Alcuni canti della Divina Commedia

Materie:Appunti
Categoria:Dante

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Testo

CANTO I
All’età di trentacinque anni, Dante si ritrova smarrito in una selva buia e intricata, in una condizione di profondo sconforto e di deviazione sia morale che intellettuale (1300). Dopo un lungo e angoscioso vagare, con la mente e con il cuore annebbiati dal “sonno” del peccato, finalmente raggiunge le pendici di un colle illuminate dal sole. Ma ha appena tempo di rinfrancarsi e di iniziare l’ascesa, che il cammino gli viene sbarrato da tre belve selvagge: la lonza (lussuria), il leone (superbia) e la lupa (avarizia). La vista delle tre fiere respinge Dante verso il basso. Mentre il poeta peccatore dispera di raggiungere la vetta del colle, gli appare una figura umana a cui chiede aiuto. È il poeta latino Virgilio. Dopo aver salutato l’antico poeta con grande ammirazione e riverenza, il pellegrino lo supplica di salvarlo dalla lupa, la più feroce e insaziabile delle tre fiere. Ma Virgilio gli spiega che per ritrovare la “dritta via” gli conveniva scegliere un percorso diverso. Dice, poi, che molte sono le vittime della lupa, e che cresceranno ancora, finché non arriverà il Veltro che l’annienterà ricacciandola nell’Inferno. Il Veltro è un salvatore che non ambisce ai beni terreni, ma alla sapienza, all’amore e alla virtù. Il poeta latino si offre, pertanto, quale guida verso la salvezza al pellegrino Dante. Gli farà da scorta attraverso l’Inferno ed il Purgatorio, e poi ci sarà un’anima più degna di lui a guidarlo nel Paradiso. Dante si rinfranca e si affida con fiducia a colui che chiama maestro, seguendone i passi.
CANTO III
La scritta di contenuto minaccioso sulla porta che introduce nell’Inferno avverte chi entra delle pene eterne a cui sono condannati i dannati e della impossibilità di tornare indietro. Dante atterrito è rincuorato da Virgilio, che lo prende affettuosamente per mano e lo introduce nel regno di morti. I due pellegrini si trovano nell’Antinferno. L’aria senza cielo e senza stelle risuona di gemiti e di lamenti: sono le anime degli ignavi che in vita non fecero né il bene né il male. Così stanno immediatamente fuori dell’Inferno assieme agli angeli neutrali, quelli cioè che non si schierarono né con Dio, né con Lucifero, quando questi si ribellò a Dio. La pena degli ignavi è quella di correre dietro a un’insegna, punti a sangue da vespe e da mosconi. A terra vermi schifosi ne raccolgono le lacrime miste al sangue che cola dalle punture. Guardando oltre e procedendo, il pellegrino vede una gran folla di anime in riva ad un fiume, in attesa di essere traghettate. Il fiume, il primo di quelli infernali, è l’Acheronte e il traghettatore è Caronte, un demone dai capelli bianchi e dagli occhi cerchiati di rosso, già nocchiero delle anime dei morti nei miti etruschi e latini. Questi si accosta con la sua navicella alle anime accalcate e ai due pellegrini, gridando terribili minacce contro i dannati, che attendono di entrare nella città di Dite. Mentre un gruppo di anime si ammassa sulla barca di Caronte, altre si radunano sulla riva in attesa del loro turno. Caronte rivolge parole minacciose anche a Dante, che vorrebbe cacciare via, essendosi accorto che è vivo. Interviene Virgilio che, dopo aver confortato e incoraggiato il discepolo prospettandogli la salvezza, rimprovera il traghettatore infernale, richiamando con una sorta di formula rituale la volontà di Dio, che vuole questo viaggio nel mondo dei morti per fini provvidenziali. All’improvviso, un fortissimo terremoto, seguito da turbini di vento e da fulmini rossastri, fa perdere i sensi al pellegrino.
CANTO V
I due pellegrini discendono dal primo cerchi (ignavi e limbo) al secondo, dove comincia il vero e proprio inferno. Ne è custode Minosse che ha il compito di stabilire il luogo della pena dei singoli dannati che giungono al suo cospetto, comunicandola loro mediante avvolgimenti della coda, dopo averne sentita la confessione. Dante è violentemente apostrofato da questo giudice infernale, che lo invita a non fidarsi né dell’apparente facilità del cammino né della sua stessa guida. Interviene Virgilio, avvertendo Minosse che il viaggio del pellegrino è voluto da Dio (ripetendo la formula rituale che ha già usato con buon esito per Caronte). Superato Minosse il pellegrino si trova in un luogo privo di luce e risuonante di rumori cupi e violenti, come quelli del mare in tempesta. Le schiere dei lussuriosi ,così come in vita si fecero travolgere dalla passione nella stessa maniera sono travolti dalla bufera infernale, che non concede loro tregua, sbattendoli contro la roccia e tormentandoli con la continua “rapina”. Una schiera di anime peccatrici antiche procede in fila. Dante nota due anime strette l’una all’altra e le prega di fermarsi per parlare con lui. Sono Paolo e Francesca, celebre coppia di amanti uccisi dal marito storpio di Francesca, e fratello di Paolo, che aveva scoperto il loro tradimento. Il poeta – peccatore chiede a Francesca di raccontargli i particolari della loro vicenda. Essa gli racconta la tragica storia dell’innamoramento, complice la lettura di un romanzo cavalleresco, a cui seguirà l’inevitabile tradimento. Per la morale del cristiano Dante la passione dei due cognati è sicuramente una passione colpevole, ma il poeta – peccatore non può evitare di esserne profondamente commosso e di rimanere altrettanto colpito dalla nobiltà di animo di Francesca. Il racconto della donna, che Paolo ascolta in silenzio – ma alla fine piangerà – tocca così intensamente Dante, che sviene per la pietà e per la compartecipazione alla tragedia di due. E infatti, egli avverte la contraddizione lacerante tra un amore, che pure considera nobile perché nato in due animi gentili, e le conseguenze peccaminose che ne derivano e che danneranno per l eternità di due amanti ad essere, perennemente uniti nella pena, così come lo furono nella colpa.
