Un liberalismo progressista

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Testo

Un liberalismo progressista

Ministro dell’interno nel governo Zanardelli del 1901-03 e poi presidente del consiglio con brevi interruzioni, sino al 1914, Giolitti dominò la vita politica italiana sino alla soglie della prima guerra mondiale. Il suo disegno politico mirò a unire sviluppo economico e libertà politica, condizioni necessarie, a suo giudizio, per assicurare stabilità al paese. Di fronte all’affermarsi del movimento socialista lo statista piemontese puntò a integrare la classe operaia nelle istituzioni dello stato liberale, per trasformare il proletariato industriale da classe potenzialmente rivoluzionaria in .
Era una grande novità per il sistema politico italiano: novità che impauriva la parte più retriva della classe dirigente, ma che ebbe per un certo tempo l’appoggio della parte più avanzata della borghesia industriale. Anche il partito socialista, nel quale all’inizio del secolo prevaleva l’ala riformista, non era contrario a un’alleanza fra le forze più moderne del paese per sconfiggere . Perciò i socialisti diedero a più riprese il loro appoggio parlamentare alla linea giolittiana, a cominciare dalla fiducia votata nel 1901 al governo Zanardelli-Giolitti.

CONFLITTO SOCIALE E NEUTRALITA’ DELLO STATO

Da ministro degli interni, lo statista piemontese mantenne il governo in posizione di neutralità di fronte ai conflitti sindacali. Decisamente contrario alla lotta di classe, Giolitti era altrettanto fermamente convinto che . Egli riteneva che non esistesse in Italia un reale pericolo rivoluzionario e che il movimento sindacale e socialista avessero obiettivi essenzialmente economici: a chi gli rimproverava eccessiva moderazione di fronte agli scioperanti, ribatteva che un atteggiamento ottusamente repressivo da parte del governo non avrebbe fatto altro che dare significato politico alla lotta sindacale, mettendo così in reale pericolo lo stato.

IL RIFORMISMO GIOLITTIANO: SUCCESSI E LIMITI

Provvedimenti importanti nel campo della legislazione sociale si ebbero nel corso del primo governo Zanardelli-Giolitti: tutela del lavoro di donne e fanciulli, miglioramenti dell’assistenza infortunistica e pensionistica, obbligatorietà del riposo settimanale. Successivamente, gli interventi riformatori di maggiore efficacia furono la statalizzazione delle ferrovie, una nuova legge scolastica che avocava allo stato l’istruzione elementare e, soprattutto, la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita, che assegnava allo stato il monopolio nel settore attraverso l’istituzione di un apposito ente, l’Ina (istituto nazionale assicurazioni). Si trattava di un provvedimento di rilevante significato politico, perché sanciva il controllo del potere pubblico in una materia di grande importanza economica e sociale: in quanto tale, esso fu duramente osteggiato dai gruppi finanziarie assicurativi privati e non venne di fatto applicato.
Nel complesso, il riformismo giolittiano risultò inferiore alla attese e ai programmi. Mancò una politica di largo respiro, capace di incidere sui problemi strutturali dell’economia e della società italiane. Giolitti rinunciò a realizzare una riforma tributaria che garantisse una maggiore giustizia fiscale e non affrontò in modo organico il tema sempre più drammatico dello squilibrio fra Nord e Sud del paese, gli interventi di Giolitti a favore del Mezzogiorno, alcuni dei quali in sé rilevanti, come la realizzazione dell’acquedotto pugliese, ebbero carattere sporadico e localistico; si affidarono a “leggi speciali” con le quali venivano attivati stanziamenti e flussi di denaroche finivano per lo più con l’alimentare clientele e corruzione.
Si può dire anzi che nell’età di Giolitti la “questione meridionale” si aggravò ulteriormente. Il progetto di Giolitti per il progresso del paese muoveva infatti da una visione industrialista e settentrionalista del problema italiano: esso si fondava su un accordo fra industriali e classe operaia settentrionale, che escludeva nei fatti i ceti meridionali.
Il riformismo giolittiano, pur esprimendo la visione più moderna e progressiva che il liberalismo italiano avesse mai conosciuto, si mosse inoltre entro modalità di gestione della vita politica ereditate dal passato: il dominio che Giolitti esercitò per oltre un decennio sulla vita politica italiana si fondò sul precario compromesso tra forze e interessi divergenti e non su un ampliamento della base sociale e politica dello stato. Di qui vennero le accuse di “neotrasformismo”, quando non di clientelismo e corruzione, mosse a Giolitti dagli oppositori di destra e di sinistra.

