Materie: | Appunti |
Categoria: | Filosofia |
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Testo
PLATONE
Biografia
Filosofo greco (Atene 428-347 a. C.). Nato da nobile famiglia, discendente per parte di madre da Solone, sin da giovane ebbe educazione filosofica; secondo Aristotele conobbe Cratilo, scolaro di Eraclito, e si familiarizzò con la dottrina eraclitea. Ma in questo primo periodo la sua attività fu rivolta a composizioni letterarie, epiche e tragiche. A vent'anni conobbe Socrate, che lo guidò a un contatto fecondo con la filosofia. A Socrate P. si mantenne fedele per tutta la vita, avendo visto in lui l'incarnazione del filosofare; l'intera sua produzione, lontana dal comporsi in un sistema, volle essere un continuo approfondimento interpretativo della personalità di Socrate, l'interlocutore principale di molti dialoghi e portavoce della filosofia originale di Platone. Il pensiero storico di Socrate è pertanto trasceso e allo stesso tempo rimane connesso alla sua ispirazione fondamentale. Già dalla giovinezza parve a P. che la caratteristica prima del filosofo, il rapporto con la verità, potesse manifestarsi nella vita storica, fecondando e alimentando la politica, che riguarda la vita comune degli uomini. Dapprima lo stesso P. fu tentato di partecipare alla vita politica della sua città, ma ne fu distolto dalle delusioni provocategli dal governo dei Trenta tiranni, poi dalla restaurata democrazia che se lo alienò del tutto per aver messo a morte Socrate. Da allora a P. fu chiaro che solo un governo guidato dai filosofi poteva essere degno di venir detto buono. Di queste fasi della vita di P. la Lettera VII, documento fondamentale per ricostruire la sua personalità, ci dà ampi squarci. Dopo la morte di Socrate P. intraprese svariati viaggi, di cui uno forse in Egitto. Significativi per il rapporto con la politica sono i tre viaggi in Magna Grecia. A Siracusa, dove si legò di amicizia con Dione, zio di Dionisio il Giovane, P. tentò di attuare la sua idea del governante illuminato dal filosofo. Ma Dionisio il Vecchio, allora tiranno della città, preoccupato dei suoi progetti, lo fece allontanare. Fu al ritorno ad Atene che P. costituì l'Accademia, società culturale, alla quale diede la struttura di un'associazione religiosa. Quando Dionisio il Giovane succedette al padre, P. tornò a Siracusa per riprendere il suo progetto, ma Dionisio, dilettante-presuntuoso del potere, deluse P. che se ne tornò ad Atene. Una terza volta egli tornò a Siracusa, ma ancora fallì il suo tentativo di instaurare un governo retto dalla filosofia.
Iconografia
L'aspetto del filosofo, caratteristico per l'ampiezza della fronte e del petto, che gli avrebbero dato appunto il soprannome di P. (da plátos, larghezza), è noto da diversi ritratti, soprattutto teste o erme, anche insieme a Socrate, che risalgono alla statua di Silanione erettagli nell'Accademia poco dopo la sua morte (forse anche prima); essa riveste una notevole importanza storico-artistica, trattandosi del primo ritratto non ideale del mondo greco.
Opere
Denso di polemiche è stato fin dall'antichità il processo della storiografia filosofica per stabilire l'autenticità degli scritti di Platone. La grandezza della sua personalità, che ha costituito il punto di riferimento di una lunga tradizione, ha fatto sì che gli fossero attribuite molte opere da lui non scritte. Il rigore della filologia ottocentesca ha esasperato il problema, finendo col considerare spurie la maggior parte delle opere. In seguito la critica moderna, tenendo maggior conto della tradizione, ha preferito operare con più cautela; servendosi delle testimonianze antiche, considerando il contenuto dottrinale e soprattutto fondandosi sulla forma linguistica, ha riaccolto come autentici parecchi dialoghi. Importante è pure il problema della cronologia degli scritti, se si considera l'asistematicità del pensiero di P., per cui ritrovare la successione dei dialoghi significa cogliere lo sviluppo del suo stesso pensiero. I dialoghi vengono ordinati in base a vari criteri stilistici e di contenuto e raggruppati come segue: I periodo, scritti giovanili socratici, Apologia di Socrate, Critone, Ione, Alcibiade I, Lachete, Liside, Carmide, Eutifrone; II periodo, di trapasso, Eutidemo, Ippia Minore, Cratilo, Ippia Maggiore, Menesseno, Gorgia, Repubblica I, Protagora, Menone; III periodo, dottrina delle idee, Fedone, Convito, Repubblica II-X, Fedro; IV periodo, autocritica e fase finale, Parmenide, Teeteto, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Le leggi. A questi dialoghi vanno aggiunte 13 Lettere, di cui la VII e l'VIII sono in genere date per autentiche. Il carattere dialogico degli scritti di P. rappresenta la sostanza stessa della sua filosofia. Il dialogo platonico è sempre costituito da una tesi aperta, che nel contraddittorio viene esplicandosi, mentre l'interlocutore-contraddittore sposta di continuo le sue opposizioni di volta in volta che una verità va affermandosi. È lui stesso adeguatamente sollecitato a riconoscere la verità. Notevole è il cambiamento di stile da un dialogo all'altro: i dialoghi giovanili sono caratterizzati da interventi brevi e vivaci da parte dei partecipanti e conservano intatta la loro natura dialogica; gli ultimi sono appesantiti da lunghi interventi, che svisano l'andamento del dialogo e ne fanno quasi un trattato. Socrate è quasi sempre il protagonista, ma negli ultimi dialoghi la sua figura è sempre più sfocata o addirittura scompare.
