Nietzsche

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Testo

NIETZSCHE

UN LUCIDO VISIONARIO
Nietzsche nasce in Germania nel 1844, studia filologia classica e non ancora venticinquenne viene chiamato a insegnare all’Università di Basilea. Diventa amico del musicista Wagner. Pubblica la sua prima opera importante nel 1872 La nascita della tragedia dello spirito della musica, poco dopo si mostrano i sintomi di una misteriosa infermità (forse sifilide) che lo tormenterà per tutta la vita. Inizia una vita raminga e infelice, durante la quale pubblica a proprie spese le sue opere più belle: La gaia scienza, Così parlò Zarathustra, Aldilà del bene e del male e Genealogia della morale, che però non ebbero successo. Nel 1889 a Torino la malattia prende il sopravvento e Nietzsche profonda nella follia. Egli sopravvivrà fino al 1900, ma privo di lucidità. Nel frattempo la sorella, riordinando ma anche travisando e falsificando le sue carte, preparerà una raccolta postuma, che uscirà nel 1906 con il titolo La volontà di Potenza. A partire da questo testo si formerà il mito del Nietzsche razzista e nazionalista, caro soprattutto al nazismo. In realtà, il pensiero del nostro autore, pur prestandosi a qualche ambiguità, ha altro spessore culturale.

LA SOCIETA’ DI MASSA
Verso la fine dell’ottocento con l’affare Dreyfus (1894 – quasi tutti gli intellettuali si schierano contro l’ingiusta condanna dell’ufficiale ebreo, ma essi non riescono a contenere i sentimenti viscerali delle folle antisemite e nazionaliste, che sono invece colpevoliste) risulta evidente che l’opinione pubblica rischia sempre di più di diventare opinione di massa, con tutti gli elementi irrazionali e incontrollabili che questo comporta. Il filosofo, soprattutto se si occupa di morale, non può più non tenere conto dei fenomeni che derivano dalla massificazione della cultura, primo fra tutti l’omologazione dei comportamenti. Il secondo ottocento è inoltre accompagnato da una grande fiducia nella scienza, che comincia a trovare applicazioni tecnologiche nell’industria. In filosofia, ad esempio, domina il positivismo, inaugurato dal filosofo francese Comte, che vede nella scienza non solo la forma suprema della conoscenza, ma anche la prima fonte di benessere per l’umanità. Accanto al trionfo della scienza naturale, quest’epoca vede l’affermarsi definitivo della scienza storica, intesa soprattutto come meticoloso recupero di ciò che è avvenuto nel passato. Dunque, il periodo in cui visse Nietzsche si configura come dominato dall’incipiente società di massa, dalla fiducia nella scienza e nella tecnologia, e dall’affermarsi della storia come scienza dei fatti del passato. La riflessione del filosofo tedesco affronta queste istanze in un modo molto radicale andando a mettere in discussione le origini stesse del pensiero europeo, come il cristianesimo, la scienza e la metafisica.

