Nicola Cusano

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Testo

Poiché tutti gli oggetti matematici sono finiti e non possono essere altrimenti immaginati, se vorremo elevarci al massimo semplice, servendoci Come di esempi, degli oggetti finiti, bisogna in primo luogo considerare le formule matematiche finite con tutte le loro proprietà e ragioni, quindi trasferire corrispondentemente queste ragioni alle figure infinite, in terzo luogo, trasferire in modo traslato e più profondo, le ragioni delle figure infinite all'infinito semplice, sciolto da ogni riferimento alle figure. Solo allora la nostra ignoranza, farà in modo incomprensibile comprendere a noi che ci affatichiamo sugli enigmi, che cosa dobbiamo pensare in modo più vero e preciso sull'altissimo
L'aiuto della matematica per comprendere l'alterità del divino si basa sul fatto che la coincidentia oppositorum formalmente viene riprodotta grazie al metodo del doppio trasferimento. Il procedimento fornisce al tempo stesso una mappa metafisica che può essere percorsa anche in senso inverso in quanto essa presenta la struttura dell'origine del mondo come explicatio a partire dal fondamento della complicatio. In questo rimane garantita la riflessività della trascendenza - in altre parole: la costante ritraducibilità della teologia in antropologia e cosmologia. Su questa ritraducibilità della sua trascendenza si fonda il fatto che il teologo speculativo completamente radicato nel Medioevo abbia potuto apportare alla comprensione del mondo e dell'uomo impulsi che spingono verso la fine del Medioevo.
La fine del Medioevo significa anche il superamento di quell'atteggiamento spontaneo nei confronti della lingua che induce ad associare a ogni elemento linguistico un equivalente materiale e che vede in questa correlazione un circuito chiuso di prestazioni. Il nominalismo vi aveva aperto una prima breccia critica, ma solo nel senso di una limitazione economicamente regolata della funzione d'associazione. Il Cusano comincia a considerare la funzione della lingua come indicazione, e cioè nel senso che la lingua adempie alla propria funzione ogni qual volta essa rinvia al di fuori dell'ambito di ciò di cui si può parlare. Per citare il critico moderno della lingua: «Le mie proposizioni illustrano così: colui che mi comprende, infine le riconosce insensate, se è salito per esse - su esse - oltre esse». Solo con la metafora wittgensteiniana del buttar via la scala è stato definitivamente eliminato il residuo scolastico che il Cusano non aveva ancora visto, ossia la correlazione fra trascendenza linguistica e trascendenza del mondo; la trascendenza linguistica conduce ora più che mai nel mondo. Ma un tale punto finale della rottura con la funzione correlativa della lingua è difficilmente comprensibile senza tener conto retrospettivamente di quella prima evasione dalla Scolastica.
La formula della docta ignorantia, la cui origine è descritta dal Cusano come una sua esperienza filosofica paragonabile a quella di Paolo sulla via di Damasco e che sarebbe avvenuta durante il suo viaggio per mare da Bisanzio verso l'Italia nel 1437, congiunge un elemento di rassegnazione scettica di fronte alle esigenze metafisiche del suo tempo con un elemento di attesa indefinita di un sapere che non poteva più avere la forma tradizionale. La situazione dell'uomo di fronte alla trascendenza, teoreticamente priva di prospettive, viene presentata in modo nuovo come prospettiva di comprendersi più chiaramente proprio a partire da e in questa difficoltà. In questo senso la formula, che nei suoi antecedenti sembrava essere più che millenaria, era davvero nuova. La pia confessio ignorantiae di Agostino, l'umile ammissione di ignoranza che egli aveva contrapposto alla spensierata pretesa di sapere, non era affatto il sapere derivante dall'esplorazione dell'ignoranza e ricercato in essa, bensì il punto del puro abbandono dell'esigenza di sapere nel passaggio alla fede. Qui, proprio nel mantenimento degli elementi linguistici di questa formula, dall'inizio alla fine dell'epoca si manifestano un'incostanza e un capovolgimento di senso. La docta ignorantia del Cusano si distingue tanto dalla frase di Socrate per cui egli sa di non saper nulla, quanto dalla scientia nihil scire con cui Seneca aveva designato gli scetticismi di varia tendenza. La negatività riconosciuta è qualcosa di diverso dalla conoscenza a partire dalla negatività, come era già stata formulata da Filone (ca. 25 a.C. -ca. 50 d.C.):
Quando, dunque, l'anima amante di Dio ricerca che cosa è l'Essere nella Sua essenza, arriva a cercare ciò che non ha forma visibile, e da ciò le deriva un grandissimo bene: quello di rendersi conto che Dio, nel Suo essere, non può essere compreso da nessuno, e di vedere proprio questo, che Egli non può essere visto
In Filone si trova la determinazione di questa negatività positivizzata come «il cercare in sé che è estremamente desiderabile anche senza il
trovare». Petrarca (1304-1374) è stato il primo a utilizzare questo formulano in un contesto non più mistico e a farne una formula critica fondamentale contro la pretesa scolastica di sapere. Secondo Petrarca, solo colui che si riconosce come ignorante e in questo si detesta può diventare dotto, infatti la vista dolorosa della propria arretratezza è il punto di partenza del suo superamento.
È evidente l'ambivalenza di quest'idea fondamentale: da un lato essa porta all'umile rassegnazione di fronte all'immanenza, rassegnazione che rimette tutto nelle mani della divinità, conducendo così al salto nella fede da parte dell'intellettualità che si sacrifica; dall'altro essa porta alla presa di coscienza di uno statuto effettivo - e quindi sempre più scandaloso e degno di essere cambiato - della conoscenza. Questo fu ciò che mancò assolutamente alla Scolastica, che in ognuno dei suoi rappresentanti sembrò trovarsi alla fine del processo di addizione di ciò che è umanamente conoscibile. Col Cusano il richiamo all'ignoto non è più soltanto un modo per rintuzzare l'arroganza della pretesa di sapere, ma comincia al tempo stesso a indicare il margine ancora ignoto del suo ampliamento. La critica secondo la quale il Medioevo avrebbe conferito al proprio livello di sapere il carattere della definitività e della completezza, paralizzando in tal modo la propria volontà di progredire teoreticamente e di riconoscere nuove esperienze, fa parte dell'arsenale che serve all'età moderna incipiente per di-stanziarsi dal proprio passato; per pensatori del tipo di un Francesco Bacone il fatto di aver avanzato tale critica è stato più caratteristico e più efficace di quanto non siano stati i progressi stessi che essi poterono far credere di aver conseguito nella scienza. Rousseau avrebbe poi generalizzato questo rimprovero su un piano di critica della cultura e avrebbe parlato della felicità dell'ignoranza [l'heureuse ignorance] che ci preserverebbe dalle delusioni delle rettifiche del nostro presunto sapere. Nella lettera a Voltaire del 10 settembre 1755 egli scrive che ciò che non sappiamo ci nuoce meno di quello che crediamo di sapere. «Se non avessimo preteso di sapere che la terra non gira, non si sarebbe punito Galilei per il fatto di aver detto che essa gira».