Filosofia: linee generali
Rappresenta il grande momento di sintesi delle concezioni più profonde formulate in antecedenza dal pensiero greco; è una sintesi, ma – ce n'avverte lo stesso P. – non sistematica, perché manca a essa una struttura teorica organizzata in chiare premesse e in rigorose deduzioni. La stessa "teoria delle idee" è solo un momento della speculazione platonica, non conclude, ma tiene aperto il problema a nuovi sviluppi. È tuttavia un momento cardine e da essa iniziamo per meglio capire gli ulteriori sviluppi del suo pensiero.
Filosofia: la teoria delle idee
La genesi di questa teoria si deve ricercare nell'influenza esercitata su P. dai filosofi precedenti: nel campo della conoscenza sensibile P. accetta il relativismo di Protagora assieme alla teoria del pànta réi(tutto scorre) di Eraclito e ancora il fenomenismo degli ionici. Da queste premesse P. deduce che la conoscenza sensibile porta solo a risultati provvisori, validi unicamente per le circostanze particolari in cui sono stati ottenuti. Con essi non è possibile raggiungere una conoscenza unica, perché su ogni oggetto si possono fare discorsi diversi parimenti accettabili. Protagora pretendeva di poter fare un discorso corretto pur nella molteplicità dei discorsi; Socrate esortava i giovani ad approfondire l'indagine dei valori morali per giungere a un discorso più preciso; P. vuol togliere ogni carattere provvisorio alla conoscenza e a questo scopo scende nella più profonda interiorità dell'uomo affermando che la certezza assoluta è frutto solo di conoscenza razionale e, dove Socrate aveva scoperto l'universalità dei valori morali in quanto comuni e validi per tutti, egli estende tale validità anche al campo della conoscenza. Ritorna qui, riprodotta da P., la contrapposizione parmenidea tra razionalità e sensibilità, tra percezioni sensitive diverse da individuo a individuo e diverse nello stesso individuo e le idee, forme reali e immutabili delle cose. A differenza di Parmenide però P. non concepisce l'essere reale come unico, perché formato da più idee. Il concetto è illustrato dal mito della caverna: l'uomo è come un prigioniero incatenato in una caverna, con le spalle rivolte all'apertura e la faccia alla parete. Fuori brilla una gran luce, nella quale passano gli esseri reali. La luce filtrando attraverso l'apertura ne proietta le ombre sulla parete e l'uomo crede di vedere il mondo reale, mentre in realtà ne vede solo l'ombra. Per arrivare alla verità effettiva l'uomo deve rompere le sue catene e uscire dalla caverna alla luce. Fuori della metafora – dice P. – l'uomo è dotato di sensi, che lo legano al mondo delle apparenze, e di ragione, che gli fa conseguire invece la vera realtà, facendolo pervenire alla scienza, che è conoscenza assoluta e universale. Ma come rompere le catene che ci legano al mondo sensibile? P. si richiama a questo punto al metodo maieutico di Socrate, ma dove il maestro l'aveva usato per risvegliare la voce della coscienza del suo interlocutore e fargli scoprire le verità della vita morale, P. mira con esso a far scoprire al discepolo le verità razionali; per spiegarsi introduce un nuovo esempio: vien dato un problema di geometria da risolvere a uno schiavo digiuno di ogni cognizione in quella materia: dato un quadrato, deve trovarne un altro di area doppia. Il giovane tenta dapprima la soluzione più semplicistica: raddoppia i lati del quadrato, ma si accorge subito del suo errore e dopo vari altri tentativi traccia la diagonale del quadrato e, assumendola come lato, costruisce il quadrato doppio del primo ( Menone). Il sistema maieutico – conclude allora P. – funziona anche fuori dell'ambito che gli aveva assegnato Socrate. In realtà proprio questo esempio dimostra che P. ormai si muove sul terreno delle verità matematiche dei pitagorici. A indirizzarlo alla dottrina pitagorica era stato Archita di Taranto, illustre pensatore e matematico, e su questa strada P. arriverà a una nuova " mens religiosa".
