Bioetica

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Testo

BIOETICA
Riflettiamoci sopra…
Indice
-Introduzione Personale
-Origine Della Bioetica
-Definizione Di Bioetica
-Bioetica e società
-Visione Cattolica Della Bioetica
-Conclusione Personale
Introduzione personale
Quando ho scelto l’argomento di cui trattare devo ammettere che sono andato un po’ a caso, dal momento che non ero molto a conoscenza di nessuno degli argomenti a me proposti. Di conseguenza mi sono lasciato guidare molto dall’istinto; ho scelto questo argomento perché mi sembrava quello più interessante, oltre che più attuale, di tutti.
Inizialmente non avevo la minima idea di che cosa fosse la bioetica in se come materia e scienza (se così può essere definita); si sente spesso parlare nei telegiornali e nei dibattiti televisivi di etica negli esperimenti scientifici e nella professione medica, ma quasi sempre si sentono discorsi che vengono recepiti passivamente dal nostro cervello, quasi fossero delle tematiche che una persona “normale” (nel senso di non specialista del settore) non potrebbe neanche minimamente affrontare senza l’ausilio di qualche esperto.
Proprio in quest’ultimo periodo ( credo a Luglio) ho assistito al programma di Italia1 “L’Assemblea”, una specie di forum di dibattito composto esclusivamente da giovani minorenni condotto da Ambra Angiolini, nel quale era posto come argomento del giorno il problema dell’aborto in Italia; ovvero il dibattito era mirato a rispondere alla domanda “E’ giusto che in Italia ci sia una legge riguardante l’aborto e che questa pratica sia resa legale?”. A prescindere dalle opinioni che emergevano da quel dibattito televisivo, mi sono accorto che l’argomento non era poi così lontano dalla nostra vita quotidiana e che, soprattutto, esso poteva essere affrontato da ragazzi miei coetanei senza troppe difficoltà (anche se, ovviamente, durante il programma sono stati chiamati due esperti in materia, più che altro per aggiornare o informare i giovani delle nuove tecniche scientifiche possibili).
Nelle pagine seguenti ho cercato di dare una definizione abbastanza (a mio parere) oggettiva di che cosa possa essere la bioetica e di portare il punto di vista della società contemporanea (prevalentemente laica) e della visione cristiano-cattolica dell’argomento. Per fare ciò, soprattutto nelle testimonianze, ho deciso di adottare la prima persona in modo da rendere maggiormente veritiere le tesi proposte dai due punti di vista. Infatti si può notare che i nomi delle persone che esprimono le loro opinioni siano inventati; credo che questo sia un espediente abbastanza originale per variare dalla solita monotonia di una relazione che si riduce a un semplice riassunto dei testi letti per informarsi sull’argomento. Con questo però non voglio dire che le tesi presenti in questo testo siano completamente inventate, infatti esse sono argomentazioni che ho trovato nei testi che ho letto e che quindi ho rielaborato come se fossero scritte in prima persona da un esperto in materia, cosa che comunque non è del tutto falsa.
Per ora non voglio esprimere un giudizio sul fatto che la bioetica possa essere giusta o sbagliata (nie suoi molteplici aspetti ovviamente, dal momento che la biologia si occupa di una tale quantità di studi e di ricerche e esaminarle tutte da un punto etico può risultare pressoché impossibile da uno studente di quinta scientifico); invito il lettore a leggere le seguenti pagine affinché possa farsi un’idea di che cosa comporti adottare l’etica nella ricerca scientifica e quindi possa esprimere un parere personale alla fine della lettura.
L’ORIGINE
della bioetica
BIOETICA E BIOLOGIA
Il termine bioetica viene introdotto dall’oncologo americano, di origine olandese, Van Reasselaer Potter. La bioetica è da lui presentata come una scienza che sappia conciliare conoscenze biologiche e valori umani.
Con questa affermazione Potter esprime una concezione che era già molto sentita allora: che il progresso tecnico-scientifico è ambivalente, ovvero esso contiene possibilità di miglioramento delle condizioni di vita umane ma anche di autodistruzione dello stesso genere umano.
I motivi di allarme sono ovviamente molteplici (come sono molteplici i settori di cui so occupa la biologia) e si possono dividere in alcune tematiche fondamentali per questa scienza: la prima riguarda la ricerca nel campo agro-alimentare (questo darà vita a numerosi movimenti ecologisti); la seconda, che oggi non ricopre un ruolo così fondamentale come lo ricopriva negli anni ’70 ma è pur sempre importante, è l’applicazione delle conoscenze biologiche nel campo bellico per ricerche bio-chimiche (solo in questi ultimi giorni si è sentito parlare ancora di questo punto).
La richiesta di coniugare la ricerca scientifica della vita con un’etica della vita è data dal convincimento collettivo che il quadro generale dei valori non sia sufficiente di fornire criteri adeguati ad affrontare una situazione che appare “incommensurabile” rispetto a quelle delle epoche passate. Basterebbe segnalare che l’uomo ora diventa il responsabile diretto dello stesso destino del pianeta che fino ad oggi (gli anni ’70) è stato il garante della sua esistenza.
Anche numerosi presupposti che in passato facevano da sfondo alla ricerca scientifica, oggi sembrano meno evidenti: ad esempio la convinzione di una “neutralità assiologia” delle scienze sperimentali, ovvero l’affermazione che il piano dei valori e quello dei fatti siano totalmente separati e incomunicabili, e che quindi alla scienza spetti una sorta di immunità (libertà).
I risultati delle ricerche biologiche introduce un mutamento nelle prospettive: per secoli l’uomo ha potuto confidare in una natura che, seppur con la presenza di disastri e sciagure di ogni genere, gli aveva permesso di sopravvivere, mentre oggi, con le nuove conoscenze, l’uomo deve salvaguardare sia la natura sia la sua stessa “struttura biologica”.
“Il momento particolare che vive la biologia oggi” scrive G. Prodi “è appunto quello della collisione, che si è verificata in un momento in cui le conoscenze culturali- scientifiche delle strutture genetiche naturali sono state così dettagliate e soggettive da consentire una loro manipolazione del tutto intenzionale e progettuale, conforme alla conoscenza umana, cioè alla specificità biologica dell’uomo. L’uomo, frutto non intenzionale e non cosciente di questo lungo cammino, è arrivato a impadronirsi intenzionalmente e coscientemente di tale settore della natura, e può studiarlo e influenzarlo. Ciò che è stati costruito nei milioni di anni separatamente nei vari filoni evolutivi, egli può ora, col suo pensiero che costruisce ipotesi, unire, far collidere, separare, mescolare. Questo è il senso dell’ingegneria genetica, che rappresenta ben più di un momento favorevole nello sviluppo della biologia: essa rappresenta un momento critico nella storia culturale, vista come più recente fase della storia naturale” (G. Prodi- Teoria e metodo in biologia e medicina- 1988).
L’evoluzionismo, che da Darwin si è imposto anche come filosofia di vita, si trova a fronteggiare un duplice problema pratico e teorico. Pratico perché la capacità di determinare dall’interno i processi vitali richiede criteri per procedere nella sperimentazione di nuove forme di vita, e manifesta anche l’area di incertezza conoscitiva di fronte a creazioni che potrebbero rivelarsi pericolose per la conservazione delle vita stessa; teorico perché l’evoluzionismo da solo non sembra capace di suggerire dei valori tali da soddisfare questa esigenza. Per fino la sopravvivenza ora viene assunta come un fatto e no più come un fine della vita. Se si prendesse in considerazione l’uomo come “effetto” involontario dell’evoluzione, bisogna dire che questo ”effetto” è ora in grado controllare e di diventare la causa dei prossimi passi della vita stessa.
La nuova complessità linguistica adottata dalla biologia, mostra come l’intreccio tra le scienze e la filosofia richieda nuovi sforzi di chiarificazione. I modelli teorico-pratici che ci permettono di parlare di una vera e propria “tecnoscienza”, sono peraltro in grado di esprimere il “significato” dell’esistenza, oppure costituiscono una modalità di rappresentazione riduttiva, sebbene molto informativa, in cui sia chiaro solamente che cosa si sia in grado di ricostruire? Le questioni quindi sono molto complesse: l’intreccio fra l’ homo sapiens e il cosiddetto homo faber sembra rendere impossibile la possibilità di costruire una sorte di ponte. Gli argomenti infatti, non sono separati sebbene siano chiaramente distinti.
DEFINIZIONE
della bioetica
I SISTEMATICI
Nella “logica della scoperta scientifica” Popper ha posto una bella frase di Novalis, che recita così: “Le teorie sono reti. Solo chi le butta pesca”. Interrogarsi sul significato della bioetica significa quindi stabilire che “pesci” si vuole pescare e con che tipo di rete. In altre parola si tratta di definire meglio quale sia l’oggetto formale (in questo caso la rete) e l’oggetto materiale (ovvero i pesci). Con questo procedimento intendiamo dire quindi che si può definire che cosa sia una scienza verificando quali siano i mezzi che esse dispone per analizzare e gli oggetti stessi che analizza (“ciò di cui si occupa e come studia ciò di cui si occupa”).
Quando però un oggetto è comune a più materie i crea un grosso intreccio di materie (ad esempio l’uomo è oggetto di molte discipline quali la filosofia, la medicina, la fisiologia ecc.); questo porta inevitabilmente a una lunga e complessa rete di definizioni che convertono tutte sullo stesso oggetto.E’ dunque opportuno fornire una definizione molto specifica che tenga conto delle caratteristiche della scienza che si intende definire. Potremmo dunque pensare di aver trovato una corretta definizione di bioetica nel momento in cui avremo messo a fuoco precisamente l’oggetto formale della sua ricerca, cioè “entro quali coordinate essa consideri la vita”.
L’introduzione dell’“Enciclopedia della bioetica” (1978) definisce la bioetica come “lo studio sistematico del comportamento umano nel campo delle scienze della vita e della salute, in quanto questo comportamento è esaminato alla luce di valori e principi morali”.
Questa definizione, ormai diventata canonica nel settore, sembra indicare l’oggetto materiale della nuova disciplina (il comportamento umano), il metodo (studio sistematico) e l’oggetto formale (valori e principi morali). Essa potrebbe essere una buona definizione se solo non fosse per due possibili equivoci:
-Lo studio sistematico riguarda precisamente come operano gli uomini o come dovrebbero agire?
-Il riferimento ai “principi morali” indica un’indicazione genere per esprimere la problematica etica oppure vincola la bioetica ad una precisa impostazione etica?
Per molto tempo nella bioetica, quando si discuteva di principi morali si faceva indirettamente riferimento al tentativo dei Beauchamp e di Childress di fornire le basi per costruire delle regole d’azione che evitassero il dilemma tra l’impostazione deontologica e il consequenzialismo. Il principiamo ha di fatto due degli elementi che hanno condizionato la prima stagione della bioetica: la necessità di fornire informazioni concrete agli operatori sanitari e l’esigenza di fissare delle normative pubbliche necessarie in una società pluralistica. La bioetica dei principi si proponeva solo di fornire criteri formalmente condivisibili da tutti ed evitava di aprire un confronto sui fondamenti teorici dei principi stessi. Il metodo proposto era una bilanciatore dei principi, tale da ammettere continue trasgressioni o restrizioni nei confronti dell’uno e dell’altro. Quindi esso si proponeva di trovare delle sorte di linee guida; queste però erano molto soggettive e potevano essere interpretate in svariati modi.
Rispetto alla deontologia medica e della medicina legale la bioetica viene pensata come una disciplina “più eminentemente autonoma e di più ampio respiro che, con la sua metodologia e con i risultati a cui giunge, contribuisce all’aggiornamento e alla giustificazione epistemologica della normativa deontologica, all’orientamento dell’elaborazione legislativa, e all’inquadramento degli interventi sulla vita umana nell’ambito più ampio della biosfera di cui discute criteri e limiti di liceità”.
Sgreccia, che è favorevole a questa impostazione, indica tre distinti momenti in cui si articola la bioetica: la bioetica generale (una vera e propria filosofia morale, come dice egli stesso), la bioetica speciale (affronta i problemi connessi con lo sviluppo biomedico) e la bioetica clinica o decisionale (esamina nel concreto la prassi clinica dei casi).
Sul versante laico Scarpelli definisce la bioetica “l’etica in quanto è particolarmente relativa ai fenomeni della vita organica del corpo. Essa non è una disciplina che si può porre come autonoma e indipendente, in quanto legata al progresso della conoscenza e delle tecniche biologiche e a questioni e atteggiamenti etici fondamentali concernenti l’uomo”. Egli però si trova in difficoltà quando deve dare corso a una vera e propria distinzione tra una bioetica descrittiva e una normativa. Egli ritiene che la bioetica normativa abbia soltanto un compito chiarificatore e possa, al più, offrire i propri criteri valutativi. Egli sostiene inoltre che la bioetica debba essere un concentrato nel quale affluiscano numerose discipline quante sono quelle coinvolte.
Se la bioetica è pensata come l’insieme delle proposizioni che esprimono delle valutazioni morali, allora la meta-bioetica dovrebbe introdurre e giustificare i fondamenti che reggono tali valutazioni. Il termine “meta-bioetica” nel linguaggio di Scarpelli corrisponde al significato di bioetica generale di Sgreccia. La differenza terminologica indica la diversa collocazione filosofica dei due termini.
Se si intende formalmente la bioetica come etica applicata, allora il problema si sposta sul piano della delineazione dello statuto epistemologico dell’etica.
E’ utile in questo caso, per meglio definire la spaccatura tra la bioetica passata e quella più recente, il testo dell’ultima edizione dell’ Enciclopedia che corregge la prima versione: “Bioetica è un termine composto derivato dall’unione delle parole greche bios (vita) e ethike (etica). Può essere definita come lo studio sistematico delle dimensioni morali delle scienze della vita e delle cure della salute, usando diverse metodologie etiche in u quadro interdisciplinare”. Si passa quindi dall’adozione del precedente paradigma dei principi al nuovo paradigma dell’esperienze.
