Materie: | Tesina |
Categoria: | Attualita |
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Data: | 04.06.2007 |
Numero di pagine: | 6 |
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1. Definizione
"Complesso di piccole associazioni clandestine (cosche), rette dalla legge dell'omertà e del silenzio, che esercitano il controllo di alcune attività economiche e del sottogoverno nella Regione Siciliana": così, alla voce mafia, recita un dizionario della lingua italiana, il Devoto-Oli.
Il termine “mafia” ha tuttora un’etimologia incerta, ma la più seguita lo fa derivare dall'arabo mahias, "smargiasso", "sfacciato", e con tale significato essa compare per la prima volta in Sicilia nel 1658.
2. Le origini
"La mafia - scrive lo storico Paolo Pezzino - è una forma di criminalità organizzata che non solo è attiva in molteplici campi illegali, ma tende anche ad esercitare funzioni di sovranità, normalmente riservate alle istituzioni statali, su un determinato territorio [...]. Si tratta quindi di una forma di criminalità che presuppone alcune condizioni: l'esistenza di uno Stato di tipo moderno, che rivendichi a sé il monopolio legittimo della violenza, un'economia libera da vincoli feudali [...], l'esistenza di violenti in grado di poter operare “in proprio”, imponendo anche alle classi dirigenti la propria mediazione violenta".
La definizione riportata descrive le condizioni nelle quali viene a trovarsi la Sicilia dopo l'abolizione del sistema feudale, proclamata dal Parlamento siciliano nel 1812.
Il trasferimento di gran parte della proprietà terriera alla “borghesia”, e quindi il nascente accentramento amministrativo, indusse i nuovi proprietari ad organizzare “bande” o “squadre” indispensabili per la realizzazione del controllo territoriale. Compiti di queste ultime erano: l'offerta di "mediazione" fra ladri e derubati e, più in generale, fra i braccianti, i contadini e i nuovi proprietari, la protezione degli affiliati, e la corruzione dei funzionari pubblici. Inoltre le "cosche" si affermarono progressivamente come "istituzioni di soccorso", capaci di superare con successo ogni conflitto anche con gli organi statali.
Nel periodo seguente l'Unità d'Italia, cioè a partire dal 1860, si videro i primi esperimenti di coordinamento fra cosche; la sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte del governo centrale, restio ad avviare un'efficace azione repressiva, consentì la penetrazione della mafia nelle istituzioni legali, contribuendo a legittimare ulteriormente il potere mafioso agli occhi dei siciliani.
3. Nel ventennio fascista e nel secondo dopoguerra
La campagna repressiva contro la mafia, voluta da Benito Mussolini (1883-1945) dopo un viaggio in Sicilia nel maggio del 1925 e affidata al prefetto Cesare Mori (1872-1942), si articolava su un piano sia repressivo che sociale: sotto il primo profilo, si faceva ricorso a misure di polizia che si proponevano di sradicare i mafiosi dai territori controllati e di attaccarne il prestigio presso le comunità; dal punto di vista sociale, l'azione era rivolta a neutralizzare il peso del ceto intermedio, abolendo le elezioni politiche e amministrative e riservando allo Stato le funzioni di protezione e di regolamentazione economica. "Entro breve tempo - constatò il sociologo tedesco Henner Hesse - con queste misure si riuscì a spezzare il potere dei mafiosi, da un lato perseguitandoli, dall'altro rendendoli superflui". Con la caduta di Mussolini, alla fine della seconda guerra mondiale, la mafia riapparve come per magia. Gli “uomini d'onore”, tutti antifascisti convinti, passarono direttamente dal carcere alle cariche pubbliche: in realtà, gran parte dei mafiosi era sfuggita alla repressione fascista rifugiandosi negli Stati Uniti d'America, dove dettero vita all'Unione siciliana, che più tardi assumerà il nome di Cosa nostra. Ora alleandosi col fronte separatista, ora sostenendo la proprietà agraria, ora schierandosi con il movimento contadino, essa si confermò compagine multifunzionale e interclassista, legata ad un determinato ambito territoriale, pur se la parentesi americana l'aveva munita di una preziosa rete di collegamenti internazionali.
