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Categoria: | Filosofia |
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Testo
LUDWIG FEUERBACH
A) Destra e sinistra hegeliane: Alla morte di Hegel, nel 1831, i suoi allievi continuarono ad ispirare la cultura tedesca, nonostante emergessero sempre più marcate le divergenze tra i cosiddetti "vecchi hegeliani"(la generazione più anziana, che aveva curato le edizioni delle opere del maestro) e i "giovani hegeliani" (nati dopo il 1800). Nel '37 uno dei "giovani", David Strauss, designava queste due correnti come destra e sinistra hegeliana, con termini derivati dal Parlamento francese, che indicavano rispettivamente un atteggiamento conservatore e un carattere innovatore. Le divergenze sono particolarmente evidenti sui piani della religione e della politica:
- religione → per Hegel la religione rappresentava l'antitesi dello spirito assoluto e si distingueva dalla filosofia per la forma, perché nella religione lo spirito assoluto si autoconosceva attraverso la rappresentazione, mentre nella filosofia, che egli riteneva superiore, attraverso il concetto. I filosofi della destra sostengono una fondamentale identità tra religione e filosofia, conferendo maggior importanza al contenuto, che le rende identiche, che alla forma. Essi di fatto costituiscono una Scolastica hegeliana: la filosofia hegeliana diventa una giustificazione razionale delle verità religiose. Al contrario i filosofi della sinistra insistono più sulla forma che sul contenuto, sull'inadeguatezza della rappresentazione religiosa rispetto al concetto filosofico. Essi sostengono pertanto l'inconciliabilità tra dogma e verità razionale e concepiscono la filosofia come un superamento della religione, uno smascheramento, ossia uno strumento di contestazione razionale della fede. Sono questi in realtà i più vicini a Hegel rispetto alla religione e al suo rapporto con la filosofia;
- politica → qui le divergenze riguardano soprattutto il postulato di Hegel che istituiva l'identità biunivoca tra realtà e ragione. La destra sostiene perfettamente il caposaldo hegeliano (ecco il motivo del suo atteggiamento conservatore: se la realtà storica è già di per sé razionale, allora è esattamente come dovrebbe essere, è giustificata). Secondo la sinistra è vero che tutto ciò che è razionale è reale, ma non è vero che tutto ciò che è reale sia razionale. Se la ragione è la vera sostanza della realtà, alcuni aspetti della realtà non si sono ancora adeguati alla struttura razionale della realtà. I filosofi della sinistra hegeliana, quindi, concepiscono la filosofia non come una giustificazione della realtà esistente, ma come una critica dell'esistente, e la utilizzano come uno strumento per far diventare razionale la realtà che non lo è ancora, ovvero come prassi di trasformazione (prassi rivoluzionaria).
Se il filosofo più importante della sinistra religiosa è Ludwig Feuerbach, il filosofo più importante della sinistra politica è Karl Marx.
B) La vita e le opere: Ludwig Feuerbach scrisse parecchie opere tra cui le più importanti sono "L'essenza del Cristianesimo" (1841) e "L'essenza della religione" (1845). La filosofia di Feuerbach parte da un'esigenza di cogliere l'uomo e la sua realtà nella loro concretezza. Il presupposto della sua speculazione è perciò la critica all'idealismo hegeliano, che fa degli uomini delle semplici manifestazioni parziali di una ragione assoluta. Pertanto Feuerbach sviluppa una critica logica ad Hegel: egli sostiene che Hegel abbia rovesciato i rapporti di predicazione. La regola della predicazione afferma che il soggetto dev'essere più concreto (più individuale) del predicato (es. "La mela è un frutto"). Quello che, secondo Feuerbach, Hegel ha fatto è proprio quello di aver posto l'astratto come soggetto e il concreto come predicato. Hegel infatti ha posto come soggetto di tutta la realtà l'assoluto, e come predicati dell'assoluto gli uomini; sul piano religioso ha posto come soggetto Dio e come predicato l'uomo, in perfetto accordo con la dottrina religiosa. Se rovesciamo e rimettiamo a posto i rapporti di predicazione, non è più l'assoluto a determinare gli uomini, ma sono gli uomini a determinare l'assoluto, non è più Dio a creare gli uomini ma gli uomini a creare Dio. Da questo nasce la critica di Feuerbach alla religione, sviluppata su "L'essenza del Cristianesimo", applicando questa nuova metodologia che, per contrapposizione all'idealismo hegeliano, egli definisce materialismo.
C) “L’essenza del Cristianesimo”: Quest'opera è suddivisa in tre parti:
- Feuerbach descrive quella che lui ritiene la vera essenza della religione (essenza antropologica): la religione rappresenta la coscienza indiretta di ciò che l'uomo è veramente. In questo senso ha un contenuto positivo. Per questo motivo Feuerbach definisce la teologia come "antropologia capovolta", perché attribuisce a Dio ciò che in realtà appartiene all'uomo. Nell'uomo possiamo distinguere due aspetti: quello di individuo ma anche quello di essenza umana, costituita dalle tre dimensioni della ragione, della volontà e del sentimento. Nell'uomo si genera un'antitesi tra l'individuo che si sente finito, imperfetto, e l'essenza che è assoluta, perché riguarda l'umanità, determinando una coscienza infelice perché sente di non realizzare l'infinito essenziale;
- l'essenza non vera della religione è quella teologica, per cui l'uomo adora Dio. Compito della filosofia è smascherare l'illusione religiosa illustrando i meccanismi che la producono e rimettendo l'antropologia sui suoi piedi. L'uomo oggettiva e aliena la propria essenza in un essere divino, trascendente, al quale poi è asservito. Il meccanismo è quello dell'alienazione, che consta di due momenti: in primo luogo l'uomo oggettiva (oggettivazione), proietta la sua essenza fuori di sé, rendendola un oggetto, che poi risulta estraneo (estraniazione). Una volta alienata, l'essenza giunge ad assumere connotati divini e ad asservire l'uomo. "Ciò che l'uomo pone come soggetto religioso null'altro è che il suo stesso essere oggettivato: come l'uomo pensa, quali sono i suoi principi, tale è il suo Dio; quanto l'uomo vale, tanto, e non di più, vale il suo Dio. La coscienza che l'uomo ha di Dio è la conoscenza che l'uomo ha di sé." L'uomo non è consapevole di proiettare se stesso in Dio, ma deve diventarlo: la religione è l'infanzia dell'umanità, la filosofia corrisponde all'umanità adulta (in quanto smascheramento e presa di coscienza);
- Feuerbach traccia anche una storia delle religioni: le religioni che in un primo tempo appaiono vere sono considerate idolatrie dalle religioni posteriori. Tra tutte le religioni, la più vicina alla filosofia è il Cristianesimo, che tuttavia rimane una religione. Nel Cristianesimo l'essenza dell'uomo viene proiettata in un Dio che è onnisciente (proiezione della ragione), onnipotente (proiezione della volontà) e amore (proiezione del sentimento). In quest'ultima caratteristica del Dio Cristiano sta il valore differenziale del Cristianesimo. Ma l'amore è legato alla fede, che è egoismo, perché in essa il credente ama Dio in quanto si sente personalmente amato e chiamato alla salvezza: questo è il difetto della religione cristiana. Ma quanto più l'uomo ama Dio, tanto meno egli ama se stesso e gli altri uomini. Occorre dunque liberare l'amore dalla fede per indirizzare nuovamente per indirizzare nuovamente questo sentimento verso l'uomo stesso.