Bisogna riflettere che la nuova definizione segue i mutamenti che avvengono nella letteratura etica americana, testimoniando un’indiretta adesione alla teoria che considera “paradigmatica” una tesi che riscuote il consenso storico e che trova il suo posto all’interno di una comunità scientifica.
GLI INSODDISFATTI
Quanto più la bioetica tenta di definirsi, tanto più è portata a distanziarsi da altre discipline, che magari hanno contribuito a farla nascere. In questo modo la costruzione dell’identità della bioetica comporta delle esclusioni.
La prima critica viene da chi non condivide che le bioetica possa inserirsi nel filone dell’etica. La rivendicazione della reale novità della bioetica viene oggi formulata da due fronti.
Il primo fa capo all’opera di Jonas il quale ha sottolineato l’insufficienza dell’etica che no ponga a tema la questione della tecnica, nella quale viene modificata la “natura dell’agire umano”, e poiché la natura dell’agire umano è connessa all’etica, ne consegue che c’è bisogno anche di un mutamento dell’etica. Questa impostazione va a minare le strutture su cui si è formata l’etica nelle epoche passate. Quindi “si tratta di sapere se è possibile introdurre un’etica che possa controllare le enormi possibilità di cui siamo forniti oggi e di cui siamo quasi costretti a farne uso”. Jonas nella sua opera arriva quindi ad affermare, al termine di un lungo discorso del quale sopra è citato solo l’inizio, che c’è bisogno di nuove regole etiche e addirittura di una nuova etica.
Il secondo fronte, elogiando le nuove possibilità delle tecniche umane e affermando che la morale tradizionale sta lentamente volgendo al tramonto, propone di introdurre una nuova prospettiva, che si incentri sulle categorie della “qualità della vita”; il fulcro di questa teoria sta nell’affermazione che la morale tradizionale non funziona. I fallimenti di questa morale si riscontrano tra le contraddizioni emerse tra la proclamazione dei principi a difesa della vita e la concreta prassi medica. Stinger afferma che bisogna adeguare i principi alla nuova prassi medica (come ad esempio la facoltà di spegnere i macchinari nel caso in cui una persona sia in uno stato di coma irreversibile).
Contro la bioetica come “nuova disciplina” ci sono le tesi di coloro che temono che esse introduca un elemento di confusione, all’interno di discipline che si occupano del quadro normativo delle singole professioni e che hanno come oggetto la vita. In questo caso la bioetica è vista sotto una luce del tutto negativa perché è vista come un elemento destabilizzante rispetto ai criteri che sono stati fissati lungo la storia della medicina. Secondo questa corrente di pensiero la medicina incontrerebbe numerosi ostacoli nel diventare oggetto di speculazioni filosofiche. Ancora più marcata è la diffidenza fra coloro che esercitano le biotecnologie; in questo caso è vista con timore perché verrebbe a ostacolare la libertà di ricerca.
Ma la maggior parte delle insoddisfazioni nei confronti della bioetica è oggi espressa dal contesto teologico che aveva inizialmente avuto il merito di fornire i parametri concettuali e le motivazioni teoriche nel primo periodo di questa materia.
Le critiche nei confronti della bioetica espresse in numerosi convegni non affermano solamente che ormai la bioetica sta scivolando lentamente in un contesto sempre più sociale, con l’intento della creazione delle basi culturali a un futuro momento giuridico, ma vedono inoltre nella bioetica un’impresa filosofica. Sia le bioetiche “laiche” (che non ammettono l’esistenza di Dio) sia quelle più metafisiche (che al contrario si basano sull’affermazione filosofica dell’esistenza di Dio) sarebbero viziate dello stesso razionalismo. L’accusa più importante infatti è quella rivolta ai credenti cattolici che pretendono di parlare della bioetica a prescindere dal loro credo religioso e che quindi si sentono sullo stesso piano dei laici (vengono accusato di razionalismo). Come razionalismo si intende il voler raggiungere una determinata verità oggettiva a prescindere dei risultati soggettivi che una ricerca conoscitiva implica assolutamente : “Razionalista sarebbe chi, scientista o metafisico, ateo o credente, ritenga che si possa separare la questione della conoscenza della verità da quella dell’esercizio della libertà, pensando così di poter ragionare prescindendo dall’opzione fondamentale che costituisce l’orizzonte di senso di ogni uomo”.
Questa è una critica radicale in quanto essa preclude alle bioetiche “razionaliste” il raggiungimento del significato della vita (cioè lo specifico della bioetica).
Bioetica e Società
Premessa
Nella stampa di questi ultime settimane, stanno un po' sovrapponendosi agli interrogativi che stavano caratterizzando questo inizio millennio. Ma le preoccupazioni generate da una interminabile sequela di confessioni di fallimenti da tutte le parti sono sempre più forti.
Sono fallite le ideologie politiche e religiose; lo stesso Cristianesimo sta attraversando una grave crisi di identità, sono fallite le filosofie e con queste si dice che sia fallita anche la scienza (o per lo meno lo sfruttamento tecnologico che ne è stato fatto).
In effetti queste confessioni che appaiono sui mass-media partono incredibilmente proprio dagli stessi autorevoli personaggi che avevano cavalcato sino a ieri le relative correnti di pensiero, che le avevano consolidate nella loro testa in concetti semplificati o stereotipi da "comunicare" (perché per loro era importante avere un'adesione la più ampia possibile) e non avevano mai voluto ammettere, nemmeno a sé stessi, che la realtà è molto più complessa (come solo oggi si inizia a riconoscere...).
Nello stesso tempo, tuttavia, si è verificata una significativa evoluzione della possibilità di leggere la realtà in modo più scettico e critico, con strumenti più perfezionati in grado di andare più in profondità e tutto questo ha sconvolto gli schemi dialettici tradizionali. Chi non è in grado di comprendere questo divenire sempre più veloce, si sente perso.
La stessa cosa è successa per l'etica, intesa come riflessione, sia individuale che del "comune sentire", sui comportamenti umani, sui fini e sui valori (ethos orientato al telos)
La sua graduale perdita di consistenza, non sostituita con altri valori, ne ha reso via via più evidente la sua mancanza. E chi ha riscoperto la necessità dei suoi valori si è anche reso conto della totale incapacità dei vecchi modelli di rispondere ai nuovi interrogativi che si affacciano sul 3° millennio.
Il quale nuovo millennio sta aprendosi con due imperativi:
innanzitutto il superamento della crisi dell'ethos, cioè della morale incarnata nei costumi, nelle istituzioni, nel modo di pensare collettivo, ovvero delle cosiddette evidenze etiche comuni.
In secondo luogo la capacità di rispondere con un comportamento etico alle possibilità enormi che il progresso della scienza ha aperto alla tecnologia, per cui l'umanità si trova di fronte a problemi mai esistiti in precedenza: ingegneria genetica, la salvaguardia dell'ambiente e delle risorse naturali, la problematica della comunicazione, il prolungamento della vita dell'uomo, la distribuzione dell'occupazione al lavoro e del benessere nel mondo, le migrazioni; problemi immensi, tutti condizionati o minacciati dall'attuale modello dell'economia e dell'industrializzazione massiccia dell'intero pianeta.
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Gli eventi recenti
In questi ultimi mesi lo scenario mondiale della biologia è rimasto sconvolto da almeno 4 eventi che hanno rimesso in discussione concretamente sia la necessità di ridefinire una nuova etica, sia l'autorità che debba e/o possa assumersi la responsabilità di questa sua ridefinizione.
Gli eventi, in breve, sono questi:
1- In Italia. A seguito di una revisione del concetto di personalità dell'embrione fatta dal Comitato Nazionale per la Bioetica, revisione che puntualizzava il dovere morale di trattare l'embrione umano, sin dalla fecondazione, secondo i criteri di rispetto e tutela che si devono adottare nei confronti degli individui umani a cui si attribuisce comunemente la caratteristica di persone; (e ciò a prescindere dal fatto che all'embrione venga attribuita sin dall'inizio con certezza la caratteristica di persona che nel suo senso tecnicamente filosofico, oppure che si preferisca non utilizzare il concetto tecnico di persona e riferirsi soltanto a quell'appartenenza alla specie umana che non può essere contestata all'embrione sin dai primi istanti e non subisce alterazioni durante il suo successivo sviluppo). Alcuni movimenti di impronta sia religiosa che laica ponevano e pongono tuttora, con forza, il problema del riconoscimento giuridico dell'embrione, da applicarsi all'art.1 del Codice Civile sin dal suo concepimento.
2- In Scozia è stato reso pubblico il primo esperimento "ufficiale" di clonazione di un mammifero: più precisamente della pecora ormai universalmente nota come Dolly. Ciò ha aperto il discorso sull'eventualità, ormai vicina, che si possa clonare anche l'uomo.
3- L'allarme suscitato dall'evento Dolly ha messo in luce una pratica sommersa, ormai in uso da qualche anno, sulle manipolazioni genetiche volte non solo nel campo agricolo ma anche in quello degli allevamenti animali per alimentazione, oltre che destinati alla riproduzione di organi di ricambio per il trapianto nell'uomo (Maiali con fegato e cuore trapiantabili nell'uomo), oppure latte proteinico per lattanti ricavato da pecore con organi produttori del latte geneticamente "umanizzati"
4- Infine, ancora in Italia, la gestazione contemporanea in un unico utero di ovuli già fecondati provenienti da due coppie sterili.
Al di là di un commento specifico caso per caso, prendendo il problema nella sua globalità etica, limitata alle considerazioni che può fare chi appartiene al senso comune della gente, però che si ingegna ad esercitare un minimo di atteggiamento critico, possiamo fare le seguenti prime considerazioni generali.
Innanzitutto è importante precisare che anche l'evento della clonazione non ha assolutamente messo in moto scoperte e/o interrogativi sconvolgenti rispetto alle conoscenze teoretiche che si avevano già. Caso mai l'esperimento ha confermato tutte quelle ipotesi che sono a fondamento delle convinzioni mie personali e del contesto nelle quali le ho maturate, che prevedono come il DNA dell'uomo sia composto di due campi dei quali il primo, comune a tutta la specie umana, conserva l'impronta indelebile ed immodificabile (almeno per ora) della sua creazione. Viceversa l'altra subisce l'impronta dell'ambiente e viene trasmessa; per cui il lavoro transgenerazionale, simbolicamente rappresentato in Massoneria dalla "Catena d'unione", ha un senso anche biologico quando il suo significato etico viene indirizzato al "bene dell'Umanità".
In secondo luogo sono stati messi in discussione i rapporti tra autorità spirituali ed autorità laiche (dove per laico non è compreso il significato di laicista come nemico della religione; si intende qui per laico chi non fa discendere le proprie convinzioni dai dogmi di qualsiasi natura essi siano e quindi non appartiene alle scuole di pensiero relative)
Per cui appare sempre urgente che si faccia più chiarezza tra legge morale e legge giuridica: la autorità spirituali hanno tutto il diritto di parlare alle coscienze delle persone, ma non possono obbligare a comportamenti morali, non universalmente condivisibili, imponendoli con la legge. Ci dovrebbe essere maggior rispetto per le libertà civili dei cittadini in quanto tali.
Viceversa è compito esclusivo degli Stati promulgare leggi a difesa della dignità e degli interessi dei cittadini stessi. Non per niente esiste una Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo. Questa considerazione introduce il punto successivo:
La sperimentazione e l'applicazione delle biotecnologie non è un problema che può essere circoscritto nell'ambito di un singolo Paese ma ha un carattere planetario: è stato già abbondantemente dimostrato dal caso, sempre inglese, della "mucca pazza" . Di conseguenza occorrerebbe una regolamentazione e legislazione che fosse altrettanto planetaria1; ma non esiste ancora una autorità riconosciuta (come l'ONU, o la FAO) cui affidare capacità di definire una bioetica universale (e tantomeno un'etica generale) e i poteri legislativi e di controllo relativi. O quantomeno di emettere opportune direttive.
Andando al punto delle definizioni bioetiche vere e proprie, esiste oggi un grande dibattito, peraltro limitato agli esperti direttamente interessati, tra due fronti nettamente contrapposti: etiche fondamentaliste e dogmatiche contro etiche eminentemente tecnologiche
In realtà all'interno del campo laico vi è un ulteriore dibattito dovuto essenzialmente alla posizione dei ricercatori (che poi sono quelli che appaiono sui media con maggior rilievo) che sono anche applicatori. Per cui i risultati dei loro esperimenti appariranno sempre fortemente condizionati dall'interesse di chi promuove le loro applicazioni (non solo le case farmaceutiche ma anche una nascente e sempre più florida industria bio-tecnologica). Poiché la ricerca pura non può essere condizionata dai limiti che dovrebbero essere imposti a chi fa applicazione, sembrerebbe evidente che i campi della ricerca e della applicazione debbano essere regolamentati da etiche diverse. Ma questo concetto, non si sa perché, è ancora molto vago; quasi sicuramente perché non è ancora chiaro a chi spetterebbe il finanziamento dei costi della scienza pura. (alle Università, al mercato o al volontariato come fatto in Italia con la Ricerca sul cancro ? Oppure a Fondazioni private dotate di regole etiche fortemente istituzionalizzate e controllate anche attraverso le tasse, come recentemente sta anche succedendo in USA?).
Una prima riflessione: le recenti vicende della bioetica come metafora del processo di rinnovamento di modelli etici
Queste prime considerazioni, come abbiamo già detto, non provengono da un esperto che vede il problema dall'interno del mondo della ricerca o dell'applicazione della bioetica o comunque coinvolto nelle problematiche di quello specifico contingente, ma dall'esterno. Una esperienza che si limita ad essere soci della Consulta di Bioetica Laica e che quindi è attenta, in qualche modo, a questi problemi. Ma lo fa anche provenendo da un contesto, quello massonico, che si occupa prioritariamente di etica come scelta di vita individuale e sociale e che quindi, come uomo libero, cerca spontaneamente di immaginare e proporre, magari un po' utopisticamente, modelli sociali etici come possibile soluzione dei problemi epocali della società. Sono considerazioni che in sostanza partono da punti di vista e da valori di base che appartengono a credenze e costumi passati.