La cosmologia del Cusano, il prodotto più gravido di conseguenze del suo pensiero, deve essere situata proprio in questo contesto di una speculazione proiettiva che spezza il potere della Scolastica e del suo carattere vincolante. Già da questa collocazione risulta che il Cusano non può essere visto, come si è sempre lasciato intendere fin da Giordano Bruno e da Keplero, quale precursore di Copernico, anche se Copernico l'ha letto. Oggi, dopo che il carattere medievale di Copernico è diventato sempre più evidente, si è inclini ad andare oltre e ad affermare che il Cusano non ha tanto preparato la svolta copernicana, quanto piuttosto pensato in anticipo le sue conseguenze che sarebbero rimaste nascoste al suo stesso autore.

In fin dei conti, nel XV secolo Nicola Cusano non ha scoperto la dottrina copernicana solo perché si trovava già nella prospettiva della relatività del movimento, alla quale Copernico non è ancora pervenuto

…Indipendentemente dalla questione se tra la teoria del movimento del Cusano e quella di Copernico sussista realmente un'altra differenza oltre a quella che per Copernico continuava a valere lo spazio di riferimento finito del cosmo tradizionale, delimitato in modo assoluto dall'ultima sfera, non appare alcun elemento per credere che Nicola Cusano abbia modificato, abbia voluto o potuto modificare alcunché nel modello tradizionale dell'universo su un piano costruttivo e tenendo conto di un qualche problema o dato astronomico.
Già FJ. Clemens, il pioniere degli studi sul Cusano, ha reso noto un appunto, di mano del Cusano, che si trovava sull'ultimo foglio di un opera astronomica della biblioteca dell'ospedale di Cusa, acquistata da Nicola nel 1444 a Norimberga. Questa meditazione cosmologica, così io definirei la pagina, non si occupa affatto dell'irritazione dovuta alle difficoltà e alle confusioni del sistema cosmologico tolemaico in vigore, anzi non ne tiene affatto conto, nemmeno implicitamente. Metterlo in relazione diretta con la problematica di una riforma astronomica mi sembra perciò un'interpretazione sbagliata. Qui, come in altre questioni confinanti con l'empiria, il punto di partenza è rappresentato dal principio dell'inesattezza quale applicazione della regola precauzionale generale che era risultata dal principio della docta ignorantia. Esso contesta le tre pretese essenziali di esattezza della cosmologia antica e scolastica: l'esattezza delle orbite, la regolarità dei movimenti dei corpi celesti su di esse e la collocazione della terra esattamente al centro dell'universo. La premessa è:

Sono pervenuto alla riflessione che nessun movimento può mantenere una forma precisamente circolare e che quindi nessuna stella descrive un'orbita esattamente circolare dal punto di partenza al punto di partenza

La conseguenza che il Cusano trae dalla sua premessa rivela che, almeno in quest'appunto, egli si attiene alla concezione delle sfere per le stelle fisse. Egli conclude che il divieto metafisico dell'esattezza di un qualsiasi processo nel mondo, applicato alle orbite celesti, rende necessaria la mobilità del polo dell'ottava sfera, cosicché anche le distanze delle singole stelle fisse dai poli celesti diventano variabili.