Filosofia: la scienza dei numeri e delle figure
La scienza dei numeri e delle figure è studiata da P. per la sua "purezza concettuale", che consente di fare considerazioni logiche molto rigorose su concetti nitidi e liberi da ogni riferimento all'empiria, aiutando l'uomo a realizzare il passaggio "da ciò che diviene a ciò che è". Con tale sua concezione P. offre ai filosofi posteriori l'illusione che la matematica possa attingere le entità assolute introducendo una divisione troppo netta fra matematica e tecnica; l'illusione graverà sullo svolgimento del pensiero filosofico per lunghissimo periodo e sarà superata solo in tempi moderni. È un tentativo di P. di salvare con la matematica la sua "teoria delle idee" e giungere a cogliere l'essenza della realtà. A questa funzione della matematica P. accomuna anche le altre scienze, ma ne esclude drasticamente la fisica, che egli considera un semplice studio dei fenomeni. Con pari intransigenza rifiuta l'apporto dei naturalisti greci, negando loro proprio lo spirito di ricerca, che invece sarà considerato il dato più positivo dai moderni. Al tentativo appassionatamente perseguitato dai naturalisti di spiegare lo svolgimento dei fenomeni con cause fisiche e meccaniche, P. oppone una spiegazione matematico-finalistica della natura, che condurrebbe a trovare la motivazione dei fenomeni nella realtà assoluta. Ormai l'antagonismo fra P. e Democrito è completo e la grande influenza esercitata da P. sulla filosofia posteriore farà perdere per molto tempo la traccia del pensiero democriteo: essa infatti riapparirà solo nei sec. XVI e XVII. Sulla strada della fisica finalistica ( Timeo) P. avanza fino a formulare l'ipotesi dell'esistenza di numerose analogie tra "macrocosmo" e "microcosmo", per cui l'ordine esistente nella natura è a essa antecedente e quindi per spiegare i fenomeni bisogna richiamarsi ai principi naturali.
Filosofia: particolare e universale
Le idee – afferma P. – rappresentano l'assoluto e l'universale, gli oggetti della conoscenza sensibile il particolare e il contingente. Fra particolare e universale i rapporti sono due: di mimesi, in quanto il particolare imita l'idea e la prende a suo modello; di metessi, in quanto il particolare partecipa dell'essenza delle idee. Per il salto di qualità dal particolare all'universale bisogna percorrere i quattro gradi della conoscenza: la sensazione, basata sulle pure immagini dei sensi; l' opinione, che dà della conoscenza delle cose particolari giudizi variabili da individuo a individuo; la ragione, che offre una visione degli oggetti nei loro rapporti matematici; l' intelletto, che si colloca in diretto rapporto con le idee, attraverso la dialettica, definita da P. "la vera scienza filosofica" in quanto sa cogliere gli oggetti nella loro realtà.
Filosofia: l'arte
Nella condanna delle vane apparenze della vita terrena P. include anche l'arte (musica, pittura, poesia, ecc.), che si diletta a ritrarre lo spettacolo degli altrui sentimenti e passioni, alimentandone nell'uomo il pericoloso sviluppo invece di essere mezzo di purificazione e di elevazione morale. Motivo di questa avversione è il fatto che l'arte è "un'imitazione di un'imitazione", in quanto non ritrae la pura realtà delle idee, ma si limita a riprodurre le cose, che a loro volta sono cattive copie delle idee. Essa è tutt'al più una "divina mania" ( Fedro), un "dono divino" ( Ione), ma rimane sempre un vedere per colorate immagini e con una chiara contemplazione dell'intelletto.
Filosofia: l'immortalità dell'anima
Quando l'uomo – teorizza P. – arriva a una verità razionale, non acquista una nuova conoscenza, ma ricorda soltanto ciò che già aveva appreso e che aveva dimenticato. Per avanzare nella sua spiegazione P. deve ammettere la preesistenza dell'anima: prima della vita presente, in cui è incatenato al sensibile, l'uomo è preesistito in un'altra vita, in cui la sua visione era intellettiva e percepiva immediatamente le idee. L'uomo passa poi attraverso diverse vite, ma la sua anima rimane sempre identica (prova, secondo P., della sua immortalità). Nei vari passaggi da un corpo all'altro, l'anima ha acquisito molte conoscenze, quindi non ci deve meravigliare che ricordi ciò che ha già conosciuto. La vera causa della sua immortalità consiste però nel fatto che essa partecipa della stessa natura delle idee e siccome queste sono immortali, immortale è pure l'anima: è la tesi sostenuta nel Fedone, dove P. parte dal pitagorismo, ma lo trascende. Altri elementi religiosi ci offre P. nel Fedro, paragonando l'anima razionale all'auriga, che guida una biga alata, tirata da due cavalli, l'uno pieno di generosi impeti (anima irascibile), l'altro portato solo ai piaceri più abbietti (anima concupiscibile). Il prepotente affermarsi dell'anima concupiscibile ha imprigionato l'anima nel corpo. Nel Timeo la creazione dell'anima razionale è invece collocata in un contesto cosmogonico a opera del demiurgo: questi offre all'anima la visione fugace del mondo delle idee e subito dopo le cala nei corpi, formati dalle due anime inferiori, irascibile e concupiscibile. Quest'ultima prevarrà tenendo incatenata l'anima razionale al corpo. Alla fine della Repubblica P. fa raccontare a Er, morto in battaglia e risuscitato, la vita delle anime nell'oltretomba: le anime che hanno vissuto secondo ragione godono di uno stato originario di beatitudine; le altre devono trasmigrare di corpo in corpo scendendo sempre più in basso nella scala degli esseri. Su questa tematica religiosa s'inserisce l'"amor platonico", che cerca nell'amante i segni della moralità più elevata, disdegnando quanto in essa è caduco e apparente. È questo l'insegnamento fondamentale di P., la sua dottrina morale.