MORALE DEGLI SCHIAVI E MORALE DEI SIGNORI
Per quanto riguarda la morale, Nietzsche non ha più dubbi che essa non abbia alcun fondamento razionale. Egli usa spesso l’espressione “Dio è morto”, per indicare la fine di ogni valore trascendente, di ogni norma che si imponga all’uomo dall’esterno. Questo significa che, ance se non abbiamo più alcun motivo per credere in una morale ultraterrena, che ci dica ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Per liberarci dalla morale, dobbiamo non solo dimostrare la sua infondatezza, ma anche capirne l’origine, in modo da poterla combattere adeguatamente. Nella Genealogia della morale N. si chiede appunto quale si l’origine di tutti i valori. Un tempo i più forti vivevano felicemente. La forza, la salute e la bellezza si imponevano liberamente. In quel tempo vigeva quella che N. chiamava la morale dei signori. Egli ha senz’altro in mente il mondo greco delle origini. Ma la vittoria della vita, e di coloro che sapevano coglierla fino in fondo, diede origine al risentimento dei più deboli; costoro formularono allora la morale degli schiavi. La distinzione di N. fra morale dei signori e morale degli schiavi si presta a molte interpretazioni. Essa attraversa tutta l’opera del nostro autore e può dare origine a quelle istante antidemocratiche e razziste che spesso sono state richiamate ai suoi scritti. Il termine “signori” non fa inteso in riferimento ad una precisa categoria di persone, identificabile per qualche loro carattere somatico o per qualche specifica condizione socioeconomica. E lo stesso discorso vale per la nozione di “schiavi”. Gli schiavi sono quelli che hanno avuto paura della vita, che non sono stati capaci di accettarla fino in fondo, che non hanno saputo esprimere se stessi. I signori sono quindi quelli che dicono sempre sì alla vita, che amano la grande felicità, ma anche la grande infelicità, che hanno cioè combattuto la loro battaglia personale fino in fondo. Non esiste una morale superiore, che ci dice quali siano le cause giuste e quali quelle errate, ma è la volontà di rischiare se stessi e di impegnarsi in qualcosa che rende giusto il fine che si siamo posti. Non conta tanto il risultato delle nostre azioni, quanto lo sforzo; sarà poi la vita che deciderò chi deve vincere, ma la morale dei signori vuole che si vada comunque avanti. Gli schiavi, che non hanno il coraggio di lottare, che si limitano, che non diventano ciò che sono, cioè che non realizzano fino in fondo se stessi nella gioia e nel dolore, saranno invidiosi e pieni di rancore. Essi invidiano il fatto che i signori hanno saputo combattere, cioè non si sono fermati di fronte al loro destino. Gli invidiosi sono coloro che hanno inventato la morale. Essi vorrebbero infatti che tutti si ponessero quei limiti, che loro si sono posti per mancanza di coraggio, cioè che nessuno realizzasse se stesso, ma tutti rimanessero menomati della loro vita, così come è capitato a loro. In questo senso ogni morale che si presenta come assoluta è frutto di risentimento. Il cristianesimo è l’esempio più chiaro e significativo di questa morale del rancore. Arriviamo a dire che per N. i termini “buono” e “cattivo” sono sinonimi di ciò che è conforme e di ciò che è contrario alla volontà del gregge. “Cattivo” è quindi ciò che la maggioranza non riesce ad accettare per paura di allontanarsi troppo dalle vie abituali, mentre “buono” è ciò che hanno tutti proprio come le pecore di un gregge. La massa cerca di impedire all’individuo di seguire il suo destino, condannando moralmente ogni tentativo di comportarsi in modo difforme e irregolare.

LA MORTE DI DIO
Nella Gaia scienza si parla di un uomo, un uomo folle che corre al mercato a chiedere “dov’è Dio?”; in quest’opera N. annuncia la morte di Dio, cioè la fine di ogni morale assoluta o trascendente. Il folle prosegue sottolineando da un lato, l’enormità dell’uccisione di Dio e, dall’altro, l’incapacità dei suoi assassini di accorgersi della tragedia insita nella morte di Dio. Alla fine il folle scappa, dicendo che era ancora troppo presto, che non tutti hanno capito che Dio è morto e che solo pochi si sono già resi conto che è impossibile vivere senza Dio. N. con la metafora dell’uomo folle, mette in luce la terribile contraddizione implicita nell’illuminismo, che, da un lato, mediante l’uso della ragione, demistifica tutti i valori morali e religiosi, ma dall’altro ci lascia organi proprio di quei valori. Della morte di Dio è responsabile la società moderna in generale, con la scienza, la tecnica, la rivoluzione industriale, la borghesia e l’avvento della democrazia di massa. Quella stessa società che, però, non si rende conto dell’assoluta enormità di questo “assassino”. N. arriva alla conclusione che è terribile vivere in un mondo senza Dio e si domanda se noi stessi dobbiamo diventare dei, per apparire almeno degni dell’uccisione di Dio. Esiste forse una via d’uscita dalla notte senza Dio in cui siamo piombati, cioè quella di prendere sulle nostre spalle tutte le responsabilità che prima delegavamo a Dio.

