Kant: vita ed opere nel contesto storico

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Categoria:Filosofia
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Testo

KANT
La sua vita è priva di grandi avvenimenti esterni ma osserva tutti gli avvenimenti della sua epoca è dalla parte degli insorti americani durante la rivoluzione americana, è dalla parte dei rivoluzionari francesi come si può comprendere nella sua opera politica "PER LA PACE PERPETUA" in cui sviluppa i suoi ideali di uguaglianza.
Le sue opere possono essere divise in tre periodi:
Gioventù (1760) si occupa soprattutto di studi scientifici che avranno grande influenza sulla sua filosofia che è una riflessione sui risultati ottenuti dalla fisica newtoniana.
1760-1781 studi filosofici : opera principale di questo periodo è la "DISSERTAZIONE SUL MONDO SENSIBILE E INTELLEGGIBILE" in cui Kant inizia ad occuparsi del problema della conosceza, il problema gnoseologico cioè la ricerca del fondamento della nostra conoscenza. Kant divide la conoscenza in :conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale. La novità è rappresentata da ciò che dice circa la conoscenza sensibile: Conoscenza sensibile: ha per oggetto la materia intesa come fenomeno. L’oggetto della conoscenza è la materia così come ci appare nello spazio e nel tempo perché le cose ci appaiono nello spazio e nel tempo dal punto di vista della sensibilità; non esiste per noi un oggetto che sia nello spazio e nel tempo: sono le condizione della conoscenza sensibile. Spazio e tempo sono il modo con cui noi conosciamo le cose materiali e questo modo non dipende dalle cose ma da noi: l’oggetto è menome perché così appare a noi nello spazio e nel tempo. Spazio e tempo dipendono da noi sono il nostro modo di conoscere dal punto di vista sensibile le cose. La conoscenza è quindi il frutto dell’oggetto e del modo di conoscerlo.
Conoscenza intellettuale: dà una risposta tradizionale: l’oggetto della conoscenza intellettuale è il noumeno cioè l’oggetto così come viene pensato: l’oggetto come è in sé stesso (metafisicamente). La conoscenza intellettuale ci permette di superare l’apparenza per capire l’oggetto come è davvero
1781. Kant rielabora radicalmente questa seconda parte (con int.) arrivando alla filosofia critica o CRITICISMO.
1781\87: "CRITICA DELLA RAGION PURA"
1787: "CRITICA DELLA RAGION PRATICA" (morale)
1790: "CRITICA DEL GIUDIZIO" (vita sentimentale cioè del giudizio del sentimento, apre la filosofia a una nuova facoltà: il sentimento.
Altre opere importanti:
"CHE COS’E’ L’ILLUMINISMO" (per Kant è l’uscita degli uomini da uno stato di minorità).
"PER LA PACE PERPETUA" (in cui sviluppa i suoi ideali di libertà e uguaglianza e per questo è costretto per un certo periodo a non pubblicare l’opera).
Metodo
Il metodo di Kant nasce nell’ambito dell’illuminismo tedesco e della filosofia di Wolf. Kant riprende il metodo wolfiano della ragion fondante, secondo cui la ragione deve procedere fondando ad ogni passo i suoi concetti, cioè dimostrandone la possibilità logica e un concetto è logicamente possibile quando non ha contraddizioni interne (es: Dio è un concetto possibile): la possibilità di cui parla Wolf è puramente logica e formale, basata sul principio di non contraddizione e di identità: qualsiasi cosa astratta è un principio solido (es: Dio, triangolo, anima…). Kant inizialmente aderisce a questo metodo ma quando si accosta all’empirismo inglese si rende conto che in realtà l’assenza di contraddizioni interne non è sufficiente perché un concetto sia per noi possibile: per l’uomo un concetto è possibile solo se si riferisce a un oggetto dell’esperienza: l’anima per noi non è più un concetto possibile; il limite della conoscenza dell’uomo anche per Kant è l’esperienza, che è un limite intrinseco alla modalità di funzionamento della nostra intelligenza. Kant abbandona la definizione di metafisica come scienza dei possibili in quanto possibili: metafisica =scienza dei limiti dell’uomo. Questo nuovo metodo di Kant si riferisce sia al conoscenza sensibile che a quella intellettuale.
Critica della ragion pura
Nella critica della ragion pura Kant parte dalla filosofia di Hume. Il risultato filosofico di Hume è che ogni nostro sapere è assolutamente probabile. Se poi ci addentriamo nel mondo della metafisica il nostro sapere è addirittura chimerico. Kant dice che un sapere certo esiste ed è la scienza matematica della natura di Newton. Sicuramente i contenuti della metafisica sono chimerici, ma è reale la tensione dell’uomo verso la metafisica, perché l’uomo cerca continuamente di addentrarsi in questo campo noi dobbiamo:
dimostrare che il fondamento della fisica di Newton è vero
capire cosa spinge l’uomo verso la metafisica
Dobbiamo erigere un tribunale di fronte a cui la ragione fondi il proprio sapere, giustifichi le sue certezze e spieghi le sue tensioni verso la metafisica. Kant dice che sicuramente ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza, infatti la nostra conoscenza deriva dall’esperienza, ma dalla ragione il modo con cui ordina e unifica questa materia: dall’esperienza deriva la materia, ma la ragione la modella.
Conoscenza : sintesi di materia e forma
La materia è costituita dalle intuizioni sensibili, cioè da ciò che viene dall’esperienza. La forma è il modo con cui noi la unifichiamo: la forma, che è il modo di operare della nostra ragione, è quindi a priori rispetto alla materia, cioè né è indipendente pur non precedendola: perché se non c’è la materia da unificare non c’è neanche la funzione unificante, che però non deriva dalla materia ma dalla nostra ragione.
