Torino e la seconda guerra mondiale

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Categoria:Storia

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Testo

Introduzione
L’Italia dichiarò ufficialmente guerra alla Gran Bretagna ed alla Francia nel pomeriggio del 10 giugno 1940. Era un lunedì.
Nelle loro pagine interne quel giorno i quotidiani recavano la cronaca della vittoria di Coppi al 28° Giro d’Italia, conclusosi il giorno precedente a Milano. Non vi erano cronache o notizie di altri sport; il campionato di calcio 1939/40 era finito la settimana prima con l’assegnazione dello scudetto all’ Ambrosiana.Vi erano poi i consueti resoconti delle cerimonie e pubbliche manifestazioni cui presenziavano i membri della famiglia reale o le gerarchie del regime, le notizie di cronaca cittadina, molto ridotte rispetto a quelle dei giornali di oggi e senza la “nera”, e le consuete rubriche di ogni giorno.
La prima pagina, invece, era riservata, come ormai d’abitudine, ai grandi titoli che annunciavano le vittorie e le conquiste delle armate tedesche sui vari fronti della guerra, in particolare ad ovest, dove non incontravano avversari in grado di rallentare la loro avanzata. Quel giorno La Stampa di Torino, con inatteso riferimento al fronte polacco, dove le operazioni militari erano ferme da mesi, titolava a tutta pagina: “VITTORIA – SI AVANZA ALL’EST”, trascurando per una volta, e sarà chiaro di lì a poco l’opportunità di tale scelta, le notizie sui progressi tedeschi degli ultimi giorni nella campagna di Francia.
La guerra era già da tempo nell’aria anche in Italia, non vi fu quindi grande sorpresa o turbamento nella popolazione quel giorno, quando i responsabili dei gruppi aziendali e rionali fascisti, che avevano avuto precise direttive dal regime, chiamarono a raccolta e convogliarono, i torinesi davanti alle case littorie, a partecipare, in diretta radiofonica nazionale, alla solenne cerimonia che sarebbe stata officiata dal Duce del Fascismo, al cospetto di una folla oceanica, in piazza Venezia a Roma.
Anche i torinesi, come milioni di italiani, quella sera ascoltarono, con sincera adesione e partecipazione della maggior parte di loro, alternando assorto silenzio ed entusiastiche acclamazioni, il roboante proclama di Mussolini, all’Italia ed al Mondo, subito entrato nella storia e che ha segnato l’inizio della pagina più drammatica della storia del nostro paese.
Il giorno dopo iniziarono le operazioni militari contro la Francia. Le truppe alpine passarono la frontiera del Moncenisio e del Monginevro quasi meravigliandosi che i francesi avessero ancora la forza di resistere e di opporsi efficacemente alla loro avanzata. I fanti italiani, sulla costa, arrivarono a Mentone. Il Piemonte e la Liguria furono dichiarate zone di guerra.
Per la gente di Torino la guerra, quella vera, a contatto diretto con i morti e le distruzioni, arrivò nella notte tra l’11 ed il 12 giugno. All’1,15 del 12 le sirene dell’allarme suonarono per la prima volta nella nostra città; fu un’incursione di pochi aerei inglesi, partiti da qualche base del sud della Francia non ancora occupata dai tedeschi, che sganciarono sulla città trenta bombe, ma che diede il primo duro colpo alle certezze ed all’ottimismo degli italiani.
Quando, il mattino del 12 giugno, uscirono i giornali con il bollettino dello stato maggiore dell’esercito relativo alle operazioni militari del giorno precedente, a Torino si contavano già, ma i giornali ne avrebbero parlato solo l’indomani, 17 morti e decine di feriti per cause di guerra tra la popolazione civile.
Per i torinesi, anche per quelli che non erano alle armi e che non si aspettavano di essere direttamente coinvolti nelle operazioni belliche, fu allora chiaro che qualcosa stava cambiando anche per chi non era impegnato al fronte o richiamato sotto le armi; nella vita di ogni giorno si delineavano delle novità che non sarebbero state piacevoli né di breve durata, i bombardamenti e le distruzioni, lo sfollamento, la fame, un doloroso percorso che avrebbe infine portato al 25 Aprile del 1945, alla Liberazione dal fascismo, dall’oppressione, dalla paura, dalla guerra.
I bombardamenti
Una delle caratteristiche peculiari della seconda guerra mondiale furono proprio i bombardamenti sistematici delle grandi città nemiche aventi come obbiettivo prioritario le grandi installazioni militari e logistiche e gli impianti industriali vitali per la produzione bellica: porti, stazioni, ponti e vie di comunicazioni stradali.