4. Dal controllo degli appalti al traffico degli stupefacenti
Con l'espansione dell'intervento dello Stato nell'economia (1950), la mafia da "rurale" diventò "urbana", attirata da nuove fonti di profitto: l'edilizia, i mercati generali e gli appalti. In questi settori, essa si presentò dapprima nelle vesti tradizionali di protettrice, imponendo tangenti agli imprenditori, finendo poi per gestire in proprio l'iniziativa imprenditoriale, che poteva contare su efficaci metodi di "scoraggiamento" della concorrenza e sull'accaparramento dei finanziamenti pubblici. Nel frattempo la mafia appoggiò il movimento indipendentista siciliano e per ribadire la propria egemonia sull'isola intervenne nella repressione delle proteste contadine fino a commissionare al bandito Salvatore Giuliano la strage di Portella della Ginestra (1947), quando decine di braccianti riuniti per festeggiare il Primo maggio vennero sterminati da colpi di arma da fuoco. Sono questi gli anni in cui divenne particolarmente intenso il rapporto fra cosche mafiose e partiti politici, per i quali la mafia non mostrava alcun interesse "ideologico", limitandosi a indirizzare il consenso verso lo schieramento in grado di fornire le maggiori garanzie di conservazione del proprio potere, anche economico.
Dopo aver superato, senza subire danni strutturali, i primi processi (alla fine degli anni ’60), la mafia durante tutto il decennio successivo, anche approfittando dell'impegno dello Stato sul fronte del terrorismo, svolse un'opera d'imponente rafforzamento del proprio tessuto organizzativo allo scopo di renderlo adeguato ai mutati scenari criminali. Infatti, in quegli anni, prima il contrabbando di tabacchi lavorati esteri e poi il traffico degli stupefacenti, comportando un massiccio afflusso di liquidità, imposero alle cosche mafiose la necessità di un raccordo operativo, indispensabile per evitare "conflitti di competenza". Le singole "famiglie" - governate da un "rappresentante" - vennero raggruppate e affidate al controllo di "capi-mandamento", a loro volta facenti parte della "Commissione" o "Cupola". Il rapporto con le istituzioni incominciò a farsi più conflittuale, prevedendo, come unica alternativa alla corruzione dei rappresentanti dei poteri statali, l’eliminazione degli stessi, con metodologie di tipo terroristico, per rendere sempre più palese l'incontrollabilità del territorio da parte dello Stato.
Contemporaneamente, Cosa Nostra strinse rapporti con organizzazioni criminali straniere, fra cui la "mafia" russa, quella turca, le triadi cinesi e la yakuza giapponese, nei confronti delle quali la mafia siciliana, si pose come elemento organizzativo.
5. La lotta alla mafia
Nel 1962 venne istituita la prima Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia in Sicilia, nota anche come Commissione antimafia, che però non diede risultati apprezzabili; per rendere più efficienti le misure di prevenzione furono varate nuove leggi che introdussero il reato di "associazione di stampo mafioso" e definirono giuridicamente il delitto di mafia (1982). Le forze dell’ordine e la magistratura potevano sequestrare i patrimoni dei mafiosi e sciogliere i consigli comunali e provinciali sospettati di collusione (intesa segreta, accordo) ed esercitavano un maggiore controllo sul riciclaggio del denaro.
Nel 1982 nacque l'Alto commissariato per la lotta alla mafia e nel 1983 la nuova Commissione parlamentare antimafia, che è tuttora in funzione. Tutte queste misure culminarono nel 1986 nel primo maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone. Nel frattempo si scatenò una violenta offensiva mafiosa contro i rappresentanti del governo o più in generale contro chi ostacolava le alleanze politiche e mafiose: nel corso degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta furono uccisi il deputato democristiano Piersanti Mattarella, il deputato comunista Pio La Torre, il prefetto di Palermo generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, il giudice Rocco Chinnici, il giornalista Giuseppe Fava, il giudice Rosario Livatino; infine, con l'omicidio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992), i due giudici che con più successo avevano combattuto il fenomeno mafioso, la sfida delle cosche raggiunse il suo culmine. Nel 1991 per reprimere le alleanze mafiose, fu istituita una Direzione investigativa antimafia (DIA) e una Direzione nazionale antimafia (DNA) diretta dal 1996 dal procuratore Pier Luigi Vigna. Consistenti successi giudiziari si registrarono solo col ricorso sistematico ai cosiddetti "pentiti" o “collaboratori di giustizia” (tra cui l’ex boss Tommaso Buscetta), i quali consentirono agli investigatori di penetrare all'interno dell'organizzazione di Cosa Nostra: le varie sconfitte giudiziarie della mafia (ottenute anche con l’arresto dei famosi boss latitanti Salvatore Riina e Nitto Santapaola) indussero la stessa Cosa Nostra a cercare nuove figure politiche, apparendo quelle fino ad allora utilizzate non più in grado di assicurare l'"aggiustamento" dei processi.
Il fenomeno del “pentitismo”, è diventato però oggetto attuale di polemiche per il rischio di un suo possibile uso strumentale a fini politici. Sharyn Ughi
devo fare una ricerca sul racket e sulla mafia mi serve per un bambino di scuola elementare