Forma:funzione unificante e ordinatrice
Per Kant la nostra conoscenza universale è fatta da giudizi sintetici a priori. Sintetici cioè che sono accrescitivi della conoscenza e a priori perché valgono a priori cioè sono universali e indipendenti dall’esperienza, ma non la precedono.
Per sapere qual è l’elemento che giustifica la nostra conoscenza dobbiamo analizzare l’elemento a priori della nostra conoscenza, cioè quell’elemento che è indipendente dall’esperienza, ma non la precede.
Per giustificare la conoscenza universale bisogna analizzare il modo in cui conosciamo le forme.
La critica della ragion pura si distinguerà in:
Dottrina degli elementi
Dottrina del metodo
Sono dottrine trascendentali perché non riguardano la conoscenza ma le sue condizioni perché se dobbiamo giustificare la validità universale della conoscenza dobbiamo vedere qual è questo elemento a priori, non ci interessa la materia.
Trascendente
Ciò che sta al di là dell’esperienza, e che quindi non la riguarda

Immanente
Ciò che sta dentro (per Kant è l’intuizione sensibile)

Trascendentale
Ciò che riguarda le condizioni della nostra conoscenza, cioè gli elementi puri a priori, cioè quegli elementi che sono indipendenti dall’esperienza, ma non la precedono, cioè derivano da un’ altra fonte, non dall’esperienza, ma ci sono solo quando c’è l’esperienza

La prima conseguenza dell’aver definito gli atti conoscitivi come giudizi sintetici a priori è che per l’uomo l’oggetto della conoscenza è sempre solo il fenomeno. Se la conoscenza è una sintesi tra il dato dell’intuizione sensibile e il modo in cui unifichiamo il dato, l’oggetto non può che essere il fenomeno, non l’oggetto in se ma quello come appare ai nostri modi (l’oggetto della conoscenza è il dato come appare alla nostra mente e da essa elaborata); l’intelletto dell’uomo è un intelletto che pensa ordina e unifica, non sarà mai un intelletto che intuisce e crea, perché per operare avrà sempre bisogno di un dato: così Kant ha trovato la giustificazione del problema gnoseologico attraverso la rivoluzione copernicana, perché non potendo giustificare l’attività conoscitiva ipotizzando che fosse l’uomo a doversi adattare alla realtà, all’oggetto in sé, ha ipotizzato che fosse l’oggetto ad adattarsi ai modi con cui l’uomo lo conosce: l’oggetto è fenomeno il che non vuol dire che sia un miraggio, è l’oggetto così come realmente appare a noi, trova la sua giustificazione nel nostro modo di operare mentalmente: come Copernico per descrivere il funzionamento dei cieli ha dovuto ipotizzare che non fosse lo spettatore a stare fermo e i cieli a girargli intorno, ma fosse lui che girava intorno al sole, allo stesso modo Kant, non potendo giustificare la conoscenza, ipotizzando che fossimo noi a doverci adattare alle cose, ma ha dovuto ipotizzare che fossero le cose a doversi adattare al nostro modo di conoscere: la conoscenza si fonda sul nostro modo di conoscere. Possiamo spiegarci il titolo CRITICA DELLA RAGION PURA, cioè la ricerca del fondamento che giustifica la conoscenza tramite gli elementi puri cioè tramite la forma della nostra ragione che però funziona solo quando le viene dato un contenuto che acquista un valore universale perché noi lo manipoliamo così e non c’è modo di manipolarlo altrimenti. Kant affronta la critica trascendentale degli elementi a priori della conoscenza, che si divide in due parti:
1.ESTETICA TRASCENDENTALE che ha per oggetto gli elementi puri a priori della conoscenza sensibile (estetica = io sento)
2.LOGICA TRASCENDENTALE che studia gli elementi puri a priori della conoscenza intellettuale. È divisa a sua volta in:
-ANALITICA TRASCENDENTALE che studia il corretto uso degli elementi puri a priori e produce conoscenza.
-DIALETTICA TRASCENDENTALE che studia l’uso non corretto che la ragione fa degli elementi puri: metafisica, cioè quando la ragione tenta di superare i limiti dell’esperienza (critica alla metafisica tradizionale).
Dottrina trascendentale del metodo in cui Kant esemplifica la parte applicativa di quanto ci ha detto nella parte teorica. Il compito di Kant è di fare un analisi critica delle condizioni della nostra conoscenza.
ESTETICA TRASCENDENTALE
Ha per oggetto l’analisi degli elementi puri a priori della nostra conoscenza sensibile. Gli elementi puri a priori della conoscenza sensibile sono lo spazio e il tempo che sono intuizioni pure cioè non dipendono dall’esperienza né sono indipendenti ma non la precedono, sono le condizioni della nostra esperienza. Per Kant non esiste per noi un oggetto che non sia nello spazio così come non esiste una nostra attività interna che non sia in una successione temporale. Lo spazio è la condizione dell’esperienza esterna, il tempo è la condizione dell’esperienza interna. Ma siccome ogni esperienza esterna è anche una nostra esperienza interna il tempo è la condizione fondamentale della conoscenza. Per farci capire cosa intende per intuizione pura Kant opera una serie di distinzioni rispetto a quanto era stato affermato precedentemente a lui:
1.spazio e tempo non sono qualità delle cose perché dipendono da noi, sono il nostro modo di conoscere.
2.non sono entità oggettive
3.non sono concetti empirici
4.non sono concetti discorsivi cioè elaborazioni della mente
Spazio e tempo sono il modo in cui le cose ci appaiono.
Sullo spazio si fondano l’oggettività e l’universalità della geometria, perché lo spazio è la condizione formale di tutti gli enti geometrici.