I SOCIALISTI E GIOLITTI

Il progetto giolittiano di rafforzare il governo grazie a un accordo politico con i radicali e i socialisti, fallì nella sostanza. Giolitti riuscì a inglobare i radicali nella maggioranza parlamentare, ma non a fare dei socialisti una forza di governo.
I socialisti accolsero con favore il governo Zanardelli-Giolitti, che sembrava l’interlocutore adatto per realizzare il “programma minimo” stabilito dal partito nel congresso di Roma del 1900: suffragio universale, libertà sindacale, riduzione dell’orario di lavoro, tutela del lavoro di donne e fanciulli,istruzione laica e obbligatoria, assistenza e previdenza erano i punti principali di tale programma, sostenuto dalla maggioranza riformista di Filippo Turati e Claudio Treves.
Pur senza abbandonare la prospettiva dell’instaurazione del socialismo, Turati riteneva che la classe operaia dovesse favorire la crescita di una moderna borghesia industriale quale premessa per una trasformazione della società in senso socialista, premendo nel frattempo sul governo per ottenere le riforme.
Turati rifiutò, nel 1901 e nel 1903, la proposta di entrare a far parte del governo avanzata da Giolitti, e si limitò a un appoggio “ caso per caso”: appoggio che venne poi ritirato di fronte ai modesti risultati delle riforme, ai frequenti casi di lavoratori caduti nel corso di scontri con le forze dell’ordine e alla crescita della componente sindacalista-rivoluzionaria all’interno del partito.

LO SCIOPERO GENERALE DEL 1904

La componente sindacalista-rivoluzionaria del Partito socialista, guidata da Arturo Labriola, rimproverava alla maggioranza “ministerialista” essenzialmente due cose: di avere abbandonato la lotta di classe, trasformando ; di non avere alcun progetto politico capace di coinvolgere le masse meridionali, anzi di perseguire un’alleanza tra i ceti padronali e la “aristocrazia operaia” del Nord a tutto danno del Mezzogiorno. Nel congresso di Bologna del 1904 la componente riformista fu messa in minoranza e nel settembre dello stesso anno fu proclamato uno sciopero generale nazionale, il primo della storia d’Italia.
Lo sciopero paralizzò il paese e impaurì la borghesia, ma, salvo alcuni episodi isolati di violenza, fu affrontato con calma da Giolitti e gestito con moderazione dalle organizzazioni sindacali e politiche. Lo sciopero generale segnò il punto massimo, ma anche l’inizio del declino del sindacalismo rivoluzionario: la mancanza di risultati concreti e l’insuccesso delle agitazioni proclamate successivamente indebolirono l’ala estrema del partito, la cui guida fu nuovamente assunta dai riformisti.

L’IMPEGNO SOCIALE DEI CATTOLICI

Nel mondo cattolico erano intervenuti, dopo la rottura del 1870 e il divieto pontificio a partecipare alla vita politica, importanti cambiamenti. L’estraneità dei cattolici alla vita politica nazionale si era progressivamente attenuata, soprattutto dopo la pubblicazione dell’enciclica di Leone XIII Rerum novarum, che delineava i principi della dottrina sociale della chiesa. Il movimento cattolico e le sue organizzazioni si erano progressivamente estesi nel paese, soprattutto nelle campagne, dove erano sorte numerose casse rurali e , cioè organizzazioni sindacali cattoliche.
Esemplare il Programma dei cattolici contro il socialismo redatto dal sociologo Giuseppe Toniolo nel quale, in contrapposizione sia al capitalismo senza freni sia al socialismo rivoluzionario, si sollecitava l’impegno dei cattolici in favore della piccola proprietà, della partecipazione operaia agli utili, del credito popolare, dell’edilizia operaia.

LE VARIE POSIZIONI ALL’INTERNO DEL MOVIMENTO CATTOLICO

Esistevano tuttavia, all’interno del neonato movimento cattolico, diverse tendenze. La prima era quella degli “intransigenti”, che si dichiaravano . Questa posizione fu a lungo prevalente nell’Opera dei congressi, un’organizzazione nata nel 1874 allo scopo di coordinare le attività dei cattolici nelle scuole, nelle opere pie, nelle Società di mutuo soccorso. Una seconda tendenza era quella moderata, che faceva capo a Filippo Meda, favorevole a un progressivo inserimento dei cattolici nello stato liberale. Una terza posizione, infine, era quella della Democrazia cristiana, movimento fondato dal sacerdote Romolo Murri. Murri riteneva che, per affermare il ruolo del cristianesimo e della chiesa nella nuova società industriale, fosse necessario creare un partito di massa cattolico.
Il movimento di Murri giunse a sostenere, nelle elezioni del 1909, i candidati radicali e socialisti, e lo stesso Murri risultò eletto nelle file della Sinistra, cosa che ne provocò la scomunica da parte del nuovo pontefice Pio X, succeduto a Leone XIII.