D) L’origine dell’idea di Dio: Per quanto riguarda l'origine dell'idea di Dio, Feuerbach individua tre fattori che espone in entrambe le sue opere:
- l'uomo, in quanto individuo, si sente finito, mortale, limitato; in quanto essenza umana (quindi anche specie umana) si sente immortale, quindi aliena questa essenza immortale in un Dio diverso da sé che gli garantisca un'immortalità individuale;
- l'uomo è illimitato nel desiderare, ma è limitato nell'ottenere ciò che desidera: nell'uomo c'è un permanente squilibrio tra volere e potere. Per questo l'uomo aliena i suoi desideri in un Dio che può esattamente quanto vuole. Tuttavia tale Dio non è concepito come onnipotente da tutte le religioni, e Feuerbach si sente di attribuire un giudizio di valore alle diverse civiltà in base a questo fatto: tanto più i tuoi desideri sono illimitati, tanto più sarò potente il tuo Dio;
- più legato alla natura, compare ne "L'essenza della religione", che si occupa proprio di questo tema: l'uomo vive un rapporto problematico con la natura, che lo minaccia e lo schiaccia, quindi aliena in Dio questo sentimento. Nelle religioni più arcaiche l'uomo pone come divinità gli elementi stessi della natura e poi li adora cercando di scongiurare la minaccia o garantirsene la presenza; nel corso dell'evoluzione della storia delle religioni, l'uomo concepisce un Dio che sappia dominare la natura e proteggere l'uomo da essa (infatti l'uomo, attraverso la tecnica, ha imparato a modificare la natura).
E) Ateismo: L'ateismo per Feuerbach è un dovere morale, perché ciò che è attribuito a Dio è indebitamente sottratto all'uomo: il credente risulta pertanto un uomo impoverito, che ha perso sapienza, volontà e amore. L'ateismo rappresenta il riappropriarsi di queste qualità. Esso mette capo a un umanismo (= filosofia che mette al centro l'uomo) e al filantropismo (= filosofia che mette al centro l'amore dell'uomo per l'uomo). Feuerbach è un materialista: l'uomo è un corpo ma è vivente, sente, desidera, prova piacere; infatti il suo materialismo è un sensualismo. La stessa intuizione sensibile è ciò che dà valore all'uomo. Anticartesianamente, Feuerbach sostiene che abbia senso dire non "io penso, quindi sono", ma "io sento, quindi sono", "io amo, quindi sono", ma anche "io ho fame, quindi sono". La passione, l'amore, la fame sono la prova ontologica dell'esistenza del sé. In un'opera successiva, intitolata "Mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia", Feuerbach sostiene questa tesi, anche molto banalizzata: l'uomo si identifica con ciò che mangia. Tale tesi ha molte valence, una di queste è fisica: lo stomaco dell'uomo non è solo un organo, come per gli altri animali, ma fa parte della sua umanità. Fate mangiare un uomo come un leone, penserà in maniera diversa. Il pensiero è funzione anche delle condizioni di vita materiale. La corporeità, che è la centralità dell'uomo, porta Feuerbach a concepire il riconoscimento dell'esistenza umana nel rapporto io-tu. Egli ricusa l'identità io=io di matrice fichtiana: io mi riconosco nello specchio del tu.
KARL MARX
A) La vita e le opere: Nasce nel 1818 a Treviri da una famiglia di origini ebraiche convertitasi al protestantesimo, ma che lo educò con una matrice laica. Studiò dapprima giurisprudenza, poi passò a filosofia laureandosi a Jena con una tesi sulla filosofia di Democrito, di Epicureo e sul materialismo. Nel 1843 è costretto a emigrare a Parigi dopo l'interdizione della rivista "Annali franco-tedeschi" di cui uscì solo più un numero e con i cui collaboratori entrò in contrasto. A Parigi conobbe e strinse amicizia con Engels, a cui farà seguito anche un'assidua collaborazione. Inizia a scrivere saggi di evidente impronta comunista: "Manoscritti economico-filosofici" (1844), "Tesi su Feuerbach" (1845), del 1846 è la stesura, in collaborazione con Engels, dell'"Ideologia tedesca, che non troverà alcun editore disposto a pubblicarla e uscirà postuma. Costretto a trasferirsi a Bruxelles per le pressioni del governo prussiano, riceve l'incarico di redigere, con Engels, il documento programmatico per la neonata "Lega dei comunisti di Londra": nel '48 esce così il "Manifesto del Partito Comunista". Espulso anche dal Belgio, si trasferisce a Londra nel '49, dove collabora con la rivista "New York Tribune". Alla fine di questa collaborazione di breve durata si aggrava la sua situazione economica (viene sostenuto da Engels, figlio di un industriale) e quella familiare. Nel '64 è tra i fondatori della Prima Internazionale Socialista, di cui redige lo Statuto. Nel '67 viene pubblicato il primo volume de "Il Capitale", il 2° e il 3° volume saranno pubblicati postumi. Nell'83 muore a Londra e viene seppellito nel Cimitero dei Dannati nella zona sconsacrata.