Tutte le potenze impegnate nella guerra si resero ben presto conto che un altro, più facile e diretto risultato, non meno importante dal punto di vista strategico, poteva essere raggiunto con le incursioni aeree su zone densamente popolate della città. Il terrore e la demoralizzazione portavano nella popolazione devastanti effetti psicologici, così come sull’organizzazione della produzione bellica. Emblematici furono in questo caso, il bombardamento di Coventry, rasa al suolo dall’aviazione tedesca nelle prime fasi della guerra e da cui derivò il termine “coventrizzare” proprio per definire l’azione di distruzione totale delle città nemiche. Verso la fine della guerra, quando la Germania nazista era ormai allo stremo ed incapace di difesa, furono gli alleati con un bombardamento di eguale portata ed effetti, a radere al suolo la città di Dresda, ricca di monumenti ed opere d’arte e di nessuna importanza dal punto di vista militare. Non a caso, infine, l’atto conclusivo della guerra furono proprio le due bombe atomiche sganciate dagli americani su due obbiettivi, le città di Hiroshima e Nagasaki, che non avevano alcuna diretta connessione con l’azione militare giapponese.
L’industria delle potenze in guerra, inglesi ed americane da una parte e la Germania dall’altra si impegnarono nella produzione di enormi aerei dotati di grande capacità di trasporto e di buona autonomia di volo in grado di raggiungere le città nemiche, di sganciarvi sopra qualche tonnellata di bombe di vario tipo e di rientrare alle basi di partenza. Non potendo essere scortati lungo tutto il loro tragitto gli aerei da caccia le cui caratteristiche di maneggevolezza e velocità ne riducevano sensibilmente l’autonomia di volo, furono anche potentemente armati per consentire loro di resistere efficacemente agli assalti dei caccia.
Inizialmente furono i tedeschi ad imperversare sul territorio e le città nemiche, sino alla fine del 1940, durante la cosiddetta battaglia di Inghilterra. Ma dopo le gravi perdite inflitte loro dalla R.A.F, l’aviazione britannica sostenuta dagli aiuti in aerei ed altri rifornimenti dagli Stati Uniti, cominciarono i massicci bombardamenti alleati sulle città tedesche ed italiane.
Al calar della sera dagli aeroporti del sud dell’Inghilterra si alzavano in volo a scaglioni successivi gli aerei che andavano a colpire le grandi città tedesche: i porti di Amburgo e Lubecca, i grandi centri industriali e minerari lungo il Reno, sino ad arrivare alla capitale Berlino.
Altri aerei seguivano un percorso diverso sorvolando la Francia occupata alla ricerca di qualche obiettivo strategico, fabbriche, stazioni ferroviarie, concentrazioni di truppe nemiche. Altre ancora facevano un viaggio ancora più lungo, oltrepassavano le Alpi ed arrivavano a colpire le grandi città del nord Italia, Milano, Genova e Torino. A Torino la prima città che gli aerei nemici sorvolarono, l’allarme suonava comunque anche se l’obiettivo di quella sera era più a sud o più ad ovest.
Il primo bombardamento del 12 giugno 1940 fu un azione essenzialmente dimostrativa che diede però ai torinesi una chiara idea di cosa poteva e sarebbe successo in seguito. Per parecchi mesi su Torino non caddero più bombe nemiche anche se sovente le sirene dell’allarme aereo suonarono al passaggio degli stormi di bombardieri che scavalcavano da nord-ovest le Alpi diretti a colpire obiettivi militari al momento più importanti come i porti di Genova e La Spezia e gli impianti industriali sulla costa.
Già nei primi giorni di guerra venne disposto l’oscuramento notturno di tutta la città e si impartirono precise e dettagliate disposizioni su come oscurare le finestre delle case, sulle misure precauzionali da seguire per non fare trapelare dall’interno delle case alcun chiarore che potesse rilevare agli aerei in volo la città sottostante. Le macchine e gli automezzi dovevano circolare a luci spente e, per renderli percepibili nell’ oscurità ai passanti, fu disposto di segnare con una striscia di vernice bianca il bordo dei parafanghi di auto e biciclette. Per vigilare sul rispetto e per dare indicazioni e portare i primi soccorsi in caso di bombardamento fu creata l’U.N.P.A.(Unione Nazionale Protezione Antiaerea), i cui membri pattugliavano le vie cittadine.
Si cominciò anche a predisporre dei veri e propri rifugi antiaerei; si diede il via alla costruzione di una serie di rifugi antiaerei collettivi disseminati sul territorio cittadino e in grado di ospitare, ognuno, qualche centinaio di persone. I rifugi più grandi, come quello ancora esistente di piazza Risorgimento, erano scavati a più di dieci metri sotto il livello stradale, con pareti e volte di spesso cemento armato, con accessi protetti e con le dotazioni minime essenziali per ospitare, per alcune ore, sino a 1.500 persone: impianti di aerazione, servizi igienici, impianti di illuminazione di emergenza.