CANTO VI
Appena il pellegrino riprende i sensi, scorge davanti a sé una spettacolo impressionante. Si trova nel terzo cerchio, dove sono puniti di golosi, immersi in una sozza fanghiglia e tormentati da una pioggia gelida e sferzante mista a grandine. Su di loro incombe il demonio Cerbero, un mostruoso cane con tre teste dall’aspetto umano, complete di barba nera e unta e con gli occhi di bragia. Cerbero si avventa sugli spiriti con latrati assordanti, squartandoli e scuoiandoli con le zampe unghiate. I miseri dannati urlano come cani per il dolore che procura loro la pioggia sulle ferite e cercano inutilmente di schermirsi rotolandoli nel fango. Scorgendo i due pellegrini Cerbero è preso da un raptus di furore e spalanca le bocche fameliche e minacciose. Virgilio lo placa gettandogli nelle fauci spalancate una manciata di terra. Mentre il discepolo segue Virgilio, una di queste anime si solleva a sedere, chiedendo di essere riconosciuto. È Ciacco, un fiorentino, reso irriconoscibile dalle ferite e dal fango. A lui il pellegrino chiede notizie di Firenze e del suo futuro politico. Ciacco profetizza che entro tre anni il partito dei Neri prenderà il sopravvento su quello dei Bianchi, dopo una lunga lotta che farà molte vittime (tra cui lo stesso Dante). Poi aggiunge che la città è dominata dalla superbia, dall’invidia e dall’avarizia e che i giusti sono pochi e inascoltati. Quando poi Dante gli chiede notizie sulla sorte ultraterrena dei fiorentini illustri della precedente generazione, Ciacco afferma che sono tutti, per colpe diverse, nelle zone più profonde dell’Inferno; vale a dire che i loro meriti civili verso Firenze non sono bastati a salvarli dalla dannazione eterna. Dopo aver chiesto di essere ricordato sulla terra, Ciacco ripiomba per sempre nel fango. Virgilio spiega a Dante che non si risveglierà più fino al Giudizio Universale, quando tutte le anime riprenderanno i propri corpi. Da quel momento in poi, perché in un certo senso più perfetti, anche se dannati, essi soffriranno per l’eternità una maggiorazione di pena (come insegna la dottrina aristotelica – tomista). Ma ormai, con la sua guida, il pellegrino già si appresta a scendere nel quarto cerchio, custodito dal demonio Pluto.
CANTO X
Il pellegrino procede, assieme alla sua guida, tra le mura della città di Dite e i sepolcri infuocati. Virgilio prosegue nella sua illustrazione sulla sorte degli eretici, i cui sepolcri saranno tutti serrati dopo il giudizio universale, quando gli spiriti avranno ripreso ciascuno il proprio corpo. Improvvisamente, da una delle tombe, si sente uscire una voce, che chiede a Dante di fermarsi, avendolo riconosciuto dall’accento toscano. Spinto da Virgilio, che lo rassicura, il pellegrino si avvicina al sepolcro di Farinata e può vederlo rizzarsi contro l’Inferno dalla cintola in su. Comincia così un breve ma polemico dialogo tra l’anima del fiero ghibellino e Dante che, essendo guelfo, rappresenta un suo avversario politico. L’interrompe l’ombra di Cavalcante Cavalcanti che chiede notizie del figlio Guido. Perché non è con Dante? Questi risponde che l’esclusione di Guido dall’alta missione non dipende da indegnità poetica. Ma le parole del pellegrino sono equivocate da quel padre trepidante per la sorte del figlio, che crede di dedurne la notizia della morte e che perciò si accascia nel sepolcro senza aggiungere altro. Farinata impassibile, riprendendo il discorso interrotto, si duole della crudeltà dei Guelfi contro i Ghibellini. Dante risponde che ciò è a causa del ricordo della strage seguita alla battaglia di Montaperti. Farinata, dopo aver accennato all’imminente esilio dei Bianchi, ribatte che quella è stata l’inevitabile conseguenza delle lotte. Così, per un momento, i due avversari politici sono uniti nel comune amore per Firenze. Dante chiede poi come mai egli sia in grado, come altri dannati, di predire il futuro, mentre Cavalcanti ha mostrato di ignorare il presente. Avendo saputo che i dannati sono come i presbiti, che vedono le cose lontane e non quelle vicine, m a che saranno ciechi per sempre dopo la fine del mondo, prega Farinata di dire a Cavalcante che il figlio è ancora vivo. Virgilio incita il discepolo ad affrettarsi per proseguire il viaggio. Tuttavia, questi indugia ancora per chiedere chi altri si trovi nel cerchio degli eretici (Federico II…). Rimuginando tra sé e sé sulla profezia dell’esilio, Dante riprende il cammino, mentre Virgilio lo conforta dicendogli che saprà del suo destino, in maniera chiara, solo nel Paradiso. I due poeti attraversano il VI Cerchio e giungono sull’orlo di quello successivo, da dove proviene un orribile puzzo.