B) Marx critico: Per un breve periodo della sua vita, in giovane età, Marx aveva aderito alla sinistra hegeliana. Nel '44 tuttavia si era espresso in modo radicalmente critico nei confronti della filosofia di Hegel e dell'impostazione della sinistra hegeliana. Di Hegel, Marx apprezzava la dialettica, attraverso cui riteneva che Hegel avesse colto in modo puntuale e preciso la processualità della storia; ma la dialettica di Hegel è capovolta, perché (come già aveva sostenuto Feuerbach), egli ha invertito i rapporti di predicazione e ha interpretato le istituzioni esistenti, le comunità e le leggi come predicati di una "mistica (=misteriosa, incomprensibile) sostanza universale", che per Hegel è la ragione. Marx definisce questo errore di Hegel "misticismo logico". Occorre pertanto rimettere la dialettica sui suoi piedi, dimostrando come le istituzioni sociali derivino in realtà dalle condizioni materiali di vita degli individui (il soggetto, più concreto, sono gli individui e le loro condizioni di vita; il predicato, più astratto, sono le istituzioni). Questo comporta che per Marx non tutto ciò che è reale è razionale, poiché non tutto ciò che è reale discende dalla Ragione. Tutto ciò significa che le leggi, le istituzioni ecc. non sono realtà immutabili e necessarie, ma sono perfettibili, possono essere errate. Questo significa che la filosofia per Marx deve configurarsi non già come una spiegazione della realtà, ma come una critica. A partire dalla critica alla filosofia hegeliana, Marx estende la sua critica all'intera società borghese. Hegel, correttamente, aveva distinto tra società civile e Stato, individuando le due dimensioni del bourgeois (uomo privato, che appartiene alla società civile) e del citoyens (uomo pubblico, che appartiene alla società politica). Lo Stato, in Hegel, rappresentava la composizione dei conflitti insiti nella società civile, perché rappresenta il bene universale. Per Marx questo è falso: la società moderna (borghese) è contro-sociale, atomistica (prevalgono la separazione e gli interessi individuali). L'atomismo della società borghese è il frutto della Rivoluzione Francese, che ha determinato l'affermazione di questi principi: proprietà privata, libertà individuale e principio di rappresentanza. Escludendo la proprietà privata, che in realtà era uno dei cardini anche dell'ancient regime (ma viene rafforzato e assume sempre più gli aspetti di proprietà privata borghese e capitalista), la libertà individuale e il principio di rappresentanza rappresentano le conquiste del liberalismo e della democrazia moderni. La libertà individuale è un principio contro-sociale, perché giustifica l'egoismo; è un principio negativo poiché è in realtà la libertà di perseguire i propri interessi senza ledere quelli degli altri. Pertanto è un principio di segno totalmente opposto a quello dell'uguaglianza. La società è quindi atomistica perché è la somma di tante libertà individuali. Il principio di rappresentanza è il principio che mette capo alla democrazia rappresentativa, cui unica sede è il Parlamento. Tale democrazia è insufficiente perché il popolo continua a rimanere estraneo ai fatti della politica, ed è una forma astratta di democrazia. Infatti le leggi emanate da questa forma di potere non sono volte al bene pubblico, ma tutelano gli interessi della classe dominante. Hegel non ha capito che lo Stato non rappresenta realmente il momento dell'universalità, ma è solo una proiezione della classe dominante della società civile. Per Marx non esiste lo stato etico e universale. Occorre quindi abolire i principi della società borghese: abolire la proprietà privata consentirà di realizzare l'uguaglianza che quindi si opporrà all'esercizio egoistico della libertà individuale, e trasformare la democrazia rappresentativa in democrazia diretta, in cui ciascun individuo sia realmente parte del demos (= popolo che esercita il potere). Questa democrazia non è astratta ma sostanziale, perché tutti sono posti nelle stesse condizioni e possono concretamente esercitare la loro libertà. Il progetto di Marx è realizzare questa democrazia a partire dall'abolizione della proprietà privata. Già dai primi anni Marx riconosce nel proletariato la forza sociale in grado di rovesciare le istituzioni politiche ed economiche borghesi. Egli cerca di giustificare il ruolo del proletariato definendolo "classe universale", che ha subito l'ingiustizia totale, dunque non rivendica qualche giudizio particolare, ma l'emancipazione dell'umanità.
C) Critica a Feuerbach: Nel '45 Marx scrive le "Tesi su Feuerbach", in cui sviluppa in generale la critica alla filosofia della sinistra hegeliana, che si può compendiare in due parti:
- Feuerbach ha avuto il merito di riconoscere il capovolgimento dei rapporti di predicazione della filosofia hegeliana e di riconoscere Dio come una sorta di alienazione dell'uomo. Ciò che però Feuerbach non ha fatto è chiarire le motivazioni per cui l'uomo aliena la sua stessa essenza in Dio. Feuerbach si riferisce all'uomo in astratto, come essenza umana, e non considera l'uomo nelle sue condizioni materiali di vita. Secondo questa prospettiva si chiarisce subito il motivo per cui l'uomo ha bisogno di crearsi un Dio. La "chimera celeste" (= religione) rappresenta per l'uomo oppresso e diseredato una speranza di risarcimento nell'aldilà. Ecco perché Marx definisce la religione come "oppio dei popoli" o "gemito della creatura oppressa". In realtà Feuerbach è più antireligioso di Marx, perché quest'ultimo non concepisce l'ateismo come un dovere, ma è piuttosto areligioso, indifferente: la religione si estinguerà insieme con lo sfruttamento;
- espressa nella tesi numero 11: "I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, si tratta di trasformarlo." Marx rimprovera ai filosofi della sinistra hegeliana che, pur avendo interpretato la filosofia come critica della realtà, non l'hanno estesa oltre il limite dell'interpretazione teorica: essa deve invece diventare prassi, guida per l'azione.
D) Critica ai falsi socialismi: Marx ed Engels criticarono due forme di socialismo:
- socialismo conservatore-borghese: difende la società attuale e progetta lievi aggiustamenti (riformismo) per garantirne la sopravvivenza. Si tratta di economisti, benefattori, riformatori che vogliono perpetuare all'infinito l'attuale società. Essi vogliono la borghesia, senza il proletariato e la diseguaglianza delle classi sociali senza la lotta di classe. Questo socialismo da una parte va contro l'ingiustizia sociale, dall'altra pensa di risolverla con un semplice riformismo;
- socialismo critico-utopistico: prospetta una società futura come il sogno realizzato dal paradiso in terra. Fu rappresentato da Saint-Simon (predisse l'avvento di una società più giusta con l'uguaglianza tra le nazioni), Fourier (analizzò l'egoismo della società) e Owen (favorì la creazione di una cassa mutua e una cooperativa di consumo).
Marx ed Engels sostengono invece che è necessario portare a termine un'analisi dettagliata della produzione capitalistica, da cui deriva la definizione di socialismo scientifico. Con una concezione materialistica della storia, è distante sia dal revisionismo, che non vuole abbattere il regime borghese, sia dall'utopismo, che non tiene conto delle reali condizioni storiche e della dialettica delle forze in campo.
E) Critica agli economisti classici: Il torto di Smith e Ricardo sta nell'avere trasformato il capitalismo nella legge generale dell'economia, nell'averlo assolutizzato. Il capitalismo non è la legge di produzione, ma un modo di produzione storicamente esistente che, una volta fatto il suo tempo, crollerà come già accaduto per esempio al sistema feudale. In particolare Marx rivolge la critica alla simpatia universale di Smith, secondo cui esiste una provvidenza che guida le azioni umane orientando gli interessi egoistici verso il bene collettivo. Per Marx il conflitto è la sostanza e il motore stesso della società, non è accidentale.