Chiaramente lo scenario mondiale della medicina e della biologia è soltanto uno degli scenari attuali nei quali l'uomo continua a trovarsi in difficoltà crescenti. Del resto i modelli stessi della società mondiale, ed in particolare quelli del nostro Paese, sono già in discussione accesa; si sente continuamente parlare di proposte, indirizzi, annunci di cambiamenti clamorosi: commissioni su commissioni. Ma niente da cui traspaia un disegno, un programma, un'etica, ecco, un'etica che non sia specifica delle singole problematiche, come la riconfigurazione dell'idea di famiglia, il rinnovamento della scuola o i nodi insolubili nei quali è inesorabilmente incappato il mondo del lavoro. Manca cioè un'idea etica comune che in sostanza, con il proporre un significato alla vita delle singole persone, le leghi, come nuova religione dell'uomo, in un progetto di nuova società, non ideologica, più di quanto non abbia voluto e saputo fare l'energia motrice che sino ad oggi ha realmente mosso la storia, cioè l'economia.
Cercherò di affrontare più specificatamente questi temi , seppure brevemente., nel prosieguo, in quanto prima desidero ritornare a parlare di bioetica. Questo tema ha assunto oggi il ruolo di paradigma esistenziale di primaria importanza in quanto, coinvolgendo la salute e la vita stessa dell'uomo, ne acuisce la sensibilizzazione verso il bisogno e l'urgenza di vederne , da una parte, definiti i comportamenti ed i limiti (raffigurabili nell'ambito dell'etica professionale degli operatori), dall'altra sollecitati gli sforzi diretti a debellare le nuove malattie che emergono senza tregua e sempre più minacciose dietro quelle già debellate (legassi speranze nelle biotecnologie).
Quindi le vicende della bioetica sono da considerarsi una vera e propria metafora dei processi o dei cammini che debbono essere compiuti in ogni settore della società per arrivare a riconfigurare un modello sociale più accettabile per l'uomo del 3° millennio che riteniamo, speriamo, sarà migliore.
Ma c'è anche un altro motivo ed è quello di capire bene il ruolo che gioca o che deve giocare la scienza in questi processi di ridefinizione. Se si intende il progresso della Scienza come sviluppo della capacità dell'uomo di afferrare Conoscenza di ciò che "è" riteniamo cruciale iniziare da essa quel processo che, in contrapposizione alle fedi rivelate, ci può mettere in condizione di afferrare lo scopo di ciò che è in modo tendenzialmente oggettivo, e quindi maggiormente condivisibile da tutti, per arrivare ad una comprensione maggiormente generalizzata di un'etica finalizzata alla crescita dell'individuo e delle generazioni a venire; in breve un'etica della responsabilità generazionale.
Infine è emerso in questa breve nota un altro problema estremamente importante, talmente importante che richiederebbe una trattazione specifica: il problema dei contesti, della loro incomunicabilità relativa e della necessità di un'ermeneutica comune e nuova della storia (epistemologica) e della realtà dell'uomo e della natura.
Ciò detto, torniamo alla bioetica con l'esperienza del Manifesto di Bioetica Laica per cercare nei suoi fatti concreti più significativi un significato che abbia un valore generale e quindi, in un certo senso, paradigmatico.
Il Manifesto di Bioetica Laica come officina aperta
Nel giugno del 95, il quotidiano Il Sole 24ore, nel suo supplemento culturale della domenica, aprì un dibattito, aperto ai suoi lettori, su di un Manifesto di Bioetica laica elaborato da Carlo Flamigni, Armando Massarenti, Maurizio Mori ed Angeli Petroni.
L'iniziativa ufficialmente era tesa a proporre alcuni principi generali a difesa dell'autonomia individuale e del pluralismo etico come base di un confronto civile tra sostenitori di posizioni morali diverse. In realtà non era possibile ignorare che proprio in quel momento il Comitato nazionale per la bioetica, diretta dal Prof. D'Agostino, stava discutendo sul tema "Identità e statuto dell'embrione umano" . Quindi l'obiettivo evidente degli autori del manifesto era di ricercare adesioni critiche che potessero costituire un ampio fronte culturale in opposizione a quello ristretto del Comitato nazionale.
Il Manifesto avanzava, ed avanza come premessa, una giustificazione di laicità della bioetica soprattutto come portatrice "di un pluralismo di valori ugualmente ultimativi ed ugualmente legittimi, a cui si accompagna il pluralismo dei gruppi e degli individui che ne sono portatori, siano o non siano essi credenti".
Quindi espone alcuni principi che legano la visione laica alla natura della conoscenza e del suo progresso, come:
- il progresso della conoscenza è esso stesso un valore etico fondamentale.
- l'amore della verità è uno dei tratti più profondamente umani, e non tollera che esistano autorità superiori che fissino dall'esterno quel che è lecito e quel che non è lecito conoscere.
- l'uomo è parte della natura, e non opposto alla natura. Essendo parte della natura, egli può interagire con essa, conoscendola e modificandola nel rispetto degli equilibri e dei legami che lo uniscono alle altre specie viventi.
-il progresso della conoscenza è la fonte principale del progresso dell'umanità, perché è soprattutto dalla conoscenza che deriva la diminuzione della sofferenza umana. Ogni limitazione della ricerca scientifica imposta nel nome dei pregiudizi che questa potrebbe comportare per l'uomo equivale in realtà a perpetuare sofferenze che potrebbero essere evitate.
Questi principi sono particolarmente rilevanti per quanto riguarda il progresso delle conoscenze nella genetica umana e nelle terapie genetiche. "Voler conoscere quel che costituisce la propria natura biologica, fino ai componenti ultimi, non è ybris, ma è espressione dello stesso amore di conoscenza che spinge l'uomo a conoscere tutta la natura. Voler intervenire su questa natura biologica al fine di diminuire la sofferenza non è espressione di nichilismo ma di amore dei propri simili".
E' in nome di questi principi, e nel rispetto delle convinzioni religiose dei singoli individui, che si richiedeva di approvare un codice deontologico che garantisse agli individui di poter decidere per proprio conto ponderando i valori - talvolta tra loro confliggenti - che quelle scelte coinvolgono, evitando di mettere a repentaglio le loro credenze e i loro valori. In pratica fede completa nella scienza medica messa in grado di rispondere ad ogni etica particolare e di conseguenza resa libera di applicare la "sua etica superiore" in quanto dispensatrice comunque di "miracoli contro la sofferenza e contro la stessa morte". Quindi riconoscimento di una autorità superiore, simile a quella del giudice, nella figura dello "esperto scienziato".
Inaspettatamente, per gli autori, il Manifesto ha subito suscitato grande interesse critico, polarizzando l'attenzione pubblica per quasi due mesi sulla stampa, e sino ad oggi su Internet. (Note di bioetica [http://www.symbolic.parma.it/bertolin/bioetic.htm])
Anche se, come sembra, sia mancato quel consenso plebiscitario puntuale che i suoi promotori speravano, tuttavia il dibattito si è ritrovato arricchito di un considerevole apporto di contributi pervenuti anche attraverso le magiche reti di Internet. E qui sta l'aspetto significativo dell'evento. Oltretutto il 12 luglio 1996, quindi nel frattempo, il "Comitato nazionale per la bioetica" diretto dal Prof. D’Agostino, aveva emesso il documento conclusivo sull'Identità dell'embrione, altrettanto significativo: tutte le divaricazioni ideologiche proposte dai singoli componenti la commissione, si sono ripetute puntualmente quasi a testimoniare che fuori dal campo della politica materiale, dove qualsiasi accordo è reso possibile da ragioni di convenienza, i principi ideologici singolari tendono a non concorrere né, tanto meno, a integrarsi. Il contrasto implicito, accuratamente nascosto nella formalità del documento medesimo è poi è esploso clamorosamente proprio qui a Firenze dove nel Convegno del 1/2/97 il Forum delle Associazioni Familiari (appoggiato dal Movimento per la Vita) ha avanzato la già citata proposta di modifica dell'art.1 del Codice Civile.
I significati del lavoro compiuto
Il ventaglio dei punti di vista che ora si presenta sta mettendo in luce non solo l'inconciliabilità scontata (non ancora per tutti, evidentemente...) tra fondamentalismi (sia religiosi che politici) e detentori del potere tecnologico, ma soprattutto l'emergere di un considerevole apporto di contributi non ufficiali (individuali, scuole di pensiero o tradizioni di lavoro), che costituiscono nel loro complesso un'attestazione palese di una società pluralista ed in qualche modo libera (o che aspira ad esserlo sempre di più); di una crescente cultura che ha una gran voglia di credere un poco di più nella capacità dell'uomo di saper trovare la giusta strada da solo.
Ogni lavoro di quelli presentati ha detto sicuramente qualcosa di importante e nuovo, (anche fuori dai solchi di culture ufficiali sempre più alle corde ...), comunque utile per la crescita di chiunque vi abbia dedicato un poco di attenzione; ma ha reso del tutto evidente l'immaturità di una vera cultura laica fondata su principi oggettivi condivisi da tutte le verità etiche (soggettive) che vi confluiscono. E' ormai evidente che manca del tutto un lavoro metodologico di maturazione, un modello strutturato con una tradizione di lavoro, soggetto a continua verifica con procedimenti di retroazione, di tipo auto referenziale . Come del resto è già previsto nelle società più avanzate.
E' così che tutte queste vicende nel campo della bioetica, trascendendo il problema specifico, secondo il mio parere, sono assurte al livello paradigmatico di una passaggio etico- culturale di natura epocale. E di questo forse non se ne sono accorti né i gli addetti alla bioetica stessa. chiusi nelle loro problematiche, né gli stessi filosofi di regime, chiusi nei loro contesti storici divenuti muti, e nemmeno i difensori delle etiche metafisiche sconcertati dai messaggi sempre più difficili da assimilare, provenienti dagli indubbi successi della scienza. Non parliamo poi dei partiti politici che, appena hanno provato ad affrontare il problema, come successo recentemente, si sono visti lacerare al loro interno da divisioni che finivano con il privilegiare le coscienze individuali piuttosto che le ferree discipline dei tradizionali schieramenti politici.
Ma veniamo ai significati dell'evento-Manifesto
Già lo stesso documento era sembrato subito criticabile sotto diversi punti di vista.
Innanzitutto, se esso avesse affrontato la generalità delle possibilità che l'evoluzione della Scienza sta offrendo all'Umanità , come pure l'insieme dei problemi cruciali che affliggono quest'ultima e che in qualche modo "debbono essere risolti", sicuramente la richiesta di " riconoscimento di autorità" fatta a nome degli esperti di bioetica, sarebbe apparsa subito come improponibile, anche alla stessa classe medica, per l'evidente analogia con le altre problematiche esistenziali. Si veda ciò che è successo nel campo nucleare o dell'agricoltura con i fitofarmaci e così via.
In secondo luogo non vi appariva evidente, come avrebbe dovuto essere, la differenza tra Scienza e Tecnologia, comportando queste aspetti e prospettive etiche che sono in realtà, completamente diverse tra loro. Infatti l'assunzione di un'etica di responsabilità nell'uso della tecnologia è, di fatto, già accettata dalla morale corrente come deontologia e, caso mai, dovrebbe essere difesa più energicamente in considerazione dei troppi casi di insufficienti prese di posizione della categoria.
Ma soprattutto inaccettabile era la sua rivendicazione di un'etica di responsabilità che discendesse direttamente dalla Scienza, e questo è il vero problema. Innanzitutto la Scienza, per l'inalienabile rigore della sua ricerca nella conoscenza della realtà, non è in grado di suggerire ciò che l'uomo può o non può fare. Tra scienza e ricerca di un significato della vita, compreso quella del medico bioetico, c'è un abisso di incomunicabilità razionale.
E' stato sempre compito delle religioni e delle filosofie gettare un ponte che scavalcasse questo abisso e collegasse la realtà che è fuori di noi a ciò che è nel più profondo di noi stessi.
Ma ora che entrambi sono in crisi o non danno più risposte soddisfacenti o esaurienti, sarebbe assurdo continuare ad evitare l'abisso, praticando la via o della non-scienza o della non-etica invece di scavalcarlo.
Sono venuti meno i punti di riferimento classici.
Perché ho affermato che le Religioni e le filosofie sono in crisi?
Essenzialmente perché il corso epistemologico della mente umana sta gradatamente riportando, secondo il processo già concepito con il Rinascimento e iniziato con l'Illuminismo, il problema del significato della vita umana da una domanda al mondo metafisico alla realtà che ha, che deve avere, che non può non avere in sé stessa le tracce della propria creazione; e quindi quelle risposte sconosciute e forse “inconoscibili” che l'Uomo nel frattempo può solo supporre, chiamandole in vario modo Verità, Conoscenza, Gnosi.
Di fronte a questo processo le religioni, possono anche illudersi di ricavare ancora energia dal bisogno di sicurezza di una umanità disorientata, ma la tendenza quasi generalizzata al fondamentalismo è una prima denuncia di allarme. Quando parlo di religione, dovrei chiarire che mi riferisco, in prima battuta e per tradizione familiare, alla Chiesa cattolica; ma chiarisco subito che nel mio ragionamento sono comprese, per similitudine epistemologica, anche quelle come l'ebraica e mussulmana, che prendendo a fondamento le rivelazioni codificate nel "libro", si sono di fatto costituite come autorità non solo spirituali ma anche sociali, essendosi inserite come elementi di identità anche nelle specifiche culture o etnie. Questa loro autorità, così tenacemente difesa nella loro specificità, proprio quando la realtà denuncia l'esistenza di una legge naturale della vita di carattere universale, non è più sostenibile, per cui essa è sempre più rimessa in discussione proprio dal suo interno.