GIOLITTI E I CATTOLICI

Nel cattolicesimo italiano prevalse in questa fase la componente , che interpretava l’impegno dei cattolici nella vita sociale e politica in senso nettamente antisocialista: e questo fu anche il segno nel quale avvenne il ritorno dei cattolici alla politica attiva.
Giolitti, pur essendo ostile a ogni forma di clericalismo, attenuò sensibilmente il netto laicismo che aveva caratterizzato la classe dirigente liberale dopo l’Unità, sia con la Destra sia con la Sinista: come egli non riteneva che lo stato liberale fosse accerchiato dai “rossi”, così non credeva che esso fosse gravemente minacciato dai “neri”. La cauta apertura di Giolitti verso il mondo cattolico nasceva, oltre che dalle mutate condizioni storiche, anche da una considerazione di carattere politico: Giolitti valutava bene il peso politico che i cattolici, non come forza organizzata autonoma, ma quali semplici cittadini, potevano avere nella sua politica di compromesso, come possibile alleato di destra da contrapporre all’estrema sinistra. Un alleato che diventerà sempre più indispensabile, nel 1909 e nel 1913, in seguito alla mancata realizzazione del progetto giolittiano di un’alleanza governativa con la sinistra riformista.
Nacquero così i primi accordi elettorali in chiave conservatrice, deplorati non solo da Murri, ma anche dal giovane sacerdote siciliano Luigi Sturzo.
Nel 1905 Pio X chiarì che i cattolici potevano intervenire alle elezioni politiche in quei collegi dove potesse risultare eletto un loro candidato o, in appoggio ai liberali moderati, dove vi fosse un rischio di vittoria dell’Estrema Sinistra. Sedici candidati cattolici risultarono così eletti nel 1909.

LA CRISI DEGLI EQUILIBRI GIOLITTIANI

L’alleanza elettorale con i cattolici divenne sempre più necessaria al sistema giolittiano quanto più esso perdeva la sua capacità di garantire l’equilibrio e la pace sociale. Negli ultimi anni del governo di Giolitti lo scontro sociale e politico nel paese si andò radicalizzando.
Nel fronte imprenditoriale ( dove nel 1910 nacque la Confindustria, l’associazione di categoria degli industriali) prevalsero tendenze favorevoli a un rapporto conflittuale con il movimento sindacale; d’altra parte, nel Partito socialista il riformismo turatiano perse nuovamente terreno nei confronti delle posizioni rivoluzionarie intransigenti.
Il gruppo dirigente turatiano incontrava crescenti difficoltà nel tenere unito un partito in cui si fronteggiavano due ali estreme: da un lato, il riformismo di destra, guidato da Ivanoe Bonomi, il quale intendeva guidare il partito verso una posizione di tipo laburista, che escludeva ormai la prospettiva di una trasformazione socialista della società; dall’altro lato, la corrente rivoluzionaria – in cui emerse in quegli anni un nuovo leader, Benito Mussolini, segretario della Federazione di Forlì- che rimproverava duramente a Turati di condurre il partito a rimorchio della politica giolittiana, smarrendo ogni capacità di iniziativa autonoma. Nel congresso di Reggio Emilia la maggioranza passò ai rivoluzionari e la Destra di Bonomi, accusata di aver approvato la guerra coloniale in Libia, venne espulsa. A Mussolini fu affidata la direzione dell’”Avanti!”, il quotidiano del partito.

LA DIFFUSIONE DEL NAZIONALISMO

Un fatto nuovo e importante di questi anni fu la diffusione, anche in Italia, del Nazionalismo.
Fenomeno inizialmente di tipo letterario e culturale, limitato a una ristretta cerchia di intellettuali, il nazionalismo assunse un carattere sempre più dichiaratamente politico: nel 1910 venne fondata l’Associazione nazionalista italiana.
Le parole d’ordine del nazionalismo erano la richiesta di uno stato forte, la necessità dell’espansione coloniale per l’affermazione della grandezza dell’Italia, la polemica contro il parlamento e le istituzioni democratiche “imbelli” e “corrotte”, la lotta antisocialista.
Tuttavia, nella formulazione che ne diede Enrico Corradini, il nazionalismo si mostrò capace di ottenere consensi crescenti, rivolgendosi alle masse con un’abile miscela di imperialismo e populismo: iniziò allora a circolare il mito dell’Italia “proletaria”, sfrutta e umiliata dalle nazioni ricche e potenti come il proletario lo era dalla borghesia.