F) Critica all’economia borghese: Nell'ultimo dei tre "Manoscritti economico-filosofici" (1844) si affronta il tema dell'alienazione del lavoro. Essa è una condizione di autoestraniamento dell'operaio determinata dalle condizioni in cui è costretto a lavorare. Secondo Marx il lavoro gioca un ruolo fondamentale nell'evoluzione materiale, culturale e spirituale dell'uomo, addirittura arrivando a sostenere che è il lavoro a distinguere l'uomo dagli animali. L'uomo, attraverso il lavoro, si oggettiva nella natura, si pone nella natura che egli stesso trasforma, umanizzandola. D'altra parte la natura modifica l'uomo, per esempio estendendone la conoscenza e soddisfandone i bisogni. L'uomo si riconosce perciò come in uno specchio negli oggetti che ha prodotto: il lavoro è un arricchimento per l'uomo. Nell'economia borghese, tuttavia, l'operaio, che non possiede i mezzi di produzione, viene espropriato dell'oggetto del suo lavoro, che non gli appartiene più. L'operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza. L'oggetto prodotto si erge contro di lui come se gli fosse estraneo, per cui possiamo dire che l'operaio è alienato rispetto al prodotto del suo lavoro (primo aspetto dell'alienazione del lavoro). Ma l'uomo è alienato anche rispetto alle sue attività produttive (secondo aspetto). Nelle condizioni normali, il lavoro è un fine perché comporta la realizzazione della persona, dev'essere libero e creativo per produrre felicità. L'operaio invece lo concepisce come strumento per la sua sopravvivenza, pertanto si sente libero e felice solo fuori dal suo lavoro, che è coercitivo. Dice Marx: "Nelle condizioni di lavoro alienato, l'operaio si sente una bestia (abbruttito, valorizzato) mentre lavora, e si sente uomo nelle sue funzioni bestiali (mangiare, dormire, riprodursi…)". Il terzo aspetto è l'alienazione rispetto all'essenza umana (Marx si riferisce che l'uomo si distingua dagli animali per il fatto che nell'uomo il lavoro è attività consapevole e libera; il lavoro dell'operaio, estraniandolo rispetto a se stesso, lo priva di ciò che rende umano il lavoro: il progetto). Il quarto aspetto è l'alienazione rispetto all'altro uomo: si assiste a una vera e propria reificazione delle persone (gli uomini diventano cose). L'alienazione non riguarda solo l'operaio, ma anche il capitalista, poiché egli instaura un rapporto disumano con l'operaio, trattandolo come una cosa. L'alienazione si può eliminare solo abolendo la condizione che l'ha generata: la proprietà privata.
G) Materialismo storico: Il materialismo storico è il cuore della dottrina di Marx, dedicati a questo aspetto sono in particolare le opere "Ideologia tedesca" e le "Tesi su Feuerbach" e "Per la critica dell'economia politica". L'"ideologia tedesca" che dà il titolo all'omonima opera è quella dei giovani hegeliani, che ritenevano fosse sufficiente la critica delle idee dominanti per condurre all'emancipazione degli uomini. L'ideologia è perciò una rappresentazione mistificante del reale, un'immagine deformata, una falsa coscienza, che deve essere demistificata. Se l'ideologia spiega la realtà con le idee, la posizione materialista di Marx (definita per contrapposizione) è la seguente: "Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza", non sono le idee degli uomini che determinano il loro essere, ma è l'essere sociale e materiale degli uomini che determina le loro idee. La storia quindi non è un processo spirituale, ma materiale, fondato su una legge dialettica, la dialettica del bisogno/soddisfacimento. L'uomo ha dei bisogni e si adopera per soddisfarli, e si distingue dall'animale in quanto è in grado di produrre i propri mezzi di sussistenza. Per questo i suoi bisogni, dapprima semplici, si complicano attraverso la produzione dei mezzi di sussistenza: si realizza così l'evoluzione della società umana, emergono nuovi bisogni, la cooperazione tra gli uomini dapprima all'interno della famiglia e poi nel gruppo e la divisione del lavoro. È nell'ambito di queste esigenze che emerge la coscienza, che è un prodotto sociale. Man mano che la divisione del lavoro si specializza, si verifica la distinzione tra attività manuali e intellettuali, considerate autonome; questo determina l'illusione che la coscienza sia totalmente avulsa dalle condizioni materiali, ma non è così in quanto ne è il prodotto. La storia per Marx è scandita da alcuni passaggi evolutivi da una formazione sociale all'altra: la comunità primitiva, le comunità asiatiche, la società antica, la società feudale, la società capitalistica e la società socialista (che non si è ancora realizzata). Le diverse formazioni sociali si caratterizzano per i diversi modi di produzione: le relazioni tra le forze di produzione e i rapporti di produzione. È questa la struttura sociale (struttura economica) di quella società. Le forze di produzione sono rappresentate dalla forza-lavoro (quali uomini producono), i mezzi (macchinari), la scienza, la tecnologia e l'organizzazione del lavoro. I rapporti di produzione rappresentano l'insieme dei rapporti in cui gli uomini entrano svolgendo la loro attività produttiva: comprendono i rapporti di classe, le forme della proprietà privata, le modalità di appropriazione di mezzi e risorse… Ad un certo momento dello sviluppo di una formazione sociale le forze di produzione entrano in contrasto con i rapporti di produzione (è questo il motore dialettico della storia), poiché quelle sono più dinamiche e innovative, mentre questi tendono ad essere più stabili, conservatori e tendono a perpetuare se stessi.. Il conflitto si risolve sempre (e in questo Marx è necessitarista come Hegel) con la rottura dei vecchi rapporti di produzione e l'instaurarsi di nuovi rapporti più confacenti alle forze di produzione emergenti. Questo porta a determinare una diversa struttura sociale: la storia è il passaggio da una struttura sociale all'altra. Le comunità primitive erano comunità in cui prevalevano forme comunistiche di proprietà, che hanno ceduto il passo alle comunità asiatiche, in cui un solo sovrano deteneva il tutto, dopodiché si delineò la società antica, con la proprietà degli uomini (schiavitù), quindi si affermò la società feudale e la proprietà feudale che comporta il servaggio dei contadini. Questa società in cui la classe dominante era l'aristocrazia viene rovesciata dalle forze di produzione emergenti, borghesi, con la rivoluzione francese; esse impongono i loro rapporti di produzione che, con la Rivoluzione Industriale, diventano quelli capitalistici. Il modo di produzione capitalistico è caratterizzato da: separazione tra il lavoratore e i mezzi di produzione, monopolio dei mezzi di produzione da parte della classe borghese, mercificazione della forza lavoro, concentrazione della produzione e sua finalizzazione alla valorizzazione del capitale. Secondo Marx ed Engels, la struttura economica è il piedistallo su cui si erge una sovrastruttura politico-istituzionale-culturale che comprende le leggi, le istituzioni di uno Stato, il sistema educativo ma anche le convenzioni religiose, le produzioni artistico-letterarie, le idee politiche e filosofiche. La struttura determina o condiziona la sovrastruttura: le idee, i romanzi, le filosofie, le religioni, la cultura di una società dipendono dalla struttura economica di quella società ("le idee dominanti di una determinata società sono le idee della classe dominante"). L'economia determina lo Stato e condiziona idee e cultura di quella società (es. la scuola insegna il rispetto dei rapporti sociali). Come interpretare allora le idee di Marx, in profondo con quelle della classe dominante, la borghesia? L'umanità non si pone un problema se non esistono le condizioni materiali della sua soluzione: quando le forze di produzione iniziano a premere sui rapporti di produzione, sono in formazione le condizioni per il rinnovamento della società. Le idee di Marx sono dunque le idee non della classe dominante, ma quelle delle forze di produzione innovative che spingono per rovesciare i vecchi rapporti di produzione.