Ci si rese presto conto però dell’impossibilità di garantire, nei rifugi collettivi, un posto per ognuno dei più di 500.000 abitanti che contava allora Torino. Si ripiegò quindi ad attrezzare a rifugi antiaerei i locali sotterranei e le cantine delle case di abitazione con rinforzi e puntellature di pareti e soffitti e la predisposizione di sistemazioni in grado di ospitare gli inquilini ed i passanti occasionali durante gli allarmi.
Questi rifugi “casalinghi”(segnalati con una lettera R maiuscola in vernice bianca), risultarono in molti casi delle trappole per topi in cui trovarono la morte tante famiglie torinesi.
L’avvistamento degli aerei nemici, (all’epoca non vi erano ancora i radar e le rilevazioni erano a vista o mediante il rumore dei motori), avveniva in prossimità delle Alpi, con un anticipo di 10 – 20 minuti sull’effettivo arrivo sull’obiettivo. Il tempo di trasmettere l’allarme via radio all’antiaerea in città e di mettere in funzione le sirene dislocate sul territorio, ed i primi aerei erano sulla città, quando non ancora tutti avevano raggiunti i rifugi antiaerei.
Dopo aver fatto un ampio giro intorno all’obiettivo ogni stormo, formato da un numero variabile tra i dieci ed i venti aerei, iniziava il vero e proprio bombardamento condotto, solitamente, lungo l’asse nord – sud della città. Gli aerei sganciavano il loro carico iniziando dalla periferia della barriera di Milano (obiettivi: ponti e rete ferroviaria, acciaierie e industrie meccaniche) passando poi sul centro della città (obiettivi: edifici pubblici, uffici e caserme) per finire sull’opposta periferia (obiettivi: le grandi fabbriche del Lingotto e Mirafiori, scali e rete ferroviaria). Durante tutta la loro azione gli aerei colpivano sempre case di abitazione e, comunque e sempre, prevalentemente obiettivi civili.
In caso di incursioni condotte da tre, quattro o più stormi o di più incursioni susseguenti nella stessa notte, con la stessa direttiva di volo ma con uno spostamento laterale di qualche centinaio di metri, a ovest e ad est, degli stormi successivi, si otteneva l’effetto di bombardamento a tappeto di tutta la città.
I primi aerei di ogni ondata lanciavano sulla città, assieme alle bombe, dei razzi illuminanti in modo da rendere visibili gli obiettivi sottostanti agli aerei che seguivano. Questi sganciavano prevalentemente bombe di grosso calibro, dai due ai cinquecento chili, ma in certe occasioni, per azioni più intense e radicali, venivano sganciati i cosiddetti “block busters” bombe da 2.000 fino ad 8.000 libbre di esplosivo che, letteralmente, spianavano i fabbricati di interi isolati.
Queste bombe erano dotate di un dispositivo a tempo per cui non esplodevano al primo contatto con l’obiettivo, di solito i tetti delle costruzioni, ma solo qualche secondo dopo l’urto. Questi ordigni quindi, con l’immensa energia cinetica che acquistavano dopo essere precipitati per qualche centinaio di metri, perforavano i tetti e le solette di parecchi piani delle case colpite arrivando ai piani più bassi, al piano terreno o addirittura nei sotterranei, prima di esplodere con effetto devastante e demolente sull’intero stabile.Gli ultimi aerei di ogni stormo sganciavano invece bombe incendiarie o al fosforo, piccole ma in grande quantità, che provocavano incendi tra le rovine lasciate dalle precedenti bombe dirompenti.
Dall’inizio della guerra all’autunno del 1942 Torino subì 14 incursioni aeree, tutte notturne, condotte da un numero ridotto di aerei che sganciarono bombe di medio calibro provocando danni ridotti e poche vittime; dalla fine del 1942 iniziarono i bombardamenti più pesanti particolarmente concentrati in due distinti periodi – novembre 1942 e agosto 1943. Il bombardamento più pesante fu quello compiuto nella notte tra il 13 ed il 14 agosto 1943: su una città i cui abitanti per i 2/3 erano già sfollati o pernottavano nei centri vicini, furono sganciate oltre 700 tonnellate di bombe che provocarono 792 morti e centinaia di feriti. Alla fine della guerra si accertò in 2069 il numero delle vittime dei bombardamenti.
Lo sfollamento
Sin dai primi bombardamenti e con il ripetersi degli allarmi aerei notturni, anche se nella maggior parte dei casi non erano seguiti da effettive incursioni sulla città, si diffuse tra la popolazione la paura. Tutti quelli che ne avevano la possibilità cominciarono a lasciare la città per delle sistemazioni più sicure: molte famiglie della borghesia imprenditoriale e dei ceti più agiati in generale, si trasferirono nelle residenze estive sulla collina di Torino o nelle località vicine da cui era abbastanza agevole trasferirsi giornalmente in città per il lavoro o gli affari.
