Divina Commedia: Inferno (Canti III - V - X)

Materie:Appunti
Categoria:Dante

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Testo

Canto III
Il terzo canto si apre con l’ingresso di Virgilio e Dante nell’Inferno, attraverso la gigantesca porta che inquieta chi vi passa e legge l’iscrizione. Dante sente le urla e i lamenti della prima schiera di dannati (la prima connotazione è auditiva per acuire il timore del lettore verso l’Inferno): i pusillanimi. Essi sono coloro i quali in vita non si sono schierati, non hanno preso alcun partito e sono considerati inetti, ignavi. Qui non è ancora Inferno, è il Vestibolo, ovvero l’anticamera. Infatti l’Inferno vero e proprio non li accetta perché non trarrebbe alcun giovamento da individui senza infamia. Il contrappasso che Dante utilizza per le anime dei pusillanimi è per contrario: mentre in vita non si sono mai schierati vivendo senza infamia né lode, ora sono costretti a portare una bandiera e ad essere continuamente punti da mosconi; il sangue provocato dalle punture viene succhiato da vermi schifosi che strisciano al suolo. Virgilio invita sdegnosamente Dante a passare non curandosi di inetti che non meritano alcuna attenzione. I due giungono all’Acheronte, il fiume che attraverso l’Inferno e vedono Caronte giungere su un’imbarcazione intimorendo e minacciando le anime dannate. Prima di descrivere il demone traghettatore si sentono le grida, questo è un elemento religioso per spaventare i lettori riguardo l’Inferno. Caronte è alquanto restio ad accompagnare le due anime non dannate all’altra rima ma Virglio lo ammonisce con la celebre frase che utilizzerà anche per Minasse: “vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”.
Sul finire del canto, mentre Virgilio parla un terremoto pauroso e un improvviso bagliore causano lo svenimento di Dante.

Canto V
Nel canto V dell’Inferno dantesco viene descritto il secondo cerchio, là dove i lussuriosi espiano le proprie colpe, cioè coloro che in vita non seppero frenare gli istinti, facendosi travolgere dalla passione carnale sopprimendo la ragione, colpevoli di amore folle e adulterino(tema tipicamente stilnovistico). Essi sono condannati ad essere sbattuti e percossi da una perenne bufera. Dante utilizza in questo caso un contrappasso per analogia: come gli innamorati in vita vengono spinti e sbattuti dagli istinti, così nell’inferno vengo percossi da un vento violentissimo. I dannati, quando riconoscono il punto da dove proviene il vento bestemmiano, consapevoli che la loro pena è eterna. Il secondo cerchio è più piccolo rispetto al primo, ma in esso vi è un dolore più atroce (man mano si scende nei 9 cerchi dell’imbuto infernale le condanne saranno sempre più dolorose).
Il primo personaggio che compare nel V canto è Minasse, orribile mostro cretese della mitologia classica che svolge il compito di giudice infernale: egli infatti esamina i peccati di ciascun anima e avvolge la coda attorno al proprio corpo tante volte quanti sono i gironi dell’inferno in cui deve finire. Minasse è un demone, lo si evince dalla coda spropositatamente lunga e dal fatto che ringhi, e Dante, quando lo presenta, vuole spaventare il lettore: “Stavvi Minos orribilmente, e ringhia”.

Canto X
Nel decimo canto Virgilio e Dante si trovano nel sesto cerchio e stanno camminando su un angusto sentiero dentro le mura della città di Dite. Il desiderio di Dante è di vedere coloro che sono nei sepolcri infuocati, poiché sono tutti scoperti e non è presente alcun guardiano. La guida spiega che saranno tali solo fino al giudizio universale, quando gli spiriti avranno ripreso ciascuno il proprio corpo. Qui si trovano gli eretici e tra questi gli Epicurei. Epicuro fu un filosofo greco che visse tra il quarto e il terzo secolo a.C. la cui dottrina era prettamente materialista, egli infatti distingueva varie forme di felicità (bisogni naturali e bisogni accessori) e poi ne sceglieva una. Gli epicurei giacciono all’inferno perché hanno rinnegato l’immortalità dell’anima. Il contrappasso è per analogia: le anime dannate possiedono uno spazio limitato (la tomba) perché hanno avuto una visione limitata della realtà e non credevano all’immortalità dell’anima. I sepolcri sono infuocati perché gli eretici, nel medioevo erano puniti col fuoco (messi al rogo). Mentre i due camminano, una voce invita Dante a fermarsi, avendo riconosciuto dall’accento che si tratta di un fiorentino: si tratta di Farinata degli Uberti, ghibellino che sconfisse i guelfi a Firenze e difese la propria città dalla distruzione. La conversazione tra Farinata e Dante prosegue in tono polemico visti i diversi partiti dei due (ghibellino convinto il primo, guelfo il secondo). In questi accesi discorsi si evidenzia la fierezza di Manente di Iacopo degli Uberti che si preoccupa più di difendere la sua fazione che della propria condizione di dannato. All’improvviso dalla tomba a fianco sorge un’ombra, visibile solo dal mento in su: è Cavalcante Cavalcanti nel sesto cerchio poiché epicureo), padre di Guido che, riconosciuto Dante, gli chiede come mai il figlio non sia con lui. Il pellegrino spiega che ciò non è dovuto a demeriti letterari, anzi, proprio Dante è estimatore di Guido Cavalcanti. Il padre ne fraintende il significato e pensa che il figlio sia morto cade riverso nel sepolcro e non si rialza più. Farinata, che ha assistito impassibilmente alla drammatica scena ripensando alle precedenti parole del poeta, gli profetizza l’esilio e chiede come mai Firenze s’accanisce contro la famiglia degli Uberti. Dante spiega che tutto ciò è causa della battaglia di Montaperti dove i ghibellino guidati dallo stesso Farinata vinsero i guelfi. Il patriota ghibellino ribatte che senza di quella Firenze ora sarebbe distrutta. Così, per un momento, i due avversari politici sono uniti nel comune amore per Firenze. Dante chiede poi come mai egli sia in grado, come altri dannati, di predire il futuro, mentre Cavalcanti ha mostrato di ignorare il presente. Avendo saputo che i dannati sono come i presbiti, che vedono le cose lontane e non quelle vicine, ma che saranno ciechi per sempre dopo la fine del mondo, prega Farinata di dire a Cavalcante che il figlio è ancora vivo. Virgilio incita il discepolo ad affrettarsi per proseguire il viaggio. Tuttavia, questi indugia ancora per chiedere chi altri si trovi nel cerchio degli eretici (Federico II…). Rimuginando tra sé e sé sulla profezia dell’esilio, Dante riprende il cammino, mentre Virgilio lo conforta dicendogli che saprà del suo destino, in maniera chiara, solo nel Paradiso. I due poeti attraversano il VI Cerchio e giungono sull’orlo di quello successivo, da dove proviene un orribile olezzo.

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