E' realisticamente illusorio il pensare che una sola delle religioni che si contendono l'autorità della verità, possa salvare il mondo quando c'è un'altra metà del pianeta che crede piuttosto nelle capacità dell'uomo. Ed è questa seconda metà che possiede la scienza. (senza tener conto poi di quelli che credono esclusivamente al caso!)
La ragione della seconda affermazione è tratta dall'attuale problematica culturale che sta investendo attualmente la filosofia classica, che peraltro era stata la culla, almeno fino al XVII secolo, sia dell'etica che della scienza stessa. Si sta infatti costatando un progressivo dissolvimento del suo ruolo in ogni campo abbia voluto fare a meno del supporto dei mezzi propri della Scienza. E' proprio di questi tempi il suo mesto costatare che, dopo il fallimento delle sue ultime ideologie, anche nel campo della metafisica non è più in grado di sostenere validamente alcun modello sia di fronte alla "rivelazione" biblico-cristiana, sia contro il nichilismo nicciano.
Per cui nessuno si aspetta più che debba essere la filosofia classica a dirci che cosa è la realtà e come essa sia strutturata e strutturabile.
Di fronte a queste due crisi, ora è la Scienza ad essere chiamata sempre più insistentemente ad assumersi un compito determinante e da protagonista; ma anche questa tendenza nasconde in sé un pericolo enorme: si tende ad ignorare infatti, (scambiandola ancora una volta per tecnologia), che essa non potrà mai tradire il suo stretto rigore e quindi non potrà mai assumere compiti che vadano al di là di una razionalità dimostrabile empiricamente (vedi nota B a fondo testo). Perderebbe infatti automaticamente quell'alto livello di considerazione che si è guadagnato agli inizi de secolo e che va sempre più consolidandosi da quando sta tentando di organizzarsi in una forma unitaria ed unificata della conoscenza.
Ma che cosa è allora questa Scienza? come possiamo definirla?
A proposito io posso citare l'Istituzione a cui appartengo ed il relativo metodo di lavoro con il quale ho costruito la mia mente e la mia anima. La Massoneria di Rito Scozzese Antico ed Accettato è sensibile, e deve esserlo in concreto di più, alle verità della Scienza se la scienza è ciò che migliora noi stessi. Ed in tal senso, attraverso i suoi simboli, in particolare la Scala della Conoscenza, definiamo Scienza ciò che ci porta, attraverso i secoli, ad interrogare sia l'infinito dell'Universo e le incommensurabili profondità del microcosmo che gli abissi e le qualità del nostro spirito. Ed è Scienza anche ciò che affina gli strumenti della nostra ricerca e le capacità di applicarle a tutta la specie umana ed alla natura in cui vive, per cui diventa Scienza anche la capacità di cogliere la realtà sociologica del vivere umano per costruire, partendo dai dati particolari dell'analisi3, modelli strutturali più affinati e complessi, e seguirli costantemente per verificarne l'esattezza. E soprattutto è Scienza, la più alta, quella che scopre ed imposta con gli strumenti più avanzati, come l'altissima matematica, (il sommo degli strumenti dell'uomo, quello che più l'avvicina al Dio Creatore) sempre nuovi modelli e nuove sfere di validità del pensiero umano. Se ad ogni grado di questa Conoscenza si è anche in grado di adeguarvi l'etica dell'Uomo, come è metodo dell'Arte Reale, si potrà dire che Scienza, Filosofia e Fede appartengono ad un'unica sfera, la più alta, dell'essere dell'Umanità e la fa essere veramente simile a Dio; (simile al Dio Creatore che è lo stesso centro di tutte le credenze, mentre le sue diversità non possono stare altro che nella mente dell'uomo!)
Pertanto, tornando al Manifesto di Bioetica laica, ci è sembrata errata anche la sua scelta del di porre il problema nell'ambiguo dilemma: Religione-Laicità, ossia Dogma-Ragione. Come non esiste una filosofia omologata altrettanto non esiste una visione laica che possa parlare a nome di tutti quelli che "non credono nelle Chiese": il nulla, il caso, il caos, i dogmi, l'inizio dell'esitenza della materia e la fine dell'uomo, sono soltanto idee che da sempre hanno motivato, nel bene e nel male, la nostra vita. Nel frattempo però, l'uomo, perseguendo una rinata fede in sé stesso, si è evoluto non solo tecnologicamente ma anche in senso epistemologico; la matematica è diventata il suo sesto senso e ciò gli ha permesso di concepire e sperimentare ipotesi e modelli sempre più complessi, gestiti in modo pluridisciplinare ed ipergenerazionale, per avvicinarsi ad una possibile verità non solo fisica ma anche metafisica; una verità nel suo divenire, definibile simbolicamente come "Conoscenza" nel processo: conoscere-Scienza-Conoscenza-Etica-responsabilità.
Occorre fissare nuovi punti di riferimento, nuovi paradigmi.
In sostanza tra la verità che può offrirci la Scienza, e solo la Scienza, e l'etica della persona che intende assumersi la responsabilità di Uomo, sta proprio la Gnosi, il simbolo di ogni Conoscenza, di ogni razionalità epistemologicamente concepibile, tendente, con continuità, verso il suo telos, verso l'Armonia. E' proprio un simbolo e non una verità, cioè il simbolo della gnosi, la funzione-ponte che può catalizzare la simbiosi delle due massime capacità naturali che distinguono l'uomo da tutte le altre specie animali: il conoscere e la responsabilità. Il conoscere che porta alla Scienza, da una parte, e la responsabilità che discende dall'etica. Quindi, per usare un simbolo specifico e quindi meno equivoco, il paradigma diventa: conoscere-scienza-Gnosi-etica-responsabilità
E questa immagine di due mondi incomunicabili tra loro se non attraverso il simbolo definito come gnosi, e quindi la strutturazione di questo collegamento senza del quale il processo non avrebbe continuità logica, è ciò che in fondo costituisce il filo di questo ragionamento.
Ciò definito, il prossimo passo per una possibile soluzione del problema ( o strategia per l'obiettivo che ci siamo proposti...) è l'interpretazione dei dati che ci offre la nostra sete di conoscere, il nostro istinto ad indagare, nel campo bioetico e no, per definire una nuova gnosi, una conoscenza proiettata non solo nella ragione ma anche nell'anima, una verità da mettere in azione come idea di ciò che è giusto o non lo è; un'immagine appena intravista dell'anima dell'Umanità; un telos per cui la vita possa acquistare un significato.
L'idea di Giustizia tra Libertà e Responsabilità
Con questa esperienza e per iniziare questa ricerca etica comune, universale o umanistica che sia, o contribuire a ciò che altri hanno già iniziato, sento ora di dover impegnare sempre più le profondità del mio essere "persona" per ritrovarvi un primo principio elementare sul quale tutti potremmo anche essere d'accordo; un principio più a monte di ogni altro affinché, sulla base di quanto detto precedentemente, esso riguardi l'uomo preso come appartenente ad una specie umana, nel momento in cui questa deve fare i conti con sé stessa, indipendentemente da come venera il Dio che l' ha creata. Da questa fonte ne scaturisce un paradigma (illuminista?) articolato in quattro affermazioni:
-Ogni uomo ha "significato" non per il suo essere vivo in un piccolo lampo di tempo fuggente nell'Universo, ma solo per la sua capacità di scegliere, in ogni istante, tra l'Essere ed il Nulla"
Il concetto di Uomo non ha senso al di fuori del concetto di Anima Universale, perché significherebbe rifiutare il suo passato ed il suo futuro, arrendersi ineluttabilmente al principio della Morte: la diversità antropocentrica tra gli uomini pesa tuttavia sul presente e sulla loro libertà di scegliere il proprio destino e ipotecare il futuro.
-Solo gli uomini possono affermare ciò che è giusto e ciò che sarà giusto;
ma debbono imparare prima ad amarsi per riconoscere l'atto di giustizia in sé stessi. Solo essi hanno il potere dell'atto equilibrante ed armonizzante; ma debbono prima capire che solo nella tolleranza si può riconoscere l'armonia. E cosi scorrendo di generazione in generazione.
Fino a quando? L'uomo può avere una speranza: l'ultima scelta sarà quella della Giustizia definitiva, la Grande Opera, e forse Dio farà finalmente ciò che l'Anima Universale dell'Uomo gli ha chiesto. Alternativa a questa speranza è la certezza della Morte. Le religioni non si illudano e non continuino ad illudersi: con la distruzione o la degenerazione del pianeta nessuna "anima" si salverà.
-La scelta di ciò che è giusto è nella libertà degli uomini del presente.
Se solo gli uomini possono affermare ciò che è giusto, qual è la vera Giustizia?
La risposta è sicuramente nel cuore degli Uomini, di tutti, ma essi non sanno ancora leggervi. Certamente la Conoscenza del presente si dibatte tra supposizioni escatologiche ed evoluzioniste che sono partite da ipotesi molto, molto lontane tra loro. Se e quanto comincino a convergere è ancora impossibile a dirsi.
Certamente, partendo dalla ipotesi plotiniana per la quale tutte le cose, tutte le leggi fisiche, tutti i principi e concetti sono tra loro interconnessi nell'Universo, è ragionevole pensare che solo nel loro Equilibrio e nell'Armonia cosmica l'uomo possa trovare il suo vero Io. E' quindi da questo Equilibrio e Armonia che potrebbe derivare il concetto di Giustizia. Questa risposta dell'Uomo, per la verità, potrebbe non essere un fine ultimo, ma potrebbe comunque essere una meta necessaria; per lo meno l'unica, come opzione, che abbia una validità razionale.
-La realizzazione di ciò che sembra giusto è nella libertà degli uomini del presente.
Anche se l'uomo fosse sicuro che questa fosse la Verità, non vorrebbe vederla e tantomeno accettarla. Allora questa Verità "in azione" va difesa. A questo scopo nel passato era tenuta nascosta, affinché non venisse distorta dall'"uomo di fango" che non sa riconoscerla. Essa era il Segreto che i pochi "uomini di luce" (liberatisi dal fango) dovevano proteggere; ma anche, seppure in qualche modo, proporre agli altri, affinché si compia il dovere degli uomini del presente . Ma come?
Anche per questa strada, dunque, si arriva alla stessa domanda conclusiva: come?
La prima reazione a questa domanda, reazione istintiva di chi "conosce", "vede" o "crede di conoscere, di vedere" non un'Utopia, ma una Verità, non può essere altra che quella di estrarne, con la ragione, le verità divenute progressivamente razionalizzabili per trasformarle continuamente in principi di giustizia leggibili da tutti.
Esperienze, principi fondamentali, enunciazione di diritti, punti di riferimento, condanne dei comportamenti irrazionali, concetti tutti da proporre, discutere, vivere con gli altri.
Il pluralismo dei contesti
Se questa è la via che a me sembra percorribile, altri la pensano ovviamente in modo diverso.
Ma come è possibile arrivare ad un'unica interpretazione quando noi stessi siamo convinti che il pluralismo delle verità sia un valore insopprimibile?
Qui entra il gioco il meccanismo funzionale di due categorie importantissime del conoscere: la critica ed il giudizio, ognuna delle quali ha le sue regole che l'attuale civiltà consumistica e la radicalizzazione dei suoi nemici stanno gradualmente assopendo con il pericolo di farle dimenticare.
Il diffondersi del pensiero critico è indispensabile in ogni fase di necessaria analisi, ma il suo disperdersi diventa negativo quando si giunge al momento di costruire. Chi appartiene ad una Tradizione di lavoro che guarda sempre al di là del contingente e costruisce per convergenza delle coscienze, e che quindi ha tutta l'esperienza vissuta nei propri laboratori-Logge, lo sa molto bene quale può essere la strada da seguire. Ma sa anche che occorrono dei valori a fondamento ed un arte, che per brevità possiamo esprimere simbolicamente come l'arte dei costruttori di cattedrali: valori molto elementari per essere condivisi da tutti ed il dialogo continuo tra le libertà di pensiero individuali; critica individuale e giudizi che, pur rimanendo sempre soggettivi, fluiscano tuttavia in un mondo delle idee che vive come un'anima virtuale della loggia, di un contesto o di una società.
Anche le religioni hanno la loro propria anima virtuale , il loro popperiano "mondo 3", e queste, dal momento delle rispettive rivelazioni di 2 , 3 mila anni fa, sono arrivate ai tempi presenti in qualche modo, comunque sempre gestite, generazioni per generazioni, da uomini, seppure "uomini di luce", ma sempre uomini e non dei.
Ritornando all'esperienza del Manifesto - per riprendere l'uso specifico della sua metafora - molti sono stati, dunque, i contributi costruttivi pervenuti; ne vorrei citare soltanto due tra quelli che mi sono sembrati più significativi ed aperti verso un bisogno di cambiamento.
Il primo, del Prof. Dott. Riccardo Venturini (Medico-chirurgo - Ordinario di Psicofisiologia clinica all' Università degli studi "La Sapienza" di Roma - membro della Direzione della Fondazione Maitreya ,Istituto di cultura buddista) , invita a riflettere sul fatto nuovo rappresentato oggi dal contributo delle scienze umane (dalla psicologia al diritto, all'antropologia culturale,ecc.) in quanto queste, non potendo non interessarsi ai principi ed ai valori a cui la condotta si inspira, sembrano in grado di offrire una possibilità di superamento delle contrapposizione tra etiche religiose e quelle laiche, per confluire in quella che lui propone di chiamare "etica umanistica". Questo processo si giustifica con il fatto che le organizzazioni sociali persistono ancora a strutturarsi in modo da mettere in conflitto le norme necessarie alla sopravvivenza della società con quelle universali necessarie al pieno sviluppo dei suoi membri.
Egli ricorda come tutte le principali culture “hanno già evidenziato che i sistemi etici universalistici mostrano notevoli simiglianze nell'indicare nel superamento dell'egocentrismo dell'io separato (in tutte le sue articolazioni: dall’indifferenza all’antagonismo e all’ostilità) la via per soddisfare il bisogno di senso e realizzare esperienze di sempre più larga unità con la Vita e con gli altri, pensando e agendo in modo "uni-verso". Da questo superamento la condotta morale risulta spontaneamente come necessità connessa allo sviluppo delle coscienze.