Dalla fine del 1942, con l’inasprirsi delle incursioni aeree e la crescita della consapevolezza che la città non offriva, in numero sufficiente alla popolazione residente, ricoveri efficaci contro i bombardamenti, l’esodo dalla città di tutte le persone non direttamente impegnate nelle attività lavorative, (innanzitutto le donne, i bambini e le persone anziane) fu sollecitato dalle stesse autorità.
Parecchie famiglie torinesi, specialmente quelle inurbate in tempi più recenti, si trasferirono nei paesi d’origine dove avevano ancora una casa o parenti in grado di ospitarli.
Mano a mano che i bombardamenti distruggevano o danneggiavano gravemente le case d’abitazione- a fine guerra ne risulteranno interessati circa il 68% dei fabbricati torinesi- si moltiplicava il numero delle famiglie “sinistrate”, rimaste cioè senza casa, per le quali era una scelta obbligata la ricerca di una sistemazione di fortuna nei centri vicini a Torino. La scelta si indirizzava su quei centri che avevano un collegamento ferroviario con la città così da consentire agli “sfollati”, veri lavoratori pendolari, di raggiungere con grandi sacrifici il luogo di lavoro e di rientrare la sera a casa con la famiglia. A fine giugno del 1943, prima ancora della serie di bombardamenti più pesanti di tutta la guerra, all’anagrafe del Comune risultava che il 48% dei residenti a giugno 1940, circa 340.000 torinesi, aveva abbandonato la città sfollando in altri centri minori.
Il razionamento alimentare e la fame
Un drammatico aspetto della vita dei torinesi, e di quasi tutti gli italiani in tempo di guerra fu la scarsità di generi alimentari assicurati ad ogni famiglia dal razionamento e dalle tessere annonarie. Un altro aspetto fu la difficoltà di riuscire a sfamarsi, anche pagando a carissimo prezzo i generi necessari, che un mercato clandestino rapidamente organizzatosi e diffusosi su tutto il territorio in barba alle disposizioni de ai controlli del regime, poteva procurare a chi era in grado di pagare.
Sin dai tempi delle sanzioni (le “inique sanzioni” disposte dalla Società delle Nazioni contro l’Italia che aveva aggredito l’Etiopia), per far fronte ai bisogni del paese con le sole risorse nazionali, era stato istituito il sistema dell’ ammasso statale. Tutta la produzione di grano, mais, riso e prodotti agricoli non deperibili doveva essere portata dai produttori, sia piccoli proprietari che grandi aziende agricole, ai centri di raccolta distribuiti sul territorio e controllati dallo Stato il quale provvedeva alla commercializzazione ed alla distribuzione dei beni operando un attento controllo sui prezzi, tenuti forzatamente bassi per contenere il costo della vita.
Agli inizi del 1940, il regime cominciò a prendere in considerazione la necessità di garantire l’adeguato vettovagliamento delle truppe dislocate fuori dai confini della madre patria in zone che offrivano scarse o nulle risorse alimentari; nelle prime fasi della guerra truppe italiane risulteranno impegnate in Libia ed in Egitto, in Somalia ed Etiopia e , poco dopo, anche in Russia, Grecia ed Albania. Con l’inizio della guerra il regime inasprì i controlli sull’ammasso e sul rispetto dell’ obbligo di conferire a questo tutta la produzione agricola. Gli agricoltori, che subivano direttamente le conseguenze della politica statale dei prezzi bassi garantiti per i prodotti alimentari, avevano sempre cercato di sottrarre una parte di raccolti al conferimento forzato sia per soddisfare meglio l’esigenza alimentare delle famiglie, sia per soddisfare meglio le esigenze alimentari delle famiglie, sia per poterne fare un più proficuo commercio clandestino.
Qualche mese prima dell’inizio della guerra, nel gennaio del 1940, erano state distribuite a tutte le famiglie le carte annonarie: documenti individuali predisposti in vista di successivi misure di razionamento alimentare per la popolazione civile e per impedire che si facesse incetta di generi alimentari, in previsioni di momenti più difficili.
Con l’effettivo inizio della guerra si diede il via al razionamento dei generi alimentari di primissima necessità, stabilendo per ognuno di questi la quantità massima giornaliera per persona che doveva essere acquistata esibendo la tessera individuale e consegnando il relativo tagliando giornaliero al commerciante che doveva tenere un’attenta contabilità sia delle merci vendute che dei tagliandi ritirati. In breve tempo la tessera annonaria divenne preziosissima e lo smarrimento rappresentava un grosso guaio per tutta la famiglia, che senza questa, rischiava letteralmente la fame.
