficcato in bocca, quindi su consiglio di Zarathustra morde la testa del serpente e diviene oltreuomo. Se tale visione è abbastanza chiara nel suo complesso (l’uomo può divenire altreuomo a patto di vincere il soffocante pensiero dell’eterno ritorno con un gesto drastico), resta un enigma il passo precedente. Dalla sola lettura del libro di testo, mi viene naturale capire che il nano conosca già la verità dell’eterno ritorno, Zarathustra invece no; così quando quest’ultimo si trova dinnanzi alla porta del presente, si chiede (poiché così la sua idea di un tempo lineare lo porta a chiedersi) se futuro e passato si contraddicano. Perciò quando il nano gli illustra la verità circolare del tempo, Zatrathustra, sul momento, si arrabbia con il nano perché ha la risposta, quindi successivamente fa propria la teoria e gli sovviene la visione che la conferma. Ma se, come penso, in qualche passaggio precedente a questo testo si parla di un Zarathustra profeta, che conosce l’eterno ritorno dell’uguale, allora l’interpretazione cambia e si apre l’enigma. Zarathustra conosce più del nano, la sua domando è più che pertinente con la teoria e per questo si infuria quando il nano gli risponde in modo veloce e superficiale che i due sentieri non possono contraddirsi.
Se prendo questo per vero, allora cosa intende Nietzsche per contraddizione? L’inesistenza dell’una per l’esistenza dell’altra? La possibilità di percorrere solo una via alla volta? L’incontinuità delle due nella continuità del circolo?
Ma in che modo due vie che fanno parte della stessa linea circolare possono contraddirsi, negare ognuna con la propria l’esistenza dell’altra? Forse perché, confluendo in una porta che è il mio presente, qualora mi sposto in avanti o in dietro, la porta si sposterà sempre con me (essendo il mio presente) e dunque sempre la via davanti e la via indietro resteranno separate e opposte a me, per me (o meglio, per l’esistenza stessa del presente)?
Poiché critici e filosofi stanno ancora lavorando su questo punto, è piuttosto giusto ricordare che i maggiori benefici apportati alla cultura dalla filosofia Nietzschiana sono proprio questi spiragli, abbozzi, flash di teorie non risolte che aprono nell’uomo nuove vie di pensiero.
L’ultima caratteristica, che l’oltreuomo deve avere per definirsi tale, ancora da analizzare, è quel “porsi come volontà di potenza”. Volontà di potenza è “l’intima essenza dell’essere”, si identifica come la vita stessa. Nietzsche riprende la volontà di vita di Schopenhauer, intendendola però più come forza espansiva ed autosuperantesi (“Avere, e volere avere di più”), che un impulso autoconservativo o proteso al piacere. L’oltreuomo è la massima espressione di tale volontà di potenza in quanto egli vive nel continuo oltrepassamento di sé, potenziamento, e dunque autocreazione di sé. La vita stessa è libera produzione di sé medesima, e l’arte, in quanto forza creatrice, è la forma suprema della vita. Così già l’artista è “una prima visibile figura dell’oltreuomo”, poiché si avvicina alla volontà di potenza creatrice della vita. Questa volontà di potenza creatrice si esprime nell’uomo, non soltanto attraverso l’arte, ma anche attraverso la produzione di valori che culmina nel tentativo di dare un senso all’insensatezza caotica del mondo.
La volontà di potenza è manifestata al massimo grado nell’oltreuomo anche perché esso sceglie l’eterno ritorno che lo libera dal peso del passato. Infatti la volontà di potenza sarebbe contraria all’immobilità e l’inevocabilità del passato tradizionale, in quanto imprigionerebbe il suo “volere a ritroso”. Soltanto nel tempo eternamente ritornante può esistere pienamente la volontà di potenza, giacché il peso del “così fu” si scioglie in un “così volli che fosse”.