Sul tempo si fonda l’oggettività e l’universalità della matematica, sulla successione temporale si fonda il numero. Nelle filosofie precedenti matematica e geometria erano verità certe e universali; secondo Kant le proposizioni della matematica e della geometria sono giudizi sintetici a priori: sono accrescitivi della conoscenza e valgono a priori perché si fondano sulle intuizioni pure di spazio e tempo, non sono proposizioni analitiche come era stato detto ma è una proposizione sintetica, perché se faccio 7+5=12 nel 12 non è contenuto necessariamente il 7+5 quindi questo implica una sintesi, implica un accrescimento della conoscenza e se nel 7+5=12 non è così chiara la cosa basta che noi sommiamo due numeri molto grandi, il risultato non sarà così intuitivo, questo implica che noi abbiamo dovuto operare una sintesi accrescitiva della nostra conoscenza.
Nella conoscenza sensibile noi siamo ricettivi passivi, ma nella conoscenza intellettuale il nostro intelletto è attivo e spontaneo ma mai creativo o intuitivo perché tale può essere solo un ipotetico intelletto divino.
Essere attivo e spontaneo per l’intelletto umano vuol dire essere discorsivo, cioè pensare tramite dei concetti partendo da ciò che viene dall’esperienza: anche la conoscenza intellettuale è una sintesi tra forma (cioè il modo con cui ordina e unifica) e la materia. Per noi pensare significa ordinare cioè giudicare. Il nostro pensiero opera formulando giudizi che sono per Kant l’atto della mente. Se vogliamo conoscere i concetti cioè qual è il modo con cui conosce la nostra mente noi dobbiamo andare a vedere quali sono i giudizi cioè quali sono gli atti della nostra mente: tavola dei giudizi divisa in 4 categorie :
1.Qualità (affermativa, negativa)
2.quantità (singolare, plurale universale)
3.relazione
4.modalità
Dalla tavola dei giudizi noi possiamo desumere la tavola delle categorie.
Categoria (o concetto puro) à condizione formale della conoscenza intellettuale cioè il modo con cui noi ordiniamo e unifichiamo la materia quando il nostro intelletto opera spontaneamente.
Un giudizio ha a mente una categoria con cui unifica qualche cosa: differenza tra giudizi e categorie:
Giudizio: atto della mente
Categoria : strumento del conoscere, forma
Categoria + esperienza = giudizi
Per Kant fino a quando classifichiamo giudizi e categorie siamo in un ambito di logica formale: ci limitiamo a classificare senza chiederci a cosa applichiamo categorie e giudizi. Queste tavole sono una sorta di grammatica del cervello, come se facessimo una grammatica generale di tutte le lingue, dopo di che possiamo studiare come questa grammatica venga applicata in ogni singola lingua.
Quando questi giudizi producono conoscenza? Qual è l’uso corretto che dobbiamo fare delle categorie?
Il problema più grosso viene affrontato quando Kant si chiede questo, cioè quando passa dalla logica formale a quella trascendentale ed entra nel merito della deduzione trascendentale: per produrre conoscenza dipende a che oggetto si applica il giudizio perché il giudizio può anche portare a un sapere dogmatico cioè che non produce conoscenza.
LOGICA TRASCENDENTALE
La logica tratta le forme a priori della conoscenza intellettuale, cioè di quella conoscenza in cui noi siamo spontanei ed attivi. L’atto della conoscenza intellettuale è il giudizio: se ne costruiamo una tavola tramite questi possiamo risalire alle categorie che sono i concetti puri: la forma della conoscenza intellettuale.
Fino a quando ci limitiamo a classificare i giudizi e le categorie siamo in un ambito di logica formale. Quando ci chiediamo cosa giustifica la validità conoscitiva della forma della conoscenza intellettuale passiamo dalla logica formale a quella trascendentale, cioè all’analisi della forma della conoscenza intellettuale nel momento in cui pretende di produrre conoscenza, a un’analisi dei concetti puri nel momento in cui essi pretendono di estendere la nostra conoscenza: Kant si addentra nell’ambito della deduzione trascendentale.
Deduzione: dagli idealisti tedeschi il termine è stato interpretato come il dimostrare tutta la realtà sia nell’essere sia nell’ordine del conoscere, in base a un unico principio indeducibile, tutta la realtà viene giustificata da un unico principio indimostrabile: per loro la deduzione fonda la metafisica.
Kant sostiene che ciò che lui si prefigge è dimostrare la legittimità di una pretesa: il quid iuris rispetto al quid facti; termine deduzione preso da Kant secondo una accezione politico-forense, cioè Kant vuol dimostrare che c’è una giustificazione di questo diritto, ad esempio se vediamo un tipo con un libro, non necessariamente lui ha il ha il diritto di possedere quel libro, se vogliamo dimostrare il quid iuris dobbiamo dimostrare che la pretesa di tenere in mano un libro è legittima.
Kant vuol dimostrare quando legittimamente le categorie pretendono di produrre conoscenza. Il principio che giustifica la validità dell’applicazione della forma alla materia, la produzione dell’atto conoscitivo, è ciò che cerca Kant.
Se ci sono tante deduzioni quanti sono gli ambiti in cui questa deve essere fatta, i principi che giustificano la pretesa, cioè il fondamento della legittimità della pretesa varieranno a secondo dell’ambito. Questo boccia l’interpretazione di Kant fatta dagli idealisti: non c’è un’unica deduzione, la deduzione non fonda un principio metafisico, il termine viene preso da Kant semplicemente dal linguaggio del foro, del diritto: si tratta di qualcosa di assolutamente formale; per Kant dedurre significa dimostrare che c’è una legittima pretesa per qualcosa.
Chiarito il significato del termine dedurre, Kant affronta il problema più difficile della critica, che infatti verrà poi profondamente modificato.