Nei primi tempi la razione giornaliera di pane, l’articolo principale e sicuramente più indicativo, fu fissata a 250 grammi. In breve tempo, sebbene il pane fosse fatto, per precise disposizioni di legge, con un misto di farina di grano con percentuali sempre più alte di farine meno pregiate quali mais e segala, la razione fu ridotta a sola 150 grammi giornalieri risultando inoltre spesso non disponibile nelle rivendite cittadine.Al culmine della guerra, quando le razioni delle tessere annonarie rappresentavano ancora la maggior parte dell’alimentazione degli italiani, le grammature erano le seguenti: 20g di carne, 33g di patate, 25g di legumi e verdura, 6g di riso, 7g di pasta, 50g di frutta fresca, 12g di burro, 5g di formaggio, 200g di zucchero. Queste razioni corrispondevano a meno di 1000 calorie giornaliere, ben inferiori alle circa 4000 che lo stesso Istituto Fascista della Previdenza Sociale aveva considerato come minime indispensabili.
Tuttavia con l’elusione dell’obbligo dell’ammasso e con mille altri stratagemmi resi indispensabili dalla necessità, per i contadini, di procurarsi per sopravvivere un reddito aggiuntivo a quello procurato dai prezzi ridicoli pagati dallo Stato per i generi conferiti, nelle campagne erano disponibili, per chi poteva permettersi di pagare prezzi ben superiori a quelli del tempo di pace, generi alimentari in buona quantità; chi poteva andava così a fare la spesa in campagna.
Alcuni, molti, i veri “borsaneristi” che accumularono in poco tempo vere e proprie fortune, si organizzarono a fare la spola tra la città e la campagna, rivendendo a prezzi esorbitanti, ai cittadini affamati che potevano permetterselo, i beni acquistati direttamente dai produttori a prezzi per questi sicuramente vantaggiosi.

La classe operaia torinese durante la guerra
La categoria di cittadini che maggiormente ebbe a patire dei disagi della guerra in città fu quella degli operai delle fabbriche torinesi.
A Torino era concentrata una consistente quota dell’industria meccanica nazionale, quella che fu immediatamente convertita alla produzione di guerra, una produzione indispensabile per consentire di reggere lo scontro militare con le potenze alleate e che, riconvertita subito dopo la fine del conflitto, rese possibile in pochi anni la ripresa dell’economia nazionale.
Nel 1940 la FIAT, nei due modernissimi stabilimenti del Lingotto e di Mirafiori, occupava circa 50.000 lavoratori. Era la più grande industria italiana e, come recitava uno dei suoi slogan pubblicitari “FIAT: terra, mare, cielo”, ad essa ed alla miriade di piccole aziende che, ne costituivano l’indotto, fu affidato il nerbo della produzione bellica di autocarri, carri armati, grandi motori marini, aerei.
Mentre negli altri settori della produzione e dei servizi la manodopera maschile richiamata alle armi veniva sostituita in buona misura da manodopera femminile – a metà giugno 1940 presero servizio a Torino le prime donne tranviere in sostituzione dei richiamati alle armi – donne che trovavano così, con la guerra, una possibilità di impiego altrimenti impensabile, gli operai delle fabbriche torinesi. Invece la manodopera molto qualificata e difficilmente sostituibile, furono quasi sempre esonerati dal servizio militare e mantenuti al loro posto di lavoro.
Essi erano però esposti più di altre categorie al pericolo dei bombardamenti avendo meno possibilità, per le condizioni economiche prevalentemente disagiate, di mandare le famiglie fuori città e di far ricorso alla borsa nera per le necessità alimentari.
Il malcontento operaio, originato essenzialmente da motivazioni di ordine economico e pratico, anche se non erano assenti connotazioni ideologiche e di generica avversione al fascismo, si concretizzò, nel marzo del 1943, in una serie di scioperi contro il carovita e per ottenere più abbondanti razioni alimentari.Lo sciopero, sebbene riuscito solo parzialmente, rappresentò un momento importante per la presa di coscienza degli operai torinesi.
Da quei primi scioperi cominciò, ancora per opera di pochi che diventeranno, però, via via più numerosi, la preparazione politica che porterà, di lì a qualche mese, alla costituzione di vari gruppi organizzati che saranno il sostegno e la guida della resistenza contro fascisti e tedeschi e nella lotta di liberazione della città e del Paese.

L’atteggiamento degli operai torinesi nei confronti del fascismo fu, durante tutto il ventennio, generalmente tiepido e distaccato. Nella città che vide nel 1919 l’occupazione delle fabbriche e la nascita di un forte movimento operaio rivoluzionario e che negli anni successivi subì la dura repressione delle forze dell’ordine e dello squadrismo, restava vivo, un sentimento di avversione nei confronti del regime e delle sue organizzazioni.