Depurati da dogmatismi e autoritarismi, gli insegnamenti delle grandi tradizioni sapienziali possono e debbono essere recuperati e pienamente inseriti nella nuova visione umanistica della vita”. Sulla base di questa autonomia individuale, di questa libertà di scegliere sui criteri della propria personale scelta etica “è possibile allargare la sfera del rispetto della vita con l’inclusione degli aspetti soggettivi, cioè di ciò che si usa chiamare qualità della vita, e di cui fanno certamente parte la liberazione della sofferenza, l’empatia e la compassione, la difesa della libertà di esprimere e praticare valori diversi”.
Per altro verso Lino Rizzi - Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Gregoriana di Roma -, dal momento che un'etica laica, definibile come etica pubblica condivisibile, non può prescindere dalle ragioni più profonde, comprese quelle religiose, che sole possono mettere in gioco sé stessi pena l'apatia, indica “la terapia nel concetto di Rawls del "consenso per intersezione". Ossia in una società pluralista gli attori entrano in rapporto tra loro ciascuno con le proprie credenze. Essi "possono" pervenire ad una decisione condivisa a due condizioni :
1) che nessuno dei partners chieda all'altro di rinunciare alla propria identità:
2) che ciascuno eserciti verso il suo personale ideale una sospensione di validità , che si interroghi con le ragioni dell'altro.
Quindi una cittadinanza morale è rispettosa degli ideali di ciascuno”.
Entrambi, in sostanza, hanno messo in evidenza, seppure per strade diverse, la possibilità di ricercare "per intersezione" o per massimo comun denominatore, come penso personalmente, la necessità di un colloquio tra culture e contesti diversi.
Ma hanno anche ammesso la necessità che sia i contesti religiosi che laici, siano critici con sé stessi, in fondo ammettendo che per quanto metafisici siano le loro fondamenta o le loro verità sapienziali, comunque le relative interpretazioni sono sempre operate dall'uomo e quindi disponibili al confronto entrando ognuno nella mente dell'altro.
Peraltro l'intervento del Buddista ha messo in luce un elemento in più (che dimostra quanto in fondo pur partendo da punti di vista diversi si arriva a conclusioni comuni: ): la necessità del superamento dell'io egoista, che in fondo è l'operazione che avviene nell'apprendista delle logge massoniche. E che parimenti è stato il punto di partenza del selvaggio illuminista di Rousseau, come dell'Io "unico" proprietario di sé stesso di Max Stirner. Egocentrismo spinto fino alla più profonda conoscenza di sé stesso e delle relative proprietà fisiche e spirituali, come punto di partenza e metro di confronto per costruire una morale spontanea basata sul riconoscimento agli altri delle stesse proprietà che si riconoscono per sé. Ma superamento che è possibile solo se si percorre liberamente e con metodo, la strada che i maestri insegnano. Ovviamente i processi relativi sono infinitamente più complessi ed articolati, ma questa fase del cammino dell'umanità sembra dimostrare una volta di più che si può superare l'attuale disordine etico e la relativa anomia asociale solo con la rivalutazione dei contesti di ogni tipo, religiosi o laici, purché dotati di tradizione e di volontà di rispettarsi e conoscersi reciprocamente, rimanendo comunque ognuno diverso dall'altro.
Ho parlato di necessità di tradizione e questo per un motivo tipicamente illuminista: il metodo di lavoro, l'arte del saper costruire ognuno la propria cattedrale, trasmessa di generazione in generazione come un mestiere, rappresenta il vero principio della crescita generazionale dei singoli contesti e quindi della società, come la scienza evoluzionista-adattativa, dopo tre secoli, continua a dimostrarne la fondatezza, anche dal punto di vista bioetico. Nel contesto e nella tradizione cui appartengo questo principio è rappresentato dalla catena d'unione, "QUI QUASI CURSORES VITAE LAMPADA TRADUNT", e questo simbolo può diventare, non solo per noi, ma per tutti, quello fondante di una nuova etica sociale. La capacità del superamento dell'io proiettato verso il futuro è anche, come abbiamo già detto, la nostra responsabilità verso le generazioni future. Sarebbe illusorio conservare per loro l'ambiente ecologico o migliorare la capacità di allungare la nostra vita o soffrire meno se non daremo loro anche la stessa capacità e libertà di scegliere tra l'essere ed il nulla, che chi c'era prima di noi ci ha conquistato e che ancora abbiamo.
L'etica e la società.
Se infine tutte le affermazioni che abbiamo fatto, che vanno dalla responsabilità di fronte alle generazioni future
alla necessità che i singoli contesti culturali facciano uno sforzo per confrontarsi ed imparare a dialogare tra loro,
all'individuo che acquistata consapevolmente la propria libertà naturale superi sé stesso (rinascita) per realizzare quella condotta morale che, anche attraverso i valori dei propri contesti, rispetti gli altri, e se tutte queste affermazioni vengono poste sul piano sociale, ci accorgiamo di essere arrivati ad un altro punto cruciale: punto che è poi determinato dall'incrocio equilibrante di due ordini di problemi che di fatto hanno animato ogni politica ed ogni cultura delle ultime generazioni:
-Il conflitto tra deboli e potenti e la questione morale intesa quest'ultima come crescita della società civile attraverso l'autorità della legge e dell'apparato o attraverso la crescita dei cittadini. Questi due conflitti sono risolubili solo attraverso due vie: quello della solidarietà e quella dell'armonia.
Mi accorgo di aver usato termini il cui significato può essere diverso secondo i contesti in cui vengono usate e quindi penso che siano utili delle precisazioni.
-La solidarietà a cui ho fatto riferimento non è certamente il termine usato per affrontare problemi quali quello delle pensioni o delle lotte sindacali e così via. Occorre andare alla sua accezione più generale e naturale quale può essere, ad esempio, nel campo del lavoro lo spirito che deve unire tutti gli operatori di questa naturale attività dell'uomo. Quindi composizione cosciente a livello individuale dei conflitti tra imprenditori e subordinati. Le loro reciproche funzioni non sono antitetiche nei confronti della società ma complementari tra loro ed hanno le stesse responsabilità nei confronti dei terzi. Già 100 anni fa Durkheim aveva avanzato queste ipotesi, subito soffocate dal marxismo e dal liberismo di Torqueville; è urgente ripensarci, almeno a livello europeo.
- L'armonia molto spesso viene erroneamente assimilata all'ordine. E' invece quella sottile linea, per sua natura instabile, che separa l'ordine dal caos. Nel campo sociale l'ordine è rappresentato dall'apparato che diventa forte soffocando la libertà del singolo cittadino, diventando terreno di sviluppo di una giustizia che legalizza le disuguaglianze, come denunciava Rousseau.
Viceversa il caos prende origine dall'io proprietario assoluto di sé stesso, profetizzato da Stirner, il quale non avendo ancora maturato, o non volendolo fare, le problematiche del vivere insieme, permane nello stadio egoistico diventando terreno di sviluppo dell'anomia e del disordine sociale. La stabilità dell'armonia è condizionata dall'esistenza o meno di una morale regolata attraverso la ritualità e da quanto questa stessa ritualità sia ricca di elementi sacri.
E quindi il sacro. Dove per sacro non si intende una funzione esclusiva dell'anima religiosa, ma una categoria della mente che sente la necessità di proiettare, di sacrificare il proprio io su dei valori che la trascendono e sui quali arde il fuoco di un esistere comune. Per un significato così alto, chiaramente condivisibile in modo solidale ed armonico per cui "conviene" anche a chi si sente completamente libero, concedere anche agli altri ciò che si attende per sé stessi.
Ecco quindi che il sacro diventa una categoria insopprimibile anche nei momenti in cui sembra prevalere il freddo regno della pura razionalità, poiché si collega, in modo articolato, all'etica condivisa. Si chiude quindi il ciclo del "conoscere, come razionalità rigorosa della scienza" -"articolazione della gnosi" - "etica espressa in fondazioni di sacralità" ed infine "responsabilità dell'agire nella spontaneità del proprio essere, liberi anche dalla propria volontà".
Soltanto tenendo presente anche queste definizioni è possibile riaffrontare radicalmente, al di fuori di qualsiasi ideologia politica o qualsiasi comandamento proveniente dalle religioni, i cardini della società che sono la famiglia, la scuola il lavoro.
-Sacra è la famiglia, laicamente sacra, quando svolge la funzione vitale della procreazione e crea intorno al fanciullo (che percepisce esclusivamente il linguaggio dell'emozione e dell'affetto) quell'armonia che sola può permettergli di fare, nella piena sua libertà, la sua prima scelta etica.
Come avviene quando la Loggia lavora in grado di Apprendista.
-Sacra è la scuola: perché è un cammino iniziatico che il fanciullo percorre per diventare adulto. E' un cammino che inizia quando le prime scelte morali del fanciullo coincidono con il verde formarsi della sua razionalità e quindi la scuola deve dare prioritariamente la possibilità di inserire armonicamente e con fiducia l'essere etico del fanciullo nel primo contesto che incontra, varcando le soglie della sua famiglia, qual è appunto la scuola.
La scuola è dove il giovane studente deve imparare a lavorare su sé stesso senza condizionamenti per diventare uomo libero e responsabile prima che specializzato
E quindi, in una società oltreché tecnologica fortemente tecnocratica, prima delle attitudini professionali essa ha il dovere di sviluppare la capacità critica e l'arte rituale della partecipazione allo sviluppo dei giudizi comuni. E infine deve dare modo ad ogni giovane di sperare che il mondo del lavoro, non solo soddisferà le sue aspirazioni esistenziali ma continuerà anche ad arricchirlo di quella cultura dell'anima e della mente di cui ha bisogno.
E' quindi ovvio che il ruolo degli insegnanti debba essere caratterizzato da una vocazione di tipo soprattutto etico, quale quello di "maestri" liberi e coscienti della propria responsabilità, piuttosto che "ufficiali" del dovere deciso altrove. Funzionalmente è a loro che spetta aiutare i futuri adulti a scegliersi il proprio cammino nella piena libertà "naturale" di sé stessi.
Pertanto la scuola è sacra al pari della famiglia, e del successivo mondo del lavoro, purché essa sia metaforicamente come un tempio nel quale si svolga una cerimonia rituale dove si fondono armonicamente due generazioni, discepoli e "maestri", in un continuo susseguirsi di successione dei ruoli, come una catena, una tradizione che si evolve incessantemente; come avviene quando la Loggia lavora in grado di Compagno.
-Sacro è il mondo del lavoro: La cooperazione per l'acquisizione del cibo è uno dei principi biologici insiti naturalmente nella specie umana e che ne caratterizzano la differenza rispetto agli altri animali del Pianeta. L'uomo, da quando ha acquisito l'idea lineare del tempo, l'ha istituzionalizzata come lavoro; e se questo lavoro avviene nella fraternità, esso acquisisce pari dignità della solidarietà parentale, che costituisce la base dell'etica. E' il lavoro, assieme alla difesa istintiva del gruppo, che ha predisposto l'uomo alla socialità: anzi da sempre ne costituisce la motivazione portante. Tuttavia, affinché questo paradigma naturale assicuri l'armonia di una società giusta, occorre che la relativa solidarietà sia concepita senza alcuna discriminazione, in modo razionale, verso tutti gli altri individui e questo atteggiamento di reciprocità deve partire liberamente da una scelta interiore della persona che dona, nel modo migliore, quella parte di sè stesso che giustifica il suo associarsi con gli altri: appunto, il suo lavoro.
E' il lavoro che crea la libertà della persona proprio nel momento in cui si innalza al livello di espressione della vera natura della persona stessa, dopo che questa sia stata sacralmente purificata da ogni peso egoistico. Da questa velocissima considerazione risalta il notevole ritardo in cui viene a trovarsi la società laica nella concezione del lavoro, inteso soltanto come "fatica dovuta" al diritto di sopravvivenza anziché libera espressione della natura dell'uomo. La solidarietà nell'impresa, invece, dovrebbe essere concepita come collaborazione conveniente tra tutti i suoi operatori in tutte le sue funzioni finanziarie, intellettuali e manuali, come già avviene, spontaneamente ed al di fuori delle regole gerarchiche tradizionali, nelle piccole imprese a carattere familiare o artigianale. E tutto ciò è perfettamente compatibile sia con le leggi del libero mercato che con la libertà di scelta lavorativa di ogni cittadino. Ma poiché, come abbiamo detto, il presupposto di questo modello è proprio la concezione "della persona che si realizza nella socialità", una società avanzata dovrebbe allargare l'organizzazione strutturale del lavoro anche ben al di là dei limiti imposti dalle leggi dell'economia, offrendo ai cittadini tutte le opportunità possibili, libere e pluralistiche, per la loro continua crescita professionale, culturale ed interiore. Il lavoro è, allo stesso tempo, etica esistenziale e nutrizione dello spirito; opportunità di dialogo, di partecipazione e trasmissione della memoria e del senso comune.
Lavorare è, in sostanza, essere persone presenti nella molteplicità, come avviene quando la Loggia lavora in grado di Maestro.
Ed infine sacro è l'individuo nella semplice definizione che gli è stata riconosciuta dall'art.1 della dichiarazione dei Diritti dell'Uomo. E' una sacralità, la sua, che deve vedere ancora riconosciuti troppi dei suoi diritti. Tanto per ritornare al punto di partenza di questo tema sulla bioetica, si dovrebbe parlare ancora di aborto, di eutanasia, degli anziani, dei rapporti tra medicina e malati, di equilibrio tra screening di massa e diritti alla riservatezza, e così via. Ma occorrerebbe soprattutto ritornare, ancora più a monte, al significato originale di Bioetica intesa soprattutto come equilibrio globale tra Uomo e Natura.