Kant nell’affrontare il problema della ricerca del fondamento della legittimità dell’uso delle categorie, inizia con lo spiegare perché non c’è stato bisogno di un’operazione analoga nell’ambito dell’estetica trascendentale, cioè non c’è stato bisogno di dedurre le forme a priori di spazio e tempo perché non è possibile farne un cattivo uso. Invece le categorie, proprio perché nel loro uso il nostro intelletto è attivo e spontaneo, possono essere applicate anche ad oggetti che non sono oggetto dell’esperienza, a oggetti noumenici (per esempio noi possiamo usare la categorie della causalità e dire che Dio ha causato il mondo), ma questo per Kant non è un atto mentale conoscitivo, perché pretende di applicare le categorie, le forme della conoscenza a un oggetto che non appartiene all’esperienza, per esempio possiamo applicare la categoria dell’esistenza all’anima, ma non produciamo conoscenza perché l’anima non è oggetto dell’esperienza.
Occorre spiegare qual è il fondamento della legittimità dell’applicazione delle categorie. Per far questo Kant distingue la connessione oggettiva universale esistente fra due oggetti dell’esperienza e la connessione soggettiva che c’è tra due percezioni di questi oggetti; per esempio se dico il corpo è pesante io faccio una connessione oggettiva tra corpo e peso, il mio è un giudizio sintetico a priori, quando dico che quando porto un corpo sento un peso, questa non è una connessione oggettiva, è una connessione soggettiva perché se il medesimo corpo lo porto io o lo porta uno più forte di me il peso che sentiamo è diverso.
Cosa da validità oggettiva a una proposizione sintetica a priori (es.: il corpo è pesante) è l’io penso, o unità sintetica originaria della percezione (è ciò che giustifica la connessione oggettiva tra corpo e peso); le categorie sono il diverso modo di agire dell’io penso. L’io penso è ciò che da validità universale oggettiva ai miei giudizi, perché se il giudizio è una sintesi tra due oggetti dell’esperienza ciò significa che la mia mente funziona come possibilità di sintesi, ma questa sintesi può avvenire solo su un materiale che l’è fornito dall’esperienza: se cerco di operare una sintesi su un materiale che non c’è il mio giudizio non sarà un giudizio conoscitivo. L’io penso è ciò che deve accompagnare sempre ogni mia rappresentazione, cioè è il principio universale del modo di funzionare dell’intelletto finito umano. Kant sulla funzione oggettiva dell’io penso nei confronti del metodo stesso, non ha mai cambiato idea nelle due edizioni.
Dove invece c’è differenza è nella funzione dell’io penso nei confronti di se stesso. Se l’io penso è possibilità di sintesi che deve accompagnare ogni mio atto mentale perché la mia mente funziona così, l’io penso come funziona rispetto a se? Kant nella prima edizione della critica definisce l’io penso nei confronti di se stesso come io stabile e permanente che deve accompagnare ogni mia rappresentazione, ma se questo io è stabile e permanente, non è pura possibilità di sintesi, pura forma, non realtà; avrà qualche realtà, dovrà cercarla, aldilà della sua funzione formale e sintetica (al di là del fatto che io abbia qualcosa da sintetizzare o no), ma questa è una grossa concessione dell’idealismo: l’io penso avrà una realtà indimostrabile.
Nella seconda edizione l’io penso è pura forma anche nei confronti di sé; l’io penso conosce se stesso come conosce tutto il materiale esterno, cioè non esiste conoscenza privilegiata del sé; è l’autodeterminazione di un soggetto pensante finito e si basa sull’esperienza.
L’io penso è come spazio e tempo, perché è forma. In questo modo Kant determina in maniera definitiva la soluzione del problema della validità della conoscenza.
Per Kant la realtà esiste perché è un oggetto determinabile da un soggetto che la determina e il soggetto esiste in quanto è determinante nei confronti di un materiale determinabile; il rapporto tra soggetto e oggetto si risolve sempre e solo nel momento in cui ci sono entrambi.
Per noi la natura è quello che appare a noi; la connessione causale dei fenomeni e l’esperienza è il modo con cui quei fenomeni si danno a noi secondo i nostri modi propri. Non c’è un soggetto separabile dall’oggetto, non c’è un oggetto che viene di per sé senza soggetto.

ANALITICA TRASCENDENTALE
Kant nell’ambito dell’analitica dopo aver giustificato nella deduzione l’uso delle categorie tramite l’io penso e quindi essersi occupato di quella che chiama l’analitica dei concetti, si addentra nell’analitica dei principi ritenuta una delle più importanti della critica alla ragion pura, in quanto Kant spiega il modo con cui le categorie vengono applicate alle intuizioni sensibili.
Problema: visto che le categorie dipendono dal nostro modo di conoscere valgono a priori mentre le intuizioni sensibili derivano dall’esperienza, come può avvenire l’applicazione delle prime alle seconde, com’è possibile assumere sotto le categorie le intuizioni sensibili, cioè com’è possibile operare la sintesi tra forma a priori e materia sensibile? Per Kant ciò avviene tramite lo schema, cioè tramite il tempo (la schematizzazione del tempo), perché come già detto il tempo è la forma a priori fondamentale della conoscenza sensibile.
Se il tempo è la forma a priori delle intuizioni sensibili, le categorie (considerando il tempo da diversi punti di vista), influenzando il tempo, possono essere applicate alle intuizioni sensibili; il tempo è il tramite, il medium attraverso cui noi applichiamo le categorie alle intuizioni sensibili.
L’attività che produce questo schema del tempo è l’immaginazione produttiva , cioè la facoltà che produce lo schema, che non è un’immagine vera e propria ma è la pura possibilità dell’immagine (es.: lo schema del cane non è un qualsiasi cane, ma è una generica possibilità di immaginare un quadrupede). A ciascuna categoria corrisponde uno schema relativo al tempo, per esempio nella categoria della relazione lo schema corrispondente è la permanenza nel tempo, che mi permette di applicare la categoria della sostanza sempre nell’ambito della relazione la successione temporale irreversibile permette l’applicazione della categoria della causalità.