H) “Manifesto del partito comunista”: Tra le prime affermazioni del "Manifesto", "la storia di ogni società esistita finora è storia di lotte di classe". Il "Manifesto" semplifica molto la concezione precedente della storia di Marx: la storia continua ad essere dialettica, conflitto, ma assume i connotati di lotta tra classi oppressori ed oppresse, che hanno acquisito forza e hanno rovesciato gli oppressori, divenendo poi tali. Nella lotta, in ogni momento della storia, una delle due classi vince sull'altra, o entrambe periscono ed emerge una nuova classe. A differenza delle classi dominanti del passato, che erano molto conservative anche economicamente, la borghesia, che emerge a discapito dell'aristocrazia fondiaria, è intrinsecamente "rivoluzionaria" (non esiste se non può prosperare, e non prospera se non rivoluziona continuamente i modi di produzione). La borghesia ha avuto una funzione demistificante (ha messo a nudo la cruda realtà delle cose) e con il suo dinamismo ha contribuito al progresso dell'umanità, ma non si è resa conto di stare producendo essa stessa le armi che porteranno alla sua distruzione e gli uomini che le imbracceranno (il proletariato). La logica della borghesia è il profitto, e per aumentare tale profitto viene alimentata una spietata concorrenza (i capitalisti più forti divorano i più deboli). La borghesia che sopravvive diventa sempre più forte ma meno numerosa; d'altra parte i ceti medi (piccoli industriali, commercianti, artigiani, contadini) si impoveriscono, scompaiono e si riducono alla classe proletaria (la borghesia proletarizza il mondo). La lotta di classe viene perciò semplificata: non più una società articolata, ma due classi antagoniste (la borghesia, una ristretta elite mossa da interessi sempre più privatistici, e il proletariato, la maggioranza ridotta in miseria che appare come una forza sempre più sociale). Le stesse dimensioni delle fabbriche facilitano l'acquisizione, da parte del proletariato, della consapevolezza di essere una forza.
I) “Il Capitale”: Ne "Il Capitale", Marx compie un'analisi dei meccanismi economici della società borghese (in alternativa all'economia classica). La produzione capitalistica è definita come una produzione generalizzata di merci. In una merce possiamo distinguere due tipi di valore: valore d'uso e valore di scambio. Il valore d'uso è semplicemente la destinazione di quella merce (quale bisogno soddisfa, a che cosa serve); il valore di scambio è quel valore che permette di scambiare merci che hanno valore d'uso differente. Il valore di scambio è determinato dal lavoro socialmente necessario a produrre quella merce (cioè il lavoro che in media è necessario a produrla). Il valore di scambio non coincide con il prezzo, ma ne è la base. Sul prezzo influiscono fattori contingenti quali per esempio la legge del mercato. La caratteristica peculiare del capitalismo rispetto alla produzione di merci è definita da Marx secondo la legge D-M-D'; mentre il ciclo di produzione pre-capitalistico è espresso secondo la legge M-D-M (dove M=merce, D=denaro). Nella produzione pre-capitalistica l'artigiano produce una merce per ottenere del denaro per acquistare un'altra merce (il denaro è un mezzo); in quella capitalistica, il capitalista investe denaro per produrre una merce per acquisire più denaro (questo plus di denaro spiega la logica del capitalismo). Questo plus trae origine non dalla merce venduta né dal denaro (perché il denaro non produce denaro) ma dal lavoro: il capitalista, in quanto possiede i mezzi di produzione, ha la possibilità di acquistare una merce particolare chè è l'operaio, che si mette sul mercato come tutte le altre merci. Se l'operaio è una merce, anch'egli avrà un valore d'uso e un valore di scambio: il suo valore d'uso è la sua capacità di lavorare e produrre; il valore di scambio è ciò che è mediamente necessario a produrre un operaio (cioè a mantenerlo in vita e permettergli di riprodursi). La fonte del plusvalore sta nella differenza tra valore d'uso e valore di scambio dell'operaio: l'operaio produce molta più ricchezza di quanta ne riceve per essersi messo in vendita. Il plusvalore è il valore aggiuntivo acquisito dal capitale nel corso del processo di produzione; la sua origine sta nel pluslavoro fornito dall'operaio, cioè nella differenza tra il tempo di lavoro prestato contro quello retribuito. Il plusvalore non coincide con il profitto, infatti il profitto è più basso del plusvalore perché il capitalista ha altre spese. Il saggio del profitto (= legge che individua e descrive il profitto) è , mentre il saggio del plusvalore è . Mentre il plusvalore è definito dal salario, il profitto dipende dal salario ma anche dalle spese, quindi il saggio del profitto è minore del saggio del plusvalore. Lo scopo del capitalista è aumentare il profitto, per cui bisogna aumentare progressivamente il plusvalore. Ci sono due modi per farlo:
- aumentare il plusvalore assoluto: aumentare le ore di lavoro. Questa tecnica ha un limite: una giornata ha solo 24 ore e anche sotto a questo limite la resa di un operaio inizia a diminuire.
- aumentare il plusvalore relativo: si tratta di aumentare la produttività del lavoro e su questo la borghesia è stata profondamente innovatrice (sistema di fabbrica, divisione del lavoro, meccanizzazione). La meccanizzazione ha portato inoltre altri vantaggi: impiego di donne e bambini (pagati a metà salario), aumento del plusvalore assoluto (infatti l'operaio si stanca meno e può lavorare più ore.
La meccanizzazione, che sembra essere la grande scoperta della borghesia, in effetti rappresenta anche la grande minaccia per questa classe ("tallone d'Achille del capitalismo"), in quanto innesca la caduta tendenziale del saggio di profitto. L'acquisto e la manutenzione della macchina determina un aumento del capitale costante, mentre diminuisce il lavoro umano e con esso l'unica fonte di profitto del capitalista (le macchine costano e non producono plusvalore). La caduta tendenziale del saggio di profitto provoca altre reazioni a catena: il capitalista, che vede ridurre il suo profitto, per arginare la concorrenza, aumenta la produzione, determinando una crisi di sovrapproduzione, di conseguenza un calo dei prezzi, il fallimento delle imprese più deboli, l'aumento della disoccupazione e un'ulteriore diminuzione della domanda. Le crisi di sovrapproduzione a Marx appaiono aberranti perché determinate dal fatto che tutti producono nel settore in cui i profitti sono più alti: il risultato è un'anarchia produttiva. Un'altra conseguenza aberrante è che i capitalisti, pur di non essere travolti dal calo dei prezzi, distruggono i beni prodotti, soprattutto quelli di prima necessità. Quello che era stato annunciato nel "Manifesto" come un momento che sta per realizzarsi viene spiegato nel "Capitale" in maniera scientifica: la borghesia si sta riducendo e si sta aumentando il proletariato. Il "Capitale" si chiude con l'annuncio della rivoluzione.