Lo stesso Mussolini misurò di persona questo atteggiamento, se non di aperta ostilità sicuramente di non celata freddezza, in occasione dell’inaugurazione ufficiale del nuovo stabilimento della FIAT a Mirafiori, nel 1939, parlando alla folla degli operai da uno scenografico palco a forma di incudine. Abituato alle osannanti folle oceaniche rimase disorientato davanti alla muta compostezza di quell’uditorio che, sordo alle sollecitazioni dei capoccia e gerarchetti in camicia nera, non acclamava l’oratore e non lo interrompeva con applausi ed il grido ritmato delle parole d’ordine del regime. Senza concludere il suo discorso quel giorno il Duce abbandonò la scena visibilmente e vistosamente contrariato.
Sulle fabbriche torinesi, in special modo verso gli stabilimenti della FIAT, si era concentrata l’attività di organizzazione politica ed ideologica del Partito Comunista clandestino, l’unica espressione dell’antifascismo che durante tutto il ventennio cercò di dare vita ad una struttura politica radicata tra i lavoratori in Italia con iniziative spesso temerarie che esponevano i militanti a pesanti conseguenze, non proporzionate agli obiettivi politici immediati.

25 Luglio 1943 – la guerra continua
Anche i Torinesi appresero dalla radio, la mattina del 26 luglio 1943, che qualcosa di molto importante era successo in Italia: il comunicato, più volte ripetuto nel corso della giornata, parlava di dimissioni del cav. Benito Mussolini, dell’incarico di primo ministro conferito dal Re – nonché imperatore - al maresciallo Pietro Badoglio e, soprattutto, che la guerra continuava.
Quel giorno in giro non si vedevano camicie nere, dai baveri delle giacche di tanti italiani era stata tolta la “cimice”, la spilletta ovale tricolore con il fascetto che era diventato un accessorio immancabile nell’abbigliamento dei ceti medi e della piccola borghesia. C’era per la città un clima frizzante ed euforico: tanti commenti sul regime e sui suoi esponenti più in vista, sinora bisbigliati sottovoce, venivano espressi liberamente, c’era ovunque una sensazione nuova, per qualcuno antica, di libertà.
La gente, a dispetto di quello che la radio andava ripetendo ogni ora, individuava nella caduta di Mussolini la fine del fascismo e, soprattutto, la fine della guerra. L’esultanza popolare si manifestò con l’assalto e la devastazione delle sedi ufficiali del partito fascista, le case littorie e le sedi dei gruppi rionali fascisti, con l’abbattimento dei simboli del regime, le insegne littorie, da monumenti e facciate di edifici pubblici, il lancio in strada da uffici e sedi della pubblica amministrazione di busti del Duce ed orpelli del regime.
Mussolini, arrestato dopo le dimissioni del suo governo e portato via da villa Savoia, la residenza del re, a bordo di un’ambulanza, era stato imprigionato e relegato a Campo Imperatore, pochi giorni dopo il partito fascista veniva formalmente disciolto e tutte le sue proprietà acquisite al patrimonio dello Stato. Ben presto, però, ci si rese conto che il fascismo non c’era più ma che i fascisti erano ancora quasi tutti al loro posto, che il razionamento e la scarsità di cibo continuavano come prima e, soprattutto, che la guerra comunque continuava: a metà agosto Torino fu oggetto di una nuova serie di bombardamenti aerei alleati con nuove morti e distruzioni.

8 SETTEMBRE 1943 – L’ARMISTIZIO, L’OCCUPAZIONE TEDESCA, LA RESISTENZA.
Nella prima metà di agosto le truppe angloamericane avevano completato l’occupazione di tutta la Sicilia e, all’inizio di settembre, a Cassabile, a seguito di trattative molto riservate e condotte all’insaputa dei tedeschi, era stato definito l’armistizio tra l’esercito italiano ed i comandanti delle forze armate americane ed inglesi con la riserva italiana di attendere qualche giorno per renderlo effettivamente esecutivo e darne ufficialmente notizia al paese.
In quei pochi giorni il re e la casa reale si dimostrarono incapaci di prendere la guida del paese e pensarono solo ad organizzare la loro fuga ingloriosa verso le zone liberate dagli angloamericani. Fu così che la sera dell’8 settembre 1943 il generale Badoglio lesse alla radio il famoso messaggio che annunciava al Paese l’armistizio e la cessazione delle ostilità nei confronti degli alleati, concludendo con la sibillina indicazione alle forze italiane di reagire ad eventuali attacchi di qualsiasi provenienza. Quella stessa sera il re, il governo e le più alte gerarchie militari, con un corteo di automobili, abbandonarono la capitale per raggiungere Pescara e di lì, via mare, Brindisi appena liberata dagli alleati.