Lo schema non è un’immagine, è la pura possibilità di fornire un’immagine. A ogni categoria corrisponde una struttura di tipo temporale, questo spiega l’applicazione della matematica alla fisica, è la giustificazione della fisica intesa come studio della natura intesa come connessione causale di eventi. Questa applicazione alla fisica costituisce l’ultima parte dell’analitica dei principi, che è la giustificazione finale della fisica di Galileo e di Newton, Kant vuol dimostrare quale sono i meccanismi della nostra mente che ci permettono di vedere la natura come la vediamo, ma siccome i meccanismi sono uguali nella mente di tutti gli uomini, per noi la natura è un sapere oggettivo.
Dimostrato che è possibile l’applicazione delle categorie all’intuizione sensibile tramite lo schema, Kant passa a dimostrare l’applicabilità della matematica alla fisica; la possibilità di fondare la fisica come studio oggettivo dei fenomeni.
Ciò avviene attraverso la corrispondenza tra applicabilità matematica al fenomeno fisico; a ogni categoria corrispondono i principi del pensiero in generale: assiomi dell’intuizione, che permettono l’applicazione della matematica ai fenomeni fisici, perché questi corrispondono alla categoria della quantità; a noi una cosa appare come una successione, come numericamente possibile. Alla categoria della qualità corrispondono invece le anticipazioni della percezione, perché una volta fatta la percezione noi possiamo anticipare in generale che ogni percezione abbia un determinato grado di intensità.
Le analogie dell’esperienza riguardano la categoria della modalità, cioè la possibilità di estendere la relazione tra fatto e qualità, in generale, privo di contenuto.
Gli ultimi sono i principi del pensiero empirico in generale che riguardano la categoria della relazione e che ti permettono tramite lo schematismo di cogliere permanenza, relazione, simultaneità. Questi principi sono la giustificazione dell’applicazione della matematica alla realtà fisica; giustificano la fisica galileiana e newtoniana come saper oggettivo per quel che riguarda un intelletto finito come quello dell’uomo.
L’ultimo oggetto dell’analisi di Kant nell’analitica trascendentale è la considerazione del concetto di noumeno, cioè della cosa in sé, com’è intelligibile di per sé. Kant si ferma a considerare noumeno perché per Kant dobbiamo spiegare perché questo concetto si ripropone continuamente alla mente dell’uomo; dato che si ripropone continuamente possiamo farne un uso?
Kant si chiede perché l’uomo tende sempre a superare il campo dell’esperienza e ad addentrarsi nel campo del noumeno, perché le categorie non dipendono dall’esperienza, ma sono il nostro modo di conoscere, valgono a priori; l’uomo nella sua attività spontanea tende ad applicarle anche ad oggetti che non appartengono al campo fenomenico. L’uomo cerca di trascendere il fenomeno; tensione dell’uomo nei confronti della metafisica. Su questo Kant non ha mai cambiato idea per quel che riguarda la funzione del noumeno nei confronti del fenomeno Kant dà due soluzioni nelle due edizioni.
Nella prima edizione della critica Kant definisce il noumeno come una X, cioè come un’incognita a cui noi non daremo mai soluzione; in conoscibile per noi, ma anche se è tale, è esistente, che sta dentro al fenomeno e di cui noi conosciamo solo il modo in cui ci si presenta; Kant ammettendo l’esistenza di un’incognita fa una concessione alla metafisica.
Nella seconda edizione Kant da una soluzione critica anche del noumeno definendolo come il limite negativo della nostra conoscenza, perché non sarà mai oggetto della nostra conoscenza, e ciò che per noi non è; la cosa è come appare a noi.
DIALETTICA TRASCENDENTALE
La dialettica trascendentale è la seconda parte della logica trascendentale.
Mentre nell’analitica Kant ha trattato dell’uso positivo delle categorie, nella dialettica affronta il loro uso negativo, che deriva dall’applicazione delle categorie ad oggetti che non appartengono all’esperienza: a oggetti noumenici.
La dialettica è in realtà una critica all’uso trascendentale delle categorie. Kant critica i concetti che derivano da una tendenza illusoria ma naturale della mente umana; è un atteggiamento erroneo, ma ha una radice nella natura della mente umana, una spiegazione. I concetti che Kant critica sono quelli di anima, di mondo e di Dio. Nel criticare questo uso trascendentale delle categorie, Kant fa uso anche di una terminologia specifica: mentre nell’analitica trascendentale aveva definito la nostra mente sempre con il termine di intelletto, qui Kant usa il termine di ragione. Come l’atto positivo, conoscitivo dell’intelletto viene chiamato giudizio, l’atto della ragione nell’uso trascendentale delle categorie viene chiamato sillogismo, che è un ragionamento sbagliato perché applica le categorie ad oggetti che non appartengono all’esperienza.
Kant spiega la radice naturale di animo, mondo, e Dio perché rappresentano la totalità dell’esperienza: c’è un qualche legame con l’esperienza.
L’anima è la totalità dell’esperienza riferita al senso interno, il mondo è la serie totale dei rapporti causali riferiti al senso esterno, Dio è l’insieme di tutti i concetti possibili riferiti a qualsiasi esperienza possibile, ma la totalità dell’esperienza per noi non può mai essere un’esperienza, la nostra esperienza è esperienza di fatti singoli, non è mai la totalità; le idee che ne derivano (anima, mondo, Dio) sono illusorie, frutto di ragionamenti sbagliati.
Kant qui usa il termine idea come prodotto erroneo della nostra mente, derivante dall’uso trascendente le categorie.
L’anima deriva da un paralogismo, cioè da un cattivo ragionamento che consiste nell’applicazione della categoria della sostanza all’io penso, che non è un oggetto, è pura forma del nostro modo di pensare; applicando la categoria della sostanza ad una forma ne deriva un concetto che è un’idea, che non ha nessun riscontro nella realtà.
Non esiste la totalità della nostra esperienza, esistono i singoli concetti della nostra esperienza.