La negazione della posizione centrale della terra nell'universo assume così un aspetto ulteriore. L'imprecisione e l'infinitezza sono solo i fattori d'irritazione del sistema tradizionale. Il motivo più profondo è la rioccupazione del centro, che ora non deve più essere soltanto un semplice punto di riferimento di una scala d'ordine, ma il punto d'origine sostanziale della solidità e della dignità ontologiche del tutto. Nell'undicesimo capitolo del secondo libro del De docta ignorantia si può riconoscere chiaramente che al Cusano interessa primariamente accertare l'impossibilità dell'identificazione tra la terra e il centro dell'universo, e in tal modo rendere possibile l'asserzione, non più verificabile fisicamente, di quell'enunciato pseudo-ermetico secondo il quale centro e periferia del mondo coincidono nell'infinità e Dio è appunto tale coincidenza di centro e periferia. Solo a partire dalla premessa per cui la terra non può trovarsi al centro del mondo viene dedotto il suo movimento e, di conseguenza, la sua parità di rango rispetto agli altri corpi celesti:
«Terra igitur, quae centrum esse nequit, motu carere non potest». In tal modo però viene eliminato anche quell'elemento centrale della cosmologia aristotelica col quale viene tracciato un limite radicale, e invalicabile per l'esperienza terrena, tra il mondo stellare e il mondo sublunare. Il Cusano ha formulato in un un'opera della sua vecchiaia, De venatione sapientiae, la conseguenza di questo dualismo all'interno del cosmo: secondo lui Aristotele ha certo fatto della ragione la causa prima e il principio del movimento, ma le ha attribuito un'administratio diretta solo nei confronti degli astri. Per quanto riguarda le cose terrestri una tale guida doveva sussistere solo tramite la mediazione degli astri, e quindi essa non abbracciava in ugual modo tutto l'universo
In questo contesto si trova la frase singolare in cui Epicuro sembra essere lodato per il fatto di attribuire a Dio la tutela dell'universo senza la mediazione di una qualsiasi istanza o strumentalità: «Epicurus vero totum deo soli sine cuiuscumque adminiculo universi tribuit administratione». Questa proposizione, la cui erroneità è storicamente pressoché insuperabile, diventa più comprensibile solo che si riconosca l'equivalenza dei mondi nell'universo di Epicuro come l'elemento più urgente e più impressionante per il Cusano. Infatti la sua stessa cosmologia mira proprio a presentare le differenze tra i corpi celesti, ad esempio la loro suddivisione in corpi oscuri e corpi luminosi, corpi emananti luce riflessa e corpi emananti luce propria, come illusioni determinate dal punto d'osservazione. Il nostro mondo potrebbe tendere per sua costituzione a indurre in errore l'uomo, che ci vive, quanto alla sua posizione, al carattere e alla configurazione del tutto. Sicuramente il Cusano non intendeva formulare questa supposizione dall'apparenza piuttosto nominalistico-volontaristica - la cui discendenza potrebbe condurre direttamente all'esperimento intellettuale cartesiano del genius malignus. Ma la sua tesi dell'intercambiabilità dei concetti fondamentali d'orientamento - come il centro dell'universo, il polo celeste, l'asse terrestre, lo zenit, la sfera - tiene comunque conto dei grandi timori scettici del XIV e XV secolo per cui l'uomo, nel suo sforzo di venire a conoscenza del piano della Creazione, potrebbe essere vittima di una vana illusione. La cosmologia del Cusano sembra tendere addirittura a costruire un sistema di possibili condizionamenti di posizioni e di illusioni dell'osservatore anticipando così nell'immaginazione le eventualità alle quali si vedeva esposto il nominalismo. In ogni modo è così che si leggono le ultime frasi dell'undicesimo capitolo del secondo libro del De docta ignorantia, secondo le quali si dovrebbe sperimentare con l'ausilio dell'immaginazione l'intercambiabilità della posizione centrale e di quella polare dell'osservatore.
Il risultato di tali esperimenti intellettuali è l'asserzione che non si può comprendere il mondo, il suo movimento e la sua forma, poiché esso si presenta come una ruota all'interno di una ruota e come una sfera all'interno di una sfera senza avere in alcun luogo un centro o una periferia.


