il caso Welby: una questione di dignità

Materie:Tema
Categoria:Filosofia

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Il caso Welby: una questione di dignità

Il caso Welby sta mobilitando l’opinione pubblica da qualche mese, più precisamente da quando, nel settembre 2006, Piergiorgio Welby, nato a Roma il 26 Dicembre 1945, affetto da distrofia muscolare progressiva, ha inviato un videomessaggio al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, non solo perché tentasse di intervenire riguardo al suo caso, ma per far si che sensibilizzasse la popolazione al problema dell’eutanasia e alle possibili soluzioni che esso presenta.
Welby è costretto a letto dalla malattia ormai da qualche anno, ma la situazione si è continuamente aggravata fino ai giorni nostri: la sua sofferenza è estrema e la sua vita dipende interamente dalle macchine che gli permettono di respirare, effettuare le basilari funzioni vitali, e persino parlare. Il suo appello è incentrato sulla richiesta di poter morire degnamente, realizzare finalmente quell’eutanasia che in Italia è perseguibile per legge mentre in altri paesi, come Svizzera e Olanda, è possibile e regolamentata. Dopo aver aspettato inutilmente una cura, Welby, arenate le speranze di uno studio serio sulle cellule staminali, uniche in grado di guarire la sua malattia di origine genetica, si è rivolto alle massime autorità, ritenendo di essere in grado di decidere quando fermare questo inutile accanimento terapeutico che lo tiene in vita, e gli consente di sopravvivere nonostante le condizioni in cui si trova. Il comitato di cui fa parte, intitolato a Luca Coscioni, e gli amici più intimi hanno appoggiato il suo ricorso alla Giustizia per affermare anche in questo caso il diritto di sospendere le cure, ma il Tribunale, espressosi proprio in questi giorni, gli ha negato anche questa possibilità e lo ha destinato ad un futuro di patimento e disperazione, non solo sua, ma anche della gente che gli sta intorno e lo ama, che fatica a vederlo soffrire e desiderare la morte più di ogni cosa.
Il suo appello è molto sentito in quanto Welby è a conoscenza del fatto che la sua malattia sta colpendo, proprio in questi anni, sempre più persone, e in attesa di studi e ricerche che riescano a guarirla o quanto meno a prevederla adeguatamente, lui chiede di poter decidere per se stesso, come fa un uomo che stanco e deluso dalla vita se la toglie, magari gettandosi da un ponte: lui, però, non ha questa opportunità. Costretto a letto, non può far altro che chiedere ciò che in altri paesi si sta realizzando ormai da anni: una morte assistita, dolce, un atto di estrema pietà verso un uomo stanco di soffrire.
Lo stesso Welby affronta il problema attraverso ciò che lui sa essere il motivo fondamentale del rifiuto e della sollevazione dell’opinione pubblica: il forte cattolicesimo che contraddistingue il nostro Stato, che vede molte persone direttamente o meno influenzate dalla morale cristiana, che non prevede l’uccisione di un uomo in nessun caso ma anzi spinge ad una tutela della vita umana ad ogni costo, anche se ciò significa un accanimento oltre ogni limite, come quello che lui affronta ogni giorno, in nome del mantenimento della dignità umana. L’Avvenire, quotidiano cattolico, si è appunto espresso in questi termini, affermando che: “La dignità della vita sta in tutti gli istanti, dal primo all'ultimo soffio”, e a questo coloro che lo sostengono rispondono che nulla c’è di dignitoso in ciò che lui sta affrontando, costretto a letto, incapace di agire, e soprattutto incapace di scegliere per se stesso la fine che desidera; e ancora Papa Benedetto XVI: "Occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale", a cui direttamente risponde Welby,con la sua voce metallica prodotta dal computer: “ Che cosa c' è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l' ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente 'biologica', io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico".
Come è possibile, quindi, che una persona estranea alle sofferenze e al dolore che circondano chi è costretto in questo stato, possa decidere al posto loro la fine che meritano? Secondo me siamo presuntuosi, perché davanti all’esplicita richiesta di morire che proviene da un uomo capace di intendere e di volere, che appunto desidera smettere di patire, noi non possiamo che farci da parte e non indugiare in ciò che la religione ci insegna; un malato, anche se nelle condizioni di Welby, è libero e deve avere la possibilità di scegliere se morire o continuare a vivere, la stessa possibilità che è data ad un uomo sano.
Grazie all’enorme attenzione che è stata data al suo caso, l’opinione pubblica si è sensibilizzata nei confronti di questo problema fortemente osteggiato in Italia. Con all’avvento nelle sempre più moderne tecnologie un uomo può vivere anni senza che sia necessario che guarisca o, al contrario, muoia, situazione impossibile anni fa; le malattie del secolo sono quelle degenerative, come la distrofia di Welby o la sclerosi multipla e sempre più persone sono costrette all’immobilità e alla progressiva perdita delle capacità psichiche e fisiche: è quindi necessaria una regolamentazione, che ora manca al nostro Paese, riguardo l’eutanasia, ma anche riguardo l’accanimento terapeutico, o le cosiddette cure palliative, che spesso non fanno altro che posticipare di poco il decesso, ma prolungare di molto la sofferenza del malato.
Alle affermazioni di coloro che sostengono che lo stato non possa legiferare riguardo alla morte di un uomo, rispondo ribadendo che prima di tutto la scelta è personale e non obbligatoria da parte del malato che merita di scegliere quando è ancora in grado di intendere e di volere, e in secondo luogo si tratterebbe esclusivamente di regolarizzare un fenomeno che già esiste ed è latente all’interno degli ospedali: infatti secondo un’indagine realizzata dal Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano, il 3,6% dei medici ha dichiarato di aver somministrato volontariamente farmaci letali, ed il 15,8% degli intervistati ritiene questa iniziativa accettabile, ma gli esperti dicono che molti non affermano di aver accelerato il decesso nemmeno in fase di questionario anonimo, e che quindi sarebbero molti di più.
Per concludere, ritengo che uno stato moderno e democratico debba garantire le libertà del cittadino, fra cui quella di sospendere le cure inefficaci: sta alla coscienza del singolo decidere se farlo o no, in base alla propria morale e al proprio codice etico, ma non è comunque giusto che poche persone decidano per la sorte di tutti.

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