CANTO XIII
I due poeti giungono nella selva dei suicidi (VII cerchio). Mentre s’inoltrano tra gli arbusti secchi, spinosi e contorti, sui cui rami nidificano le mostruose Arpie, si sentono strida e lamenti. Altri terribili lamenti sembrano provenire da dietro gli arbusti. Dante si guarda attorno smarrito, poiché il bosco è apparentemente deserto. Virgilio lo invita a spezzare un ramoscello da un gran pruno e dal ramo spezzato sgorgano assieme sangue e grida di dolore. Virgilio spiega all’anima imprigionata nella pianta che il gesto del discepolo è stato necessario, affinché potesse verificare un simile prodigio. Poi chiede all’anima offesa di rivelare il suo nome. L’anima è quella di Pier della Vigna, consigliere prediletto di Federico II, accusato ingiustamente da cortigiani invidiosi di un complotto contro l’imperatore e suicida per non aver retto al peso dell’infamia. Chiede, pertanto, a Dante di rendere giustizia alla sua memoria infangata dal terribile colpo infertole dall’invidia. Il pellegrino e così commosso da non poter parlare. Virgilio invita Pier della Vigna a descrivere la condizione dei suicidi. Questi spiega che, appena l’anima del suicida si separa violentemente dal corpo, Minosse la invia nel settimo cerchio dove, cadendo a caso nella selva, germoglia trasformandosi prima in un germoglio e poi in un arbusto selvatico. I lamenti che si odono nella selva sono causati dalle ferite procurate dalle Arpie, quando queste si cibano dei rami delle piante in cui sono imprigionati le anime dei violenti contro se stessi. Dopo il Giudizio, queste anime saranno le uniche a non riprendere i propri corpi, che, al contrario, rimarranno appesi alla pianta, entro cui sono imprigionati per l’eternità. Mentre il due pellegrini ascoltano Pier della Vigna, arrivano a sinistra due dannati nudi e graffiati, che corrono inseguiti da cagne nere, spezzando non pochi rami. Uno dei due, Lano da Siena, sempre correndo invoca una seconda morte, che lo liberi da tale supplizio; l’altro, Jacopo da sant’Andrea, (scialacquatori) si abbatte contro un cespuglio, e qui viene raggiunto e dilaniato dalle cagne fameliche. Il cespuglio straziato dalle ferite maledice il dannato e poi, alla domanda di Virgilio, rivela di essere stato in vita un cittadino di Firenze, la città destinata a essere continuamente sconvolta da guerre civili, e di essersi tolto la vita impiccandosi in casa propria.
CANTO XXXIII
Il viaggio nel regno del peccato sta per concludersi. Mentre i due pellegrini stavano attraversando la seconda zona del nono cerchio (traditori della patria e del partito, traditori degli ospiti e degli amici), si era impressa prepotentemente nei loro occhi e nella loro memoria l’immagine terribile di un dannato nell’atto di rosicchiare il cranio di un altro peccatore. È proprio costui, che sollecitato da Dante, comincia a raccontare la sua tragica storia. Dice di essere il conte Ugolino e che il cranio che sta azzannando è quello di un infame traditore, l’arcivescovo Ruggieri. Ugolino dichiara di volere narrare solamente della sua morte e quella dei figli e degli innocenti nipoti; comincia così a raccontare di un sogno premonitore che gli aveva preannunciato la morte per fame. Dopo essere stati tenuti prigionieri per alcuni mesi nella torre dei Gualandi, un mattino i cinque prigionieri sentirono che la porta della cella veniva inchiodata e capirono che da quel momento in poi nessuno più avrebbe portato loro del cibo. La loro agonia fu straziante, degna per l’appunto della ferocia di certe faide medievali. Dopo aver visto morire uno dopo l’altro i figli e i nipoti, anche Ugolino trasse l’ultimo respiro. Al termine del racconto, Dante pieno di sdegno, pronuncia una violenta invettiva contro Pisa, “vituperio de le genti”, cui augura di essere inondata e sommersa dall’Arno. I traditori della patria e del partito sono immersi nel ghiaccio fino a metà del capo con il viso rivolto verso l’alto. I traditori degli amici e dei commensali sono immersi nel ghiaccio, in posizione supina, sempre con il viso rivolto verso l’alto

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