La terra è, dunque, una stella nobile, che ha luce, calore e influenza proprie ed è diversa da tutte le stelle proprio come una stella differisce dall'altra per luce, natura e influenza

In questo passo si ha una visione d'insieme completa delle conquiste cosmologiche della speculazione del Cusano: la stellarizzazione della terra e quindi l'omogeneizzazione della struttura fisica dell'intero universo; l'instaurazione dell'equivalenza di tutti i punti d'osservazione o, rispettivamente, l'attualizzazione di una riflessione metodica sui condizionamenti del punto d'osservazione; l'eliminazione della direzione unilaterale aristotelica della causalità del movimento e l'instaurazione del principio di interazione nell'universo, della reciprocità di tutti i tipi d'influentia.
L'immagine del mondo antica e medievale era geocentrica non solo nella sua struttura statica, ma anche nella sua struttura dinamica. La terra non solo stava al centro, ma era anche l'ultimo polo di riferimento di tutti gli influssi cosmici, che avvenivano sempre dall'alto verso il basso. Per esercitare il suo dominio sull'universo, anche il Dio dell'alta Scolastica si serviva di istanze mediatrici, di causalità secondarie, e in tal modo rispettava appunto quello schema dal quale dipendeva anche la validità durevole delle concezioni astrologiche. Il Cusano rompe con questo schema. Le forze celesti non emanano più in una sola direzione dall'alto verso il basso, dalle sfere sublimi verso la terra puramente ricettiva e quindi eccessivamente terrestre. Quest'antica concezione si rivela ora dipendente dall'illusione della posizione centrale della terra sulla quale sembrano convergere le linee di influenza dell'universo - una dubbia interpretazione perfino di una teleologia antropocentrica, se deve assegnare all'uomo il luogo della massima passività. Il cosmo antico-medievale a livelli sovrapposti ha perso la propria realtà, e precisamente perché la sua funzione mediatrice tra Dio e l'uomo è stata eliminata. L'influenza del divino si diffonde nel mondo direttamente e senza ostacoli, e malgrado l'accresciuta trascendenza è più intensamente onnipresente di quanto non potesse essere avvertito nel cosmo a strati della Scolastica.