IL SUPERUOMO
N. è un attento lettore di Schopenhauer ma non accetta le sue conclusioni pessimistiche. Egli è d’accordo con lui soprattutto su due punti: in primo luogo, sull’impossibilità di far riferimento a un qualche valore trascendentale; in secondo luogo, sul fatto che l’uomo è essenzialmente volontà. Tuttavia proprio sul concetto di volontà N. prende le distanza dall’autore; infatti, è vero che l’uomo è innanzitutto volontà di potenza, cioè l’anelito all’autoaffermazione, ma la volontà di potenza non va intesa alla stregua di un qualsiasi desiderio fisico ma come la tensione a superare se stessi. La volontà di potenza è appunto questo anelito che trascina l’uomo oltre se stesso, verso mete sempre nuove. La volontà di potenza, perciò, ha poco a che fare con i desideri comuni, essa è invece la fora che ci permette di infrangere ogni vincolo tradizionale, ogni morale precostituito, consentendoci di creare la nostra morale individuale unica e irripetibile. La volontà di potenza è la forza di cui ognuno è dotato per andare oltre se stesso, affermando qualcosa di nuovo. Prendendo le mosse da questa interpretazione possiamo meglio interpretare la nozione di superuomo. Il superuomo ha poco a che fare con un uomo forte e bello, che schiaccia i più deboli. In effetti la traduzione più corretta del termine tedesco sarebbe “oltreuomo”. Il superuomo è infatti colui che va oltre se stesso, non colui che supera tutti gli altri. Il superuomo è si violento, ma nel senso che viola tutte le leggi precostituite creandosi la sua morale da sé. La distanza fra Schopenhauer e N. si può anche individuare in un'altra maniera. La negazione di ogni valore assoluto può portare a due conclusioni diametralmente opposte: o si stabilisce che tutti i valori sono falsi, per cui non c’è più nulla per cui vale la pena di vivere, oppure tutti i valori vanno bene e vale la pena di vivere per ogni cosa. Schopenhauer opta per la prima soluzione, mentre N. per la seconda. Il superuomo è dunque colui che accetta il suo destino, è colui che si rende pienamente conto della sua incompletezza e lotta per superarla. N. non cerca, come Schopenhauer, una via di fuga dal dolore e dalla noia, ma un aggravio massimo del dolore umano. Egli, infatti, è consapevole che più i piaceri sono grandi, più sono accompagnati da grandi dolori; ma non opta, come Schopenhauer, per la negazione degli uni e degli altri, bensì per la loro accentuazione totale. L’uomo, dunque, deve seguire il suo destino di piacere e dolore. Egli chiama nichilisti quelli che non credono in alcun valore assoluto, ma non sanno tratte le giuste conseguenze da questa loro convinzione. N. sostiene che dobbiamo distruggere tutte le antiche tavole della legge, ma questo non significa che non se ne siano di nuove, ma solo che le nuove sono scritte solo per metà, in modo che ogni uomo, andando oltre se stesso, le completi.

DIONISIACO E APOLLINEO
Il giovane N. è profondamente affascinato dalla cultura greca. Del resto non dobbiamo dimenticare che egli inizia i suoi studi come filologo. Egli distingue nella cultura antica due fattori caratterizzanti, cioè lo spirito dionisiaco (da Dioniso, dio del vino e delle feste orgiastiche) che rappresenta il desiderio di vivere, la vitalità; e quello apollineo (da Apollo, dio della bellezza) che invece consiste nell’ordine, nell’armonia e nell’equilibrio razionale.

LA STORIA E LA SCIENZA
N. critica ogni interpretazione lineare della storia, riallacciandosi invece alla visione ciclica del cosmo, tipica dell’antica Grecia. In Così parlo Zarathustra si rende conto che tutte le cose tornano uguali, che ogni avvenimento si ripeterà infinite volte sempre allo stesso modo, ovvero egli prende coscienza dell’eterno ritorno dell’identico. Questo significa che non c’è un senso nella storia, che l’uomo percorre i suoi sentieri senza uno scopo, ritornando continuamente sui suoi passi. E il compito del superuomo sarà ancora una volta quello di accettare questo inutile ciclo sempre uguale che è la vita, vivendolo fino in fondo e assaporando ogni istante nel presente, senza sperare in un futuro diverso. N. distingue tre tipi di storia: quella monumentale, che raccoglie i grandi esempi del passato affinché se ne abbia eterna memoria; quella archeologica, che è una meticolosa ricostruzione del passato; e quella critica, che esamina il passato al fine di scoprire gli errori commessi. La simpatia di N. va soprattutto alla storia critica, che è quella più chiaramente orientata verso un futuro innovativo e originale. Anche la storia monumentale ha, però, il significato di ispirare le grandi azioni sull’esempio di quelle già compiute. Per quella archeologica serve a mantenere viva una tradizione, che può avere valore per la vita. N. non accetta l’idea che la storia possa essere realmente obiettiva, che essa possa prescindere del tutto dalla nostra interpretazione. Egli sostiene che non esistono fatti storici, ma solo uomo che ripensano e ridanno vita a eventi di un presunto passato. E’ dunque la vita degli uomini che fa la storia. La storia è una creazione dell’uomo, che non può renderlo suddito (della storia). Lo stesso attacco N. lo riserva alla scienza, che è l’altra faccia di questa cultura positivistica dei fatti. Anche gli scienziati sono convinti di descrivere il mondo così come è dato nell’esperienza, nello stesso modo in cui gli storici credono di riprodurre il mondo del passato. Tuttavia, così come non ci sono fatti storici, non sussistono neppure fatti scientifici, per cui anche la scienza è espressione della soggettività umana. N. individua nella paura di fronte alla natura il sentimento che spinge l’uomo a fare scienza, per cui essa, lungi dall’essere una descrizione obiettiva del mondo, è in realtà il frutto del nostro desiderio di sottometterlo e renderlo inoffensivo.

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