J) La rivoluzione e la dittatura del proletariato: Secondo Marx, le condizioni sono mature per il rovesciamento del regime borghese. La rivoluzione proletaria, che ci sarà, avrà il compito di eliminare tutti gli strumenti di oppressione della borghesia, cioè la sovrastruttura borghese, per realizzare il passaggio dal capitalismo al comunismo (lo Stato borghese non può essere trasformato, deve essere abbattuto). Il comunismo che il proletariato ha il compito di realizzare non è il comunismo rozzo (che consiste non nell'abolizione della proprietà privata, ma nella divisione della proprietà in parti uguali), perché esso nasce dall'invidia e dalla brama di livellamento e prevede un fatto vergognoso, la comunione delle donne. Il comunismo che Marx intende realizzare è quello che prevede l'abolizione della proprietà privata, ovvero l'abolizione della categoria economica dell'avere (deve scomparire l'"homo habens"): per realizzarlo occorre che il proletariato attui un passaggio intermedio: la "dittatura del proletariato". Poiché nessuna classe si fa espropriare volentieri, sarà necessario che inizialmente il proletariato assuma il controllo della società civile e, attraverso strumenti coercitivi, abolisca le strutture della proprietà borghese imponendo un nuovo sistema produttivo e di distribuzione. La dittatura del proletariato è diversa da tutte le precedenti dittature della storia perché è la dittatura di una maggioranza e il suo scopo non è quello di esercitare permanentemente il suo dominio su un'altra classe, ma di eliminare la divisione delle classi (è temporanea, transitoria). Il proletariato, che nel frattempo avrà sostituito l'esercito permanente con l'organizzazione degli operai armati, soppresso il Parlamento e sostituito con delegati eletti direttamente dal popolo e revocabili in qualsiasi momento, soppresso qualsiasi privilegio burocratico, e ovviamente abolito la proprietà privata, porrà fine alla propria dittatura per lasciare spazio alla società comunista (eliminate la proprietà privata e le classi non esisteranno più interessi dominanti, dunque verrà meno lo Stato). Il suo motto è "ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Con la società comunista termineranno le lotte di classe e con esse la storia. In alcuni paesi come Inghilterra, Olanda, Stati Uniti, dove tutto sembra procedere verso una soluzione mediata, è possibile che la vittoria del proletariato si ottenga con una rivoluzione non violenta.
ARTHUR SCHOPENHAUER
A) La vita e le opere: Schopenhauer e Kierkegaard rappresentano una reazione di rifiuto dell'ottimismo razionalistico hegeliano, inaugurando la corrente dell'irrazionalismo. Schopenhauer, in particolare, è duramente polemico nei confronti di Hegel del quale deve subire la fama: Hegel è il dittatore delle accademie, la filosofia ufficiale prussiana, Schopenhauer lo definisce "asino, scompigliatore delle teste dei giovani tedeschi". Schopenhauer porta nella filosofia una visione pessimistica o disincantata del mondo e dell'esistenza umana. Quando nel 1818 egli diede alle stampe il suo capolavoro "Il mondo come volontà e rappresentazione", la delusione dell'autore fu profonda, in quanto la gran parte delle copie andò al macero. Egli riprovò a pubblicare il testo nel '94 con un nuovo fallimento, lo pubblicò infine nel '59, e fu un successo straordinario. Schopenhauer era figlio di un ricchissimo mercante che gli consentì di viaggiare e visitare gran parte d'Europa. Secondo la volontà del padre avrebbe dovuto dedicarsi al commercio. Tuttavia, dopo la morte del padre nel 1805, probabilmente per suicidio, ottenne dalla madre il permesso di studiare. Studiò i classici appassionandosi all'Ellade, poi medicina a Gottinga, infine filosofia (assistette alle lezioni di Fichte dalle quali uscì disgustato) laureandosi con una tesi dal titolo "La quadruplice radice del principio di ragion sufficiente". Attraverso la conoscenza con lo studioso di orientalistica Mayer, entrò in contatto con la sapienza indiana delle Upanishad, testi sacri dell'induismo. Dopo la laurea, ottenne la libera docenza a Berlino, dove rimane fino al '32, se ne allontanò per l'epidemia di colera che aveva ucciso Hegel e si trasferì a Francoforte sul Meno ove rimase fino alla morte.
B) Le radici culturali: Le sue radici culturali furono molteplici:
- Platone, grazie alla cui lettura si appassionò alla filosofia; accolse come profondamente vera la dottrina delle idee e la contrapposizione tra mondo ideale e mondo sensibile, caduco e corruttibile;
- Kant, al quale fa costante riferimento (il suo merito per Schopenhauer è stato quello di aver criticato il realismo dogmatico rivalutando il soggetto nella conoscenza), non accogliendone tuttavia il vero significato, quello di garantire la validità della conoscenza e i suoi limiti, allontanando ogni tentazione metafisica;
- Illuminismo, in particolare per la sua critica alla convinzione tradizionale; di cui apprezza soprattutto il filone ateo e lo spirito anti-tradizionalista di Voltaire;
- Romanticismo, di cui accoglie l'irrazionalismo, l'esaltazione dell'arte e in particolare della musica e il tema dell'infinito;
- filosofia indiana, in particolare la concezione secondo cui la multiformità della natura è solo apparenza, e la vera realtà è rappresentata dall'uno-tutto, che soggiace alla molteplicità della natura.
C) “Il mondo come volontà e rappresentazione”: Il capolavoro di Schopenhauer inizia con queste parole: "Il mondo è una mia rappresentazione." Il mondo esiste quindi nella mia coscienza perché mi è dato attraverso la coscienza. È chiaro il richiamo a Kant: la conoscenza del mondo presuppone l'esistenza di soggetto e oggetto. Così come Kant, Schopenhauer suddivide le facoltà della conoscenza in sensibilità, intelletto e ragione, individua forme a priori della conoscenza (spazio e tempo per la sensibilità) che vengono applicate all'oggetto dando luogo alla rappresentazione. Spazio e tempo per Schopenhauer sono "principium individuationis", consentono di differenziare gli individui collocandoli in una determinata posizione o successione. Per Kant l'intelletto era la facoltà del pensiero, per Schopenhauer è la facoltà dell'intuizione; delle 12 categorie di Kant, Schopenhauer accoglie solo quella della causalità, che consente di comprendere l'essere delle cose, perché essere significa agire o subire un'azione (come sosteneva Platone negli scritti della vecchiaia). È proprio Schopenhauer a far risalire etimologicamente la parola tedesca "Wirklichkeit" (= realtà) al verbo "wirken" (= agire). Infine la ragione, facoltà del pensiero discorsivo, permette di costruire delle rappresentazioni di rappresentazioni: i concetti e le parole che li esprimono (il linguaggio). Spazio e tempo e causalità entrano a costruire il cosiddetto "principio di ragion sufficiente" (= principio esplicativo della realtà), di cui esistono quattro forme:
- ragion sufficiente del divenire, che spiega le leggi della natura;
- ragion sufficiente dell'essere, che spiega le matematiche, perché mette in relazione causale le parti del tempo e dello spazio, determinando la concatenazione di enti matematici e geometrici;
- ragion sufficiente del conoscere, che spiega le leggi del pensiero e la connessione tra premesse e conclusioni;
- ragion sufficiente dell'agire, che mette in relazione le azioni con i loro motivi.