La volontà di potenza, quell’espandersi ed autosuperarsi della vita, è presente in ogni essere e attività, e nella vita, come legge di natura, nella scienza, nella morale, perfino nella politica. Ed è in questo ultimo ambito socio-politico che Nietzsche desta ambiguità e scandalo. Egli infatti descrive abbastanza chiaramente la volontà di potenza come sopraffazione e dominio, già nelle opere da lui edite ed approvate. Nel suo aristocratismo antiugualitario (“la lotta per l’uguaglianza dei diritti è già un sintomo di malattia”) sono inequivocabilmente messi in luce aspetti antidemocratici, di appropriazione, offesa, sopraffazione e oppressione di ciò che è debole. Non si tratta di un pensiero crudo e distorto isolato dal contesto. Negli stessi anni, dagli studi di Darwin, sulla legge di sopravvivenza del più forte, stava andando sviluppandosi l’eugenetica di Dalton, progetto che verrà poi estremizzato da Hitler nel programma di genocidi di massa. L’idea di fondo è la nostra concezione del bene e del male (la morale degli schiavi) ci porta ad andare contro natura, essendo impostata in aiuto del più debole. Noi però siamo natura, viviamo nella natura, dunque perché combatterla? Il bene naturale sarebbe piuttosto estirpare la pianta malata perché non danneggi le altre, aiutare la natura nella sua eliminazione del debole in favore dei forti. “Appena” il trattenerci reciprocamente dall’offesa, dalla violenza, dallo sfruttamento, “volesse guadagnare ulteriormente terreno, addirittura, se possibile, come trincio basilare della società, si mostrerebbe immediatamente per quello che è: una volontà di negazione della vita, un trincio di dissoluzione e di decadenza”. Il soggetto della volontà di potenza è dunque una specie aristocratica di “spiriti dominatori e cesarei”, l’oltreuomo stesso, in quanto soggetto di tale volontà è perciò l’incarnazione di una nuova umanità elitaria.
Come allontanare questa ideologia del nazismo Hitleriano e come difendere Nietzsche da un’interpretazione antiumanitaria dei suoi testi, anche escludendo Volontà di potenza pubblicato dalla sorella dopo la sua morte? Mi sembra che in questo senso la critica abbia operato un vano tentativo di minimizzare ed addolcire concetti realmente violenti e crudi. D’altro canto, risulta impossibile giustificare tali teorie mantenendo la nostra tradizionale morale della non sopraffazione, ma trovo più opportuno non soffermarcisi neppure troppo, in quanto non è di politica che Nietzsche si occupava, ma di filosofia.
Chi è alfine Nietzsche?
Nietzsche era, a mio avviso, sostanzialmente un debole. Forse proprio da questo condizione è nato in lui il bisogno di sentirsi superiore e l’odio, il disprezzo verso tutti i non forti. Era odio verso se stesso in primo luogo. Ciò si denota dal modo in cui si arrabbia con Wagner per esempio; un superuomo, quale lui si ritiene, non si lascerebbe coinvolgere in degradanti controversie con gente inferiore. Ma la sua debolezza è anche connotata dal suo continuo contraddirsi nell’esposizione delle sue teorie: dice di aver accettato la non-esistenza di Dio e superato il nichilismo non avendo più bisogno di dare valore alcuno alle cose, ma anzitutto egli non smette mai di idolatrare Dionisio, Dio dell’ebbrezza, in secondo luogo non ritengo egli abbia mai superato il bisogno di verità e di fede. Il concetto di superuomo è qualcosa da lui creato sulla base di un dogma personale, Nietzsche crede nella venuta del superuomo come un cristiano crede nella sua redenzione. Lo stesso concetto di Eterno Ritorno dell’Uguale, dato o scelto che sia, indica la necessità di dare un ordine razionale al caos del mondo per poterlo sopportare. Infine la volontà di potenza, vista nella luce di una volontà espressa da un debole che disprezza questa sua condizione ed ambirebbe all’essere forte, può venire considerata alla stregua della morale degli schiavi, istituita dai sacerdoti; mi spiego meglio, Nietzsche può aver formulato il concetto di volontà di potenza e di sopraffazione, sulla base del principio che ha spinto i sacerdoti a diffondere nell’occidente la morale degli schiavi. Ovvero, Nietzsche avrebbe detto ‘se io non riesco ad essere forte come vorrei, allora nessun altro debole può ambire ad esserlo, quindi tutti i deboli devono soccombere, camuffando il fatto che anch’egli era debole. Ma questa maschera a poco è servita poiché, messa a dura prova dall’invidia, dagli insuccessi e dalle contraddizioni, è degenerata nella follia.

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