Tutto il Paese, tutte le forze armate italiane, dislocate sul territorio nazionale o disperse sui vari fronti di guerra, si ritrovarono senza ordini precisi e senza indicazioni di fronte alle truppe tedesche che cercavano ovunque di prendere il controllo della situazione e di occupare tutte le posizioni controllate dall’esercito italiano. In molti casi i reparti autonomamente presero l’iniziativa contro i tedeschi e si ebbero significativi esempi di resistenza in alcuni quartieri di Roma ed in varie località in Italia e nelle zone di guerra ( Jugoslavia, Corsica, Cefalonia).
Per la maggior parte dei soldati italiani l’unica risorsa rimasta di fronte al rischio di essere catturati dai tedeschi e deportati chissà dove, fu lo sbandamento e la fuga verso casa.
Il cinema e la letteratura italiana negli ultimi sessant’anni hanno documentato con moltissime opere quei momenti drammatici, quei giorni terribili che per parecchi dei nostri nonni, specialmente nelle regioni del nord, hanno segnato l’inizio della pagina più dura e lunga di tutta la guerra. Soldati che, isolati o in gruppo, fuggono dalle caserme e dai reparti abbandonando armi e divise e, indossati indumenti borghesi procurati dalla generosità popolare, si mettono in cammino per raggiungere le loro case o per ignote destinazioni per evitare la cattura e la prigionia.
Anche a Torino in quei giorni furono abbandonate le caserme mentre i tedeschi prendevano il controllo delle posizioni strategiche. In città arrivavano i militari fuggiti dalla Francia e dalle postazioni di confine e dalle zone più vicine alla città si riversavano i militari in fuga alla ricerca di un treno, di un mezzo qualsiasi per raggiungere le proprie case in tutte le altre regioni d’Italia.
L’Italia era un paese diviso in due: a sud la Sicilia era già liberata e l’esercito anglo americano, sbarcato in Puglia e a sud di Napoli, puntava verso Roma, incontrando la resistenza delle forze tedesche che ripiegavano ordinatamente più a nord per rafforzarsi lungo una linea di difesa più sicura e meglio tenibile, la famosa “linea Gotica”, lungo l’appennino tosco emiliano, da Livorno a Rimini.
Il governo monarchico di Badoglio, sotto il controllo alleato, formalmente amministrava le regioni liberate; a nord i tedeschi occupavano militarmente e con sistemi repressivi molto duri verso le popolazioni italiane, le regioni strategicamente più importanti. Dopo aver liberato Mussolini, avevano favorito la ricostituzione di un regime fascista e la nascita della cosiddetta Repubblica Sociale Italiana cui era affidato il governo del paese e la riorganizzazione di un esercito italiano da mettere al servizio dell’invasore.
Furono proprio i bandi di arruolamento repubblichini con cui si intimava ai giovani in età superiore ai diciotto anni di presentarsi ai distretti ed ai centri di raccolta militari con minaccia per i renitenti, che posero molti giovani diciottenni e tanti militari che avevano abbandonato i propri reparti dopo l’8 settembre, nella condizione di dover decidere da che parte stare. Assoggettarsi ad indossare nuovamente una divisa, quella poco gloriosa di un esercito fascista, fantoccio asservito ai nazisti e da questi impiegato nel controllo del territorio e nella repressione del movimento di liberazione, o rifiutare di presentarsi, nascondersi, salire in montagna o raggiungere le altre zone dove, secondo vari orientamenti politici ed ideologici ma con una sostanziale unità di obiettivi, si andavano organizzando le formazioni partigiane e nasceva la Resistenza contro i fascisti e gli invasori tedeschi.
A Torino dopo l’8 settembre si era subito messo in movimento l’embrione di organizzazione antifascista creatosi con i primi scioperi del marzo precedente. Alcuni rappresentanti delle vecchie formazioni politiche prefasciste, alcuni esponenti dell’esercito e di quella che oggi si definirebbe la “società civile”, da sempre antifascisti o, comunque, non compromessi con il regime, diedero vita, insieme ai rappresentanti operai comunisti, socialisti e cattolici, le avanguardie della classe operaia torinese, al Comitato di Liberazione Nazionale per contrastare l’azione militare tedesca e, soprattutto, per opporsi ai soprusi ed alle brutalità naziste e fasciste preparando nel contempo una azione militare diretta in attesa che si ponessero le condizioni per un’insurrezione popolare in città.
Si diffondeva una attività clandestina di propaganda e di informazione tra gli operai ed i cittadini torinesi, si organizzavano azioni dimostrative e di disturbo dell’organizzazione militare dell’esercito occupante.