Ma ci sono le condizioni per farlo? I processi di definizione bioetica, tuttora in corso, possono riscuotere la nostra fiducia? Sono fondati sugli stessi principi etici in cui noi crediamo? Esiste già una loro condivisibilità sufficientemente estesa, ben al di là cioè dei semplici meccanismi valutativi delle democrazie politiche?
Conclusioni sulla società
Se la strada che l'uomo percorre nel tempo deve passare attraverso un fase di riflessione planetaria, io penso che sia giunto il momento in cui l'originale tradizione illuminista rompa l'intreccio culture-poteri di quest'ultimo secolo di fine millennio, e riprenda la propria strada riaffidandosi ad un paradigma razionale (nel senso che sia comunicabile e comprensibile universalmente) come ci hanno insegnato Rousseau, De Condillac, Kant, Darwin, Max Stirner, Durkheim, Simone Weil, Hanna Arendt, Popper ed altri per non citare i viventi. Solo per questa via è possibile reinterpretare la nuova realtà riconosciuta e ridefinire la nuova etica conseguente, in tutta la complessità delle loro matrici. Infatti la nuova scienza della complessità, che peraltro dovrebbe essere ben nota a chi opera nel campo della microbiologia, sta dimostrando come ogni minima interazione tra gli agenti di un modello complesso o tra gli stessi e l'ambiente esterno, può influire in modo del tutto imprevedibile sui suoi sviluppi, anche sulle generazioni a venire: per cui l'etica di responsabilità non è una nobile facoltà di pochi ma un dovere di tutti; non sono alcuni uomini che debbono crescere subito, ma tutta l'Umanità, gradatamente, molto lentamente, nei secoli.
Così le grandi Utopie illuministiche tornano (o possono tornare) ad essere leggibili, questa volta come modernissimi modelli di "complessi processi evolutivi di tipo adattativo"3.
Alle soglie del 2000 questo sembra essere il vero problema: o si salva tutta l'Umanità o si scompare tutti assieme.
Castelli Adolfo
Note
1)- Il dibattito internazionale sulla bioetica sta registrando due eventi importanti. Il primo è il documento Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità degli esseri umani nei riguardi della applicazione della biologia e della medicina, adottato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 19 novembre 1996 e che sarà aperto prossimamente alla firma e alla ratifica degli Stati membri del Consiglio, e di Australia, Canada, Santa Sede, Giappone, Usa. Il secondo è la versione preliminare della Dichiarazione universale sul Genoma umano e sui diritti dell'uomo elaborata dal Comitato internazionale di bioetica dell’UNESCO lo scorso dicembre. (Per fonte e maggiori particolari ved. nota A - a fondo testo)
2)- Analisi alimentata anche dalle testimonianze di eccezionali interpreti della realtà che con il loro spirito iniziatico e profetico ed una totale dedizione della loro vita hanno saputo precorrere i tempi.
3)- Vedi le ricerche sui modelli complessi di J.H.Holland riportati su "Complesità" di Waldrop
Note fondo testo
Nota A - ( da "Il dibattito sulla bioetica Un equilibrio tra rischi e benefici" di Angelo M. Petroni Da Il Sole 24 Ore del 2/03/1997.:
"Il dibattito internazionale sulla bioetica registra due eventi importanti. Il primo è il documento Convenzione per la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità degli esseri umani nei riguardi della applicazione della biologia e della medicina, adottato dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 19 novembre 1996 e che sarà aperto prossimamente alla firma e alla ratifica degli Stati membri del Consiglio, e di Australia, Canada, Santa Sede, Giappone, Usa.
Il secondo è la versione preliminare della Dichiarazione universale sul Genoma umano e sui diritti dell'uomo elaborata dal Comitato internazionale di bioetica dell’UNESCO lo scorso dicembre.
Il primo documento parte dall’assunto che "l'interesse e il benessere dell'essere umano deve prevalere sul solo interesse della società o della scienza". Questo principio generale guida le prescrizioni della Convenzione nelle questioni relative alla terapia medica; alla ricerca scientifica effettuata su persone; all'espianto di organi da persone viventi; all'intervento sul Genoma umano. Nei primi tre campi, il principio si traduce nella prescrizione che deve sempre esservi il consenso informato da parte degli individui interessati "riguardo allo scopo e alla natura dell'intervento, come pure delle sue conseguenze e i suoi rischi". Ma questo consenso non deve essere interpretato nel senso che all'individuo deve venire fornita conoscenza anche al di là di quella che egli desidera. Esiste anche un diritto a non essere pienamente informati, se così si vuole.
Nel quarto campo, il principio si traduce nella prescrizione che ogni intervento che tenda a modificare il Genoma umano dev'essere condotto per scopi preventivi, diagnostici o terapeutici "e soltanto se il suo scopo non è quello di introdurre una qualsiasi modificazione nel Genoma di un qualsiasi discendente". Sono quindi proibiti gli interventi volti a modificare le caratteristiche genetiche non legate a malattie.
La Convenzione vuole con ciò stabilire delle regole che permettano di evitare che sorgano contrasti tra i diritti fondamentali degli individui e la libertà di ricerca in campo medico e biologico, che è un valore in sé e insieme ha valore strumentale per la salute e il benessere degli stessi individui.
Da un analogo riconoscimento parte la Dichiarazione dell’UNESCO: "La ricerca, che è necessaria per il progresso della conoscenza, è parte della libertà di pensiero. Le sue applicazioni, specialmente in biologia e in genetica, devono alleviare le sofferenze e migliorare la salute degli individui e il benessere dell'umanità nel suo insieme". Ma proprio questo concetto di "umanità nel suo insieme" stabilisce una linea di differenza netta rispetto alla Convenzione del Consiglio d'Europa. Infatti, per la Dichiarazione dell’UNESCO, "il Genoma umano è eredità comune dell'umanità. Esso sottende la fondamentale unità di tutti i membri della famiglia umana, come pure l’essenziale dignità di ognuno dei suoi membri...il Genoma di ogni individuo rappresenta una specifica identità genetica". La prospettiva è qui nettamente più olistica. Il Genoma umano, infatti, non è un’entità concreta, quali sono gli individui che nascono, vivono e muoiono, ma è un’entità astratta, frutto dell’elaborazione scientifica. Qui invece viene trattato come se fosse "una sostanza" che si "individualizza" nelle singole persone. ... "
Nota B - Ad esempio, il dibattito cattolico a livello teologico sta forse riscoprendo la necessità di un cauto e lento ritorno dal dogmatismo alla razionalità: si possono citare a testimonianza di ciò sia le esperienze altamente illuminanti di S.Weil, di Bonhofer, dello stesso Padre Balducci, sia le aperture chiaramente affioranti dai convegni 95-96 del Centro Agostiniano di S.Spirito a Firenze, dedicati all'Homo Viator. Nel saggio di Chiara Ronchetti su "Fede e Filosofia" è venuta prefigurandosi, attraverso la testimonianza di 8 filosofi cattolici, una "filosofia cristiana" fondata sull'uomo integrale, in quanto ragione, volontà, sentimento, amore, e cosi via. Quindi una filosofia posta tra Scienza e Fede. Dice Evandro Agazzi (pag.55):
"Una certa comprensione razionale di ciò in cui crede è necessaria ad ogni individuo umano nella misura in cui egli è di natura razionale. Non si vede infatti come mai si dovrebbe escludere dalla sfera religiosa proprio quella caratteristica ontologica dell'uomo, che lo fa diverso e superiore rispetto agli altri esseri del creato". Ragione e fede non si escludono a vicenda, dunque, né sono incompatibili. Là dove inizia "l'iperrazionale" la ragione si ferma senza con questo smentirsi, ma cosciente della propria funzione e quindi anche del proprio limite.
E Dario Antiseri, preoccupato della progressiva debolezza di attacco e risposta ai problemi di oggi, degli strumenti concettuali della Chiesa cattolica, forgiati prevalentemente dalla cultura tomistica, si domanda "se non sia più adatta, per il cristiano, una filosofia di ascendenza kantiana la quale, piuttosto che fondare la fede, fa spazio alla fede. Non è forse migliore concordismo una filosofia che apre alla fede piuttosto che una filosofia che non riesce più a dimostrare né l'esistenza di Dio né l'immortalità dell'anima?".
Nota C - Vorrei citare a proposito Norberto Bobbio il quale recentemente, sulla rivista Micromega 96 -"Almanacco di filosofia", ha fatto due considerazioni : "da una parte non esiste più la Filosofia, ma molte filosofie; dall'altra non più molte scienze, ma la Scienza (La quale tende ormai ad unificarsi su pochissme teorie fondamentali parziali: la teoria generale della relatività, la meccanica quantistica. la teoria della complessità ed il cosiddetto "dogma centrale della biologia molecolare"). Corrispondentemente la filosofia dalla "ragione universale" si frantuma verso il "fatto personale", mentre la scienza, dai "dati particolari" sale, o pretende di salire, alla "ragione legislativa".
E nel prosieguo del suo articolo cita a sua volta Carlo Jaspers che alla domanda "di che cosa vive l'uomo", risponde:
"Vi sono due tesi:
-l'uomo vive della fede nella rivelazione ed al di fuori non vi è che il nichilismo;
-l'uomo vive del sapere scientifico ed al di fuori non vi è che illusione."
Il senso di tutte queste citazioni è che evidentemente il mondo oggi non ha, o si avvia a non avere più certezza alcuna tranne quella della Realtà oggettiva. Realtà che oltretutto non sappiamo ancora leggere. Forse l'esperimento, che con definizione ardita definirei come "scientifico", iniziato tre secoli fa, con spirito illuminista come superamento della precedente fase alchemica, e che le Istituzioni Masoniche regolari, dopo tre secoli stanno ancora, ininterrottamente, portando avanti, continuamente perfezionando un complesso progetto etico, fatto per una società "divenibile" con il divenire della conoscenza, può essere la risposta.
Risposta che sicuramente sta tra le varie tesi contrapposte di Jaspers ed altri, in attesa di essere scoperta.
(Comunque le due tesi si contrappongono anche per la ricerca sulla trascendenza, in quanto mentre la Fede nella Rivelazione si preoccupa di difendere il proprio spazio dalle altre fedi concorrenti, la scienza si preoccupa esclusivamente di chiarire il grande interrogativo tra "realtà generata per un progetto creatore" e "materia esistente per caso". Questo dilemma indica che c'è una sola fonte possibile per un'Etica che abbia un senso universale, a meno che non si recepisca il significato di una "nuova rivelazione" che accordi quelli delle rivelazioni precedenti, ormai antiche. Magari dietro la pressione sempre più incalzante delle verità oggettive della scienza.....!)
Nota D - " Da Eraclito e Platone a Hegel e Marx, le relative epistemologie metafisiche sono state sempre intimamente associate alle idee morali e politiche dei loro autori. Tali costruzioni ideologiche, . Per la scienza, invece, esiste un solo apriori, il postulato di oggettività, che le evita, o piuttosto le vieta, di partecipare a tale diatriba. La scienza studia l'evoluzione, sia quella dell'universo sia quella dei sistemi che sono in essa contenuti come la biosfera, uomo compreso". (da Jacques MONOD "Il Caso e la necessità (con citazione di K.R.Popper: Open Society and its enemies).
VISIONE CATTOLICA
della bioetica
INTRODUZIONE
Il rapporto tre etica e scienza/tecnica è sempre stato precario e non è mai stato risolto una volta per tutte, perché tanto la scienza quanto la tecnica vedono ampi progressi e sono testimoni di interventi u tempo impensabili o ritenuti dal senso comune fantascientifici mentre oggi essi sono quasi di routine.
E’ noto come il problema morale sorga collegato con il comportamento libero dell’uomo; evidentemente dove un’azione non è possibile, non si dà neppure responsabilità e di conseguenza non si pone neppure le domanda si ciò che è o non è morale.
Mai come in questi anni la tensione tra etica e scienza/tecnica si è data tanto acuta, siccome mai nei secoli passati la scienza e la tecnica hanno visto crescere la loro capacità e ampliarvi i loro confini come sta accadendo in questa fase della storia.
Il conflitto tuttavia nasce da un errato rapporto tra l’etica e la scienza/tecnica considerate come estrinseche l’una dall’altra, al punto che lo scienziato vede nel moralista una sorta di nemico che vorrebbe tenere in soggezione la sua attività e limitarne la libertà di ricerca o di sperimentazione o di applicazione. Il rapporto invece è strettamente intrinseco, nel senso che la dimensione etica è interna alla scienza e alla tecnica, al punto che è proprio la dimensione etica a preservare l’una e l’altra dalla loro stessa corruzione.
ESEMPI INQUIETANTI DALLA BIOETICA E DALL’ECONOMIA
Per non svolgere u discorso che altrimenti sarebbe troppo astratto si può cominciare con alcune esemplificazioni che certamente non mancano nel campo della bioetica. I giornali riferiscono di fatti che ormai superano l’immaginazione: medici che accondiscendono al desiderio di una coppie di lesbiche di avere un figlio e quindi procedono all’inseminazione artificiale di una delle due, oppure medici che abilitano la nonna a partorire per conto della figlia che ha subito un intervento di isterectomia. Tanto per stare nel campo della procreazione artificiale, ma ci sarebbero molti altri esempi da ricordare in molti altri campi.
La questione, che ci si deve porre, è se, per stare al nostro caso, ma potrebbe valere più o meno per tutte le professioni, il medico deve soddisfare le richieste dei suoi clienti o pazienti. Evidentemente no! Nel caso suddetto far partorire la madre al posto della figlia o dare un figlio a due lesbiche che convivono non è affatto un atto medico, perché l’intervento non è minimamente terapeutico, siccome non è assolutamente patologico, ma fisiologico, che due donne non possano concepire né partorire.