Stessa cosa per l’idea di mondo, che per Kant è un’idea della ragion pura e costituisce l’insieme totale di tutte le condizioni esterne, non è la natura, che è la connessione causale dei fenomeni, ma noi non possiamo far esperienza della totalità delle condizioni, noi possiamo fare esperienza delle singole connessioni causali.
L’idea di mondo è frutto di un uso sbagliato delle categorie perché dà origine a 4 antinomie ( = affermazione della tesi e del suo contrario).
Tesi: il mondo è finito nello spazio e nel tempo.
Antitesi: il mondo è infinito nello spazio e nel tempo.
Non esiste nessun principio razionale filosofico che permetta di dimostrare qualcuna delle due.
Tesi: il mondo è divisibile fino ad un certo punto.
Antitesi: il mondo è indivisibile all’infinito.
Tesi: all’interno del mondo esiste una causalità libera.
Antitesi: all’interno del mondo esiste solo una causalità necessaria.
Tesi: il mondo dipende da un essere necessario.
Antitesi: il mondo non dipende da un essere necessario.
Il fatto che noi non possiamo decidere tra tesi e antitesi implica che è errato già il concetto iniziale. La tesi è troppo piccola per noi, l’antitesi è troppo grande: non esiste il concetto di mondo.
L’ultima idea della ragion pura è quella di Dio, che Kant chiama ideale della ragion pura, perché conosciuto Dio si conosce tutto, perché Dio è l’insieme di tutti i possibili in quanto possibili, è quell’ente a cui possiamo attribuire l’attributo positivo a ogni binomio di attributi opposti, è l’essere che sussiste di per sé: Kant critica l’esistenza di Dio e le prove della sua esistenza: quella ontologica di Anselmo, quella fisico-teologica e quella cosmologica.
La prova ontologica di Anselmo è la prima che Kant confuta: è quella che dimostra che la definizione di Dio comprende anche l’esistenza, perché Dio è ciò di cui noi non possiamo pensare nulla di più grande. La definizione dell’essenza di Dio esiste sicuramente nell’intelletto, ma possiamo pensare alla medesima definizione che ha però in più l’esistenza. Se Dio è ciò di cui non possiamo pensare nulla di più grande la definizione di Dio sarà la seconda. L’errore di fondo è che nulla ci dice che ciò che esiste sia più grande di ciò che non esiste nella realtà, ma solo nell’intelletto, in secondo luogo l’ateo non ha proprio l’idea di Dio: è una cosa basata sulla fede.
Kant dice che l’esistenza di Dio è un’affermazione o contraddittoria o impossibile. E’ contraddittoria nel momento in cui assume che nella definizione sia già compresa l’esistenza, perché se bisogna dimostrare una cosa presa già come assunto si entra in contraddizione.
E’ impossibile se invece l’esistenza va aggiunta tramite ragionamento, perché l’esistenza è sempre un fatto empirico. Le altre due prove comportano in fondo il medesimo salto logico: per Kant l’esistenza di Dio è razionalmente indimostrabile. Ma anima, mondo e Dio, sono frutto di un uso illusorio ma naturale: si ripropongono continuamente alla mente dell’uomo: visto che non è possibile un uso dogmatico di esse perché non costituiscono oggetto di conoscenza, ne dobbiamo fare un uso regolativi usandole come regole, come norme a cu dobbiamo tendere pur sapendo che non ci arriveremo mai, in modo da estendere e dare maggiore ordine alla nostra conoscenza studiandoli come se in effetti questi tre concetti ci fossero realmente. L’uso regolativo fa di anima, mondo e Dio dei principi euristici cioè stimolano la ricerca. Questo è l’unico uso che possiamo farne.
Critica della ragion pratica
(1787)
Anche la critica della ragion pratica è fondata sui limiti costitutivi dell’uomo. Infatti così come nella critica alla ragion pura c’è una critica all’arroganza della ragione che pretende di trascendere i propri limiti, nella critica della ragion pratica c’è una continua polemica contro il fanatismo morale che pretende di considerare l’azione morale dell’uomo un fatto necessario; così come nella critica alla ragion pura Kant sostiene che il limite della conoscenza dell’uomo è sempre e solo il fenomeno, nella critica alla ragion pratica la morale dell’uomo è sempre un’azione possibile; nella critica della ragion pratica Kant continua a porre l’accento sulla differenza tra la moralità dell’uomo e la santità di Dio. Kant dice che non esiste nella morale una connessione necessaria tra ragione e volontà in quanto se ci fosse l’uomo non sarebbe morale e la morale non varrebbe per lui come un imperativo, un comando. Questa connessione non esiste perché l’uomo non è costituito solo dalla ragione ma anche dagli impulsi sensibili, trascendere qualsiasi oggetto del desiderio, infatti la nostra volontà può adeguarsi alla ragione ma anche agli impulsi sensibili. Per essere morali la volontà deve adeguarsi esclusivamente alla ragione: la morale vale per noi come un imperativo, ma non come un imperativo ipotetico che ti dice di agire in vista di un fine: l’imperativo ipotetico non è universale; la morale per essere tale deve essere pura forma: valere a priori: solo così essa è universale; il comando per noi deve essere un imperativo categorico che ti comanda per la pura razionalità dell’azione. La prima massima in cui si concretizza l’imperativo categorico della morale è. Agisci come se la norma della tua azione dovesse diventare un principio legislativo universale. Ciò deriva dal fatto che la natura dell’uomo è finita, costituita non solo da ragione ma anche da impulsi sensibili, cioè l’uomo è calato nel fenomeno: se la legge morale deve essere universale il suo comando deve essere tale da prescindere da qualsiasi oggetto del desiderio, non solo dagli impulsi sensibili, cioè deve essere un imperativo categorico, cioè devi perché devi, no per raggiungere un fine, cioè non se vuoi devi, ma devi perché devi. La legge morale per essere universale deve valere a priori: deve essere un imperativo categorico: non deve possedere alcun contenuto. qualsiasi oggetto del desiderio. Per Kant la legge morale è un fatto della ragione, esiste di per se, non esiste una giustificazione della sua legittimità, la legge morale è il modo del nostro agire, per essere morale dobbiamo agire in un certo modo. La morale deve essere pura forma, non avere alcun contenuto perché altrimenti non varrebbe universalmente; ti dice solo: agisci in maniera tale che la tua azione sia razionale; morale: agisci razionalmente. La morale è l’adeguarsi della volontà alla ragione che però non è un adeguarsi necessario, si può anche non farlo. Se non c’è deduzione per la morale, c’è però deduzione per la facoltà della libertà, cioè per Kant l’essere morale giustifica l’esistenza di quella facoltà che noi non sappiamo cos’è ma ci deve essere e che è la libertà, perché noi possiamo anche scegliere di non essere morali: la morale dimostra la libertà. La libertà si propone come libertà negativa e libertà positiva.