La cosmologia del Cusano ha conseguenze immediate per la sua antropologia. Non solo quella che il centro dell'universo non poteva più essere una posizione distintiva e qualificante dell'uomo. Ancora più importante era il fatto che l'equivalenza degli astri alla terra in quanto mondi (partes particulares mundiales unius universi) rendeva ovvia non solo la loro abitabilità, ma anche la formulazione dell'idea che l'universo non ha unicamente il punto di vista umano e che questo punto di vista non ha alcuna superiorità rispetto ad altri. Il mondo non è stato creato a favore dell'uomo e intorno a lui come suo centro. Platone e Aristotele vengono criticati - certo a torto - perché avrebbero assegnato al cielo lo scopo di essere al servizio dell'uomo. Dio ha creato il mondo a propria lode, ma Egli poté farlo solo investendo completamente e senza riserva le proprie possibilità; tale premessa implica la dignità e il rango dell'uomo in misura maggiore rispetto all'idea della funzionalità in una prospettiva umana riconoscibile per l'uomo nel mondo. Esso costringe a sostituire all'antropocentrismo passivo che aveva fatto dell'uomo un contemplatore e beneficiario dell'universo, una definizione attiva dell'esistenza umana, realizzata non a partire dalle condizioni del mondo, ma dall'autorealizzazione.
In generale nella sua cosmologia il Cusano è alieno da interpretazioni teleologiche; la funzionalità gli sembra una compensazione di una carenza delle creature, che nella preparazione delle loro condizioni di esistenza dovrebbero trovare già pronto ciò che rimase negato alla loro autorealizzazione.La Creazione senza riserve non consente di pensare a delle teleologie economiche; le stelle non brillano per dare luce all'uomo o ad altri esseri, ma per realizzare la propria essenza. La luce risplende grazie alla propria natura - se essa brilla anche per la vista - non si tratta di una determinazione primaria ma di una sua strumentalizzazione secondaria basata sull'attività del vedente dunque su ciò che egli fa del mondo.
Si comprende, dunque, che il Cusano voleva al tempo stesso salvare e neutralizzare la concezione opprimente della Scolastica aristotelica per cui Dio avrebbe creato il mondo solo per se stesso e per la propria gloria, mentre avrebbe creato l'uomo come semplice funzionario dell'ammirazione di tale opera. Se e proprio perché Dio era dedito a una tale autoriflessività, allora la sua opera doveva dare in grado supremo a ciascun essere ciò che gli spettava. Ma questo ragionamento ha un limite - il limite, appunto, che sarà superato da Giordano Bruno: la differenza ineliminabile tra il Creatore e la sua opera in quanto infinitezza e finitezza, la cui mediazione fa dell'incarnazione il perno di tutto il sistema:

Dio creò tutte le cose per sé stesso, e le creò nel modo più grandioso e perfetto, appunto perché l'universo è finalizzato a Lui. Tuttavia questo stesso universo non poteva essere unito a Lui, poiché non c'è nessuna analogia di proporzione tra il finito e l'infinito .

La mancanza di riserva di Dio nella Creazione in quanto principio di esaltazione dell'universo non è ancora pensata fino alla fine.
Dunque il fatto che l'uomo sia l'unico abitante del mondo fisico e che possa riferirlo a se stesso non è più un argomento a suo favore. Ma egli non deve nemmeno necessariamente sentirsi toccato dall'inferiorità della sua posizione nel cosmo, interpretarla come indicazione sul proprio rango nella realtà, infatti:

Sebbene Dio sia il centro e la circonferenza di tutte le regioni astrali, e da lui procedono nature di diversa nobiltà che abitano in ogni regione, per impedire che alcuni luoghi dei cieli e degli astri siano vuoti, e che solo questa terra sia abitata, forse, da esseri inferiori - non sembra, tuttavia, che ci possa essere una natura più nobile e perfetta di quella intellettuale che abita in questa terra come nella sua regione, anche se in altre stelle ci sono abitanti di altro genere.

Tale supposizione confortante, che certo non sarà mantenuta a lungo nella tradizione ulteriore delle speculazioni su abitanti di altri corpi ce-
Lesti, viene motivata nel passo immediatamente seguente a quello ora citato con l'enunciato, essenziale dell'antropologia del Cusano:

L'uomo, infatti non desidera una natura diversa, ma solamente di essere perfetto nella sua .