Di patologico in questo caso vi è precisamente il desiderio delle due che andrebbe curato; così che il ginecologo, che si volesse professare come tale, deve indirizzare le due donne dal suo reparto alla divisione del suo di psichiatria o quanto meno dall’analista. Questo proprio al fine di curare il desiderio. Dare un figlio a due lesbiche non è ovviare o rimediare ad u qualsivoglia difetto di natura, ma è indurre a un disordine interiore. Infatti ad essere tradita è la professione stessa, esattamente nel momento in cui le capacità tecniche (le biotecnologie) vengono esaltate in se stesse, per l’indubbio fascino che esercitano in quanto danno allo scienziato o al tecnico l’impressione di essere una sorta di demiurgo.
Anni fa un antropologo dell’Università di Firenze formulò un’ipotesi, giudicata per lo più alquanto bizzarra dalla comunità scientifica internazionale, ma in sé assai emblematica, quella cioè di dar vita artificialmente ad un nuovo essere, una sorta di ibrido, lo “scimpanzuomo” (testuali parole dello scienziato) ottenuto fecondando con seme umano la femmina di uno scimpanzé. Sotto il profilo dell’abilità, qualora si arrivasse alla realizzazione di questo essere, si dovrebbe considerare un successo, perché si è riusciti a fare una cosa di cui prima non si era assolutamente capaci; ma sotto il profilo scientifico non lo credo affatto un successo. Non è il fine della scienza quello di fare dei mostri, né il compito dello scienziato quello da fare prodigi, ma lo scienziato deve mirare al bene dell’uomo e al progresso umano. Al punto che laddove una qualsiasi risultato, ottenuto sia pure attraverso la ricerca e l’applicazione tecnologica, non concorresse al bene dell’uomo e non rispettasse l’umanità (intesa come dignità naturale dell’uomo) non realizzerebbe a mio giudizio neppure il concetto proprio di concetto scientifico. Sarebbe analogo al caso in cui un eccellente uomo di legge, eccellente dal punto di vista tecnico, stendesse delle leggi ingiuste: in questo caso sono molto utili le parole di S. Tommaso che diceva “iniusta lex non est lex, sed legis corruptio” e ovviamente che la stende “non est legislator, sed civitatis corruptior”.
Allora non è la scienza sperimentale né lo scienziato o tecnico che si pone dei fini, ma lo scienziato, in quanto uomo ed implicitamente filosofo o soggetto etico, che pone al suo scientifico o tecnico dei fini e dei confini. Altrimenti in se stessa l’attività scientifica non avrebbe né fini né confini.
Quando si assiste a scontro polemici tra scienziati e moralisti, a volte lo scontro non è tra i rappresentanti, per cos’ dire, di due discipline diverse (le scienza e la filosofia), ma tra gli esponenti di due visioni morali, perché senz’altro lo scienziato è concretamente portatore di una concezione antropologica ed etica. Allora non conduce a nessuna soluzione l’equivoco di dire che la filosofia morale e la scienza sperimentale è giocoforza che si oppongano ed entrino in collisione, né l’apparentemente salomonica soluzione opposta, quella cioè di tenere scienza/tecnica ed etica su piani diversi, dove non si scontreranno, semplicemente perché non lo possono per definizione.
Non si vuole qui rivendicare un’egemonia dispotica della filosofia sulla scienza o del filosofo sullo scienziato come è successo molte volte. In un passato per lo più remoto, quando l’ ipse dixit precludeva alla ricerca scientifica di esprimersi per una sorta di veto dogmatico . D’altra parte lo scienziato che obbedisce a imperativi etici non obbedisce ad altri fuori di se, ma anzitutto a se stesso; e naturalmente c’è da augurarsi che ogni scienziato segua una convinzione etica giusta. Viceversa se uno fosse sostenitore implicito od esplicito dello scientismo, la sua idea di scienziato sarebbe indipendente dalla sua opinione filosofica scientista.
Si potrebbe anche qui richiamare un esempio, attualissimo pure questo, preso stavolta dall’economia, quello del lavoro festivo. Anni indietro cominciò tirare in Italia un vento favorevole ad introdurre il sistema del ciclo produttivo continuo nelle industrie tessili e più in generale in altri settori, con la giustificazione che in tal modo si potesse aumentare l’occupazione, i giorni di riposo e tenere testa alla concorrenza. I Vescovi piemontesi (ed il Papa stesso in visita presso quella regione in quel periodo) obbiettarono che in tal modo veniva a scomparire la festa e la domenica con pregiudizio dell’esercizio del culto e della vita comunitaria, soprattutto familiare.
Un altro esponente della Confindustria ne ebbe a male e lamentò che i Vescovi si intromettessero nell’organizzazione del lavoro in fabbrica. Fu troppo precipitoso a parlare, perché i Vescovi non fuoriuscirono minimamente dalle loro strette competenze; ricordarono semplicemente che il lavoratore non è solo un operaio, ma anche un credente (non raramente praticante)e un padre o una madre con dei figli con cui è pure un sacrosanto dovere trovarsi tutti insieme un giorno alla settimana. La soluzione di un problema (quello di far fronte alla concorrenza) non può essere a scapito dei valori maggiori di quelli economici stessi. Oltretutto considerando le cose con lungimiranza non sarebbe salvato neppure il valore economico, perché ha un costo sociale notevolissimo la disgregazione della famiglia che un’impostazione del lavoro (secondo questa ipotesi) comporterebbe in futuro.
Evidentemente, esclusa questa soluzione disumana e antisociale, la concorrenza va contenuta e l’occupazione incrementata; e questo con la disponibilità di imprenditori e di lavoratori a rinunciare a qualcosa reciprocamente per contenere in costo del lavoro e conseguentemente i costi del prodotto.
NESSUNA SCIENZA E’ NEUTRALE
E’ solo un esempio quello illustrato, per mostrare che la vera economia è la scienza che sa razionalizzare la produzione e la distribuzione dei beni senza sacrificare l’umanità dei lavoratori. La frase evangelica “che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde la sua anima?” non è solo buona per entrare in Paradiso, ma la sua osservazione ispira un corretto concetto di economia, sia di produttore sia di consumatore. Allora il profitto è un giusto e legittimo fine dell’operatore economico, in quanto segno di una sempre migliore organizzazione e razionalizzazione nel produrre e nel distribuire, fatti salvi però altri valori più importanti di quello economico. Il mercato, ottimo strumento per collocare e rispondere efficacemente ai bisogni materiali, non ha in se stesso la capacità di riconoscere altri valori che non siano appunto quelli mercantili, anche perché vede di ogni realtà solo l’aspetto economico. Allora è necessario che esso si possa dispiegare su uno sfondo culturale, ed eventualmente giuridico, in cui sia affermata e garantita la dignità e la libertà umana.
In altri termini il mercato è condizione necessaria, ma non sufficiente per un corretto ordinamento dell’economia come si esprime nell’enciclica Centesimus Annus. Del resto i più avertiti studiosi dell’economia sanno bene che quello della “mano invisibile” è un mito tramontato, come un mito si è rivelata la pretesa neutralità dell’economia stessa sul postulato dell’identità degli obiettivi economici individuali e sociali.
Osserva Zamagni che “l’economia si costituisce come disciplina scientifica sulla premessa etica dell’utilitarismo, al punto che il discorso economico non ha bisogno alcuno di sottomettersi o, quanto meno, di fare i conti con l’etica per la semplice ragione che esso incorpora già, a livello di fondamenti, un’etica che è quella utilitaristica” Lo stesso autore continua con “il bisogno di norme e di comportamento etico che integrino e, all’occorrenza, sostituiscano l’interesse personale appare oggi con grande chiarezza in parecchie situazioni di insuccesso del mercato, situazioni tutt’altro che marginali nelle quali il perseguimento del self-interest cessa di assicurare il raggiungimento dell’obiettivo della stessa efficienza”.
Forse andrebbe precisato il senso delle considerazioni qui citate. Non si tratta di accostare l’etica all’economia, quasi a mitigarne il rigore; una posizione di questo genere sarebbe estremamente debole e perdente suscitando giustamente il disagio o l’ironia dell’economista, perché non si potrebbe approdare che a soluzione “pasticciate” Non è che l’economia sia come la ricetta di un piatto dove gli ingredienti si accostano: una percentuale di self-interest, una percentuale di mercato, una percentuale di solidarietà e una percentuale di benevolenza. Non si tratta di contenere l’espandersi dell’economia e il dispiegarsi secondo le sue leggi con la camicia di forza dell’etica che avrebbe l’odiosa funzione di freno, ma sostituire all’economia dominante in occidente l’etica utilitaristica che la sottende con una teoria etica migliore. Detto altrimenti la critica all’utilitarismo si converte alla critica all’economia oggi trionfante la quale non è né così ingenua né così naturale come si vorrebbe dare a credere.
L’AUTONOMIA DALLA SCIENZA NON E’ LIBERAZIONE DALL’ETICA
Quanto detto riguardo alla scienza economica vale per ogni scienza e per la relativa applicazione tecnologica.
Evandro Agazzi fa rilevare come le diverse rivendicazioni di autonomia della politica, delle scienze naturali, dell’economia e dell’arte cha hanno contrassegnato l’età moderna in Europa si trasformarono ben presto in una sorta di ricerca della libertà o di liberazione.
Contenutisticamente questa libertà reclamata dalla scienza significa indipendenza nei criteri di giudizio, così che è diventato rapidamente un dogma nella cultura occidentale che la scienza sia e debba essere indipendente dai valori. Inoltre significa che l’indipendenza nell’azione, il che vuol dire che lo scienziato o il tecnico è legittimato ad agire secondo i soli criteri della sua professione.
Terzo contenuto di tale libertà è il rifiuto di controlli o limitazioni da parte di agenti estranei, in nome della prestazione o promozione di scopi o di valori di diversa natura. Ebbene, secondo lo stesso insigne filosofo della scienza, oggi si manifesta chiaramente la tendenza a riesaminare questi punti per le conseguenze inaccettabili di tale processo di liberazione.
Pur distinguendo legittimamente tra scienza pura e scienza applicata, in quanto hanno finalità diverse, neppure in nome della scienza pura si può tutto. Infatti, sebbene sia assolutamente indiscutibile aspirare a conoscere quanto più è possibile, questo non lo si può fare con ogni mezzo o a qualunque costo. Nella scienza sperimentale succede che la conoscenza si acquisisce manipolando l’oggetto che è sottoposto ad indagine e ovviamente si pone la domanda se tale operazione rispetta la dignità dell’oggetto manipolato. E nel caso che questi sia un uomo?
Spesso in questo settore ci si trova di fronte a una specie di dilemma: ad esempio, certo si devono rispettare gli embrioni, ma la scienza ha il diritto di sapere e non s possono mettere vincoli alla libertà della ricerca. Si sa poi come viene risolto l’impasse, cioè sacrificando tutto ciò che è necessario alla libertà della ricerca. Invece, resistendo a qualsiasi suggestione, bisogna chiarire che è un falso dilemma, perché la libertà della ricerca si estende tanto quanto il rispetto dell’uomo. Quando quest’ultimo viene strumentalizzato quella libertà è arbitrio ed è prevaricazione: infatti lo scienziato finisce allora di contraddirsi. Fine della ricerca non è il sapere come comunemente si pensa e si dice, perché con questo presupposto si può arrivare benissimo ad ogni aberrazione. Fine della ricerca scientifica è l’uomo attraverso il sapere che non può rivolgersi contro l’uomo stesso.
Si osservi bene che non è un confine che un “nemico” pone a uno scienziato da fuori, ma è una conseguenza da dentro a partire dal concetto di scienza e ricerca scientifica ricordato immediatamente sopra. Come in generale la libertà è la capacità di realizzare se stessi, così la libertà dello scienziato e del ricercatore è la capacità di attuarsi come tale. Oltretutto definendo così dall’interno della scienza la natura della sua libertà lo scienziato si precostituisce una difesa contro la strumentalizzazione della sua figura, così frequente nella storia: dalle ostetriche egiziane al tempo di Mosè ai medici nazisti del nostro secolo.
In tal modo non si vuole minimamente ridurre in indebita soggezione né la scienza pura né quella applicata, né tanto meno ricadere negli errori del passato; tra la pretesa della filosofia o della teologia di fare affermazioni di natura scientifica come “il sole gira intorno alla terra” contro la corretta metodologia scientifica e la opposta pretesa della scienza di porsi come un assoluto sta la posizione dell’ordinazione della scienza e della tecnica all’etica, Purchè sia un’etica giusta e vera.
DALL’UMANESIMO METAFISICO ALL’UTILITARISMO
E’ quanto sta scritto nell’introduzione all’Istruzione Vaticana Donum Vitae: “la scienza e la tecnica, preziose risorse dell’uomo quando si pongono al suo servizio e ne promuovono lo sviluppo integrale a beneficio di tutti, non possono da sole indicare il senso dell’esistenza e del pregresso umano. Essendo ordinate all’uomo da cui traggono origine e incremento, attingono alla persona e dai suoi valori morali l’indicazione della loro finalità e la consapevolezza dei loro limiti. Sarebbe percò illusorio rivendicare la neutralità morale della ricerca scientifica e delle sue applicazioni; da’ltro canto non si possono desumere i criteri di orientamento dalla semplice efficienza tecnica, dall’utilità che possono arrecare ad alcuni a danno di altri o, peggio ancora, dalle ideologie dominanti. Pertanto la scienza e la tecnica richiedono, per il loro stesso intrinseco significato, il rispetto incondizionato dei criteri fondamentali della moralità: debbono cioè essere al servizio della persona umana, dei suoi diritti inalienabili, e del suo bene vero e integrale secondo il progetto e la volontà di Dio”.
Questo del rapporto tra etica e scienza si pone acutamente nel nostro tempo non solo per le dilatate capacità conoscitive della seconda e per le sue impensabili applicazioni, ma soprattutto per la differente filosofia soggiacente, spesso implicitamente, alla nozione e alla concezione della scienza e della tecnica.