Libertà negativa: libertà di poterci sottrarre agli impulsi sensibili e agli oggetti del desiderio. Qui Kant intraprende una polemica contro le morali precedenti che per lui non sono in realtà morali perché tutte implicano un movente dell’azione (p.460 schema). La prima conseguenza di ciò è che i concetti di bene e male non precedono la morale, ma la seguono, sono effetto della morale, cioè una cosa non si fa perché è bene ma se è razionale farla è bene: differenza tra legale e morale: è legale obbedire a una legge in vista di un fine e non sempre ciò che è legale corrisponde a ciò che è morale e viceversa. Il peggiore di tutti i sentimenti è l’egoismo che assomma in se tutti i desideri mentre l’unico sentimento morale ammesso è il rispetto: l’uomo è l’unico essere che può svincolarsi dalla sua natura fenomenica, cioè può abbandonare qualsiasi oggetto del desiderio per porsi su un piano noumenico. Da qui deriva la sua
Libertà positiva: collocarci su un piano noumenico per cui noi diventiamo legislatori della nostra azione e diamo inizio a una nuova catena causale che dipende da noi e che da origine alla seconda massima dell’azione morale: agisci come se la massima della tua azione dovesse diventare un principio legislativo della natura. Queste due massime per Kant rappresentano la forma della legge morale. Il suo contenuto è dato dalla terza: agisci in modo tale da non considerare mai né te stesso né gli altri come mezzi, ma solo come fini. Per Kant l’azione morale avviene all’interno di una comunità: questo comporta il considerare gli altri solo un fine, non un mezzo e ciò deriva dal rispetto.
Questo fonda il regno dei fini in cui ciascuno è suddito e legislatore cioè in cui ognuno da le leggi e vi obbedisce e che è la base dello stato.
DIALETTICA DELLA RAGION PRATICA
Nella dialettica della ragion pratica Kant tratta dell’assoluto morale, cioè il sommo bene che per l’uomo è costituito dalla virtù e dalla felicità. Ma virtù e felicità sono in realtà una antinomia perché la virtù dipende dalle leggi della libertà essendo l’azione morale che deriva dalla connessione non necessaria ma possibile tra volontà e ragione mentre la felicità è strettamente legata alle connessioni causali dei fenomeni, infatti è evidente che non necessariamente chi è virtuoso è felice e chi è felice è virtuoso. Kant spiega che l’aspirare alla felicità non è in contraddizione con la legge morale perché essere morali significa non avere nessun movente, agire per pura razionalità: prescindere da ogni oggetto del desiderio. Nonostante ciò l’uomo per la sua finitudine sente il bisogno di essere felice ma si rende conto del fatto che felicità e virtù rappresentano un antinomia. Nel mondo classico si è cercato di superare questa antinomia con due correnti filosofiche: Stoici (che hanno detto che la felicità è in realtà virtù) ed Epicurei (che hanno detto che noi siamo virtuosi quando siamo felici). Per Kant invece felicità e virtù non sono legati. Da ciò deriva la necessità dell’uomo di superare questa antinomia. Il primo problema che deve essere superato è che l’uomo è morale ma mai santo perché ogni azione morale non implica che lo sia anche quella successiva perché siamo liberi. Perché l’uomo possa raggiungere la moralità assoluta dobbiamo postulare l’immortalità cioè che il tempo dell’uomo per essere morale sia un tempo indefinito. Poi, per essere sicuri che ad ogni grado di moralità corrisponda un giusto grado do felicità occorre postulare l’esistenza di Dio, che può compensare la virtù con altrettanta felicità cioè Kant per superare l’antinomia tra virtù e felicità arriva a formulare i due postulati dell’immortalità dell’anima e dell’esistenza di Dio (Kant usa il termine postulato secondo la sua accezione matematica: sono verità che poniamo come tali per dimostrarne delle verità successive). Il postulato per Kant è una proposizione teoretica ma non è un atto teoretico della mente cioè non è un giudizio, un atto conoscitivo. Questi sono i due postulati della ragion pratica a cui si unisce un terzo postulato che è quello della libertà che ci assicura che la libertà c’è ma non sappiamo cosa sia, mentre i primi due postulati derivano da un bisogno. Questo ci permette di spiegare cosa sia per Kant il primato della ragion pratica che è stato interpretato erroneamente come un superamento da parte dell’uomo in ambito morale dei limiti che Kant aveva posto all’uomo nell’ambito teoretico conoscitivo cioè come se l’uomo attraverso l’azione morale giungesse a conoscere quelle stesse cose che gli erano irraggiungibili nell’ambito intellettuale gnoseologico. Kant più volte sottolinea il fatto che l’uomo non giungerà mai a conoscere l’anima e Dio, il primato della ragion pratica implica solo che l’uomo è l’unico essere morale e che quindi nella sua azione morale può prescindere da qualunque oggetto del desiderio, può non fare del desiderio un movente e questo lo conduce alla ragionevole speranza che la sua anima sia immortale e che Dio esista ma questa è una speranza, non una certezza perché se fosse una certezza noi cesseremmo di essere morali: cioè di essere liberi perché il giorno in cui noi conoscessimo con certezza Dio le nostre azioni sarebbero condizionate o col timore reverenziale della grandezza di Dio o da una sorta di eccessivo amore nei confronti di dio: il mondo sarebbe un teatrino con Dio come burattinaio e gli uomini come burattini: la condizione fondamentale della nostra morale sta nella nostra libertà che deriva proprio dalla nostra finitudine: è una critica contro ogni fanatismo che pretende di fare dell’uomo un santo. Il giorno che l’uomo conoscesse Dio, cesserebbe di essere uomo.