Tale autoaffermazione dell'uomo, presupposta come dato di fatto della coscienza, determina il suo punto di vista interno sul mondo. Questo assioma conclude il rovesciamento di valore dell'universo che, sebbene dal punto di vista dell'infinito appaia soltanto come il nulla di un punto, può non essere questo nulla se in esso l'uomo ha una tale coscienza dell'appagamento della propria natura da parte di se stessa e della raggiungibilità della perfezione di questa natura.
Il Cusano è un mistico senza l'interesse assoluto per l'assoluto del mistico. uest' interesse mira alla consunzione del finito e alla distruzione di ogni posizione possibile nel finito. Ciò che viene descritto come esperienza mistica distrugge se stesso in quanto esperienza nella misura in cui il suo oggetto costringe il soggetto all'autorinuncia. Se si considera che tale concezione era già corrente nel neoplatonismo, si nota che il Cusano si oppone non solo alla Scolastica e alla sua autosufficienza teoretica, ma anche alla tradizione nella quale egli è radicato. Si può descrivere il tratto fondamentale unitario delle tradizioni con le quali egli entra in conflitto come quello della pretesa eccessiva. Egli non rinuncia alla pretesa che vi viene accampata, ma rafforza ed esalta il destinatario che la deve soddisfare. Come cerca di mantenere la cosmologia sistematicamente in contatto con la teologia, così egli apporta anche all'antropologia una sostanza compensatrice.
Certo, per Nicola di Cusa la nuova cosmologia non è nient'altro che la conseguenza estrema dell'antica concezione della Creazione. Ma cosa succedeva all'uomo, mentre il cosmo e il suo Creatore crescevano all'infinito? La soppressione della finitezza, in quanto passo della speculazione metafisica, non solo ebbe come conseguenza il fatto che da quel momento il mondo sarebbe stato, per così dire, in procinto di diventare esso stesso divino, ma divenne anche, da ambito d'esperienza definibile e considerata come largamente definita, un campo di dati di fatto in linea di principio sempre superabili, una riserva inesauribile di oggetti della conoscenza. Per l'uomo, secondo l'immagine del Cusano, ne risulta una doppia dimensione della perseguibilità del vero all'infinito: da un lato l'imprecisione di principio di ogni elemento di volta in volta dato, e quindi la potenzialità inesauribile dell'intervento teoretico su ogni oggetto; dall'altro l'infinitezza come indeterminazione mai superabile dell'universo della conoscenza empirica, per così dire l'imprecisione dell'universo stesso.
Non fu un caso che proprio l'impostazione speculativa del Cusano conducesse in una direzione nella quale infinitezza e imprecisione poterono essere caricate di una valenza positiva. Come diverrà pienamente evidente solo con Leibniz, tra il concetto dell'infinitezza e quello dell'individualità esiste una correlazione insolubile, in quanto solo l'infinitezza dell'universo delle monadi esclude che si ripeta l'attuazione di volta in volta finita della sua rappresentazione in una monade. L'unicità del soggetto trova la propria garanzia nell'infinitezza, ora ammessa, dei suoi fattori costitutivi. In quanto il soggetto viene inteso come facoltà di rappresentazione dell'universo, esso trae indirettamente beneficio dalla crescita all'infinito di quest'ultimo. Per la tradizione aristotelica dell'alta Scolastica, invece, l'individualità era stata vista solo nell'orizzonte di una molteplicità finita di forme la cui concreta esistenza singola non poteva essere presa in considerazione in una conoscenza il cui unico oggetto adeguato doveva essere l'universale. E l'individualità era invece la rifrazione della forma generale nel mezzo materiale. Si riconosce facilmente quanto poco questo vada d'accordo con una concezione per la quale il mondo è la manifestazione di una volontà infinita. Infatti come può la moltiplicazione meccanica di forme identiche essere conforme a tale volontà se quest'ultima sembra dimostrare proprio l'esauribilità della riserva di forme? Oppure si dovrebbe forse attribuire alla potenza e alla volontà infinite una specie di autolimitazione a ciò che l'intelligenza umana poteva rappresentare con il potenziale finito della propria concettualità? D'altra parte come potrebbe essere adeguatamente interpretato l'interesse della volontà divina per il destino di salvezza dell'uomo individuale se l'individuo aveva soltanto il carattere occasionale di un esemplare della forma generale della sua specie - e solo in questo dotato di una dignità intelligibile? Sebbene si possa essere portati a credere che tale elemento dovesse acquisire un carattere di urgenza per il Medioevo, la concezione antica - prevalentemente aristotelica - dell'individualità è stata superata solo faticosamente e tardivamente.

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