Questi quattro principi di ragion sufficiente determinano quattro tipi di necessità:
- naturale;
- matematica;
- logica;
- morale (non c'è libertà, ma necessità nell'azione umana).
Dunque io come soggetto non posso uscire dalla rappresentazione per conoscere quello che c'è al di fuori: tutta la realtà, per me, è nella mia coscienza ("esse est percipi"). Non può esistere soggetto senza oggetto né oggetto senza soggetto: l'oggetto è tutto ciò che è conosciuto, il soggetto tutto ciò che conosce e che mai e poi mai, in quanto soggetto, può essere conosciuto. Al soggetto non si possono applicare le forme a priori, quindi il soggetto della rappresentazione è per definizione non rappresentabile. Nella storia della filosofia sono stati compiuti due errori, che hanno una matrice comune: ritenere che il principio di causalità si possa applicare alla relazione tra soggetto e oggetto, quando invece si tratta di un principio che spiega la relazione tra gli oggetti. I due errori sono stati il realismo, che ha sostenuto che è l'oggetto che causa il soggetto, e l'idealismo, che ha sostenuto che è il soggetto che determina l'oggetto. Questo mondo, insieme di fenomeni concatenati e determinati dalla rappresentazione, è sogno e illusione (diversamente da quanto affermava Kant, secondo cui era la metafisica la vera illusione). Il sogno che è la nostra vita differisce dai sogni notturni solo perché i suoi elementi sono dotati di maggior concatenazione e continuità. Supponiamo di leggere un libro di giorno in modo attento e consequenziale, e di notte di iniziare a sfogliarlo senza seguire l'ordine delle pagine: la materia è la stessa, ma il sogno è più discontinuo. Il filosofo crede di poter "squarciare il velo di Maya", che per la religione induista è quel velo che gli dei hanno steso sulla vera realtà delle cose per illudere gli uomini (indica simbolicamente la distanza tra l'apparenza delle cose e la loro vera essenza, che non tutti possono cogliere): Schopenhauer ritiene che vi sia una via d'accesso al noumeno, che sta al di là della rappresentazione ed è la vera essenza e radice della realtà. Questa via di accesso parte dalla corporeità: tra tutte le rappresentazioni, il corpo + diverso dalle altre, perché agisce sulle altre rappresentazioni in virtù di una mia decisione, ma soprattutto perché la corporeità è data all'uomo in un modo "affatto diverso": infatti io distinguo il mio corpo da quello degli altri perché nel mio corpo sento il bisogno, il dolore, il desiderio, totalmente avulsi dalle forme della rappresentazione. Questo sentire è manifestazione della radice ultima della realtà: l'essenza noumenica, che Schopenhauer definisce "volontà di vivere". Questa brama, impulso alla vita, appartiene non solo agli uomini, ma a tutto ciò che esiste (la lotta per la sopravvivenza degli animali, le radici delle piante che affondano alla ricerca di linfa, l'attrazione gravitazionale…). Per questo è la vera essenza noumenica della realtà. Essa si sottrae ai principi a priori della rappresentazione (spazio, tempo e causalità): è unica è indivisa, non è in nessun luogo, è eterna, è libera, senza scopo, irrazionale (perché la dinamica del desiderio è tale per cui, soddisfatto il desiderio, si ha un periodo breve di appagamento cui fa seguito un desiderio ancora più imperioso). La volontà non ha altro scopo se non quello di perpetuare se stessa e ripetersi attraverso la dialettica desiderio-soddisfacimento ("la volontà vuole la volontà, la vita vuole la vita"). La volontà, infine, è inconscia nella sua natura profonda; nell'uomo tuttavia le sue manifestazioni raggiungono consapevolezza. La consapevolezza è solo una manifestazione della volontà. Se la volontà, in quanto essenza e profonda radice del mondo, è unica, come spiegare la molteplicità dei fenomeni del mondo? Nella risposta a questo problema sta il platonismo di Schopenhauer. La volontà, proprio perché vuole se stessa, si oggettiva nelle idee, che sono, come per Platone, i modelli, gli archetipi della realtà: mondo inorganico, organico (nel quale Schopenhauer comprende solo mondo vegetale e animale), e l'uomo. C'è una progressione nella manifestazione della volontà, che nell'uomo giunge al massimo grado di oggettivazione, diventando ragione e agendo in virtù di motivi (= ciò che spinge all'azione). Se con la ragione la volontà acquista più chiarezza (è come se si rispecchiasse più accuratamente, più fedelmente), perde allo stesso tempo in sicurezza (non è infallibile). Il secondo livello di oggettivazione determina poi i molteplici fenomeni a partire dalle forme ideali, attraverso spazio, tempo e causalità (forme a priori del soggetto). Il "velo di Maya" sta proprio tra le idee e i molteplici fenomeni. I modelli sono realtà (noumeno) e al tempo stesso noi le comprendiamo come astrazioni della ragione. Schopenhauer conclude per uno spietato pessimismo: il mondo, come volontà, è contrassegnato dal dolore. Egli afferma che noi viviamo nel peggiore dei mondi possibili, prendendo le distanze dalla metafisica leibnizziana che già Voltaire, con più ironia e leggerezza, aveva criticato. Il mondo è un inferno, e lo dimostra la stessa facilità e grandezza con cui Dante ha composto la sua prima cantica: per descrivere il Paradiso egli non ha a disposizione la stessa materia, deve far ricorso a concetti, astrazioni. Vivere significa desiderare, e il desiderio implica la mancanza di ciò che si desidera, e la mancanza è dolore. Tutta la nostra vita è tesa alla soddisfazione di questo desiderio che corrisponde a una temporanea assenza di dolore, a cui segue un nuovo potente risorgere del desiderio. Nel momento della sazietà, che è pur sempre transitorio, al dolore si sostituisce la noia. Nulla si sottrae dunque a questa necessità, che è la volontà stessa a determinare. Il pessimismo di Schopenhauer si configura come pessimismo cosmico (perché la radice del suo pessimismo è il principio stesso del cosmo): Schopenhauer, nelle pagine del suo libro, descrive la natura stessa come "teatro della sofferenza", nella natura la spinta alla sopravvivenza determina il sacrificio degli individui deboli, delle prede come dei predatori: "sembra quasi che la volontà divori se stessa". L'esempio di Schopenhauer è quello della formica gigante dell'Australia che, tagliata in due, dà vita a uno spettacolo pietoso: la parte della testa si rivolta contro quella della coda in una lotta che porterà a morire entrambe le parti, di cui si ciberanno le altre formiche. Si tratta di un'apparente contraddittorietà della volontà, che è volontà di vita e si nutre di morte. Il pessimismo di Schopenhauer è anche sociale ("homo homini lupus") : l'uomo per natura è egoista, brama il bene per sé e il bene degli altri suscita invidia più che gioia. Tendenzialmente gli uomini vivono insieme per necessità, e le istituzioni politiche sono un male minore rispetto all'autodistruzione cui l'uomo andrebbe contro seguendo i suoi impulsi. Non c'è nulla che faccia l'uomo che possa alleviare il male dell'uomo: né la scienza, né la religione (perché "se è stato un dio a creare questo infermo, io non vorrei essere dio"). La religione è parte dell'illusione in cui vive l'uomo, rappresenta l'autoelogio ingiustificato della volontà; non esiste un dio. Il pessimismo di Schopenhauer è anche storico, come rifiuto dell'ottimismo e del giustificazionismo hegeliano: la storia non è un dispiegarsi di un piano razionale, ma non fa che ripetere da sempre la stessa medesima vicenda, l'affermazione della volontà. In questa totale negazione del bene rientra anche l'amore, in particolare quello sessuale. "L'amore romantico non è che un inganno, è il travestimento della pulsione carnale attraverso cui la volontà tende a perpetuare se stessa." L'amore sessuale è una colpa, viene vissuto inconsciamente come tale perché scopo dell'amore sessuale è di produrre altra infelicità rispetto alla vita che nasce. Schopenhauer trae dalla natura l'esempio ideale: la mantide religiosa (ottenuta la fecondazione del maschio lo divora).