Critica del giudizio
Kant nella critica del giudizio studia le condizioni della vita sentimentale introducendo per primo una nuova facoltà dell’uomo oltre a intelletto e volontà: il sentimento. Il sentimento viene definito da Kant come l’aspetto irriducibilmente oggettivo che accompagna tutte le mie rappresentazioni: sentimento di piacere o di spiacere. Cosi come l’atto dell’intelletto è un giudizio anche l’atto del sentimento è un giudizio ma è un giudizio riflettente in quanto si limita a riflettere sugli oggetti gia determinati dall’intelletto. Questo giudizio deriva da un bisogno dell’uomo di trovare un accordo tra la libertà propria come soggetto morale e la causalità delle leggi di natura: deriva dalla situazione della finitudine dell’uomo. Questo accordo è proprio della facoltà del sentimento che si esprime attraverso un giudizio riflettente che quindi riflette su oggetti gia determinati e che quindi non ha alcun valore conoscitivo. Questo accordo può essere accolto in due modi:
in maniera immediata cioè senza il tramite di altri concetti: giudizio estetico
in maniera mediata cioè tramite il concetto di fine: giudizio teologico.
L’uomo essendo libero come soggetto morale ma appartenendo come realtà fenomenica alla causalità della natura cerca sentimentalmente un accordo tra le due cose. La facoltà del giudizio estetico è il gusto e il suo oggetto è il bello. Il giudizio estetico coglie il rapporto antitetico tra libertà e causalità in maniera immediata attraverso il sentimento di piacere che è costituito dal bello, ma questo piacere non è sensibile, è disinteressato cioè quando vediamo un bel quadro noi non vogliamo l’oggetto rappresentato nel quadro: è un piacere disinteressato al conseguimento di un oggetto. Non è un piacere sensibile: il bello è ciò che piace in maniera disinteressata e immediata, è il frutto di un giudizio riflettente il giudizio estetico non ha alcun valore conoscitivo: è un giudizio soggettivo, ma il fatto che sia soggettivo non implica che esso non aspiri a una qualche oggettività, cioè pur essendo soggettivo ha una sua soggettività in quanto comunicabile e una sua necessità nonostante sia soggettivo perché è il prodotto di una normale e sua intelligenza: siamo ancora in un campo illuministico in cui c’è una fiducia nel funzionamento medio generale dell’intelligenza dell’uomo. Simile al bello è il sublime che per Kant deriva dal rapporto tra l’uomo e la natura e viene distinto con sublime matematico e sublime dinamico, cioè è la trasformazione dello sgomento dell’uomo di fronte alla grandezza e alla potenza della natura: l’uomo ha di fronte alla natura un atteggiamento di paura che si trasforma in sublime quando si rende conto dell’accordo tra ciò che lui sente e la capacità che ha il suo intelletto di conoscere la natura anche se per gradi, per singole esperienze. La consapevolezza di ciò trasforma il sentimento di paura in sublime matematico. Quando l’uomo, di fronte alla potenza della natura, si rende conto della sua superiorità come essere morale, trasforma la paura in sublime dinamico. Kant affronta anche una deduzione, cioè la giustificazione della pretesa del giudizio estetico di essere oggettivo e necessario nonostante la sua irriducibile soggettività. La sua oggettività gli deriva dal fatto di essere comunicabile agli altri grazie al fatto di essere il prodotto di una sana e normale intelligenza. La giustificazione della necessità nonostante la soggettività del giudizio estetico sta nel fatto che questo giudizio segue le regole che segue un normale intelletto:
• non avere pregiudizi
• tieni conto dell’opinione altrui
• sii coerente
Per Kant il bello è sia quello naturale che quello artificiale dell’arte ma per passare dalla natura all’oggetto artificiale occorre il genio, la disposizione naturale con cui la natura da ordine all’arte ed è il frutto di due facoltà:
immaginazione: Spinta creativa: dipende il messaggio spirituale che l’oggetto d’arte ha in se
intelletto: Ciò che ordina la spinta creativa: dà la stile
Il giudizio teologico non trova l’accordo tra causalità e libertà in maniera mediata, tramite il concetto di fine e deriva dai limiti dell’attività conoscitiva dell’uomo. L’uomo infatti agendo moralmente pensa di poter estendere il suo modo di agire anche nell’ambito della natura, cioè ritiene che esista nella natura un disegno finalistico che è spiegabile solo ammettendo l’esistenza di un essere necessario. Ciò non è impedimento all’attività conoscitiva se l’uomo è consapevole che questo suo giudizio non ha nessun valore conoscitivo, anzi deriva dai limiti dell’attività conoscitiva, infatti se l’uomo possedesse un intelletto capace di cogliere con un unico atto di esperienza tutte le cause che interagiscono nel mondo non avrebbe bisogno di nessuna spiegazione finalistica, perché avrebbe la spiegazione causale di tutti i fenomeni. Questo finalismo costituisce uno stimolo per estendere la conoscenza.
Gaia Guadalupi
V AS

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