Si è passati quindi dall’umanesimo metafisico all’utilitarismo. Le divergenze ed in conflitti in tema di bioetica o di biotecnologie, che tanto spesso trovano eco anche sulla stampa e assai sbrigativamente vengono spiegati come lo specchio dell’opposizione tra pensiero laico e religioso, hanno più correttamente la loro origine in queste due oppostea filosofie di cui sopra. Del resto i vari “processi” al giuramento di Ippocrate, che si celebrano nei convegni, stanno esattamente ad indicare il declino ed il distacco della sensibilità dominante precisamente da questo orizzonte umanistico metafisico che ispira il celebre giuramento stesso che veniva recitato dai neo-laureati in medicina e chirurgia. Poi l’introduzione di leggi, spesso legalmente permissive di interruzione della gravidanza ha suggerito di toglierlo dalla cerimonia. Purtroppo, ma inevitabilmente, perché non si spergiurasse il falso.
OLTRE LA DEONTOLOGIA:LA COSCIENZA PERSONALE
A questo proposito non può essere trascurato un accenno alla deontologia ed alla funzione dei codici. Neppure questi possono più di tanto, perché devono o finiscono col recepire le disposizioni legislative. Ad esempio l’ultima stesura del codice di deontologia medica italiano risalente a due o tre anni fa non vieta a quanti esercitano la professione di praticare l’aborto diretto, seppure ovviamente ribadisce il diritto a esercitare l’obiezione di coscienza prevista dalla legge (ved. Art 46). In generale non va dimenticato che l’intento dei codici deontologici mira soprattutto a impedire comportamenti scorretti che danneggiano il collega o la categoria in generale; comportamenti riprovevoli o per venalità o per imperizia o incoscienza o incompetenza ecc.
Si perviene così al termine del nostro discorso, o meglio all’inizio: la coscienza del professionista con le virtù professionali. Resta chiaro a questo punto che le virtù dello scienziato, medico o biotecnico che sia, non solo quelle dell’abilità o della competenza (nel pensiero comune oggi si intendono normalmente queste) ma soprattutto la rettitudine nel perseguire quei fini e solo quei fini degni dell’uomo. Per riuscire in questo occorre però prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Dire questo potrebbe sembrare la famosa “scoperta dell’acqua calda”, ma non di rado sono proprio le ovvietà ad essere dimenticate.
Un ultimo esempio potrebbe chiarire meglio il concetto. Se un medico con l’intento di guarire un paziente sbagliasse la diagnosi e/o la terapia subito si direbbe che è un cattivo dottore; se invece fosse abilissimo nel procurare laborto, si direbbe che come medico è bravissimo e il fatto che sia abortista è un’altra questione. E’ sintomatica questa valutazione che tende a far coincidere la figura del professionista con la sua capacità o abilità a prescindere da ogni altra considerazione.
Per Ippocarte non sarebbe stato così; da lui il medico che avesse procurato l’aborto, abilissimo quanto si voglia, sarebbe stato riprovato e riprovato precisamente come medico e non come uomo o come credente o altro ancora.Effettivamente l’esercizio della professione si da oggi non raramente in condizioni comportamentali e di prassi comune all’interno di uno specifico settore di un’attività umana. La morale professionale non può esaurirsi nella descrizione empirica di alcune regole che la decenza chiede e dei doveri che ne conseguono. Si rinviene qui la sostanziale differenza che intercorre tra quelle che abbiamo chiamato “deontologia della transizione”, prona alle più utilitaristiche convenzioni, e un’etica professionale ancorata alle virtù e cioè alla resistenza e al vigore morale del singolo uomo nello svolgimento ordinario della sua attività professionale.
E’ un attestato evidente di quanto si sia imposta, proprio quasi come un dogma, l’idea della neutralità della scienza. E’ stato osservato che per secoli la scienza poté rimanere in uno splendido isolamento, perché proprio si assumeva semplicemente che essa fosse avalutativa e che gli scienziato non fossero soggetti ad alcuna restrizione etica relativa alle loro azioni, in quanto scienziati. Ma dopo la distruzione di Hiroshima Oppenheimer osservo che la scienza aveva conosciuto il peccato e che quindi scienza ed etica non potessero più restare separate in modo assoluto.
CONCLUSIONE
La sfida, come si può ben vedere, è di quelle a tutto campo e culturale in senso pieno. E non è solo questione che gli scienziato o i ricercatori o gli operai di biotecnologie riscoprano una concezione della loro professione ispirata all’umanesimo metafisico più volte richiamato e di cui S. Tommaso è un noto esponente, ma è auspicabile che a ritornare ad una sana filosofia sia tutta la società. Anche perché la storia della medicina insegna che la figura del medico è sempre stata funzionale alle attese della società o più semplicemente, nei regimi non democratici, alle attese dell’autorità.
Altrimenti si finirà in un tragico paradosso, che qualcuno ha già previsto o addirittura osservato: “la biotecnologia ha quindi sempre più mezzi per aiutare la vita e sempre meno ragioni vincolanti per farlo: può organizzare i raparti dei fiocchi rosa e celesti per le nascite e i reparti dei fiocchi neri per gli aborti, imparzialmente nello setto ospedale”.
Non resta allora che riconquistare il senso dell’umano e collocare la scienza e la tecnica sul fondamento della sapienza e far si che siano espressioni di questa. In tal modo sarà scongiurata l’avventura dell’ “apprendista stregone” che libererebbe per l’umanità tanti guai da questo vaso di Pandora che è il saprei e il potere dell’uomo moderno.
Heidegger ne fu seriamente impressionato, tanto da uscira in quella sorta di invocazione: “solo un Dio ci può salvare”.
UN PICCOLO APPROFONDIMENTO
I trapianti d’organo
Il problema dei trapianti d’organo è uno dei più complicati da descrivere. Per quanto riguarda quest’argomento si parte da un soggetto da cui si espianta qualcosa e un soggetto o più soggetti a cui si impianta qualcosa. Quello da cui si espianta può essere un soggetto vivo o un cadavere. Oggi si preferisce espiantare da un cadavere piuttosto che un soggetto vivente, anche perché da quest’ultimo si possono solamente prelevare organi doppi e pari dove un può sopperire alla mancanza dell’altro (si vedano ad esempio organo come le reni). I testicoli sono organi pari e doppi però in questo caso c’è un problema di identità nel ricevente, dal momento che sono organi legati all’identità della persona.
Quali sono i grossi problemi morali? E’ un problema di giustizia: siccome nel discorso di trapianto c’è un soggetto a cui si preleva un organo per darlo a un altro, il problema è quello di non fare un’ingiustizia ad A (la persona che dona l’organo richiesto) in favore di B (quella che invece richiede l’organo perché ne ha necessità). L’intenzione del procedimento è l’impianto. Il soggetto debole di cui mi devo preoccupare che non subisca ingiustizia è il soggetto da cui si prende l’organo. Occorre verificare che il paziente candidato all’espianto non sia maltrattato o non ci sia troppa precipitazione nel dichiararlo morto. Un soggetto va curato per se stesso e non va inquadrato a donatore di organi interessanti per altri pazienti. Allora la conseguenza è che prima bisogna curarlo per se stesso, anche se questo può comportare il deterioramento di alcuni organi. La morte celebrale si da quando c’è la cessazione non solo dell’attività nella corteccia celebrale, ma anche del tronco, perché la semplice corteccia non configura un morto,ma un paziente in uno stato vegetativo persistente. Qui nel coma depassé (non è né il coma profondo né quello irreversibile) abbiamo un soggetto in cui non c’è più alcuna attività cerebrale accertata dopo 6 ore. Quando questo soggetto presenta questi “sintomi” (in effetti è sbagliato come termine, ma serve a rendere l’idea) allora questo soggetto può essere considerato morto, anche se i parenti lo ritengono ancora vivo perché non ha ancora smesso la sua capacità respiratoria; in realtà non respira più lui, qui gli organi funzionano perché ci sono le apposite macchine che svolgono il loro compito specifico e questo è molto importante perché in questo modo gli organi non si corrompono.
Allora c’è una commissione che procede all’espianto, se i parenti sono d’accordo con questa scelta. In Italia oggi la legge permette a una persona, una volta raggiunta la maggiore età di 18 anni, di esprimere il proprio dissenso ad un’eventuale donazione post mortem; chi non esprime il proprio parere è considerato favorevole a donare i propri organi dopo la sua morte.
Conclusione Personale
Come si è potuto vedere nelle pagine precedenti ho cercato di essere il più oggettivo possibile, soprattutto quando mi occupavo di definire che volesse dire il termine bioetica e quando trattavo della sua storia (anche se questo argomento avrebbe richiesto molto spazio in più perché durante la sua storia la bioetica ha assunto sfumature sempre diverse a seconda del periodo e delle persone che si occupavano di questa scienza).
Come ho detto nell’introduzione inizialmente non avevo la benché minima idea di che cosa volesse dire occuparsi di bioetica, e tanto meno adesso non ho la presunzione di affermare di esserne diventato un esperto conoscitore in così poco tempo; però leggendo e scrivendo queste pagine ho potuto farmi un’idea anche se piuttosto vaga, una sorta di “infarinatura” globale.
Proprio mentre leggevo i testi su cui mi sono documentato, e anche mentre li trascrivevo, nella mia mente provavo a dare un giudizio personale sulle tesi sostenute dai vari autori; mi sono accorto però che la biologia (e di conseguenza anche la bioetica) ha una tale vastità di diramazioni che essere totalmente d’accordo con un esperto piuttosto che con un altro mi è praticamente impossibile.
Infatti gli esempi e gli approfondimenti specifici (come ad esempio l’intervento di Mons. Mauro Fioroni sui trapianti d’organo) che ho citato nella mia “opera” (se così può essere definita) sono solo una piccolissima parte di tutto ciò che può essere dibattuto del campo biologica a sfondo bioetico. I campi in cui si può spaziare sono molteplici: si va dai trapianti d’organi (appunto) all’ingegneria genetica (che soprattutto in questo periodo di manipolazioni agro-alimentari sta assumendo un ruolo di primissimo piano), dall’aborto (citato soprattutto nei convegni con persone facenti parte del clero) alle fecondazione artificiale; potrei andare avanti così più o meno all’infinito, citando argomenti di interesse bioetico, quindi avere un’idea generale molto precisa su come affrontare queste materie risulta alquanto problematico.
Secondo il mio punto di vista comunque ritengo giusto e doveroso introdurre una bioetica nel campo non solo delle ricerche scientifiche o degli esperimenti, ma in tutti quei settori in cui sia richiesta un’azione dell’uomo sull’uomo stesso; questo soprattutto in un’ottica moderna in cui si parla quasi quotidianamente di diritti non solo civili ma anche naturali dell’uomo.
La mia posizione quindi suggerisce un uso delle nostre nuove capacità tecnico-scientifiche che salvaguardi però quella che è in un certo senso una dignità che ogni uomo a mio parere ha sin dalla nascita: infatti come non ritengo giusto arrestare ogni moto di progresso umano con credenze e convinzioni che mirano ad arrestare questo processo, così ritengo che non sia giusto neanche subordinare al profitto personale (o di pochi…) ogni sorta di ricerca. Le nostre nuove tecniche, acquisite per lo più nell’ultima metà del XX secolo, come ha avuto modo di dire lo stesso Potter, sono un’arma “a doppio taglio”; questo perché hanno si il potere di migliorare nettamente le condizioni di vita di tutta l’umanità, ma il risvolto della medaglia è che se usate sconsideratamente esse possono provocarne la distruzione in tempi meno lunghi di quanto si possa credere.
Infatti, per citare un esempio, un ricercatore che riesce a scoprire un determinato gene responsabile delle maggior parte delle perdite di raccolto di un prodotto e ne riesce a prevenire l’effetto con un intervento genetico sul prodotto stesso, per quanto mi riguarda dovrebbe disporre di tutta la “libertà” possibile di agire nei suoi esperimenti; ma se questa tecnica di manipolazione genetica viene dimostrata certamente come dannosa nei confronti degli esseri umani, allora il ricercatore dovrebbe essere invitato a procedere in altri modi e, se proprio non ce ne sono, a terminare del tutto le proprie ricerche. Questo modo di agire a mio parere non è un metodo che tende a frenare il progresso dell’umanità, ma serve a prevenire la sua completa distruzione.
Ovviamente parlarne così in generale è molto più facile che prendere delle decisioni concrete nel campo della realtà specifica dei casi; infatti, documentandomi, un’altra cosa di cui mi sono accorto è che ogni caso assume sfumature molto diverse anche se il problema di fondo rimane il medesimo, quindi si arriva ad avere da una parte un rappresentante dei consumatori (questo giusto per citare un esempio astratto, ma potrebbe essere anche un rappresentante della chiesa che si esprime sull’aborto) che cerca ovviamente di tutelare i propri clienti dal pericolo del prodotto geneticamente modificato, e dall’altra un gruppo di imprenditori del settore che giustamente intendono salvaguardare quello che rappresenta il proprio patrimonio economico cercando di ottimizzare la produzione e la resa del prodotto finale.
Come si può vedere quindi a mio parere prima di esprimere la propria opinione su un caso specifico bisogna quindi esaminare quali siano i pro e i contro dell’argomento e solo in seguito prendere la decisione che personalmente si ritiene giusta.
L’idea di fondo e il punto di partenza da cui bisogna sempre partire è comunque che non tutto quello che può rendere un risultato positivo immediato sia per forza il procedimento corretto, perché a lungo andare (e qui non parlo solo di manipolazioni genetiche in campo agro-alimentare, ma anche sui trapianti, sull’aborto, sulla clonazione che possono avere risvolti negativi nel modo di pensare delle società future provocando così un’involuzione dell’umanità e non il suo progresso) esso può dar luogo a risultati devastanti di cui spesso ci si accorge quando ormai è troppo tardi.
Spero che il lettore della mia “opera” non si sia annoiato nel leggere queste pagine e che si sia fatto un’idea personale su come affrontare determinate questioni e non annuisca più passivamente ai cosiddetti “talk-show” ma cerchi di approfondirne i concetti secondo quelle che sono le proprie idee.

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