Filosofia: le teorie politiche
In diretta connessione con la visione religiosa, morale ed estetica è anche la teoria politica di P.: egli nutre una grande sfiducia nei metodi politici in auge al suo tempo. È un tema che ha in comune con Socrate, ma dove il maestro si era dedicato ad agire sui suoi concittadini P. sceglie il suo campo d'azione lontano dalla patria, a Siracusa (come si sa, con un completo insuccesso): i vari modi di governare, teorizza P., sono tutti inquinati dal comune difetto di considerare solo l'esteriore e il caduco nell'uomo e di non saper entrare nella sua realtà interiore, l'unica vera. A questa capacità penetrativa nel reale non è necessario educare tutto il popolo, ma solo una piccola élite di governanti (P. era un aristocratico e ha del modo di governare una concezione aristocratica) che penseranno poi ad attuarla ai loro posti di comando. Alla grande massa formata da lavoratori manuali e commercianti P. destina la produzione di beni; ai guerrieri la difesa dello Stato, ai filosofi la sua direzione. A produrre il necessario disinteresse ai beni della vita guerrieri e governanti dovranno mettere in comune ogni proprietà, non escluse le donne ( Repubblica).Filosofia: il pensiero pedagogico
Partendo dal principio della profonda disuguaglianza fra gli uomini, P. deduce che non tutti gli uomini sono adatti alla stessa funzione e quindi bisogna attuare la suddivisione dei compiti. Qui comincia la funzione dello Stato, che, assegnando a ogni cittadino il lavoro per il quale è adatto, mette la società in grado di avere un sano sviluppo. L'educazione ha il compito di scoprire queste attitudini e di valorizzarle. Su tutte le varie mansioni eccellono per importanza sociale la difesa dello Stato e la sua direzione politica. Esse dovranno essere affidate a veri professionisti, che alle attitudini aggiungono un'educazione adeguata al loro esercizio. Tale dottrina capovolge completamente il concetto di democrazia della pólis, per ritornare a quello dello Stato aristocratico, sebbene al privilegio del sangue si sostituisca il valore delle attitudini e delle virtù: i governanti devono distinguersi per la sapienza (quindi governanti-filosofi); i guerrieri per la fortezza; i produttori di beni per la temperanza. Nell'armonia fra queste virtù lo Stato realizza la giustizia, virtù che compete allo Stato, ma anche all'individuo quando egli assolve al suo compito. Alla virtù dello Stato P. si appella quale condizione sine qua non per l'educazione del cittadino; diversamente, si avrebbero le forme degenerative della timocrazia (prevalere dei guerrieri sui filosofi), che a sua volta degenera nella plutocrazia (governo dei ricchi) e questa in democrazia (potere anarchico delle masse), che lascia il passo al peggiore dei governi, la tirannide. Come ha eliminato la democrazia, P. elimina anche le leggi: esse non sono necessarie perché l'individuo nell'adempimento dei suoi compiti segue le sue attitudini (che costituiscono la vera norma del suo agire) e la base morale, che gli ha fatto acquisire l'educazione. Cade così un altro presupposto dello Stato costituzionale, la legge positiva, per lasciar prevalere la morale. In rapporto alle attitudini, la diversità di sesso non determina diversità sostanziali; quindi anche le donne, oltre a essere madri e casalinghe, possono esercitare anche le arti della guerra e del governo. P. è convinto che lo Stato da lui ideato sia altamente educativo, perché, collocando ogni individuo al posto conforme alle sue tendenze, ne sviluppa la personalità e gli agevola il raggiungimento della felicità. Se alle grandi masse dei produttori è sufficiente questa educazione, che si realizza attraverso l'azione dei governanti, ispirati ai principi sopra descritti, per i guerrieri e i governanti sarà invece necessario un ben diverso tirocinio: per essi P. postula la formazione del corpo mediante la ginnastica e quella della mente con la musica ( Repubblica e Leggi). Per questi eletti l'educazione comincia a sette anni ed è uguale per ambo i sessi, ma è data in ambienti diversi. La ginnastica comprende tutti gli esercizi e mira a preparare il guerriero, ma soprattutto a formare il carattere e la personalità morale. Alla formazione della mente presiede la musica, ma è consentita anche la poesia, purché purgata da ogni elemento irreligioso o immorale. Altre discipline sono le matematiche, applicate alle arti militari, alla navigazione, ecc. L'insegnamento si svolge in dieci anni (il primario fino ai dieci anni; il secondario dagli undici ai diciotto) e le materie si succedono in questo ordine: poesia, musica, matematica. Segue un biennio di servizio militare. Nel guerriero virtù precipua deve essere la fortezza, che esprime il massimo della forza fisica, ma nel contempo disciplina la volontà a usarla secondo ragione. Dopo il servizio militare i migliori vengono avviati allo studio della scienza pura del numero (aritmetica, geometria, astronomia, acustica). Questo nuovo studio dura altri dieci anni e alla fine si opera una nuova selezione e solo i migliori si applicheranno per altri cinque anni allo studio della dialettica. A trentacinque anni il filosofo inizia il suo tirocinio politico continuandolo per quindici anni: a cinquant'anni la sua educazione può dirsi compiuta.