LA RIPRESA DELLA POLITICA COLONIALE: LA CONQUISTA DELLA LIBIA

In questo clima maturò la decisione giolittiana di riprendere un apolitica coloniale aggressiva nel Nordafrica, con la guerra di Libia. Giolitti arrivò a questa decisione assecondando la pressione dell’opinione pubblica nazionalista e dei maggiori gruppi industriali e finanziari, nel tentativo di guadagnare consenso per la propria politica. Dopo la caduta di Crispi l’Italia, pur rimanendo all’interno della Triplice Alleanza, si era progressivamente riavvicinata alla Gran Bretagna e alla Francia. Il governo italiano aveva accettato il dominio francese in Tunisia e Marocco, ottenedo in cambio il diritto di puntare alla Libia, l’ultimo lembo d’Africa tributario dell’Impero ottomano; si voleva, secondo una logica diffusa nell’età dell’imperialismo, conquistare quei territori prima che altri vi mettessero le mani. Perciò, tra il 1911 e il 1912 l’esercitò italiano occupò la Tripolitania e la Cirenaica e anche Rodi e le isole del Dodecaneso, come atto di intimidazione nei confronti della Turchia. Nonostante l’impiego di un corpo di spedizione di 100 mila uomini, la conquista della Libia fu portata a termine solo per via diplomatica, grazie a un accordo con cui la Turchia concedeva l’autonomia alla Tripolitania e alla Pirenaica, ritirandosi dalla regione. Essa comportò spese ingentissime, ebbe oltre 3000 caduti e costrinse l’Italia, negli anni successivi, a fronteggiare l’endemica guerriglia islamica. L’impresa era stata presentata dalla propaganda nazionalistica coem grande opportunità economica.

LE ELEZIONI DEL 1913 E L’INTRODUZIONE DEL SUFFRAGIO UNIVERSALE MASCHILE

Nel 1913 alla scadenza della legislatura, Giolitti si presentò all’ultimo grande appuntamento del suo lungo periodo di governo, le elezioni politiche. Furono queste le prime elezioni a suffragio universale maschile della storia italiana: in forza della nuova legge elettorale voluta da Giolitti, il diritto di voto fu esteso a tutti i maschi maggiorenni non analfabeti e anche agli analfabeti, purchè avessero superato i trent’anni o assolto il servizio militare.
In occasione di queste elezioni, liberali e cattolici strinsero accordi a livello locale: i cattolici si impegnarono ad appoggiare contro i socialisti i candidati liberali conservatori nel cui programma non vi fossero iniziative sgradite alla chiesa, come il divorzio o l’istruzione laica.
L’accordo fra Giolitti e i cattolici, chiamato patto Gentiloni, dal nome del presidente dell’unione elettorale cattolica, aveva lo scopo di contrastare un possibile successo elettorale dei socialisti grazie all’influenza dei cattolici sui contadini, che costituivano la gran parte del nuovo elettorato. La sinistra ottenne un buon risultato, ma la maggioranza liberale raggiunse i 304 deputati: di questi 228 grazie all’accordo con i cattolici, che risultò dunque determinante. Il patto Gentiloni fu sostanzialmente trasformista, perché, sotto la paura del socialismo, dette al liberismo moderato una forza che esso in realtà non aveva.

LA CRISI DEL SISTEMA POLITICO GIOLITTIANO

Ma i successi ottenuti con la guerra di Libia e con le elezioni del 1913 non poterono a lungo mascherare la crisi del sistema giolittiano: l’aprirsi di una difficile fase economica, il grave passivo del bilancio pubblico, i sempre più aspri conflitti sindacali, le violente polemiche condotte dai nazionalisti e socialisti rivoluzionari mettevano a dura prova la capacità di mediazione dello statista piemontese, che disponeva alla camera di una maggioranza ampia ma eterogenea. Quando nel marzo 1914, i ministri radicali si dimisero dal governo, Giolitti rassegnò le dimissioni, convinto, come era già accaduto altre volte negli anni precedenti, di poter riprendere entro breve termine le redini del paese. Ma questa volta le cose andarono diversamente: sotto il governo del conservatore Antonio Salandra, l’Italia si avviò infatti verso la prima guerra mondiale e verso una nuova, drammatica fase della storia.

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