D) Le vie di liberazione dal dolore: Il filosofo può smascherare la volontà e può accedere alle vie che lo portano alla sua liberazione. La volontà può essere negata soltanto attraverso la ragione: con essa la volontà si fa più consapevole, ma la ragione può essere utilizzata contro la volontà: compito del filosofo è utilizzare la volontà affichè essa distrugga e neghi se stessa. Per Schopenhauer il suicidio non è una via di liberazione per due motivi:
- chi si suicida non lo fa perché non vuole, ma anzi vuole più degli altri, è preda più degli altri della volontà, quindi riafferma la volontà;
- con esso si autoelimina l'individuo ma la volontà rimane intatta. È legge di natura che la volontà sacrifichi gli individui più deboli.
Per liberarsi dal dolore, bisogna negare la volontà, non affermarla. Se la volontà si manifesta attraverso motivi che nell'uomo determinano le sue azioni, bisogna trovare dei quietavi (controimpulsi, negazioni degli impulsi). Essi sono tre, esposti da Schopenhauer nell'ordine dal più limitato e temporaneo al più efficace ed esteso:
- arte (passeggera consolazione dal dolore): l'arte, più che negare la volontà, la sospende: è una momentanea sospensione dal mondo degli affanni. Essa ha per oggetto le idee (ad es. non un sentimento, ma il sentimento), le essenze, ciò che si sottrae alle forme a priori dell'individuazione. Per arte si intende sia l'attività dell'artista che la cosiddetta fruizione estetica, che comporta che il soggetto contempli l'opera in modo assolutamente disinteressato. Dice Schopenhauer: "Il soggetto diventa un occhio limpido sul mondo", non è l'occhio reso torbido dai desideri. Se nell'arte contemplo la bellezza di qualcosa, questa bellezza è tale non perché soddisfa un mio bisogno, ma in modo puro. Schopenhauer distingue, come già il suo maestro Kant, il bello e il sublime: il bello è il sollevamento alla contemplazione dell'idea senza lotta contro gli impulsi della volontà; il sublime è invece il sollevamento alla contemplazione mediante una lotta contro gli impulsi della volontà (c'è un sentirsi radicati in questo mondo e, lottando, ci si distacca da ciò che è sofferenza). Schopenhauer ordina le arti in modo gerarchico: architettura, scultura, pittura, poesia, tragedia (che fra tutte le arti è quella che meglio sospende la volontà: la contemplazione di ciò che avviene nella tragedia riguarda il nostro mondo di dolore, e ci mette direttamente di fronte alla manifestazione sollevandoci a valutare la sofferenza non come individuale ma come cosmica e ci consente di distanziarcene; v. catarsi aristotelica). Un posto a parte merita la musica, l'"arte delle arti" in quanto non ha per oggetto un'idea, ma direttamente la volontà (quindi la musica stessa è un'idea), e nella sua vastissima gamma espressiva è in grado di rappresentare qualsiasi cosa (in omaggio alla concezione romantica della musica). L'arte è un momento, cessato il quale l'uomo continua ad essere incatenato dalla volontà e dal dolore dell'esistenza;
- etica (prima forma ancora imperfetta di negazione della volontà): implica un impegno nel mondo a favore del prossimo. La volontà nel mondo degli uomini si manifesta come scissione, odio reciproco, sopraffazione e in genere ingiustizia: l'etica è un tentativo di rovesciare questa condizione. L'etica sgorga non dalla Ragione, bensì da un sentimento (morale del sentimento): la compassione, che deriva dall'associazione di cum + patire (= soffrire insieme, far proprie le sofferenze altrui). Questo sentire che l'altro (il nemico, secondo le leggi della volontà) è offeso quanto me dalla vita, mi trattiene dal fargli danno. L'etica si traduce in due livelli di comportamento: la giustizia (che nega l'ingiustizia), l'astenersi dal fare il male, e l'agape (= amore gratuito, totale dedizione all'altro), in cui diventa importante la cura verso il prossimo, attraverso cui la virtù diventa azione positiva volta a realizzare il bene dell'altro. Tuttavia l'etica rimane pur sempre legata alla vita (si agisce mossi da intenzioni, per buone che siano);
- ascesi (via che consente di liberarsi totalmente dal dolore e dalla volontà): utilizza la volontà contro se stessa ed è il vero quietivo, che realizza la noluntas (= negazione della volontà). Per quanto abbia molte affinità con l'ascesi mistica e religiosa, quella di Schopenhauer è un'ascesi atea, esercizio ripetuto e deliberato di infrangimento della volontà mediante la sistematica rinuncia del piacevole e ricerca dello spiacevole, l'espiazione, l'autopunizione, per una continua mortificazione della volontà. Il primo passo dell'ascesi è la castità perfetta, seguita dal digiuno, il disprezzo di sé, la penitenza; fino a quando è spenta del tutto in noi qualsiasi scintilla della volontà. Supposto che in un uomo questo si realizzi, l'uomo raggiunge una sorta di Nirvana, una sorta di nulla cosmico, una dimensione in cui non esistono desiderio, dolore, vita… Egli stesso, però, nelle ultime parole, afferma che per chi ha raggiunto il Nirvana, il vero nulla è questo mondo, è il nulla della volontà.
E) Confronto con Leopardi: A legare Schopenhauer a Leopardi sono essenzialmente il male di vivere e il pessimismo che condividono, oltre che l'etica della compassione (della ginestra), che però per Schopenhauer è un percorso verso un'altra meta, mentre per Leopardi è un semplice mezzo per ottenere una vita un po' più dignitosa. Entrambi prendono le mosse dall'ottimismo del loro tempo e dalla celebrazione del progresso. Le differenze sono costituite dal materialismo di Leopardi e dall'elemento di immaginazione che in Leopardi porta all'aspirazione all'infinito, assenti in Schopenhauer. Se infine la ginestra in Leopardi sgorga dalla ragione, l'etica di Schopenhauer sgorga dal sentimento.
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