Filosofia: l'autocritica di Platone
Giunto alla maturità del suo pensiero, P. si accorge che le premesse da cui era partito non risolvevano alcune difficoltà fondamentali e si accinge a una coraggiosa revisione. Nelle opere giovanili aveva affermato che le idee sono molteplici, ma quale rapporto lega un'idea all'altra? P. aveva affermato che esiste una "subordinazione" di tutte le altre idee a quella del Bene, in quanto questa rappresenta il fine ultimo dell'universo. È l'unica distinzione avanzata da P. e la mancanza di altre metteva il suo sistema in grave difficoltà: infatti, se i rapporti fra le idee sono analoghi a quelli esistenti fra gli oggetti che a esse corrispondono, si può pensare che il mondo delle idee ricopre il modello degli oggetti sensibili e allora non sarebbe il mondo sensibile a copiare il mondo delle idee ma il contrario; se poi rigettiamo questa ipotesi, cadiamo nella concezione di un mondo delle idee che, rimanendo indistinte fra loro, vengono a identificarsi con l'essere unico. Nel Parmenide, nel Teeteto e nel Sofista P. cerca di risolvere questa antinomia ricorrendo alla diàiresis(suddivisione del concetto in due, e ognuno di questi ancora in due fino a raggiungere quello che si deve definire) e a rapporti di tipo numerico. Con queste armi logiche P. cerca di difendere la "positività del molteplice" contro il diffondersi nella sua stessa scuola della dottrina megarica dell'"essere unico", e su questa strada giunge a sostenere come positiva la stessa idea di non-essere: se infatti un'idea si dice diversa da un'altra in quanto realizza ciò che in un'altra non esiste, dovremo ammettere che il non-essere esiste, perché il non-essere non significa "contrario all'essere", ma solo "diverso". Qui P. tocca il punto centrale della sua autocritica: se infatti il non-essere è positivo, di tale positività sarà partecipe anche il mondo sensibile (definito all'inizio della sua ricerca pura e sola non-realtà) e la conoscenza sensibile, pur non essendo ancora conoscenza del reale, porta però in sé i germi della verità. La dialettica platonica a questo punto dilata le sue funzioni, rimanendo ancora sul campo del mondo delle idee, ma traducendosi nel contempo in metodo di ricerca ben più duttile con l'analisi e la sintesi e lo piega alle proprie esigenze di ordine metodologico e logico. Tanta audacia di autocritica metteva in crisi la sua costruzione precedente, ma P. non s'impressiona delle conseguenze: da vero filosofo segnato dalla grandezza egli ha il coraggio di un continuo rinnovamento del suo pensiero e vi si infervora con la stessa forza creatrice del primo periodo giovanile. P. non portò a termine questo processo di autocritica; altri dopo di lui lo portarono a compimento. Ultima fatica del filosofo fu l'elaborazione della teoria dei "numeri ideali", per la quale riconduce a rapporti matematici fissi gli schemi strutturali del reale. La teoria rimase allo stadio di tradizione orale, ma ebbe molti esaltatori che la consideravano capace di spiegare le essenze e i rapporti fra le cose meglio della teoria delle idee; particolare valore speculativo, etico e mistico acquistano in essa i "numeri ideali" e la triade "limite, illimitato, medietà". Per l'enorme influenza esercitata da P. sui posteri
DIALOGHI
complesso di ventisei scritti, ai quali il filosofo ateniese ha affidato l'illustrazione del suo pensiero. Secondo il criterio stilometrico, quale è accettato dalla maggioranza dei critici, sono così elencati: gruppo socratico, Apologia, Eutifrone, Critone, Carmide, Lachete, Protagora, Menone, Eutidemo, Gorgia; I gruppo platonico, Cratilo, Convito, Fedone, Repubblica I; gruppo platonico-medio, Repubblica II-IV, Repubblica V-VII, Repubblica VIII-IX, Repubblica X, Fedro, Teeteto, Parmenide; ultimo gruppo, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, Leggi.