Questa attività, queste azioni che, prese singolarmente, sembravano irrilevanti ma che nel loro insieme davano a nazisti e fascisti la spiacevole sensazione di essere circondati da una popolazione ostile da cui era necessario guardarsi, avevano dei costi umani molto alti: la repressione era spietata. Per parecchi mesi le sedi della Gestapo, la polizia nazista, all’Albergo Nazionale in via Roma (ora piazzetta C.L.N.) e delle brigate nere fasciste nella caserma di via Asti, divennero la terribile destinazione di tanti torinesi che vi subirono bestiali interrogatori e feroci torture.
Le formazioni partigiane operarono quasi esclusivamente all’esterno della città e dei grandi centri limitando la loro azione sul più vasto territorio regionale ed avendo le proprie basi sulle colline e sulle montagne più facilmente controllabili contro il nemico e da cui era più agevole contrastare i rastrellamenti tedeschi.
Per i sabotaggi e le azioni militari da condurre in città furono create le S.A.P. – squadre di azione partigiana - e, soprattutto, i G.A.P. – gruppi d’azione partigiana – che furono impiegati per azioni di particolare audacia contro impianti ed installazioni militari e contro rappresentanti particolarmente in vista dell’esercito occupante e personalità repubblichine.
Questi gruppi armati erano composti da uomini che vivevano in clandestinità e da persone normali, operai e lavoratori esonerati dagli obblighi militari che, potendo circolare liberamente in città per il proprio lavoro, colpivano l’obiettivo designato per tornare subito dopo alle loro attività quotidiane.
Queste azioni audaci costarono la vita a molti patrioti caduti direttamente negli scontri a fuoco con il nemico o massacrati dopo la loro cattura; ancora oggi numerose lapidi lungo le vie cittadine, poste nel punto in cui caddero, ci ricordano questi eroici combattenti.
25 aprile 1945, la liberazione
Già dai primi di febbraio la lotta tornò ad intensificarsi. Le brigate partigiane ricominciarono ovunque ad attaccare il nemico. Il 12 febbraio a Reggio Emilia attaccarono una colonna tedesca; il 16 i partigiani della Val Susa, attaccati da oltre 3000 tedeschi e fascisti, vinsero la battaglia. Ancora in Piemonte, alla fine di febbraio nella Val di Susa, dove fecero saltare la tradotta militare che portava i rifornimenti ai presidi nazifascismi.
Nel mese di marzo quasi ovunque divampò la lotta sulla base degli attacchi dei partigiani. Anche gli alleati cominciarono l’azione definitiva con raid dell’aviazione che nei soli mesi di febbraio e marzo bombardarono molti obbiettivi strategici in Veneto, Lombardia e Piemonte.
In questi primi mesi del 1945 fu chiaro a tutti che per il buon esito del conflitto non si poteva prescindere dall’insurrezione popolare delle grandi città occupate del nord. Si procedette pertanto alla definizione dei piani insurrezionali nelle varie città: si trattava di stendere dei veri e propri programmi che dovevano dirigere la rivolta popolare, che dovevano essere adattati alle specifiche esigenze popolari.
L’insurrezione nazionale venne preceduta dagli scioperi nelle grandi fabbriche del nord. Il 28 marzo incrociarono le braccia gli operai di Milano. Ma il grande sciopero scattò a Torino, il 18 aprile. Non soltanto si bloccarono le fabbriche, ma si svolse un gran corteo,che raggiunse piazza Sabotino, in Borgo San Paolo, dove si tenne un comizio. Successivamente, in Largo Adriano il corteo si sciolse perché venne affrontato da un autoblindo. Ma il servizio d’ordine del corteo, protetto da alcuni reparti S.A.P. , avevano ricevuto l’ordine di non accettare combattimenti.
“Aldo dice 25*9”. Alle ore 19 del 24 aprile, il Comitato Militare Regionale Piemontese trasmise la parola d’ordine che significava, “attaccate alle ore 9 del 25 aprile”. Gli operai occuparono gli stabilimenti industriali e ne organizzarono la difesa. Tedeschi e fascisti li attaccarono alla Fiat, alla Spa, alla Grandi motori e alla Lancia, ma vennero più volte respinti.
Mentre si combatteva nelle stazioni, alla centrale telefonica, alla radio i tedeschi e i fascisti annunciarono la loro disponibilità ad abbandonare la città in cambio dell’ incolumità. Ma il comitato militare regionale (C.M.P.R.), rifiutò chiedendo la resa senza condizioni ed il 27 aprile la città fu praticamente liberata.
Mentre in Italia succedevano tutti questi fatti, in Germania si stava scrivendo l’ultima pagina della seconda guerra mondiale in Europa. Era infatti dal 16 aprile che l’armata sovietica aveva iniziato l’attacco finale su Berlino. Dopo che tutto fu perduto, Adolf Hitler, nell’ isolamento del suo bunker, si suicidò.

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