REPUBBLICA
(gr. Politéia), opera di Platone appartenente ai dialoghi della maturità; composta di 10 libri, costituisce una sorta di summa del suo pensiero. Il contenuto del dialogo è politico: Platone infatti prende posizione tanto contro la teoria protagorea, che ammette la possibilità di un ordinamento democratico fondato sul possesso della virtù politica da parte di ogni cittadino, quanto contro la teoria gorgiana, che nega invece tale possibilità, sostenendo che il potere tocca al più forte. Il discorso platonico si regge sul presupposto dell'indissolubilità di virtù e vita politica, ma poiché il problema della virtù è, socraticamente, legato a quello del sapere, ne deriva un'ulteriore eguaglianza tra sapere e vita politica. Il problema della scienza (il sapere), il problema etico (la virtù), il problema politico (l'ordinamento di una comunità) s'intrecciano così strettamente, facendo della R. a un tempo un trattato di scienza politica, di morale e di educazione (la preparazione del cittadino alla vita in tale comunità). Platone traccia le linee di uno Stato ideale, tale da garantire la realizzazione della giustizia: all'inizio Socrate apre la discussione sulla definizione della giustizia e confuta successivamente le posizioni degli aristocratici Cefalo e Polemarco e del sofista Trasimaco; passa poi a proporre il problema della giustizia a livello dello Stato: non si può infatti essere perfettamente uomini, né perfettamente giusti in uno Stato ingiusto; una città nasce dai bisogni dell'uomo (il vitto, la casa, gli abiti), per i quali egli non può fare a meno degli altri. Dalla moltiplicazione dei bisogni nasce poi la differenziazione dei ruoli, secondo le attitudini di ciascuno. Si ha così una classe di artigiani, con il compito di provvedere ai bisogni materiali; di guardiani, preposti alla difesa dello Stato; di reggitori, cui spetta il compito di governare la città. Posta la necessità dell'educazione dei cittadini, Platone analizza le virtù specifiche di ciascuna classe: propria dei reggitori è la sapienza, dei guardiani il coraggio, di tutte e tre le classi la temperanza. La giustizia consente a tutti di "esplicare i propri compiti", creando un'armoniosa vita comunitaria. Seguono poi due temi di grande interesse: l'identità di educazione e di compiti fra uomini e donne (la differenza dei sessi non implica infatti disparità di attitudini alle diverse funzioni nello Stato, che sono così ugualmente distribuite fra uomini e donne, proprio in quanto hanno ricevuto la medesima educazione); la comunità delle donne e dei figli: questo allo scopo di garantire un'effettiva parità di tutti i componenti dello Stato, che devono avere accesso alle varie cariche indipendentemente da ragioni di casta o di ricchezza, ma esclusivamente in base alle loro attitudini. Governanti di questa società ideale devono essere i filosofi, perché solo essi sono in grado di "contemplare la verità" e quindi di provvedere al bene di tutti.
APOLOGIA DI SOCRATE
una delle prime opere di Platone, scritta dopo la condanna di Socrate. Platone introduce il grande maestro nell'atto di pronunciare la sua difesa davanti ai giudici. L'argomentazione è divisa in tre parti: nella prima Socrate abbatte il cumulo di accuse a suo carico; nella seconda, alla dichiarazione di colpevolezza da parte del tribunale e alla conseguente richiesta di morte, Socrate chiede di essere mantenuto a spese dello Stato nel Pritaneo come cittadino benemerito, suscitando lo sdegno di una parte dei giudici, che prendono la decisione di condannarlo; nella terza Socrate ha già ascoltato la sua condanna e proclama che egli non considera affatto la morte un male, lanciando un ultimo monito ai giudici che gli sono stati avversi. Il processo, celebrato ad Atene nel 399 a. C., era stato introdotto da Meleto, oscuro uomo di paglia di Anito, salito a grande potenza in Atene dopo la cacciata dei Trenta tiranni. L'accusa era di empietà per aver rinnegato il culto agli dei ufficialmente riconosciuti e per averne introdotti dei nuovi inculcando tali dottrine anche ai giovani. Sullo scritto di Platone i critici hanno avanzato diverse ipotesi: lo Schanz afferma che si tratta di una finzione letteraria; il Wilamowitz propende per la fedeltà storica almeno nelle prime due parti; altri tengono posizioni intermedie. In realtà Platone nello stendere l'A. obbedisce alle proprie esigenze artistiche e presenta Socrate come egli lo sente nel suo spirito. L'A. non è quindi una difesa davanti ai giudici, ma una presentazione del maestro alla storia del pensiero umano.
EUTIFRONE
(gr. Euthýphron), dialogo di Platone che è generalmente posto dalla critica fra i suoi scritti giovanili o socratici: ha come interlocutori Socrate e l'indovino E. e come argomento la pietà religiosa o santità. Il dialogo non giunge a definire la santità, ma ribadisce la tesi fondamentale del socratismo secondo la quale la virtù, pur articolandosi variamente, è unica e apre la via alla concezione platonica per cui ogni manifestazione particolare di qualche cosa rimanda a un'unità più profonda che in essa si rivela, ma non si esaurisce (l' idea).
CRATILO
(gr. Kratýlos; lat. Cratylus). Filosofo ateniese (sec. V a. C.) considerato da Aristotele maestro di Platone. In C. l'unità cosmica e la sua derivazione da Dio secondo la visione eraclitea si esasperano nello scetticismo sull'impossibilità del conoscere e della scienza: se è impossibile fissare il flusso delle cose, di esse non si potrà dare vera scienza. §Da C. prende nome il dialogo di Platone, composto probabilmente intorno al 386 a. C., sul linguaggio, in particolare sul problema dell'origine dei nomi delle cose. Contro le due tesi estreme, l'una democritea, l'altra eraclitea, secondo cui ogni nome viene attribuito per convenzione, o invece dipende strettamente dalla natura della cosa nominata (per cui ogni cosa ha il nome giusto in tutte le lingue), Platone sostiene una posizione problematica: da un lato il nome è uno strumento per distinguere le cose, e a tale scopo viene creato e usato dagli uomini; dall'altro, le cose hanno una essenza che impone nei loro confronti un comportamento determinato: sicché sono le cose stesse a richiedere di essere chiamate in un modo piuttosto che in un altro.
GORGIA
dialogo di Platone, che vi conduce una critica serrata alla retorica dei sofisti. Secondo Platone, la retorica non ha un proprio oggetto e permette di discorrere su tutto, riuscendo però a persuadere solo chi è ignorante sull'oggetto trattato; essa non ha perciò le caratteristiche proprie di ogni vera scienza o arte: quella di essere persuasiva solo intorno al proprio oggetto.
PROTAGORA
(o Dei Sofisti), dialogo di Platone appartenente al primo periodo. Interlocutori sono Socrate, Ippia di Elide, Prodico di Ceo, Callia, Alcibiade e Protagora. Apre la discussione Protagora, che afferma essere la sofistica la base del progresso umano e l'unica scienza capace d'insegnare la virtù politica (l'arte di convivere assieme). Socrate avanza dubbi su quest'ultima affermazione e Protagora, per salvare la sua tesi, introduce un mito: Giove diede agli uomini la giustizia e il pudore, fondamento della virtù politica. Questa è quindi una virtù innata e quando la si insegna ai giovani si cerca di farla armonizzare con la virtù in senso generale. Socrate allora chiede se le singole virtù fanno parte della virtù così intesa oppure se ognuna di esse fa parte a sé. Protagora si dichiara per l'indipendenza delle varie virtù. Intervengono gli altri presenti; Callia si schiera con Protagora, Alcibiade con Socrate. Ora l'interrogante è Protagora, che però si slancia in un lungo excursus sulla differenza fra la "difficoltà di diventar buoni" e la "difficoltà di essere buoni". Socrate, usando le stesse arti di Protagora, gli rivolta il discorso e gli dimostra che "nessuno fa il male volontariamente"; quindi riprende le sue domande e chiede a Protagora se rimanga del parere di prima. Protagora ammette che le varie virtù sono simili fra loro, ma che da esse si differenzia il coraggio. Socrate incalza osservando che anche il coraggio, se non è folle temerarietà, si riconduce alla saggezza con cui l'uomo coraggioso disciplina le sue forze. Quindi la virtù è una e come tale si deve insegnare.
FEDRO
dialogo di Platone, collocabile nella fase della completa maturità. Ha come oggetto l'amore, nel suo rapporto con l'anima, cioè l'aspirazione dell'anima a conquistare il mondo della bellezza. L'anima è simile a un cocchio trainato da una coppia di cavalli alati, uno ordinato e docile, l'altro bizzoso e insofferente. Il cocchiere indirizza il tiro dei cavalli verso l'iperuranio, il mondo delle idee. Ma la resistenza del cavallo balzano tira l'anima verso il mondo sensibile. Le anime che più hanno contemplato nel regno ultraceleste si incarneranno in uomini devoti al culto della sapienza e della verità; le altre s'incarneranno in corpi di uomini alieni da tale ricerca.
TEETETO
(gr. Theaitetos; lat. Theaetetus), matematico e filosofo greco (Atene ca. 415 a. C.-ca. 368 a. C.). Insegnò a Eraclea e poi fu ad Atene come seguace di Platone. È noto per il dialogo platonico che gli è dedicato e per aver svolto ricerche sulla teoria dei numeri, sulle quantità irrazionali e sui solidi regolari di notevole importanza per lo sviluppo della matematica greca.
IL SOFISTA
(o Dell'Essere), dialogo di Platone (gr. Sophistes e perì tû óntos) in cui il filosofo consuma il suo "tradimento" verso Parmenide, ammettendo la realtà del "non-essere". Nel dialogo sono a confronto Socrate e uno scolaro di Parmenide. Questi si scaglia contro i sofisti definendoli "cacciatori di giovani ricchi", "venditori di falsa scienza", "maestri di contraddizione". In realtà tante contumelie contro i sofisti non hanno lo smalto del rigore logico, perché proprio mentre avanza la dimostrazione della realtà del non-essere (un'idea è se stessa, ma contemporaneamente non è un'altra; di conseguenza l'alterità non è il contrario dell'essere, perciò il non-essere esiste), Platone deve ammettere implicitamente che i sofisti sono giustificati quando asseriscono l'impossibilità dell'errore. È chiaro che al di là della diatriba con i sofisti, il dialogo tocca i punti più salienti quando s'innalza alla speculazione sull'essere, che il filosofo vuole svincolare dall'immobilità eleatica per calarlo attraverso il concetto di non-essere nel movimento.
TIMEO
(gr. Tímaios). Titolo di un dialogo di Platone, appartenente all'ultimogruppo di opere, in cui il filosofo fa coraggiosamente la sua autocritica: sul problema della natura Platone contrappone alla spiegazione meccanicistica dei fisici democritei un'ipotesi matematico-finalistica, nella quale trovano rilievo la dottrina pitagorica di un'anima del mondo con adeguate analogie fra macrocosmo e microcosmo; la convinzione che l'ordine della natura sia antecedente alla natura stessa e che i fenomeni procedano dai principi naturali e non questi dai fenomeni. Data la "materialità" dell'oggetto trattato, Platone tenta di conferire al concetto di natura un certo grado di verità e di certezza presupponendo in essa un'immanenza almeno parziale dell'essere assoluto, riducendo i numerosi fenomeni ai quattro elementi di Empedocle, e questi ancora restringendo a poche essenziali figure geometriche, concepite come rappresentazioni di numeri, che sarebbero alla radice della realtà. Il tutto chiuso in forme letterarie smaglianti, che per troppo tempo ancoreranno la ricerca posteriore alla "tentazione metafisica" della scienza: solo le lotte dei sec. XVI e XVII riusciranno a farla superare e a dare la vittoria finale alla tesi di Democrito.
FILEBO
(gr. Phílebos), dialogo di Platone sull'amore: il filosofo si propone di risolvere l'annosa questione recedendo da una posizione estremista iniziale, che escludeva l'amore dal suo mondo razionale, e accettandolo come "piacere puro" all'ultimo posto nella scala dei valori.
POLITICO
(gr. Politikós). Dialogo di Platone. Composto fra la Repubblica e Le leggi, è l'espressione del ripensamento autocritico del filosofo sul problema dello Stato. Platone conferma la sua visione aristocratica del governo e afferma che l' optimum è dato dalla monarchia o al massimo da un'oligarchia aristocratica. È invece da escludere la forma democratica, perché, sotto la facciata della legalità, nasconde l'arbitrio. Fondamento del buon governo è la scienza che, applicata al contesto politico, significa la cura del benessere dei sudditi. Un governante che possegga la vera scienza del governare non dovrebbe aver bisogno di leggi, le quali, per la loro immutabilità, sono di ostacolo a quei mutamenti che l'arte del governo considera necessari. Tuttavia, considerando che nella realtà un vero governo ideale non esiste, è preferibile che il monarca si attenga alle leggi, perché esse costituiscono un baluardo alle tentazioni della tirannide. Nel P. Platone si arrende alla realtà e cerca di calare nel concreto la grandiosa utopia della Repubblica, che era fondata sulla saggezza del filosofo-governante. Lo stile del dialogo è severo e adeguato al rigore scientifico e metodologico che sostiene il ragionamento.
LE LEGGI
dialogo di Platone in 12 libri, pubblicato postumo da Filippo di Opunte. Ultima opera di Platone, è caratterizzata dal tono solenne e meditativo della trattazione filosofica: il filosofo, consapevole della "debolezza della natura umana", si dichiara favorevole alla creazione di leggi e sanzioni penali che garantiscano l'ordine in uno Stato giusto. La legge tuttavia non deve avere solo uno scopo punitivo, ma deve svolgere una funzione educativa, trasformandosi in un discorso che persuada della giustizia e ragionevolezza della legge. La stessa punizione non deve essere una vendetta degli individui o dello Stato, ma deve avere come scopo la correzione del colpevole. Lo scopo generale delle leggi si riassume pertanto nell'educazione dei cittadini alla virtù che ancora socraticamente Platone identifica con la felicità. L'elemento nuovo nelle L., rispetto alla Repubblica, è che l'educazione del cittadino, compito primario dello Stato, è fondata su alcuni principi religiosi: in primo luogo, contro il puro meccanicismo delle leggi fisiche, Platone afferma la necessità di riconoscere un principio divino che muovendo se stesso muova le cose del mondo secondo un piano ordinato e intelligente; in secondo luogo nega che la divinità sia indifferente alle vicende umane, perché in tal caso sarebbe inferiore alle creature umane, che vogliono rendere sempre più perfette le loro opere.